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Albéric Magnard, Guercœur
Strasburgo, Opéra, 4 maggio 2024
(video streaming)
L’uomo che morì due volte
Una figura singolare quella di Albéric Magnard (1865-1914): completati gli studi di diritto era entrato al Conservatorio di Parigi dopo essere stato fulminato dal Tristan und Isolde visto a Bayreuth. Nella sua non lunga carriera musicale – fu ucciso nella guerra del 1914 a 49 anni – arriva soltanto al numero di opus 22 con quattro sinfonie (Magnard è anche detto “il Bruckner francese”), musica da camera, per pianoforte, liriche vocali e tre opere: Yolande (1891), Guercœur (1901) e Bérénice (1909).
Allievo di Jules Massenet, Théodore Dubois e Vincent d’Indy, Magnard ebbe gran parte dei suoi manoscritti persi nella distruzione della casa che aveva cercato inutilmente di difendere dagli invasori tedeschi. Andarono distrutte, tra le altre cose, le copie di Yolande e il manoscritto di due dei tre atti del Guercœur. Guy Ropartz, suo amico dai tempi del Conservatorio, ne ricostruì in seguito la partitura a partire dalla riduzione per pianoforte, già pubblicata, e dai suoi ricordi della esecuzione del terzo atto che aveva diretto nel 1908. Guercœur fu rappresentato per la prima volta in versione scenica solo nel 1931 all’Opéra di Parigi per poi essere riscoperto nel 1986 da Michel Plasson, di cui c’è una registrazione audio, mentre nel 2019 fu messo in scena a Osnabrück diretto da Andreas Hotz. Ora viene presentato all’Opéra National du Rhin, ma è prevista una produzione anche dell’Opera di Francoforte. Forse è la volta buona per Albéric Magnard di recuperare il suo posto nella storia della musica francese.
Composto tra il 1897 e il 1901, Guercœur è una “tragédie lyrique” ricca di atmosfere il cui visionario libretto, dello stesso compositore, narra di un cavaliere morto da eroe in battaglia a cui viene concesso di lasciare il paradiso e tornare sulla terra, dove però si scontra con una amara realtà.
Atto I. Guercœur, il saggio sovrano di una città-stato medievale, è morto in battaglia per difendere il suo popolo. In uno strano paradiso governato dalle divinità laiche Verité, Bonté, Beauté e Souffrance, nostalgico della vita passata e desideroso di compiere la sua opera di liberazione, malgrado il tentativo di dissuaderlo da parte di Verité, Guercœur ottiene di far ritorno sulla Terra scortato da Souffrance.
Atto II. Le cose però non stanno come le aveva lasciate due anni prima: la vedova Giselle, che gli aveva promesso fedeltà eterna, è diventata la donna del suo miglior amico Heurtal, il quale, venendo meno agli ideali di Guercœur, progetta di diventare il nuovo “uomo forte” invocato dal popolo, deluso dalla libertà, per mettere fine a miseria e malcontento. Guercœur tenta di rinfocolare nel popolo gli ideali libertari ma ne provoca la rivolta e viene ucciso per la seconda volta.
Atto III. Tornato nel paradiso completamente disilluso dal genere umano, viene accolto da Verité, che gli rivela la sua idealistica profezia: “La fusione delle razze, delle lingue, darà [all’essere umano] il culto della pace. Con il lavoro vincerà la miseria; con la scienza, vincerà il dolore, e per salire a me in uno slancio supremo, riunirà Ragione e Fede. Ecco arrivare l’alba dei tempi nuovi, nei quali la fauna e la flora, docilmente sottomesse, libereranno voi esseri umani dalla fame; nei quali la vostra coscienza, inondata di luce, si svilupperà nelle sfere del bene; nei quali il vostro spirito trionfante, termine della materia, comprenderà senza sforzo le leggi dell’Universo”.
Mentre il coro canta le gioie dell’aldilà – «Souvenirs confus de douleur et de joie. Ne plus penser, ne plus sentir. Douce inconscience», Guercœur grida irrequieto il suo «Vivre! Qui me rendra l’ivresse de vivre? Le bonheur d’aimer!». Siamo all’Opéra National du Rhin di Straburgo dove va in scena questa produzione di Guercœur affidata a Ingo Metzmacher per la direzione musicale e per la regia a Christof Loy, il quale ambienta la vicenda in una scena spoglia occupata solo da sedie. Lo scenografo Johannes Leiacker utilizza una piattaforma che ruotando dal paradiso con fondo nero al mondo terreno con fondo bianco passa attraverso un angusto squarcio sul Paysage avec figure de danse di Claude Lorraine, pittore che col suo messaggio utopico sembra riflettere quello finale di Vérité. Gli abiti disegnati da Ursula Renzenbrink sono di foggia moderna, più o meno degli anni ’60, quando le donne vestivano ancora le gonne e gli uomini giacca e cravatta! Come è il suo stile, Loy concentra sulle relazioni tra i personaggi, gli sguardi, i gesti la drammaturgia di un’opera che ha come personaggi simboli e idee. Lo strano aldilà è popolato da eletti che sembrano però annoiarsi nella loro eternità e guardano con un po’ di invidia l’uomo a cui è concesso di scendere sulla Terra – ma che proverà la più cocente delusione: l’amore e la libertà per cui è morto sono entrambi perduti nel frattempo.
Alla nudità della messa in scena di Loy si contrappone l’opulenza della musica di Magnart, compositore intriso di postwagnerismo con il suo intreccio di Leitmotive, instabilità armoniche, momenti di grande liricità – bellissimo e commovente il perdono di Guercœur alla moglie che non ha mantenuto la promessa di eterna fedeltà fattagli sul letto di morte – si alternano a pagine solenni con grandiosi interventi degli ottoni. Alla guida dell’Orchestre Philharmonique de Strasbourg, Ingo Metzmacher ricrea magistralmente la monumentalità di questa partitura che chissà quanto riflette le intenzioni originali del suo autore. Ma il risultato è convincente e si rivela un tassello prezioso per arricchire la nostra conoscenza della musica francese che da Massenet e Saint-Saëns sta andando verso Debussy e Fauré. Ottima la prova fornita sia a livello vocale che scenico dai coristi dell’Opéra National du Rhin preparati da Hendrik Haas.
Il canto di Magnard si dispiega su un declamato solenne e ricco di lunghe note che metterebbero a dura prova resistenza e intonazione dei cantanti se qui non ci fossero dei fluoriclasse come Stéphane Degout che della parte eponima rende tutte le dolorose sfaccettature dell’eroe doppiamente sconfitto con un fraseggio e una dizione come sempre impeccabili. Antoinette Dennefeld è la moglie Giselle tormentata dal rimorso e Julien Henric Heurtal il discepolo che ha tradito il messaggio del maestro e ne ha sposato la vedova, entrambi convincenti. Gabrielle Philiponet e Eugenie Joneau incarnano Béauté e Bonté con eleganza, ma è la voce scura di Adriana Bignagni Lesca a intrigare di più: la ricordavamo come un’irresistibile Marquise di Berkenfield ne La fille du régiment “cubana” e ritroviamo ora il contralto gabonese quale intensa Souffrance dalla magnetica presenza scenica.

L’altro grande ruolo in quest’opera è quello di Vérité, affidato alla voce sontuosa e piena del soprano Catherine Hunold che come la Libuše di Smetana nel finale si lancia in una visione profetica, qui ottimistica e utopistica, prendendosi un po’ di tempo, però: «Mon règne, hélas, semble lent à venir […] les jours, les ans, les âges passeront avant que l’homme révère l’amour et la liberté».
«Speranza» è l’ultima parola profferita da Guercœur e anche l’ultima cantata nell’opera. Dalla sua composizione sono passati più di 120 anni e stiamo ancora sperando che quella profezia si avveri.
Il video dello spettacolo è attualmente disponibile su ArteTv.
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