Mese: agosto 2016

Rigoletto

 

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Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 28 gennaio 2016

(video streaming)

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Gilda in gabbia

Con la sala esaurita i teatri possono fare i generosi e “regalare” una trasmissione live dello spettacolo, che sarà quindi visto da un pubblico mille volte più vasto. E chissà che anche solo uno su mille non voglia un giorno assistere dal vivo a quello che aveva ammirato sullo schermo. Così si semina per il futuro e lo hanno capito ormai quasi tutti i teatri del mondo che fanno a gara per offrire le loro produzioni in video streaming. L’Opera di Stato Viennese si è convertita anche lei all’usanza e la ghiotta occasione è questo titolo di sicuro richiamo che vanta, per di più, un terzetto di superstar internazionali tra gli interpreti vocali. Mettici ancora un regista di fama e un direttore italiano stimato all’estero e il gioco è fatto. O quasi…

Nella sala crema e oro ricostruita dopo la guerra risuonano ancora una volta le terribili note della “maledizione” di Rigoletto che negli strumenti della Wiener Staatsoper hanno un colore particolarmente minaccioso con quegli ottoni schierati ai lati in posizione rialzata rispetto al piano della buca orchestrale. Subito appare Rigoletto, a torso nudo ma con la gorgiera da giullare: non è gobbo, la curvatura della schiena è dovuta al peso dell’età e delle angherie subite, non a una malformazione fisiologica. Con passo stanco e pesante sale le scale di questo desolato edificio che la scenografia di Christof Hetzer ci mostra nei suoi colori terragni, i muri scuri, i sottoscala abbandonati all’immondizia. La base rotante ci mostrerà poi la casa di Rigoletto con la “gabbia” di Gilda e infine la stamberga di Sparafucile a forma di teschio.

Il Rigoletto di Carlos Álvarez ha un bel legato e un nobile timbro, ma è un po’ monotono e si sarebbero preferiti più colori e più dinamiche nella sua performance.

Juan Diego Flórez non solo ripristina la cabaletta del duca del secondo atto, «Possente amor mi chiama», ma esegue la ripresa variata, pur senza do di petto. La non grande potenza vocale viene bilanciata dall’eleganza del fraseggio e dalla facilità del registro acuto: il suo «La donna è mobile» è ormai un cavallo di battaglia che il tenore affronta spesso nei suoi recital. Non guasta poi la sua giovanile prestanza: «giovin, giocondo, sì possente, bello» dice Rigoletto e «troppo è bello e spira amore» gli fa eco Gilda mentre Maddalena si rammarica, «Peccato! … è pur bello!», al progetto omicida del fratello. Purtroppo Flórez è stato quello peggio servito dai microfoni, con la voce che andava e veniva mentre si muoveva sul praticabile che rappresenta il suo palazzo.

La Gilda di Olga Peretjat’ko ha grande sincerità, il timbro è quello che conosciamo, ma sia nelle agilità sia nei momenti più drammatici il soprano russo si è disimpegnata con onore, anche se le maggiori ovazioni del pubblico viennese sono andati ai due maschietti.

Nadia Krasteva è stata la Maddalena che ci si aspetta mentre il fratello Sparafucile ha il timbro di Ain Anger, così cavernoso da renderlo quasi incomprensibile. Il Monterone del 28 gennaio è talmente terribile che viene giustiziato in scena e il suo cadavere rimane lì mentre Gilda e Rigoletto continuano il loro duetto.

La regia di Audi non inventa nulla di nuovo, ha certe incongruenze in vari punti, ma la sua lettura non inficia la comprensione della vicenda che si dipana senza problemi: il temporale ha i lampi, gli sgherri del duca hanno ceffi paurosi, Maddalena il vestito rosso. I costumi sono d’epoca e le donnine allegre della prima scena hanno la faccia ingabbiata per sottolineare la sottomissione al maschio. Non proprio memorabile la cura attoriale con Álvarez che si muove come un orso in gabbia, Flórez che alza le braccia negli acuti e Maddalena che si alza la gonna per mostrare le gambe.

Concertazione pesante, tirata via senza particolari accenti partecipativi quella di Evelino Pidò. Fortuna che ha sotto di sé un’orchestra che compensa la sua routine.

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Rigoletto

Faust

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Charles Gounod, Faust

★★☆☆☆

Salisburgo, Felsenreitschule, 23 agosto 2016

(live streaming)

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Palle, margherite e clown tristi

«Rien» (niente) recita l’insegna al neon che sovrasta un cumulo di fogli su cui vigilano neri corvi robotizzati. Ed è anche la prima parola cantata da Faust, «Rien! […] Je ne vois rien! Je ne sais rien! Rien! Rien!»: la conoscenza non gli ha apportato quell’appagamento che sperava, tanto che pensa di porre fine alla sua vita col veleno, «Salut! ô mon dernier matin!», per affermare fino all’ultimo di essere padrone del suo destino. Le voci di fuori lo fermano e Faust si lancia nell’invettiva verso quel dio che non gli può restituire la giovinezza e l’amore: è il momento giusto per l’ingresso di Mefistofele, che invece queste cose gliele può offrire. Così inizia il Faust di Gounod che debutta a Salisburgo. E qui nella Großes Festspielhaus è nel nuovo allestimento affidato allo scenografo Reinhard von der Thannen, per la prima volta alla regia. Quello che aveva ideato le scene del Lohengrin dei ratti di Bayreuth e lo stesso ambiente bianco e asettico di laboratorio illuminato da luci fredde fisse lo ritroviamo qui popolato di casettine su rotelle, margherite gigantesche, lettini da ospedale, sedie su cui crescono altre margherite, l’enorme scheletro senza un braccio (?), il cadaverino del neonato nel pacco regalo… Varie trovatine visive di un Regietheater che neanche scandalizza, purtroppo, e alla fine lo spettacolo «carino» riceve la sua dose di applausi.

I librettisti Barbier & Carré avevano sì fatto piazza pulita delle implicazioni filosofiche del testo di Goethe trasformando la vicenda nella solita storia d’amore in clima di grand-opéra, ma ci sono state letture che invece hanno dato un significato più profondo a questo Faust Second Empire. Non qui. Senza un’idea di fondo si susseguono i momenti deludenti del «fantôme adorable et charmant», della trasformazione di Faust in giovane (realizzata altrove con gusto più teatrale), del funereo valzer, per non parlare della notte di Walpurga, con sfere nere fatte rotolare da clown depressi. La vicenda mitica trasformata in un gioco per bambini o una triste fiaba sembrano la chiave di lettura voluta dal regista.

Per compensare le banali coreografie di Giorgio Madia, movimenti di danza sono affidati imprudentemente al coro con risultati imbarazzanti. Uno di questi è la scena dei soldati del quarto atto, quando sono tutti e sessanta schierati in proscenio come nolenti e impacciate ballerine di fila di un avanspettacolo triste. Anche vocalmente, invece del semi-improvvisato Philharmonia Chor, sarebbe stato meglio utilizzare quello dell’opera di Vienna per un lavoro in cui la parte corale è così importante.

Vocalmente generoso e spavaldo il Faust di Piotr Beczała ha un buon controllo dei fiati, grande sicurezza, ma sempre lo stesso volume e con una dizione francese affettata. Le mezzevoci il tenore polacco le lascia tutte alla nostra Maria Agresta che delinea invece una Marguerite di grande sensibilità e proprietà vocale e il cui personaggio cede solo davanti a una irresistibile sciarpa tutta luccicante di cristallli (la sede di Swarovski è a poca distanza da Salisburgo).

Il Mefistofele di Gounod è differente da quello di Boito e là Il’dar Abdrazakov rendeva meglio, qui la voce risulta talora velata, gli acuti poco sonori. Dal punto di vista scenico si ammira l’impegno del basso russo a ravvivare l’atmosfera che rimane però glaciale.

Nonostante la barba posticcia non è certo il physique du rôle e il terribile costume che si ammirano nel Siébel di Tara Erraught per il quale è stata ripristinata la seconda aria del quarto atto. Ottimamente reso il Valentin di Alekseij Markov, baritono vocalmente di tutto rispetto che, pugnalato a più riprese sia da Mefistofele sia da Faust, rimane in piedi per un buon quarto d’ora a porgere le sue maledizioni alla sorella prima di morire. Efficace la Marthe di Marie-Ange Todorovitch, unica francese del cast, dal caldo timbro di mezzo-soprano e dalla ironica presenza.

L’argentino Alejo Pérez alla testa della Filarmonica di Vienna è attento alle dinamiche, ma senza quegli slanci passionali che rendono godibile il grand-opéra: il duetto finale di Faust e Margherita non decolla mai e altri punti dell’opera risultano desolatamente piatti.

Nell’ultima scena sulla morte e redenzione di Marguerite ridiscende l’insegna «Rien», chiaro suggello a questo spettacolo latitante di idee.

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Simon Boccanegra

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Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

★★★★★

Venezia, Teatro La Fenice, 22 novembre 2014

(video streaming)

Serata inaugurale memorabile per La Fenice

Per la stagione della Fenice, anche se è da poco trascorso l’anno del bicentenario verdiano, il compositore di Busseto riceve l’onore di una doppia inaugurazione con due sue opere: il 22 novembre è il Simon Boccanegra, la sera dopo toccherà a La traviata. Entrambe le opere hanno avuto il debutto nella città lagunare a quattro anni di distanza.

Due sono le versioni del Boccanegra. Il 12 marzo 1857 a Venezia andò in scena la prima versione su un libretto che il compositore aveva personalmente steso in prosa affidandone poi la versificazione a Francesco Maria Piave e, a sua insaputa, a Giuseppe Montanelli. Il risultato fu un testo oscuro e cervellotico che scatenò le critiche del tempo. Il Basevi, musicologo del tempo, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire a venirne a capo. Nonostante i cantanti di prim’ordine la serata delude Verdi: «Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto». Le sei repliche non bastarono a raddrizzare le sorti di un lavoro dall’intreccio tortuoso e pervaso da una tinta musicale troppo uniforme.

Una revisione della partitura suggerita da Ricordi non incontrava l’interesse di Verdi che solo dopo l’Aida prese in considerazione la proposta che Arrigo Boito gli presentava per la musica del suo nuovo Boccanegra. Con questo nuovo libretto andò in scena alla Scala il 24 marzo 1881 sotto la direzione di Franco Faccio e ottenne un buon successo.

Derivata dal solito Gutiérrez (Simón Bocanegra, 1843), originariamente in quattro atti l’opera venne riscritta in un prologo e tre atti con la sostituzione di un intero quadro (il secondo dell’atto primo), l’eliminazione del preludio (in luogo del quale Verdi compose una brevissima quanto memorabile introduzione strumentale), la sostituzione del duetto tra Gabriele e Fiesco (atto primo), la composizione di una nuova scena per il personaggio di Paolo (atto terzo) e inoltre un immenso numero di modifiche, tagli, ritocchi, inserzioni. In un tempo molto limitato e sotto la costante supervisione di Verdi Boito apportò le modifiche necessarie al vecchio libretto e avanzò personalmente alcuni validissimi suggerimenti. Per ovvie ragioni (distinguere i nuovi versi dai vecchi sarebbe stato ben difficile) preferì tuttavia non firmare il libretto.

Le vicende si svolgono nel 1339 (Prologo) e 1363. Siamo a Genova, di notte, in una piazza sulla quale si affaccia il Palazzo Fieschi. Il nuovo doge sta per essere eletto e in città si scontrano il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e il partito aristocratico, legato al nobile Jacopo Fiesco. Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l’ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla Repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il recalcitrante Simone ad accettare la candidatura facendogli intendere chiaramente che, una volta eletto doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donne. Tutti si allontanano. Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Sopraggiunge Simone che, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un’anziana nutrice in un paese lontano, ma poi la nutrice morì e la bambina scomparve. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel palazzo in cerca della donna che scopre morta. Proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo doge. Tra il prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il doge Simone esilia i capi degli aristocratici e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio sotto il nome di Andrea Grimaldi. Anni prima, la famiglia Grimaldi aveva trovato una bambina nel convento in cui era appena morta Amelia, loro figlia. L’avevano adottata dandole il nome della figlia morta; ma questa orfana, all’insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni, Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, l’unico in realtà a sapere che Jacopo Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona. Gabriele e Jacopo congiurano contro il doge plebeo.
Atto I. Quadro primo. In giardino Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simone. Pietro annuncia l’arrivo del doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un’orfanella a cui lui e i Grimaldi hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e lo benedice. Squilli di trombe annunciano l’entrata del doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana. Simone, sentendo la parola orfana, la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l’immagine di Maria; agnizione, padre e figlia si abbracciano felici. Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la notte successiva il rapimento di Amelia. Quadro secondo. Nella Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati il Senato è riunito e il doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia, ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida della folla contro di lui, fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, il quale confessa di aver ucciso il plebeo Lorenzino che aveva rapito Amelia per ordine di un «uom possente». Supponendo che costui sia Simone, si slancia contro di lui per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si frappone supplicando il padre di salvare Adorno e raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, fissando Paolo, dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all’assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace. Gabriele gli consegna la spada ma il doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l’intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire sé stesso.
Atto II. Nella stanza del doge, nel Palazzo ducale di Genova, Paolo chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, chiede a Fiesco, l’organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone. Quando giunge Amelia, il giovane l’accusa di tradimento con il doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l’arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l’Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l’acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l’accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia. Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al doge la sua vita. Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.
Atto III. Siamo all’interno del Palazzo ducale. La rivolta è fallita, il doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannato a morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele. Giunge Simone, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando l’aria del mare. All’improvviso gli si avvicina Fiesco che gli annuncia che la sua morte è vicina. Da quella voce inesorabile, dopo averlo osservato bene in volto, Simone riconosce con stupore l’antico nemico, ch’egli credeva morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione invade l’anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l’inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra. Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo doge di Genova.

Qui la versione scelta da Myung-Whun Chung a capo dell’orchestra del teatro veneziano è quella definitiva del 1881. In questo allestimento la regia e le scene sono firmate da Andrea de Rosa e i costumi da Alessandro Lai. Suggestivo il prologo immerso nel buio, la madonnina illuminata dal cero, il mare scuro, i costumi neri e quell’unica macchia chiara che è il cadavere di Maria. Nell’atto primo l’aurora porta finalmente un po’ di luce che filtra attraverso un’elegante bifora gotica che incornicia il fondo del mare realizzato con proiezioni video di Pasquale Mari che cura anche le suggestive luci. La scena unica si arricchisce ogni volta di altri elementi architettonici per suggerire i diversi ambienti, ma sempre presente sarà l’elemento liquido cui anela Simone, ma che gli resta precluso dal ruolo di potere che ha dovuto accettare suo malgrado. La regia è attenta alla interazione dei personaggi, ai loro sguardi, alla sobria gestualità.

Cast di grande livello. L’appena trentenne Simone Piazzola è Simone, debuttante nella parte e a suo agio nella sofferta maturazione tra il prologo e il primo atto, perfetto. Maria Agresta e Francesco Meli, entrambi vincitori del Premio Abbiati 2014, prestano le loro voci per i giovani Amelia e Gabriele, Giacomo Prestia è ormai il Fiesco di riferimento, Julian Kim il perfido ma complesso Albiati.

Ottima prova quella del concertatore e direttore d’orchestra Myung-Whun Chung: incalzante ma attento alle sfumature e ai colori dell’orchestrazione ha lasciato un ricordo memorabile della sua lettura ed è quello che ha avuto le maggiori ovazioni dal pubblico.

GRANDE TEATRO

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Grande Teatro

Shanghai (1998)

1800 posti

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Il Grande Teatro di Shanghai (上海大剧院) è stato inaugurato il 27 agosto 1998 e da allora ha già messo in scena oltre 6000 spettacoli tra opere, musical, balletti, concerti sinfonici e da camera, opera cinese e pièce di teatro. È sede dell’Opera di Shanghai e di altre compagnie teatrali.

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Lo stile caratteristico dell’edificio, una specie di palazzo di cristallo quando è illuminato la sera, si deve allo studio francese di architettura ARTE Charpentier, mentre il progetto e la realizzazione dell’interno si devono a Studios Architecture.

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Su un’area di oltre due ettari l’edificio copre 70 mila metri quadri con all’interno tre sale: quella per le opere liriche con 1800 posti, quella per il teatro di prosa con 700, e lo Studio con 300. La scena dell’auditorium maggiore è una delle più grandi al mondo e più tecnologiche. shanghai_grand_theatre_inside

GRAN TEATRO

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Gran Teatro

Wuxi (2012)

1680 posti

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Col Gran Teatro di Wuxi si arricchisce la serie dei nuovi mirabolanti teatri cinesi affidati alle archistar del momento. Wuxi, città di un milione e mezzo di abitanti a ridosso di Shanghai, ha scelto il finlandese Pekka Salminen per il suo teatro a bordo del lago Taihu, la location che ha ispirato la concezione dell’edificio. La penisola artificiale su cui sorge fa pensare alla analoga posizione dell’Opera di Sydney. Analoga l’arditezza architettonica che si eleva a oltre 50 metri sul livello dell’acqua. Gli otto petali che contraddistinguono il progetto proteggono dal sole l’edificio dandogli visivamente la leggerezza di una farfalla.

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All’interno di queste ali pannelli traforati di alluminio ospitano migliaia di luci LED che permettono di cambiare il colore. In tutto l’edificio è usato il bamboo, elemento tradizionale cinese, con cui sono rivestiti il soffitto e le pareti interne rendendo la sala acusticamente pregevole. La flessibilità della struttura permette di rappresentare sia opere occidentali, sia cinesi, concerti e conferenze. Al grande auditorium ne è affiancato uno minore di 700 posti con sedili scomponibili in una moltitudine di possibilità diverse.

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TEATRO DELL’OPERA

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Teatro dell’Opera

Guangzou (2011)

1800 posti

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«Come un sasso di fiume levigato dallo scorrere dell’acqua, il Teatro dell’Opera di Guangzhou si trova in perfetta armonia con il paesaggio fluviale circostante. La sua forma esalta la relazione tra città e riverfront. Inoltre la struttura crea comunicazione tra gli edifici culturali adiacenti e le torri della finanza internazionale nel nuovo distretto di Zhujiang» spiegano allo studio della Zaha Hadid Architects.

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Il teatro è ora il più grande complesso di sale da spettacolo del sud della Cina. L’inaugurazione era in programma per il 2010, in occasione dei Giochi Asiatici tenutisi dal 12 al 27 novembre, ma i danni derivanti da un incendio divampato nel cantiere nel maggio 2009 hanno posticipato l’apertura al pubblico al 25 febbraio 2011.

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Il complesso si articola su due volumi differenti per un totale di 70mila metri quadrati. Il primo corpo ospita il Gran Teatro, dotato di 1800 posti a sedere, il secondo edificio, di dimensioni inferiori, è invece sede di un auditorium polifunzionale da 400 posti. Il complesso è dotato di caffetteria, bar e varie aree ricreative.

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AUDITORIO ADÁN MARTÍN

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Auditorio Adán Martín

Santa Cruz de Tenerife (2003)

1616 posti

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Progettato dall’architetto Santiago Calatrava è stato inaugurato il 26 settembre 2003. Il profilo maestoso del complesso è diventato uno dei simboli architettonici della città di Santa Cruz de Tenerife, capitale delle Isole Canarie. È anche considerato come l’edificio più elegante e moderno nelle isole, uno degli edifici più emblematici dell’architettura spagnola e una delle principali attrazioni turistiche di Tenerife dell’isola. Dal 28 gennaio 2011 l’auditorio è stato ribattezzato auditorio di Tenerife “Adán Martín” in memoria del presidente del Governo delle Canarie, Adán Martín Menis che ne promosse la costruzione.

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L’edificio sorge su un terreno di 23.000 mq, di cui l’auditorium ne occupa 6.471, suddivisi su due sale. La sala principale è coronata da una cupola e un palco con un’apertura di 16,5 metri e una profondità di 14 metri. Tubi d’organo emergono da entrambi i lati della fossa, disegnata da Albert Blancafort.  L’esterno dispone di due terrazze che si affacciano sul mare.

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Saul

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Georg Friedrich Händel, Saul

★★★★★

Glyndebourne, Opera House, 29 luglio 2015

(video streaming)

Un genio del teatro moderno incontra un genio del teatro di tutti i tempi

Un altro oratorio di Händel ha preso la via della rappresentazione scenica. Già il sottotitolo “dramatic oratorio” suggerisce il fatto che il Saul, composto su libretto di Charles Jennens e rappresentato al King’s Theatre di Londra nel 1739, si adatti alla scena, essendo la vicenda una delle tante truci storie di cui è pieno il Vecchio Testamento. Anche questa è densa di conflitti bellicosi, amori più o meno leciti, intrighi famigliari, gelosie furibonde, conflitti tra padre e figlio, tentativi di assassinio, morti cruente e sanguinose, ricorsi alla magia – tutti ingredienti che non mancano per confezionare un’opera lirica che si rispetti. Inutile negare poi come la rappresentazione scenica di un lavoro così teatrale come questo di Händel aggiunga significati e sveli aspetti del testo che una paludata esecuzione oratoriale non potrà mai fare.

Ispirato al Primo Libro di Samuele, Saul racconta la fine della vita del primo re d’Israele e l’ascesa al trono di David. L’opera si incentra sul dilemma di Saul che riconosce dapprima le qualità di David ma poi ne diventa geloso.

Atto I. L’azione si svolge in Palestina intorno all’anno 1010 a.C. In un accampamento israelita della valle di Elah si celebra la vittoria su Golia e i filistei. Il popolo canta la gloria di Dio e del re. Il racconto della battaglia è introdotto dalle donne, che esaltano il coraggio di David contro il mostro. Saul offre a David in sposa la figlia maggiore Merab, ma ella disprezza l’eroe mentre il fratello Jonathan gli offre la sua amicizia e la sorella Michal se ne innamora. Le giovani e il popolo celebrano i meriti di David con sempre maggior enfasi e Saul diventa geloso di David e chiede a Jonathan di ucciderlo.
Atto II. Quando Jonathan ricorda a suo padre i meriti di David, Saul si lascia convincere e gli propone di sposare Michal. Poi però lo manda in battaglia nella speranza che vi trovi la morte. David invece ne torna vincitore. Saul tenta allora di ucciderlo con un colpo di lancia. Non riuscendovi, accusa il suo stesso figlio Jonathan di tradimento e gli scaglia l’arma addosso. Il popolo esprime la sua riprovazione.
Atto III. Saul parte per consultare la strega di Endor, che lo mette in contatto con il profeta Samuel. Questi predice al re la sua prossima sconfitta contro i filistei, la sua prossima morte e quella di suo figlio. In effetti David è informato della morte di Saul e di Jonathan in seguito a una disfatta dell’esercito israelita. Questa scena termina con una marcia funebre dopo di che il popolo esprime in un canto di dolore la sua tristezza davanti al cumulo dei cadaveri dei giovani guerrieri caduti e poi celebra il nuovo re David in un coro finale.

Il regista di questa produzione a Glyndebourne è Barrie Kosky, australiano classe 1967, che si autodefinisce «a gay Jewish kangaroo». Dal 2001 al 2005 è stato condirettore della Schauspielhaus di Vienna e poi autore di esilaranti allestimenti di operette, pièces di teatro e opere liriche, tanto da venir nominato Best Director agli International Opera Awards del 2014. Kosky riempie la sua lettura del lavoro di Händel di momenti ironici che stemperano il dramma di questa famiglia lacerata da conflitti e sentimenti estremi.

Sulle note del secondo movimento della sinfonia, dal buio emerge la gigantesca testa mozza di Golia, realisticamente riprodotta, mentre David, ancora ricoperto di sangue e con in mano uno dei sassi con cui ha abbattuto il gigante, si accascia per terra sfinito. Il coro lascia il grandioso banchetto con cui festeggiava la vittoria e canta le lodi del giovane. Gli abiti sono settecenteschi (costumi di Katrin Lea Tag), parrucche, visi grottescamente truccati e come usciti da un quadro di Hogarth. A contrasto dei colori delle barocche decorazioni floreali e dei vestiti è il terreno di sabbia, che ci ricorda che siamo pur sempre nel deserto, ma qui nera.

Nel secondo atto è la testa di Saul invece che sbuca dalla sabbia tormentata da mani/insetti, mentre il coro canta «Envy, eldest born of hell», la furiosa gelosia che tormenta il vecchio re. Un applauso a scena aperta accompagna l’assolo organistico rotante in un mare di candele della sinfonia del secondo atto, un’invenzione teatrale geniale e indimenticabile.

Il terzo atto inizia con la scena della strega di Endor, un altro sorprendente effetto teatrale: Saul è per terra e tra le sue gambe, tra i mormorii di stupore del pubblico, quale orrendo feto esce la testa barbuta della strega e dalle sue vizze mammelle Saul succhia/apprende il suo infausto destino. Nella scena successiva viene annunciata infatti la sua morte in battaglia, così come quella di Jonathan, cosa questa che risolve provvidenzialmente il problema della sua relazione col cognato, ora sposo di Michal. La solenne famosa marcia funebre ci svela il campo cosparso di corpi martoriati. Questi stessi corpi si risvegliano per intonare il lugubre lamento «Mourn, Israel, mourn thy beauty lost» prima di procedere all’incoronazione del nuovo re David.

In questa divertita e appena appena irriverente lettura (ma neanche al librettista, impregnato di cultura protestante, sembra che interessassero molto le implicazioni religiose) il regista è adiuvato dalle spiritose coreografie di Otto Pichler e dalla eccellente presenza scenica, oltre che vocale, del Glyndebourne Chorus i cui infaticabili quaranta elementi giocano un ruolo determinante nella messa in scena di Kosky.

Se con Ivor Bolton alla direzione dell’Orchestra of the Age of Enlightenment, che partecipa con entusiasmo alla produzione, manca talora un po’ di sacra solennità, si guadagna però in vivacità di espressione e drammaticità emotiva.

Per quanto riguarda gli interpreti vocali, David qui ha la figura minuta e la voce di cristallina purezza e di perfetta intonazione del contraltista Iestyn Davies, che delinea un personaggio introspettivo, a parte da tutti gli altri e in forte contrasto con la tracotante personalità di Saul, qui magnificamente resa da Christopher Purves, un Lear scosso da una gelosia e da un’ira ingiustificata che lo portano alla pazzia. Il Jonathan che cura amorevolmente David e poi se ne innamora perdutamente è un sensibile Paul Appleby. Delle due sorelle è più convincente vocalmente della Michal di Sophie Bevan la Merab di Lucy Crowe, la quale si ritaglia nel recitativo e aria del second’atto un intervento intenso e dal sapore purcelliano giustamente acclamato dal pubblico. John Graham-Hall come surreale strega di Endor e Benjamin Hulett, in vari ruoli, completano l’eccellente cast.

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SAUL_Glyndebourne, Director; Barrie Kosky, Saul; Christopher Purves, David; Iestyn Davies, Merab; Lucy Crowe, Michal; Sophie Bevan, Jonathan; Paul Appleby, High Priest; Benjamin Hulett, Witch of Endor; John Graham_Hall,

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  • Saul, Moulds/Guth, Vienna, 16 aprile 2021

TEATRO DEI ROZZI

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Teatro dei Rozzi

Siena (1817)

500 posti

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La “Congrega” dei Rozzi, fondata nel 1531, dopo essersi trasformata in Accademia nel 1690 divenne, soprattutto nel corso dell’800, una delle istituzioni culturali più prestigiose di Siena. Nel loro statuto i congregati dichiaravano di non accettare “persone di grado” si rifiutavano di parlare e scrivere latino in aperta polemica con l’uso accademico corrente e con i senesi accademici intronati. Il nome dato alla congrega: rozzi, è dunque una dichiarazione d’intenti così come l’insegna scelta che rimarrà identica nei secoli: una sughera secca e di natura infruttuosa o comunque, anche se facesse frutti, di poca qualità, ma da una base dell’albero spunta un virgulto, un arboscello verde a indicare la possibilità di riscatto, la possibilità di dare luogo ad una produzione intellettuale degna pur nell’inutilità delle origini. Stessa concezione nel motto “Chi qui soggiorna acquista quel che perde” sullo stemma del portale d’ingresso.

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Dopo aver utilizzato per la propria attività il Saloncino posto nei locali dell’Opera Metropolitana, l’Accademia, a seguito anche del divieto granducale di utilizzare il Saloncino, decise nel 1804 di edificare un nuovo teatro nei locali della sua sede posta in Piazza di San Pellegrino (oggi Indipendenza) su progetto dell’architetto senese Alessandro Doveri. Nella primavera del 1817 il nuovo teatro venne inaugurato e aperto al pubblico. La sala con pianta a ferro di cavallo con 71 palchi suddivisi in quattro ordini presentava le eleganti forme della tipologia del teatro all’italiana. Nel corso dell’800 il teatro fu interessato a varie stagioni di restauri e riattamenti soprattutto alle decorazioni e vide impegnati oltre al Doveri anche architetti quali Augusto Corbi e Giuseppe Partini e decoratori quali Vincenzo Dei, Giuseppe Marchesi, Alessandro e Giuseppe Maffei. Nella veste rinnovata dai restauri del Corbi (1873) il teatro ha svolto un’intensa attività di prosa fino al 1945, quando, dopo uno spettacolo dato in onore delle truppe alleate, venne dichiarato inagibile a causa dei danni riportati nel corso della guerra. Il teatro ha subito un lungo periodo di chiusura e solo negli anni ’70 l’Accademia ha avviato un piano di recupero rimasto interrotto per mancanza di fondi. Nel 1985 i lavori sono ripartiti grazie a una prima convenzione stipulata fra l’Accademia e l’Amministrazione Comunale e l’intervento di restauro, su progetto dell’architetto Massimo Bianchini, è stato completato nel 1998.

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Die Liebe der Danae

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Richard Strauss, Die Liebe der Danae (L’amore di Danae)

★★☆☆☆

Salzburg, Grosses Festspielhaus, 31 luglio 2016

(video streaming)

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Danae nel serraglio

Dopo il suo formidabile Die Soldaten di quattro anni fa alla Felsenreitschule, il regista Alvis Hermanis ritorna a Salisburgo per allestire la penultima opera di Richard Strauss (1), ora nella Großes Festspielhaus. Come aveva già fatto con la sua insopportabile Jenůfa, il regista punta tutto sulla ricchezza dei costumi, qui con una profusione di ori accecanti. Per Hermanis la vicenda mitologica diventa una fiaba e l’isola greca di Eos un Medio Oriente di fantasia e caricaturale (turbanti oversize, abiti fluttuanti, donne in burqa, tappeti orientali…) pronto per il Ratto dal serraglio. Il regista lèttone ultimamente a proposito dei rifugiati se ne è uscito con delle dichiarazioni razziste in linea con quelle farneticanti di un Donald Trump o dei partiti xenofobi di questa parte d’Europa e le sue idee politiche incominciano a collidere con le sue idee registiche con un risultato preoccupante. Il suo esotismo di maniera svuota la storia di ogni possibile implicazione psicologica, sociale, politica o anche solo culturale per le quali il regista dimostra una totale indifferenza.

Anche la sottile ironia insita nella musica della Danae è del tutto assente nello stucchevole e vacuo allestimento e non esistono significative interrelazioni tra i personaggi: questa storia d’amore in cui una donna tra un dio e un asinaio sceglie il secondo, con grande scorno del primo, diventa uno sterile sfoggio di rutilanti tableaux vivants. A questo punto quasi si rimpiange che non sia stata riproposta l’edizione di Günter Krämer qui presentata nel 2002.

Consumato il budget sui costumi (di Juozas Statkevičius), l’impianto scenico risulta per converso povero e solo le sapienti luci di Gleb Filshtinsky rendono accettabile la piramide di asettiche piastrelle bianche, ma nulla possono invece con il brutto elefante di gesso su rotelle – è invece vero l’asinello albino che a un certo punto appare in scena. La pioggia d’oro è affidata alla videografica di Ineta Sipuniva mentre monotoni oltre ogni dire sono i movimenti coreografici di Anna Sigalova, gli stessi della Jenůfa, a metà strada tra show televisivo e spettacolo di Las Vegas con dodici imperversanti ballerine, dorate anche loro.

Note positive per la compagnia di canto. La bulgara Krassimira Stoyanova si conferma cantante di eccellenti mezzi vocali e grande presenza scenica, anche se qui è costretta ai gesti stereotipati imposti dalla fatua regia. Tomasz Konieczny, Jupiter fascinoso, è un Wotan dagli occhi cerulei e dalla sontuosa vocalità e non si capisce come Danae gli possa preferire il pesante Mida/asinaio di Gerhard Siegel, dall’intonazione per di più periclitante. Peccato che la scena della rinuncia di Jupiter non venga esaltata né dalla regia né dalla direzione orchestrale ed è un momento in cui si vorrebbero sterminate le onnipresenti ballerine che agitano fazzoletti bianchi per dare l’addio al nume…

Brave le altre parti, tra cui ricordiamo almeno il Pollux di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, e il coro della Staatsoper viennese.

Franz Welser-Möst è al solito inamidato, ma qui è anche particolarmente affrettato e non riesce a mettere in luce le straordinarie armonie e i colori timbrici della partitura pur avendo sotto di sé un’orchestra di lusso come quella dei Wiener Philharmoniker.

(1) Della vicenda di questa “heitere Mythologie in drei Akten” (satira mitologica in tre atti) si è già scritto a proposito del DVD relativo all’allestimento berlinese del 2011.

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