Káťa Kabanová

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Leoš Janáček, Káťa Kabanová

★★★★★

Torino, Teatro Regio 15 febbraio 2017

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L’opera “russa” di Janáček nell’ispirata messa in scena acquea di Carsen

Prima esecuzione a Torino di questa «sublime tragedia della colpa», pietra miliare dell’opera del Novecento e una delle pagine più intense di Leoš Janáček. Concepito originariamente da Robert Carsen per l’Opera delle Fiandre, questo allestimento di Káťa Kabanová arriva ora al Regio come seconda puntata del progetto di allestimento dei cinque lavori più conosciuti del grande musicista moravo da parte del regista canadese.

La vicenda, tratta dalla pièce teatrale Uragano di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij, è ambientata in un villaggio russo sulle rive del fiume Volga. Come in Jenůfa, anche in questo ristretto ambiente rurale sono tutti più o meno imparentati o comunque si conoscono: Marfa Ignatěvna Kabanová, detta Kabanicha, vedova di un ricco mercante, ha un figlio, Tichon, sposato a Káťa, e una figlia adottiva, Varvara, ragazza spensierata e indipendente che flirta con il maestro Kudrjáš. Kabanicha ha un equivoco rapporto con il mercante Dikój, il quale fa di tutto per vessare il nipote Boris, innamorato corrisposto di Káťa.

L’ambiente opprimente e bigotto del villaggio è l’origine dei drammi delle anime semplici e sensibili come quelle di Káťa, qui sconvolta dal senso di colpa per l’adulterio. Delle tre coppie su cui verte il dramma, una si salva fuggendo lontano (Varvara e Kudriaš si rifugiano a Mosca), una si spezza (Boris è mandato in Siberia dallo zio e Káťa si getta nel fiume), la terza, quella dei vecchi despoti Kabanicha e Dikój, sopravviverà, spassandosela forse ancora meglio di prima.

Il peculiare stile del compositore è perfettamente riconoscibile fin dalle prime battute di questa sua sesta opera con il moderato del preludio e quei sommessi otto fatali colpi di timpano che scandiscono le sillabe del nome (Ka-tě-ri-na Ka-ba-no-vá), motto che ritornerà altre cinquanta volte nel corso dell’opera. Così come nella straordinaria concisione del finale, in cui in pochi minuti avviene tutto quanto: l’addio all’amato di Káťa, il suo gettarsi nel fiume, il grido di aiuto di un passante, l’annegamento, l’arrivo della gente del villaggio, il recupero del cadavere, il riconoscimento, l’accusa di Tichon alla madre («Voi l’avete uccisa! Voi l’avete ammazzata!»), la sua cinica frase («Grazie, brava gente, vi ringrazio per il vostro aiuto!») e il “sospiro del Volga” conclusivo.

Nella stupenda messa in scena di Carsen, ripresa a Torino da Maria Lamont, le acque del fiume sono presenti fin dall’alzarsi del sipario: il palcoscenico è trasformato in uno specchio d’acqua in cui “annegano” le molteplici copie di Káťa nel loro vestito bianco. Le stesse figuranti sposteranno le passerelle di legno per creare di volta in volta i diversi ambienti: la riva da cui Kudriaš pesca nel primo quadro; la camera dei Kabanov; il giardino e la sponda del fiume in cui si consuma il sofferto adulterio nel secondo quadro; le passerelle parallele in cui i disperati amanti si danno l’ultimo addio senza neanche potersi avvicinare nel terzo.

Nella scenografia di Patrick Kinmoth uno specchio riflette quanto avviene sulla superficie dell’acqua, le increspature, gli spruzzi durante lo scatenarsi del temporale. Particolarmente toccante è la realizzazione della scena d’addio dei due amanti. Separati da un immobile specchio d’acqua, Boris è solo un’ombra nera sull’altra sponda. Piano piano la luce aumenta (il gioco luci, di Carsen stesso e di Peter Van Praet, raggiunge in questa produzione l’assoluta perfezione) e si distinguono le fattezze di Boris, sempre irraggiungibile. Káťa tocca la superficie dell’acqua e l’increspatura si allarga come un cerchio fino a raggiungere l’amato. Anche la gente del villaggio che assiste al ritrovamento del corpo è un insieme di nere silhouette che si allontanano poi frettolosamente e in scena rimangono soli Tichon e Kabanicha: il figlio guarda con orrore la madre e se ne va, forse per sempre, chissà. La donna rimane ancora un istante a contemplare con freddezza il cadavere della ragazza, si riaggiusta ancora una volta i capelli con un gesto civettuolo ed esce anche lei con passo deciso dall’altra parte. La personregie si dimostra qui un altro dei punti di forza degli allestimenti di Carsen, ancora più essenziale in questo dramma di Janáček fatto di innumerevoli sottigliezze psicologiche.

Le terse sonorità di questa musica sono affidate alle esperte e sensibili mani del maestro Marco Angius, interprete tra i più qualificati del repertorio novecentesco. I drammatici silenzi, le trasognate e celestiali pagine, gli scoppi della natura ostile sono resi alla perfezione dall’orchestra del teatro mentre in scena c’è una compagnia di cantanti eccellenti, per la maggior parte molto opportunamente di madre lingua ceca per poter rendere al meglio lo stile conversativo del canto janačekiano.

La giovane Andrea Danková è una Káťa intensamente sofferta dalla bella vocalità cui manca poco per rendere il suo personaggio teatralmente ancora più memorabile. Cosa che riesce invece a Rebecca de Pont Davies che delinea una Kabanicha gelida e cinica mentre Lena Belkina è una Varvara di calda vocalità. I tre personaggi maschili declinano efficacemente i diversi caratteri: il sonoro Štefan Margita è l’imbelle Tichon, Misha Didyk è un Boris di bella voce e Oliver Zwarg autorevole e dispotico Dikoj.

Gli insistenti e prolungati applausi finali hanno dimostrato l’apprezzamento del pubblico per il bellissimo spettacolo.