Il turco in Italia

photo © Clarissa Lapolla

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Martina Franca, Palazzo Ducale, 1 agosto 2023

★★☆☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Quando Il turco è politically correct e la regia lascia a desiderare

In questi giorni è di moda ambientare Rossini su una spiaggia: al Belcanto Opera Festival di Wildbad il regista Jochen Schönleber porta in scena le cabine dei “Bagni Gioachino” per Il signor Bruschino, mentre ad apertura del Festival della Valle d’Itria la regista Silvia Paoli trasporta la vicenda de Il turco in Italia sulle piagge pugliesi degli anni ’60, quelli del boom economico italiano, con una scenografia quasi uguale a quella di Wildbad. Pochi anni fa c’era stato anche L’elisir d’amore di Donizetti allestito da Damiano Michieletto sulla spiaggia del “Bar Adina”, prima a Bruxelles e poi a Macerata, ma con risultati ben diversi.

La presente produzione di Martina Franca ha suscitato le critiche del Sottosegretario al Ministero della Cultura Vittorio Sgarbi il quale, senza aver visto lo spettacolo (!), ha dichiarato che è «arrivato il momento di garantire dignità e rispetto per i grandi musicisti, che si possono certamente interpretare, ma non ridicolizzare per un gusto fintamente popolare». La sua azione sembra far parte di una “crociata” parlamentare il cui obiettivo è cacciare via dall’Opera i registi infedeli, o quanto meno negar loro la possibilità di compiere, attraverso regie “eversive” o irrispettose degli autori, «autentici crimini operistici e artistici». Il tutto rientra nella tendenza restauratrice del nuovo governo che pare voler far rivivere il MinCulPop (Ministero della Cultura Popolare) dell’Era Fascista. Il sottosegretario ha lui stesso un passato registico non dei più tradizionali, anzi piuttosto discusso, ma si sa, la memoria e la coerenza non sono virtù dei politici.

Che poi lo spettacolo in questione in termini visivi abbia deluso le aspettative è tutta un’altra cosa: la messa in scena di Silvia Paoli fa acqua non per l’idea che sta dietro alla sua lettura, ma per come l’ha realizzata. Non scandalizzano le cabine della scenografia di Andrea Belli o i costumi da bagno anni ’60 di Valeria Donata Bettella, ma la regia senza qualità, il suo arruffianarsi il pubblico con i cantanti in platea o le gag risapute (le torte in faccia, il lancio di spaghetti, il personaggio colto al gabinetto…), le trovate incomprensibili (passi che Selim sia il leader di una rock band, ma che Prosdocimo sia un portalettere e Don Narciso un bagnino…), la rinuncia alla gestione delle masse corali (relegate in scatole nere ai lati del palcoscenico), il banale utilizzo dei figuranti. E il tutto visto secondo la più insopportabile political correctness: via gli zingari entrano gli hippies; tolti i riferimenti sessisti e razzisti, e via discorrendo. 

Sulla carta l’interesse di questa produzione era la versione musicale scelta dal Maestro Michele Spotti, ossia quella romana del 1815, quando l’opera fu ribattezzata dalla censura pontificia La capricciosa corretta. Queste le varianti principali della nuova versione: nel primo atto è omessa la cavatina di Don Geronio («Vado in traccia d’una zingara»); quella di Fiorilla («Non si dà follia maggiore») viene sostituita da «Presto amiche, a spasso, a spasso»; Don Narciso ha una nuova cavatina «Un vago sembiante»; nel secondo atto sono omessi coro e cavatina di Fiorilla («Non v’è piacer perfetto») e il duetto Fiorilla-Selim; viene reintrodotta la seconda aria di Don Geronio «Se ho da dirla avrei molto piacere» e tagliata l’aria di sorbetto di Albazar («Ah! sarebbe troppo dolce»); la scena e cabaletta finale di Fiorilla «Caro padre, madre amata» è molto più lunga e complessa. Circa metà dell’opera è dunque cambiata. Quasi una nuova opera. 

Non è solo l’abitudine alla vecchia versione a rendere meno appetibile quest’altra. I nuovi pezzi non sembra che abbiano una qualità musicale migliore o maggior efficacia drammaturgica: la prima aria di Fiorilla era molto più intrigante dell’invito alle amiche a passeggiare che l’ha sostituita; l’aria aggiunta a Don Narciso non modifica la fatuità del personaggio che non era presente nel libretto del Mazzolà da cui deriva quello del Romani – era stato inserito solo per la presenza alla Scala del giovane tenore Giovanni David appena ingaggiato dal teatro milanese. La scena di Fiorilla nel secondo atto porta invece a un certo disequilibrio per l’inusuale lunghezza e intensità espressiva: il personaggio assume qui una dimensione da eroina di opera seria piuttosto incongrua in questo contesto, anche se qui è affidata alla rivelazione dell’anno scorso quale Beatrice di Tenda, il soprano tarantino Giuliana Gianfaldoni, calorosamente sostenuta dal suo pubblico, che non ha deluso in questo ruolo comico con la presenza scenica e le agilità vocali che le sono riconosciute, ma il meglio l’ha proprio dato nella pagina di cui s’è detto, con preziose mezze voci, filati e suoni magistralmente sostenuti. Se curasse ancor di più la chiarezza della dizione sarebbe praticamente perfetta. Su un altro livello, comunque più che adeguato, si sono collocati il Don Geronio di Giulio Mastrototaro e il Selim di Adolfo Corrado, quest’ultimo salentino, forniti entrambi di due strumenti vocali dal timbro molto opportunamente differente e da una qualità attoriale comica che un’altra regia avrebbe sicuramente messo maggiormente in luce. Totalmente incomprensibile è il fatto che Prosdocimo sia un postino: l’idea che cerchi ispirazione per il suo dramma sbirciando nelle lettere che deve consegnare è al di là di ogni possibile accettabilità e logica. Il povero Gurgen Baveyan, già privo di una propria aria solistica, parte dunque totalmente svantaggiato con la sua cartella a tracolla nella parte che qualcuno ha definito “pirandelliana”: qui si perde totalmente il gioco di “teatro nel teatro” che è l’elemento intrigante di quest’opera. Proprio di Martina Franca è il giovane Manuel Amati, apprezzabile per la tecnica, meno per lo stile e il timbro un po’ nasale. Che la regista faccia del cicisbeo un bagnino è un altro elemento del tutto incomprensibile della sua lettura. Ekaterina Romanova come Zaida e Joan Folqué come Albazar completano il cast.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli è Michele Spotti, ma gli strumentisti non sembrano gli stessi ascoltati qui due giorni fa: più imprecisi, meno presenti. Sarà anche a causa delle folate di vento che entrano nel cortile del Palazzo Ducale, ma molte note si perdono, le citazioni mozartiane e il gioco raffinato di equilibri del direttore non sono sempre ben realizzati, i piani sonori dei cantanti, dell’orchestra e del coro rimangono distinti, poco comunicanti.

Ciò non ha fermato però il pubblico dal rispondere con cordiali applausi, indirizzati soprattutto ai beniamini locali.

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