Don Checco

foto © Fabio Melotti

Nicola De Giosa, Don Checco

★★★☆☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 30 luglio 2022

«Qua Truvatore, fate Don Checco, m’aggia divertì»

Nello stesso anno in cui i fratelli Ricci presentavano Crispino e la comare, un altro compositore poco più giovane si cimentava con l’opera buffa, il barese Nicola De Giosa con il suo Don Checco (Teatro San Carlo di Napoli, 11 luglio 1850), l’ultimo frutto di quel glorioso genere: Donizetti era morto due anni prima, Rossini si era ritirato dalle scene già da vent’anni, con il Lohengrin iniziava ufficialmente il nuovo Wagner e Verdi sconvolgeva i benpensanti col suo Rigoletto.

La prima di Don Checco fu un successo clamoroso. Fu tra le preferite del re Ferdinando II, che amava sempre assistere alle sue rappresentazioni, tanto che nel 1859, durante una visita di Stato a Lecce volle che invece del previsto Verdi fosse messo in scena il lavoro di De Giosa: «Che Trovatore e Trovatore! voglio sentire Don Checco; mi voglio divertire». Sembra che il teatro riuscisse a organizzare una rappresentazione con poche ore di preavviso grazie alla presenza in città del basso buffo Michele Mazzara. Dopo ben 72 diversi allestimenti in Italia e all’estero, l’opera uscì di repertorio alla fine del XIX secolo e per la prima rappresentazione in tempi moderni bisogna arrivare al 2014 dove nel Teatrino di corte del Palazzo Reale di Napoli viene diretta da Francesco Lanzillotta, ripresa l’anno successivo a Martina Franca e registrata su cd.

Il libretto di Almerindo Spadetta ambienta la vicenda in un paesino dei dintorni di Napoli nel 1800 circa. La vicenda è la solita del padre burbero che si oppone all’amore della figlia per uno squattrinato.

Atto I. L’opera si apre all’interno della locanda di Bartolaccio. La strada per Napoli con le colline in lontananza può essere vista attraverso l’ingresso della locanda. La figlia di Bartolaccio, Fiorina, è al suo filatoio in sala da pranzo, mentre Bartolaccio e il suo capo cameriere Carletto si affrettano a servire gli ospiti. Roberto, un artista che soggiorna alla locanda, siede su un lato della stanza dipingendo al suo cavalletto ed è apparentemente disinteressato a ciò che accade. All’insaputa di tutti, in realtà è il ricco conte de’Ridolfi travestito. Bartolaccio accusa Fiorina di flirtare con tutti gli uomini presenti e le ordina di portare il suo filatoio in cucina. Roberto si lamenta con lui per il suo comportamento duro, cosa che fa anche Fiorina. Successivamente Fiorina e Carletto si dichiarano innamorati. Quando lo dicono a Bartolaccio, questi rifiuta categoricamente di acconsentire al matrimonio, giurando che permetterà a Fiorina di sposare solo un uomo ricco. Ordina a Carletto di uscire dalla locanda, ma il giovane riesce invece a intrufolarsi nella cantina. A questo punto Don Checco Cerifoglio irrompe nella locanda. Mal vestito e completamente esausto, è in fuga da un ufficiale giudiziario che lo insegue per i tanti debiti che deve al conte de’ Ridolfi. Durante un lungo scambio tra Don Checco e Bartolaccio, che va a prendere la sua ordinazione, Bartolaccio si convince che Don Checco è in realtà il Conte de’ Ridolfi. Il conte è noto per viaggiare nei suoi dominii sotto mentite spoglie per osservare i suoi sudditi. Poiché anche Bartolaccio deve del denaro al conte, tratta ossequiosamente l’ospite. Don Checco lascia credere a Bartolaccio di essere il conte, mentre Roberto (il vero conte) guarda con stupore questo volgersi degli eventi. Successivamente Fiorina e Carletto si avvicinano a Don Checco. Anche loro sono convinti che sia lui il conte e sperano che interceda presso Bartolaccio in loro favore. Fiorina inizia a raccontare la sua storia, ma Don Checco la fraintende e pensa che sia innamorata di lui. Quando lei e Carletto lo disingannano, lui si arrabbia. Fiorina corre in cucina e Carletto si rifugia ancora una volta in cantina.
Atto II. Fiorina e Carletto si avvicinano nuovamente a Don Checco. Gli chiedono perdono per il precedente malinteso e lui, a malincuore, concede di intervenire a loro favore. Dopo la partenza, Roberto, che ha ascoltato l’intero scambio dalla sua stanza, sollecita anche Don Checco ad aiutare la giovane coppia. Nell’attesa del suo pasto, Don Checco sente qualcuno che gli sibila dall’ingresso: è Succhiello Scorticone, l’ufficiale giudiziario che lo insegue. Ordina a Don Checco di uscire per poterlo arrestare. Don Checco rifiuta. A questo punto arriva Bartolaccio. Avendo parlato con Succhiello, è furioso che Don Checco lo abbia preso in giro e gli ordina di andarsene. Don Checco rifiuta ancora. Fiorina e Carletto aspettano all’osteria l’arrivo del notaio che li sposerà. Credendo ancora che Don Checco sia davvero il Conte de’ Ridolfi, i giovani sposi sono convinti che sia intervenuto presso il padre di Fiorina per permettere il matrimonio. In quanto potente nobile, non sarebbe stato rifiutato. Intanto arrivano i contadini che avevano saputo che il conte soggiornava all’osteria portando fiori e ghirlande per rendergli omaggio. Circondato dai contadini, con l’ufficiale giudiziario e due carabinieri che aspettano fuori, Don Checco si dispera. Le cose si aggravano per lui con l’arrivo di Bartolaccio che espone alla costernazione di tutti l’inganno di Don Checco. Un contadino poi consegna una lettera a Succhiello che la apre e ne legge il contenuto a tutti i presenti. È del Conte de’ Ridolfi. In essa perdona i debiti sia di Don Checco sia di Bartolaccio e dichiara il suo espresso desiderio che Fiorina e Carletto si sposino. Inoltre conferisce una dote di 1000 ducati a Fiorina e un dono di 3000 ducati a Carletto. Stupito, Bartolaccio chiede a Succhiello come il conte poteva sapere cosa stava succedendo alla locanda. Succhiello rivela che il conte era sempre stato lì travestito da artista. Bartolaccio acconsente volentieri al matrimonio e offre a Don Checco ospitalità gratuita presso la sua locanda. L’opera si conclude con Don Checco che canta sull’indebitamento e osserva che a volte può portare a una felicità imprevista. Poi saluta tutti: «Ricordatevi di me, debitore don Checco», al quale rispondono: «Sì, tutti ricorderanno il debitore fortunato».

Autore di una ventina di titoli per il teatro, De Giosa è ricordato quasi unicamente per questo Don Checco, epitome più che epigono, compendio più che imitazione, quasi un’ironica parodia – come scrive Marco Leo nel programma di sala – di una gloriosa stagione, quella appunto dell’opera buffa che, anche se era terminata con l’ultimo Donizetti e non destava più l’interesse né dei grandi compositori né del pubblico borghese, continuava però una sua vita parallela nei piccoli teatri di Napoli per un pubblico molto popolare – i cui gusti però erano condivisi dal loro sovrano!

Per mettere in scena un’operina dalla drammaturgia così debole – i nodi della vicenda vengono sciolti da un deus ex machina, il Conte de’ Ridolfi, che nel finale condona debiti ed elargisce ducati in quantità – il regista Mariano Bauduin, che l’anno scorso nel cortile dell’Arsenale aveva messo in scena i due atti unici settecenteschi La serva padrona e Pimpinone, questa volta prende in mano la vicenda con maggior decisione: «Ho provato a mettere in evidenza la prassi [della tradizione comica della commedia dell’arte napoletana] ripristinando, evocando o inventando dialoghi e situazioni comiche. In più ho chiesto alla scenografa Claudia Boasso di elaborare un esterno più che un interno: un vicolo di Napoli in cui ho immaginato che, oltre alla taverna di Bartolaccio, facesse da dirimpettaio anche l’ingresso del Teatro San Carlino, quasi come se quel teatro e la sua anima antica vivessero nella storia. Il personaggio di Don Checco è diventato lo stesso Antonio Petito e il suo Pulcinella, e così tutti gli altri personaggi a cui ho restituito quel linguaggio scenico e poetico del teatro di parodia di metà Ottocento. Ho aggiunto, inoltre, il personaggio di Don Mario Luzio, storico impresario del Teatro San Carlino, anch’egli una parodia di sé stesso, come si trova in moltissime commedie di “teatro nel teatro”». Bauduin ha lavorato per oltre un ventennio con Roberto de Simone al “Teatro dei Mendicanti” nella degradata periferia Est di Napoli e di quell’esperienza riporta qui lo stile recitativo con gag e lazzi assortiti, battute e improvvisazioni che ricreano l’anima di quel genere di spettacolo. Oltre ai dialoghi riscritti modernamente – che però contrastano con lo stile linguistico del libretto e un poco per le oscurità del dialetto e tanto per l’acustica del luogo non possono essere pienamente goduti – vengono inseriti nella rappresentazione due momenti musicali elaborati da Lorenzo Fico, che si è anche occupato della revisione musicale: all’inizio del secondo atto la canzone tradizionale La palommella interpretata dai personaggi trasformati in marionette (un bel momento di malinconica poesia) e nel finale una tarantella cantata da tutti quanti.

Francesco Ommassini debutta alla guida dell’orchestra del Teatro Regio di Torino con una direzione spigliata e trasparente, un passo avanti rispetto alla sua concertazione della Zenobia in Palmira  di sei anni fa a Napoli. Il direttore veneziano rende con brio una partitura che saccheggia allegramente motivi e stilemi dell’autore de L’elisir d’amore e del Don Pasquale ma che nel valzer che prelude al secondo atto sembra anticipare il Ponchielli ballettistico. In questi casi di affettuosa parodia di un genere sarebbe ingiusto però contare le note che sembrano ricordare questo e quell’altro compositore. Piuttosto, l’opera di De Giosa prepara a un nuovo genere, quello dell’operetta che proprio in quegli anni nasceva a Parigi per mano di Jacques Offenbach: le parti recitate, il gusto della parodia, la trama semplice, l’immediata godibilità e vivacità della musica rimandano a quei lavori che a Parigi e poi a Vienna incontreranno il gusto della borghesia. Qui siamo in un ambito molto più popolare e Napoli aveva vissuto più di altre città della dominazione francese per cui il modello dell’opéra comique è evidente, mentre la musica attinge al modello italiano, con cabalette e strette a ogni piè sospinto nei dieci numeri musicali. Questa abbondanza di momenti musicali, che nell’opera italiana hanno un notevole rilievo perché meno frequenti, qui porta presto a un senso di saturazione che neanche la brillante direzione di Ommassini riesce a mitigare.

Don Checco, l’unico personaggio a esprimersi in dialetto napoletano, oltre che in un italiano artefatto quando finge di essere il Conte, ha qui la voce e la figura di Domenico Colaianni, presente anche nella ripresa del 2014. Fin dal momento in cui entra in scena con la sua “cavatina buffa” tremando di freddo e vestito da Pulcinella («Ah! Ca… lli… dien… te… abballano… | È secca… tra… montana… | Io sto tre… tre… tremanno… | Si avesse la… terzana…») riviviamo un pezzo di vera commedia dell’arte innestata in una forma, quella dell’opera buffa napoletana, rimpianta e amorosamente ricostruita all’interno di una scena complessa (tempo d’attacco-tempo di mezzo-cantabile buffo-cabaletta) dove del baritono barese oltre che le doti vocali sono messe in evidenza le doti attoriali da caratterista di grande livello. Il vecchio burbero qui non si chiama Bartolo ma Bartolaccio e anche di Carmine Monaco si apprezzano le doti istrioniche giacché il belcanto e le agilità sono tutte appannaggio di Fiorina, il soprano Michela Antonucci, a suo agio nella vocalità richiesta dalla parte, un po’ Adina (L’elisir d’amore) un po’ Norina (Don Pasquale), con timbro squillante e buona proiezione della voce. Suoi i pochi numeri musicali solistici come la canzone «È vano credere che ad ogni amore» e il rondò e cantabile «Sento l’alma a tale idea | di contento delirar» pieno di fuochi d’artificio vocali.

Sufficiente la performance di David Ferri Durà (Carletto), mentre di Vladimir Sazdovski (pittore Roberto alias Conte de’ Ridolfi) si nota la improbabile pronuncia del francese quando parla francese e dell’italiano quando parla italiano. Di Francesco Auriemma viene la voglia di ascoltare la profonda voce di basso in un altro ruolo meno caricaturale di questo di Succhiello Scorticone. L’attore Mario Brancaccio impersona l’irrequieto direttore di teatro. Tutti sembrano comunque divertirsi. Anche il coro, qui nei costumi di Laura Viglione che alludono alla parodia di Aida a casa di Donna Peppa con Policinella finto Aida in scena al San Carlino e a cui allude Don Mario Luzio. Chissà se il Maestro Verdi l’ha mai vista…

La pioggia, tanto invocata in questo terribile periodo di siccità, ha preso di mira questa produzione e le poche gocce l’hanno interrotta ben due volte mandando a casa gli spettatori della prima e della seconda senza arrivare alla fine. Solo a questa terza e ultima replica si è potuta concludere l’esecuzione fino alla gioiosa tarantella finale. Il pubblico, formato in parte da chi aveva cercato di assistere alle due precedenti rappresentazioni, si è divertito, si è prodigato in applausi a scena aperta e ancora più convinte chiamate finali ai protagonisti, particolarmente alla Fiorina di Michela Antonucci.

Con questo spettacolo è terminata la parte operistica del Regio Opera Festival, a settembre seguiranno serate di balletto. Si spera sia così conclusa questa provvisoria soluzione open air e si torni al chiuso, all’aria condizionata e all’acustica di una sala nuovamente recuperata.

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