Mese: giugno 2018

La Dafne

Marco da Gagliano, La Dafne

★★★☆☆

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Firenze, Giardino di Boboli, 25 giugno 2018

«L’artifiziosa maniera di ricitare cantando»

La vita operistica di oggi è la continuazione senza interruzioni di una tradizione che, pur con mille cambiamenti, si può far risalire al 1589, quando uno spettacolo di azioni sceniche cantate e danzate fu allestito per le nozze del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici con Cristina di Lorena.

Ma già da quasi dieci anni un gruppo di intellettuali, la Camerata de’ Bardi, che aveva preso il nome dal palazzo di Giovanni Bardi nella cui abitazione si incontravano per discutere di musica, letteratura, arti e scienza, formalizzava questa forma musicale che ha alle origini due elementi: uno musicale, la vittoria della monodia sulla polifonia, e l’altro letterario, nell’intendimento di voler ricreare il teatro antico nell’opinione che gli antichi Greci e Romani in scena cantassero le tragedie. È Jacopo Peri il primo a utilizzare il nuovo stile per un’opera in musica, la Dafne (1598) su testo di Ottavio Rinuccini basato sulle Metamorfosi di Ovidio. L’opera è andata quasi completamente perduta, ma sempre del Rinuccini abbiamo invece l’Euridice nelle due versioni intonate da Jacopo Peri (1600) e da Giulio Caccini (1602).

Con la sua Dafne don Marco da Gagliano concludeva la stagione dell’opera fiorentina e la città che l’aveva tenuto a battesimo perdeva l’esclusività dell’opera lirica: a Roma Emilio de’ Cavalieri vi teneva la sua Rappresentatione di anima et di corpo, a Venezia Claudio Monteverdi sollevava il genere ad altissima arte e faceva nascere l’opera nei teatri pubblici della città. Fino ad allora, infatti, le rappresentazioni avvenivano nelle corti e nei palazzi principeschi, come fu per questa Dafne che venne rappresentata al Palazzo Ducale di Mantova nel febbraio 1608, prima di arrivare a Firenze in casa di Giovanni de’ Medici nel 1611. Ed è quest’ultima edizione, che comprende anche sei balli di Lorenzo Allegri, che viene rappresentata per la prima volta in tempi moderni dal Maggio Musicale Fiorentino nel Giardino di Boboli di Palazzo Pitti davanti alla Grotta del Buontalenti.

Pur cantando con una base strumentale, in scena gli interpreti devono dare l’impressione di recitare (“recitar cantando”) e solo raramente l’intonazione assume un grado di maggior musicalità. Per il resto al cantante è richiesto di esprimere la parola con armonia ma chiarezza, «scolpire le sillabe, per far intendere le parole». Cosa che riesce molto bene ai cantanti impegnati, tutti italiani per i quali la dizione non è un problema ed esperti di musica barocca. Inoltre gli interpreti secondari contribuiscono alla convincente esecuzione musicale affidata alla sapienza e al brio dal bravo Federico Maria Sardelli a capo della sua orchestra barocca Modo Antiquo rinforzata per l’occasione da due violini del complesso Musica Antiqua del Maggio Musicale Fiorentino. Il maestro, fedele alle consegne dell’autore, non copre mai con un eccesso di ornamentazione le note del canto pur mantenendo sempre viva l’armonia che lo sostiene. È nei momenti dei balli che Sardelli, aiutandosi col suo strumento preferito, il flauto diritto, cede a un più libero far musica dando sfogo anche alla sua abilità di orchestrazione.

Nel caso della Dafne è ineludibile il confronto con La favola di Orfeo monteverdiana di solo un anno prima. Il racconto dei pastori («Sparse più non vedrem di quel fin oro») riecheggia quello della messaggera che là narra della morte di Euridice e anche qui il coro che segue («Piangete, Ninfe») ha un sincero tono commovente. Analogo al lavoro di Monteverdi è poi l’intervento finale di Apollo, anche qui ricco di ornamenti, in cui la musica sembra prendere il sopravvento sulla parola. Ma diciamo subito che nel confronto con Monteverdi questa Dafne è tutt’altra cosa e non arriva alla teatralità e all’intensità espressiva di quella.

Per quanto riguarda l’allestimento di Gianmaria Aliverta, non si sa se sia il lavoro di Marco da Gagliano a non offrirgli una drammaturgia convincente, oppure se il regista sia intimorito dalla prestigiosa location. Fatto sta che la sua messa in scena denuncia una certa timidezza d’approccio. Le fantasiose architetture barocche della grotta sono uno sfondo inerte all’azione e le luci di Alessandro Tutini non danno vita agli spazi di questo luogo fantastico in cui concrezioni artificiali ad imitazione di stalattiti e stalagmiti si affiancano alle statue dei Prigioni di Michelangelo, a mosaici colorati e a giochi d’acqua, ora purtroppo spenti. L’idea di partenza della sua regia è la libertà della donna rispetto a quella dell’uomo e nelle coreografie di Silvia Giordano che intervallano l’azione scenica viene illustrato proprio il tema della violenza subita da una donna innamorata del proprio uomo, un argomento di enorme attualità oggi, ma che sarebbe stato incomprensibile ai tempi della Firenze del XVII secolo e che poco aggiunge al godimento di quest’opera barocca in cui i sentimenti sono sublimati dal mito. I costumi di Sara Marcuzzi ci consegnano delle figure senza tempo nonostante il taglio attuale degli abiti maschili e di Amore, o in quelli più ricercati dei personaggi femminili, Venere in lucente verde smeraldo e Dafne in un rosso svolazzante.

Sponsorizzato da una famosa casa di mode fiorentina, lo spettacolo ha convinto solo in parte l’elegante pubblico accorso per questa esecuzione al fresco, però non ha fatto mancare i suoi applausi.

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Firenze, Palazzo Pitti giardini di Boboli, La grotta del Buontalenti

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OPERA DI ASTANA

Opera

Astana (Kazakistan, 2013)

1250 posti

Il teatro dell’opera della capitale del Kazakistan Opera Astana (Астана опера) è stato voluto dallo stesso leader che da ventotto anni guida l’ex stato russo, Nursultan Nazarbayev, il quale ne ha anche dettato lo stile, sia esterno che interno. Progettato dall’architetto italiano Renato Archetti ed edificato su un terreno di  9 ettari, con i suoi 64 mila metri quadri il teatro è tra i più grandi al mondo e come un moderno Partenone esibisce le sue colonne sulla facciata e su parte dei lati e un frontone triangolare sormontato da una quadriga in bronzo.

All’interno, sulla pianta di un teatro all’italiana, domina un gusto orientaleggiante nei cinque ordini di palchi aperti e nell’imponente palco presidenziale.  Oro, crema e rosso sono i colori delle decorazioni realizzate ad affresco nello stile locale. Un imponente lampadario di cristallo dà luce alla sala. Tutti i materiali impiegati provengono dall’Italia.

Il teatro ha un’orchestra, un cast di cantanti e un balletto propri che hanno effettuato vari tour all’estero. Accanto ai titoli consueti del repertorio operistico, l’Opera di Astana mette in scena anche lavori nazionali kazaki. Ha comunque inaugurato con l’Attila di Verdi nella produzione del San Carlo di Napoli e poi sono arrivate sia La Scala che La Fenice.

 

KABUKI-ZA

Kabuki-za 

Tokyo (1889, 1924, 1950, 2013)

1964 posti

Immerso nell’animato quartiere di Ginza tra imponenti grattacieli, l’insolito edificio in stile tradizionale ad imitazione di un castello è sede del teatro Kabuki. Il Kabuki-za fu voluto da Fukuchi Gen’ichirō, giornalista e sceneggiatore di epoca Meiji (1868-1912), e aperto nel 1889. Formato originariamente da una struttura di legno, l’edificio fu distrutto nel 1921 da un incendio. La ricostruzione non fu completata in quanto la struttura bruciò nuovamente durante il grande terremoto del 1923. La nuova ricostruzione fu finalmente completata nel 1924, ma il teatro fu distrutto dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale e fu restaurato nel 1950, preservando lo stile della ricostruzione del 1924.

La struttura del 1950 fu demolita nella primavera del 2010 e ricostruita nei successivi tre anni. La scarsa capacità dell’edificio di resistere ai terremoti e alcuni problemi di accessibilità hanno portato a questo nuovo intervento sul teatro. Durante la ricostruzione, gli spettacoli Kabuki hanno avuto luogo nel vicino Shinbashi Enbujō e in altre strutture, fino all’apertura del nuovo complesso teatrale, che è avvenuta il 28 marzo 2013. L’interno, pur nella modernità di impianto, mantiene le caratteristiche delle tradizionali sale per il Kabuki, con il grande sipario scorrevole policromo (a rappresentare le stagioni), la passerella che taglia la platea per l’ingresso dei personaggi chiave dello spettacolo e le attrezzature per gli interventi “aerei” degli attori.

BUNKA KAIKAN

Bunka Kaikan

Tokyo (1961)

2300 posti

La cultura occidentale, intesa come musica classica, balletto e opera, è stata introdotta liberamente in Giappone solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da ciò si capisce come una città come Tokyo non abbia sale teatrali come le città dell’occidente. Uno dei primi edifici a essere costruiti a questo scopo è stato il Bunka Kaikan, aperto nell’aprile 1961 per celebrare i 500 anni della città.

Il teatro si trova all’interno dell’Ueno, il parco che ospita altri centri di interesse quali il Museo Nazionale dell’Arte Occidentale, Il Museo Reale e il Museo Metropolitano delle Arti. Il complesso del Bunka Kaikan è formato da un altro auditorium più piccolo di 650 posti, sale per conferenze, una biblioteca, ristoranti e negozi.

 

Volo di notte / Il prigioniero

Luigi Dallapiccola, Volo di notte / Il prigioniero

★★★☆☆

Buenos Aires, Teatro Colón, 26 ottobre 2016

(live streaming)

I desaparecidos di Dallapiccola in scena al Colón

Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Le Petit Prince, nel 1931 aveva scritto Vol de nuit, un romanzo ambientato in America Latina dove un aviatore/corriere porta il suo carico su un biplano che finisce in una tempesta durante un volo notturno. Il dramma descrive i rapporti con la sua famiglia, ansiosa per la sua salvezza, e il suo titolare, preoccupato sia per il suo ritorno che per il successo dell’impresa che gli ha affidato. La vicenda rispecchia la passione di Saint-Exupéry per gli aerei, la sua assunzione nell’Aéropostale e ne prevede drammaticamente la morte avvenuta durante una missione di ricognizione in Corsica il 31 luglio 1944.

Ancora in piena guerra Dallapiccola affida a un libretto da lui scritto la sofferenza e il destino individuale in contrapposizione al fascismo: «Io non avrei scelto il libro di Saint-Exupéry e non ci avrei pensato dal 1934 al ’38 se non avessi intravisto un valore universale nella figura di Rivière […]. Il libro, e anche la mia opera, hanno al centro la volontà di un uomo che tende al futuro e quindi Rivière siete voi, sono io, siamo tutti noi che stiamo al di fuori della ‘massa’, di quella massa alla quale oggi si tenta di dare un’importanza preponderante». Le sei scene dell’atto unico condensano in una sola giornata e in un solo luogo, l’aeroporto di Buenos Aires, le vicende del romanzo.

Il direttore di compagnia di navigazione aerea, Rivière, ha istituito i voli notturni per accelerare il traffico postale e, sul far della notte, è in attesa del rientro degli aerei postali dal Cile, dal Paraguay e dalla Patagonia. I primi due fanno ritorno alla base, mentre il pilota del corriere della Patagonia, Fabien, dà notizia dell’avvicinarsi di un uragano. La penuria di carburante e la furia della tempesta gli impediscono di superare le Ande. Via radio, la moglie di Fabien assiste alla lotta senza speranza del pilota contro la forza degli elementi della natura, ponendo a Rivière il problema del sacrificio e del dolore del singolo rispetto all’azione suprema di conquista da lui intrapresa. Benché sconfitto, Rivière non rinuncia ai voli notturni e, quella stessa notte, ordina la partenza del corriere d’Europa. Come dice Rivière, «lo scopo è forse discutibile, ma l’azione libera dalla morte», dal momento che «solo l’avvenimento in cammino ha importanza».

Dieci cantanti e una grande orchestra danno vita a questa espressione lirica. «In Volo di notte il musicista sperimenta un tipo di opera sintetica, concepita come crescendo espresso in un’azione serrata e continua, nella quale sono ridotti al minimo i momenti di stasi lirica e l’organizzazione architettonica del lavoro è determinata da forme chiuse di tipo strumentale che, senza interrompere lo svolgimento del dramma, lo scandiscono nella compenetrazione perfetta dei piani vocali e strumentali, mettendone in piena evidenza i nessi. È il modello desunto dalla drammaturgia di Alban Berg, che in Volo di notte trova chiari parallelismi: nel potere costruttivo affidato al ritmo musicale, quale risulta soprattutto nel ‘pezzo ritmico’ della scena terza, che discende direttamente dalla ‘Monoritmica’ della Lulu berghiana; negli elementi jazzistici del ‘movimento di blues’ della scena prima, ispirati ai passi analoghi del Wozzeck; piuttosto nella matrice strumentale del ‘corale con variazioni’ e ‘finale’ della scena quinta e dell’‘inno’ dell’ultima; fino alla condivisione di tipologie differenziate di sprechgensang, che vanno dal semplice parlato alla declamazione ritmica “con un po’ di suono”, passando attraverso il parlato ritmico e il declamato ritmico “quasi senza timbro”; mezzi sperimentati in modo particolarmente felice nella parte del radiotelegrafista (con una sorta di historicus che rende scenicamente presenti gli eventi che si svolgono al di sopra delle nuvole), il quale legge con partecipazione crescente i messaggi di Fabien nella scena quinta, fino a trasformarsi impercettibilmente nel canto dello stesso Fabien in caduta libera col proprio aereo. L’adesione ai portati della Scuola di Vienna si manifesta inoltre in Volo di notte come approfondimento della tecnica dodecafonica, che nell’opera di Dallapiccola ha una funzione più espressiva che strutturale, dal momento che la serie vi è utilizzata in modo sporadico e con intento ora coloristico, ora melodico, quali momenti cromatici in un contesto dagli accenti ancora lievemente arcaizzanti. Tipica è la cornice seriale nella quale vengono collocati i numerosi materiali motivici desunti dalle Tre laudi, come il tema ‘Altissima visione’, tratto dall’esordio della prima lauda, sottoposto nell’opera a tutte le permutazioni seriali e messo a cornice formale della sua composizione. Spetta a questo motivo dodecafonico mettere in comunicazione due episodi di segno opposto, determinanti per il significato dell’opera: da una parte la caduta mortale dell’aereo di Fabien nel momento in cui il pilota, quasi trasfigurato, scorge le stelle del cielo […] dall’altra il ritorno finale dello sconsolato Rivière al proprio tavolo di lavoro». (Virgilio Bernardoni)

L’opera è andata in scena la prima volta alla Pergola di Firenze il 18 maggio 1940.

Se nel caso di Volo di notte l’individuo è sacrificato per un concetto ideale di dovere, incarnato da Rivière, oltre che dalle forze della natura, ne Il prigioniero l’individuo, prigioniero, resiste al potere rappresentato dal carceriere e dal Grande Inquisitore. Il libretto si basa su due drammi: La torture par l’espérance di Villiers de l’Isle-Adam (1888) e La légende […] d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak […] (1867) di Charles de Coster. Dallapiccola ne compose la partitura tra il 1944 e il 1948, la prima esecuzione ebbe luogo in forma radiofonica il 1º dicembre 1949 in concerto all’Auditorium RAI di Torino e il debutto in forma scenica il 20 maggio 1950 al Teatro Comunale di Firenze.

Seconda metà del XVI secolo. Un prigioniero è detenuto nelle carceri spagnole, al tempo del re Filippo II. Riceve la visita della madre, perseguitata da un incubo, raccontato nel prologo, in cui il re le si presenta nelle vesti della Morte. Il prigioniero ricorda che dopo le torture qualcuno lo ha chiamato fratello, e sembra avere un momento di sollievo. Entra il carceriere, che nuovamente usa la parola fratello, e gli annuncia che la rivolta degli accattoni ha avuto successo. Nel prigioniero rinasce la speranza e il sentimento si rinforza quando scopre che il carceriere è uscito lasciando aperta la porta del carcere. Il prigioniero tenta la fuga, nei corridoi riesce ad evitare due sacerdoti che discorrono tra loro, poi esce in un giardino. Qui viene catturato dal grande Inquisitore, che ha la stessa figura e la stessa voce del carceriere, che lo chiama ancora una volta fratello ma poi dolcemente lo conduce al rogo. «La libertà?», si chiede il prigioniero sussurrando quasi incosciente, dopo avere guardato il rogo ridendo come un pazzo.

Nel 1938 Dallapiccola aveva composto i Canti di prigionia basati su testi di tre famosi prigionieri: Maria Stuarda, Severino Boezio e Girolamo Savonarola, quasi un saggio dell’opera che verrà.

«Il significato dell’opera si risolve così nell’antitesi diretta delle due parole chiave del dramma del prigioniero: “fratello”, la parola dell’inganno e della prigionia nella speranza che il carceriere rivolge al protagonista, e “libertà”, la parola dell’illusione e dell’interrogativo senza risposta sul quale emblematicamente essa si chiude. A queste due parole chiave rimandano alcuni dei materiali musicali fondamentali dell’opera (che Dallapiccola, ormai orientato verso una piena adozione della tecnica dodecafonica, distingue in serie dodecafoniche complete e combinazioni dodecafoniche variate); la ‘serie della speranza’, cantata dal prigioniero nel racconto alla madre e la ‘serie della libertà’ che, insieme alla «’serie della preghiera’ sulle parole “Signore aiutami a camminare”, hanno funzione di motivi conduttori; e il tema “fratello”, la combinazioni dodecafonica che nello stridore della sua stessa struttura compendia il problema centrale dell’opera. È dalle relazioni che il musicista instaura tra questi materiali ‘neutri e nello stesso tempo polivalenti’, che la composizione del Prigioniero si configura come un lavoro di frammentazione e combinazione dei motivi seriali, orientato a creare una catena continua di associazioni di tipo simbolico. Agli occhi di Dallapiccola, infatti, la dodecafonia non si configurava come un codice e un sistema, ma come un’esperienza espressiva puramente interiore, con la quale egli non esita a fondere criteri tonali, stile mottettistico e serialità, in una musica che si fa sempre più concentrata ed essenziale, memore delle scoperte di Anton Webern». (Virgilio Bernardoni)

Alle tre opere di Dallapiccola (Volo di notte, Il prigioniero, Ulisse) Massimo Mila ha dedicato pagine illuminanti ora raccolte ne I costumi della Traviata, Milano 1992.

Le madri dei desaparecidos, le acque del Río de la Plata in cui venivano gettati i dissidenti nei “voli della morte”, le torture della polizia: una rappresentazione al Colón di Buenos Aires di queste due opere non può non fare riferimento ai tragici giorni vissuti dall’Argentina sotto la dittatura militare. E infatti il regista Michał Znaniecki legge in questi termini la seconda opera di questo dittico. La Madre de Il prigioniero è una delle tante “madres de la plaza de Mayo” che fin dal 30 aprile 1977 hanno inscenato la loro manifestazione pacifica davanti alla Casa Rosada per denunciare la sparizione dei figli. Nel prologo alla fine del suo monologo la Madre è portata via come avvenne per Azucena Villafior de Vincenti, arrestata e detenuta in una prigione segreta dopo la manifestazione del 10 dicembre di quell’anno.

La lurida cella con le piastrelle lorde di sangue è anche la stanza della tortura, un cubo che ruota di cui vediamo sia l’interno sia l’esterno. Il carceriere controlla il prigioniero dai video della sua guardiola, la stessa dell’aeroporto del Volo di notte. I cadaveri di giovani vengono portati via e i loro documenti distrutti mentre acrobati appesi a corde rappresentano angeli della morte che gettano in mare i corpi. Nel finale dopo la presa di coscienza del Prigioniero («S’è fatta luce! Vedo! Vedo! | La speranza… l’ultima tortura… | Di quante mai sofferte, la più atroce… ») sul palcoscenico si uniscono ai carcerieri persone comuni in abiti contemporanei. Siamo noi, testimoni muti e impotenti degli orrori dei nostri giorni. La violenza esplicita, impensabile nelle messe in scena del passato, oggi è appena sufficiente a colpirci e su questo punta il regista.

Le stesse strutture laterali erano state utilizzate per il Volo di Notte, qui collegate da una rete che separa il pubblico dagli ufficiali della base aerea immersa nella notte. Allievo di Umberto Eco, il regista polacco vede il lavoro come un’“opera aperta” che deve correlarsi alla storia dell’Argentina.

La ricca orchestrazione e i volumi sonori del primo lavoro e i suoni più rarefatti del secondo trovano nel direttore Christian Baldini un solido interprete. Efficaci i cantanti, poco conosciuti alle nostre latitudini: Victor Torres (Rivière), Daniela Tabernig (Simona Fabien), Leonardo De Estévez (Prigioniero), Fernando Chalabe (carceriere) e Adriana Mastrángelo (la Madre).

 

Don Pasquale

 

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★★☆☆

Parigi, Palais Garnier, 19 giugno 2018

(diretta streaming)

La prima volta all’Opéra del lavoro di Donizetti

A distanza di poche settimane, i due più importanti registi italiani presentano il loro Don Pasquale: il 3 aprile alla Scala Davide Livermore leggeva la vicenda come una commedia all’italiana anni ’60; ora a Palais Garnier Damiano Michieletto presenta la sua personale impostazione. È la prima volta che l’opera di Donizetti viene messa in cartellone all’Opéra National di Parigi.

Il salto temporale qui è ancora maggiore, siamo nella contemporaneità infatti. Ma è soprattutto sul personaggio titolare che ci sono le maggiori differenze di lettura: se per Livermore erano la simpatia per il vecchio Don Pasquale e la nostalgia dell’ambientazione a dare il tono al suo spettacolo, qui invece Michieletto, nella sua lucida logica, infligge al crudelmente gabbato vecchietto una fine ignominiosa in un triste ospizio. Al poveretto non è risparmiato un trattamento che insiste senza pietà sulla sua decadenza fisica piuttosto che sull’empatia col personaggio. Prima ancora dell’umiliante ceffone della “mogliettina”, Michieletto ce lo presenta nella sua datata abitazione mentre sciabatta in pigiama e vestaglia, indossa la cintura elastica per contenere la pancia, si tinge i capelli, si annoda un’orrenda cravatta marrone su una camicia scozzese. Il «vecchio celibatario, tagliato all’antica, economo, credulo, ostinato, buon uomo in fondo» del libretto di Giovanni Ruffini, qui è un patetico pensionato angariato da una sciatta domestica, turlupinato da chi si professa amico e angustiato da un nipote nullafacente che si capisce non farà mai nulla di buono nella vita. Oggi non c’è  più né rispetto né pietà per gli anziani, sembra dire Michieletto.

Decisamente più negativo qui è anche il cinico personaggio di Malatesta, un subdolo “amico” abituato agli inganni in quanto come regista di video e spot pubblicitari fa grande uso del croma key per fingere una realtà immaginaria. Norina è una delle sue modelle e la grande confidenza che il giovane ha con la ragazza fa intuire l’inedito finale scelto dal regista, in cui Norina lascerà l’insulso Ernesto per il più consistente Malatesta.

Lo scheletrico impianto scenografico di Paolo Fantin consiste nella casa fuori moda di Don Pasquale divisa virtualmente in vari ambienti – ci sono le porte ma non le pareti – identificati da scarni oggetti: un letto per la camera; un divano giallo, una pendola da terra e un quadro romantico per il soggiorno; una vecchia stufa economica per la cucina; un tavolo con sedie per il tinello; una vasca su piedini per il bagno; una vecchia Lancia Flavia in garage. Tutto verrà spazzato via dal ciclone Norina e sostituito da corrispettivi contemporanei e alla moda. Sormontata da una struttura di tubi al neon come tetto, la scena ruota su una piattaforma in modo da permettere di curiosare nella casa da angolazioni diverse. Un sobrio ma efficace gioco di luci è quello di Alessandro Carletti mentre i costumi di Agostino Cavalca connotano i diversi personaggi: il guardaroba anni ’70 di Don Pasquale, le felpe e le t-shirt da coatto del nipote o il giubbotto di pelle del mafiosetto Malatesta. Dopo l’abito da educanda, Norina sfoggia outfit tali da far imbufalire il povero “marito”.

Non pienamente convincenti sono alcune scelte del regista come il ricordo di Don Pasquale bambino con la mamma o l’utilizzo di burattini per riassumere la storia durante il coro «Che interminabile andirivieni!», qui affidato a non si sa chi, se vicini di casa o passanti, di certo non ai servitori reclutati da Norina.

Come sempre nelle messe in scene di Michieletto la logica del konzept è portata avanti con lucidità e arguzia, la direzione attoriale è sempre attenta e l’adattamento della regia agli interpreti perfetto. Quello che manca è l’empatia per i personaggi in scena che porta a una certa freddezza dell’impianto e a una mancanza di umorismo nonostante le numerose gag.

Si diceva degli interpreti su cui Michieletto cuce addosso la regia: Michele Pertusi è un Don Pasquale scenicamente efficace ma non è un basso buffo e vocalmente denuncia qualche stanchezza, il sillabato è perfettibile, talora tende al parlato, ma comunque è sempre intatta l’eleganza con cui il cantante porta in scena il personaggio. Splendente presenza è quella di Nadine Sierra, una Norina che farebbe rimbambire chiunque. Voce agile e leggera, luminosa negli acuti e con una certa acidità nel timbro, forse voluta per adattarsi al personaggio. Spavaldo Florian Sempey come Malatesta, una parte a misura della sua vocalità e del suo temperamento, non distante dal Figaro rossiniano con cui si è fatto conoscere. Un perdente su tutta la linea, così si presenta secondo Michieletto l’Ernesto di Lawrence Brownlee: berretto con la visiera all’indietro, canotta e giubbotto, zainetto e pochi spiccioli in tasca. Si capisce subito che il flirt tra lui e la sofisticata ragazza non durerà. Da perfetto belcantista il tenore americano dipana le sue ariose melodie con stile ineguagliabile e anche se rinuncia alle puntature i suoi interventi sono al solito di gran classe.

La direzione di Evelino Pidò non ha particolari raffinatezze, anzi in certi momenti denuncia un eccesso di energia. Qui non si parla di coprire i cantanti o di equilibrio con la fossa orchestrale o di proiezione delle voci giacché sono tutti microfonati per la diretta, ripresa con abbondanza di primi piani da Vincent Massip.

Parsifal

 

Richard Wagner, Parsifal

★★★☆☆

Anversa, Koninklijke Vlaamse Opera21 marzo 2018

(video streaming)

Liturgia di sangue

Cosa resta del Parsifal di Wagner se lo depuriamo di qualunque riferimento alla liturgia cristiana? In attesa di vedere cosa combinerà Pierre Audi tra un mese alla Bayerische Staatsoper, tra le più recenti letture dell’ultima opera di Wagner c’è questa del 2013, l’anno wagneriano, della regista tedesca Tatjana Gürbaca, ora ripresa all’Opera Vlaanderen di Anversa.

Buio totale, luce rossastra che gradualmente diventa sempre più abbagliante e inonda una scena completamente vuota. Amfortas cede alle lusinghe di Kundry durante il preludio. Tre sottili rigature di sangue marcano la bianca parete circolare di fondo. Altre si aggiungeranno, e poi altro sangue, in copiosa quantità, sui corpi, sui costumi, sui pochi oggetti presenti: il sangue è l’elemento principale di questa produzione – d’altronde la parola Blut si ripete ben 25 volte nel libretto, esattamente quante la parola Tod, morte.

Sedie, sgabelli, catini smaltati per il bagno dei bambini (uno di essi sarà il cigno ucciso da Parsifal che gli tira un secchio pieno di sangue). Tutti rigorosamente in bianco gli oggetti in scena di questo spettacolo che perde ogni connotazione di rappresentazione, più o meno sacra, per contrapporre il maschile al femminile: i cavalieri del Graal uniti dai loro rituali, alla figura madre/Madonna/Maddalena di Kundry che, incinta forse del prossimo cavaliere cui toccherà liberare dalla maledizione, li benedice sotto lo sguardo stupito/stupido di Parsifal. Ma anche comunità contro individualità: i cavalieri assieme danno voce a Titurel fuori scena o diventano una folla che minaccia Amfortas, l’unico che osa essere un individuo e cerca di spezzare la catena umana di questa setta di fanatici. E ovviamente castità contro sensualità o meglio separazione maschile/femminile, che diventa emblematica in Klingsor, il quale si è auto evirato e quindi ha perso la maschilità. Il suo giardino delle delizie è illuminato da una luce dorata ed è popolato da anziane signore in abiti di tulle, appassite fanciulle in fiore. Gurnemanz è su una sedia a rotelle che sottolinea la sua impotenza; i cavalieri guardano in alto con lenti nere in attesa di un’eclisse che non avviene; Parsifal con la lancia non guarisce Amfortas ma gli dà il colpo di grazia; Kundry per due volte tenta il suicidio; Parsifal alla fine viene vestito  con una ridicola armatura che lo fa sembrare un Crociato grottesco.

Meno problematico l’aspetto musicale dello spettacolo con un corretto Cornelius Meister sul podio, il tenore americano Erin Caves specialista di Wagner e qui a suo agio nella figura dapprima imbelle e poi sofferta del puro folle. Qualche piccola sbandata di intonazione non pregiudica una performance vocale solida. Convincenti il Gurnemanz di Štefan Kočan dal timbro particorlamente scuro e l’Amfortas di Christoph Pohl, lui invece di timbro più chiaro, mentre Kay Stiefermann è un Klingsor per una volta molto umano. Il reparto femminile di quest’opera misogina è condensata nella figura di Kundry, un’intensa Tanja Ariane Baumgartner quasi sempre in scena.

Innumerevoli sono le immagini proposte dalla regista per una narrazione lentissima, quasi senza azione, in cui i personaggi si muovono come in una torpida coreografia. La visione che la Gürbaca impone è del tutto personale e distante dalla concezione cristiana e dalle intenzioni dell’autore stesso, ma lo spettacolo ha comunque una sua coerenza e un suo fascino, anche se non sembra portare a un maggior apprezzamento per l’ultima opera di Wagner.

La nonne sanglante

Charles Gounod, La nonne sanglante

★★★★☆

Parigi, Opéra Comique, 12 giugno 2018

(diretta streaming)

Il bacio della morta

Che differenza tra il ripiego al frusto repertorio da parte dei teatri lirici italiani e la ricerca di titoli non consueti di quelli francesi! L’Opéra Comique di Parigi, ad esempio, ad ogni stagione propone lavori sconosciuti o ben poco frequentati. Ora la Salle Favart riesuma dopo un secolo e mezzo La nonne sanglante (La monaca sanguinosa) del compositore Charles Gounod di cui quest’anno si celebra il bicentenario della nascita avvenuta il 17 giugno 1818. È la seconda opera del “Verdi francese” dopo la Sapho e il suo primo impegnativo incarico per l’Opéra parigina, ancora nella sede della Salle Le Peletier.

Il libretto di Eugène Scribe e Germain Delavigne è in parte tratto da The Monk (1796) di Matthew Gregory Lewis, in originale una leggenda medievale tedesca ripresa nell’Ottocento anche da Charles Nodier. La vicenda di donne morte e fantasmi sarebbe piaciuta a Carolina Invernizio, ma anche il tema delle famiglie rivali che si oppongono alla felicità dei figli è sempre stata feconda materia per un’azione drammatica. A questo romanzo «gotico» avevano fatto un pensierino anche Verdi e Berlioz e quest’ultimo era arrivato a concepire «une grande partition en quatre acte». «Je crois que cette fois, on ne me plaindra pas du défaut d’intéret de la pièce…» scriveva in una lettera. Tuttavia il progetto abortì.

Boemia, XI secolo. Atto primo. A causa di un vecchio conflitto ereditario, due famiglie – i Moldaw e i Luddorf – sono in eterna lotta l’una contro l’altra. In prospettiva della partenza per la Crociata e quindi per risparmiare sangue e testosterone maschile, l’eremita Pierre convince alla pace i due signori nemici e come pegno di concordia tra le due famiglie decide che la figlia del capo dei Moldaw vada in isposa al figlio del conte di Luddorf. Il problema però è che Agnès già ama, ricambiata, Rodolfe, il fratello minore dello sposo designato dalla convenienza. Il padre non ne vuole sapere dell’affetto tra i due giovani e di fronte al rifiuto del figlio a obbedire e lasciare l’amata, lo maledice e lo scaccia di casa. Sapendo della leggenda della Monaca Sanguinaria che appare a mezzanotte, Rodolfo escogita uno stratagemma per salvare Agnès e portarla via con sé: quella notte sarà la fanciulla stessa a travestirsi da fantasma per fuggire così col giovane. Agnès è terrorizzata dall’idea di sfidare le potenze dell’inferno, ma promette che si presenterà all’appuntamento.
Atto II. Agnès è preceduta dalla monaca, in velo e ossa, la quale inganna l’ignaro Rodolfo che, incauto, le offre anello e fede eterna. Per ironia della sorte anche la morta si chiama Agnès ed è solo alla fine della fuga, tra le rovine abbandonate del castello natio e le tombe degli antenati, che Rodolfo scopre con raccapriccio lo scambio di persona. La monaca ha intanto convocato tutti i morti del villaggio perché siano testimoni del fatto.
Atto III. Rodolfe si è rifugiato dai contadini, ma ogni notte è tormentato dalla monaca che reclama quanto promessole. Il paggio di Rodolfo viene ad annunciare che il fratello è morto in battaglia ed egli potrebbe quindi sposare Agnès, se non fosse per l’improvvida promessa fatta alla morta. La monaca gli racconta di come credendo il suo promesso sposo morto in guerra si fosse ritirata in un convento, ma venendo poi a sapere che l’uomo era vivo e vegeto e che si stava per sposare con un’altra, fosse andata a chiedergliene ragione, ma lui l’aveva uccisa senza tanti complementi per liberarsi dell’importuna. La maledizione potrebbe aver fine soltanto con l’uccisione del suo assassino e Rodolfe si impegna ad ucciderlo chiunque sia. Il nome gli sarà svelato la notte stessa.
Atto IV. Durante le nozze con Agnès, Rodolfe vede comparire, invisibile a tutti gli altri, la monaca che gli indica come assassino suo padre. Sconvolto, abbandona la cerimonia, il che rinfocola l’animostà delle famiglie che tornano alla loro sanguinosa faida.
Atto V. Sulla tomba della monaca, il conte di Luddorf è pronto a pagare per i suoi crimini di vent’anni prima e salvare così il figlio. Egli scopre che i Moldaw preparano un’imboscata per uccidere il figlio, ma ascolta anche la confessione di Rodolfe ad Agnès: maledetto dalla monaca e incapace di uccidere il padre, se ne andrà in esilio. Commosso, il padre si lascia cadere nella trappola preparata per il figlio ed è colpito a morte. La monaca implora la clemenza di Dio liberando così Rodolfo dai suoi impegni.

La vicenda, come si vede, è ricca di colpi di scena e assurdità che sono servite da terreno fertile per molte delle più grandi opere liriche. Sfortunatamente, il trattamento da parte di Scribe è piuttosto squilibrato nella distribuzione delle parti: Pierre l’Hermite, ruolo secondario, ha diritto a una grande scena con coro nel primo atto («Dieu puissant daigne de m’entendre») per poi scomparire; Arthur, il paggio di Rodolphe che non ha parte alcuna nell’azione, ha due brani puramente decorativi mentre Agnès non ne ha e deve accontentarsi dei concertati e dei duetti con Rodolphe; Luddorf aspetta l’ultimo atto per scoprire che ha il diritto di cantare da solo. Per il tenore è invece un tour de force estenuante.

Gounod sfrutta il potenziale drammatico della vicenda con una sapiente orchestrazione e con effetti sonori speciali di particolare efficacia. Weber e Meyerbeer sono dietro l’angolo con i loro ottoni e i cori di fantasmi. L’ispirazione del futuro autore del Faust e di Roméo et Juliette non ha comunque momenti di stanchezza né nel trattamento delle voci  né nella strumentazione.

La prima del lavoro di Gounod avvenne il 18 ottobre 1854, momento di crisi dell’Opéra di Parigi a seguito delle dimissioni del suo direttore Nestor Roqueplan. Il successore, François-Louis Crosnier, sospenderà le programmazioni de La nonne dopo l’undicesima replica in quanto, secondo lui, «de pareilles ordures» non sarebbero state più tollerate. Da allora l’opera di Gounod è stata dimenticata fino al 2008, quando fu resuscitata al Teatro di Osnabrück per un’edizione poi registrata in CD.

Il regista David Bobée non rinuncia alla famigerata abitudine di spiegarci l’antefatto durante l’ouverture: così riesce contemporaneamente a distogliere l’attenzione dalla musica, privarci della sorpresa di scoprire chi è l’assassino e impegnare le maestranze del coro Accentus in lotte corpo a corpo non proprio convincenti. Anche nel seguito la sua messa in scena è senza particolari qualità e semplicemente descrittiva, cinematografica. La scenografia virata al dark, i costumi in pelle nera, i maquillage e l’acconciatura di Agnès richiamano l’atmosfera degli episodi di Game of Thrones, così pure i video proiettati sullo sfondo. Gli immancabili ballabili dell’atto terzo («Valsez sous l’ombrage, filles du village […] que la valse est belle! Rapide comme elle, | le plaisir va fuir… Sachons le saisir!») nella regia di Bobée diventano una specie di orgia promiscua molto poco probabile nell’Europa medievale.

I musicisti dell’Insula Orchestra sono diretti da Laurence Equilbey con pugno fermo, senza troppi abbandoni romantici. In scena c’è la miglior voce disponibile per questo repertorio, un Michael Spyres che non si risparmia mai. Dalla sua ingenua preghiera alla monaca («Du Seigneur, pâle fiancée […] nonne protège nos amours») con una bella serie di do acuti, alla cavatina dell’atto secondo («Un jour plus pur») Spyres dipana con il suo splendido timbro, lo stile impeccabile e una dizione più che perfetta le pagine che l’autore gli ha generosamente assegnato. Il personaggio che esce fuori si aggiunge con onore alla lunga serie di quelli portati con successo in scena dal tenore americano.

Subito dopo viene il paggio Arthur alla cui parte inconsistente dà forma scenica e vocale efficacissima Jodie Devos, il cui gran senso del teatro viene caldamente festeggiato dal pubblico. Vannina Santoni è un’Agnès di bella presenza e sicuro temperamento, ma un po’ trascurata dal libretto: la sola pagina in cui può rifulgere è il duetto con l’amato («Ô toi que j’adore»). Forse proprio per compensare il minor peso musicale del suo personaggio, la Santoni punta a una interpretazione intensa con una linea di canto sicura in cui si apprezzano le qualità di soprano lirico. L’ampia gamma vocale del personaggio titolare viene affrontata da una Marion Lebègue vocalmente non molto autorevole, ma che si dimostra scenicamente convincente come monaca assetata di vendetta. André Heyboer è un conte di Luddorf imponente ma sensibile. Di buon livello il resto del cast.

In definitiva, non è la riscoperta di un capolavoro, ma valeva comunque la pena venirne a conoscenza.

I due timidi

 

Nino Rota, I due timidi

Alessandria, Cortile di Palazzo Cuttica, 14 giugno 2018

Che dramma la timidezza!

Diversamente da Les deux timides (1860), comédie-vaudeville di Eugène Labiche e Marc Michel diventata un originale film muto in bianco e nero di René Clair (1928), I due timidi che Suso Cecchi D’Amico scrive per Nino Rota ha un tono melanconico che ben si adatta alle melodie nostalgiche di quest’opera radiofonica trasmessa nel novembre 1950 dalla Radio Audizioni Italiane, diventata poi “commedia lirica” e messa in scena nel marzo 1952 dal London Opera Club.

Sono gli stessi anni del Rake’s Progress di Stravinskij, del Billy Budd di Britten o del Boulevard Solitude di Henze (1), ma lo stile musicale di Rota non potrebbe essere più diverso. Se i tre compositori citati cercavano di superare, ognuno a modo proprio, la tradizione postromantica dell’opera di inizio Novevecento, Rota non si fa scrupolo di utilizzare invece temi orecchiabili e slanci melodici d’impronta pucciniana tipici del suo stile. Pur tuttavia, nella partitura di questa operina non mancano moderne dissonanze, bruschi cambi di ritmo o citazioni del genere leggero allorché il musicista vuole sottolineare le svolte e i patemi d’animo di questa tenue storia d’amore.

Siamo nel cortile di un un caseggiato alla periferia di una moderna città, Via Del Pozzo 53. La bottega del calzolaio, la guardiola del portiere, la Pensione Guidotti, l’appartamento di Mariuccia e lo studio del dottor Sinisgalli si affacciano su questo spazio che si anima all’alba con il ciabattino che commenta, in forma di ironico osservatore, la vita del condominio. Lucia, Maria e Lisa cicalecciano gaie. Mariuccia esce sul balcone per annaffiare i fiori proprio mentre il giovane e timido Raimondo si dirige alla Pensione Guidotti con l’intenzione di affittarvi una stanza e poter corteggiare così da vicino Mariuccia, di cui è innamorato. La signora Guidotti, che scambia Raimondo per l’idraulico, lo sollecita con comica isteria al lavoro per poi accorgersi dell’errore e mostra  quindi a Raimondo la stanza che egli desidera, proprio davanti alle finestre di Mariuccia in modo da ascoltare rapito le sue lezioni di pianoforte. La vita del cortile si anima con le ore del giorno e Mariuccia e Raimondo si sorprendono sui rispettivi balconi ad osservarsi timidamente a distanza e senza riuscire a comunicare,  pur trasalendo per i propri moti dell’animo. Sul più bello la serranda della finestra di Raimondo cede e cade in testa all’impacciato corteggiatore che stramazza al suolo per il colpo. Raimondo viene trasportato sul letto e assistito dalla signora Guidotti che, preoccupata, chiama il dottor Sinisgalli. Al suo arrivo Raimondo rinviene delirando, ma ancora sotto shock pensa di essere di fronte a Mariuccia e confida tutto il suo amore alla signora Guidotti, unica donna presente nella stanza, che coglie al volo l’occasione di poter concludere una vita in solitudine, e con decisione e passione si adopera per curare il timido giovane. Nel frattempo Mariuccia, credendo l’innamorato gravemente ferito, sviene. La madre si affretta a chiamare lo stesso dottor Sinisgalli di fronte al quale, e allo stesso modo di Raimondo, Mariuccia in delirio proclama il suo amore. Così come aveva fatto la signora Guidotti, anche il dottor Sinisgalli coglie al volo le parole di Mariuccia per chiederne la mano alla madre. A sera, i due giovani, ripresi dai rispettivi malori, apprendono della dichiarazione d’amore fatta ad altri e restano svegli fino a tarda notte martoriati nell’animo dal loro amore deluso. Colti da un’improvvisa fiamma, escono contemporaneamente sul comune pianerottolo, ma neppure questa volta riescono a parlarsi: oltre alla timidezza, l’improvviso arrivo del dottor Sinisgalli e della signora Guidotti li separa definitivamente. Son passati due anni. Sappiamo dalle cameriere e dal calzolaio che le coppie si sono sposate, Mariuccia ha due figli e Raimondo gestisce la pensione della moglie. Mariuccia si siede al pianoforte e suona: Raimondo protesta per il disturbo.

Riproposto al Malibran di Venezia nel 2011 nel centenario della nascita del musicista, il lavoro di Rota trova ora una collocazione perfetta nel cortile di Palazzo Cuttica a conclusione di “Scatola Sonora”, il Festival Internazionale di opera e teatro musicale di piccole dimensioni giunto quest’anno alla sua XXI edizione. Un altro Rota, Marcello, dirige l’orchestra del Conservatorio Vivaldi di Alessandria. Alla freschezza delle voci dei giovanissimi – ricordiamo almeno il bel timbro tenorile di Dong Bin, l’impacciato Raimondo, la trepida sensibilità di Sumireko Inui, Mariuccia, e la contagiosa vivacità della Lucia di Cristina Mosca – il cast mescola l’esperienza degli appena meno giovani Riccardo Ristori e Michela Guassotti, che caratterizzano sapidamente i personaggi del calzolaio narrante e della signora Guidotti, ma molti altri calcano la ghiaia del cortile di Via del Pozzo 53, pardon Via Gagliaudo 2. Tutti magistralmente coordinati da Luca Valentino, che con amorevole dedizione mette in scena questo gioiellino poco frequentato. Con il felice apporto della Scuola di Scenografia dell’Accademia Albertina torinese, l’atmosfera anni ’50 è rivissuta nei costumi, nelle acconciature e nel trucco dei personaggi, ma sono sapientemente ricreati anche gli atteggiamenti di quel tempo passato. Il suono del pianoforte che esce dalla finestra del primo piano, il bel gioco di luci e la perfetta tecnica di riproduzione delle voci fanno di questo uno spettacolo la cui calorosa accoglienza presso il pubblico premia giustamente l’abnegazione dei tanti che l’hanno creato.

E alla fine, quando con un po’ di amarezza le luci stanno per spegnersi, ecco il tocco da maestro del regista, il coup de théâtre: non ce ne siamo accorti, ma l’insegna della pensione Guidotti è stata sostituita da quella di un B&B, la bottega del “calzolajo” ora è un ristorante cinese e i bambini che sciamano nel cortile dopo la scuola non hanno più  le scarpe di vernice nera e il fiocco candido sul grembiulino, ma sneakers fluorescenti e t-shirt colorate. Siamo ritornati al giorno d’oggi.

Che nostalgia per chi quei tempi, ahimè, un po’ se li ricorda!

(1) Ma anche di The Consul di Gian Carlo Menotti, un altro compositore “inattuale”.

Una vita per lo zar

★★★☆☆

La nascità dell’opera russa

Una vita per lo Zar (Жизнь за Царя, Jizn’ za Caria), prima opera di Michail Ivanovič Gkinka e prima opera russa rappresentata all’estero (Praga 1866), nacque dall’amicizia di Glinka con il poeta (e precettore dei figli dello zar) Vasilij Žukovskij, che suggerì il soggetto al compositore: l’eroica figura di Ivan Susanin, pronto a sacrificare la propria vita per difendere quella dello zar Michail, primo della dinastia dei Romanov. La scelta del celebre episodio rientrava nel clima di esaltazione dei valori nazionali e dell’autocrazia zarista a cui Glinka aderì nel 1834 al suo rientro da un lungo viaggio all’estero. Alla stesura del libretto collaborarono Egor Rosen, lo stesso Žukovskij (a lui si deve l’esplicita apoteosi dell’ideologia zarista dell’epilogo), lo scrittore Vladimir Sollogub (i cori iniziali e la cavatina di Antonida del primo atto) e l’amico e poeta Nestor Kukol’nik (la scena di Vanja davanti alle porte del monastero nel quarto atto aggiunta dopo la prima rappresentazione per ampliare il ruolo del contralto Anna Vorob’ëva, che aveva avuto uno strepitoso successo come interprete di Vanja).

Glinka aveva iniziato a comporre nel 1834 sulla base di una traccia stesa da Žukovskij, spesso precedendo il lavoro dei librettisti. Alla fine dell’anno successivo l’opera era pronta. Il titolo primitivo, Ivan Susanin, venne mutato in  Una vita per lo zar su suggerimento dello stesso Nicola I, cui l’opera era dedicata: venne poi ripristinato nel 1939, in una nuova versione ‘sovietizzata’ dal poeta Sergej Gorodeckij, con qualche interpolazione e attenuazione del tono troppo filozarista. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica le rappresentazioni dell’opera sono ritornate al libretto originale.

Atto primo. Nel villaggio di Domnino. I contadini cantano la fedeltà allo zar e salutano l’arrivo della primavera. Antonida, figlia di Susanin e fidanzata di Sobinin, è felice per l’avvicinarsi del giorno delle nozze. Entra Susanin e gela la gioia della figlia: non ci sarà matrimonio finché il futuro del paese resterà incerto. Sobinin porta la notizia che l’esercito di Požarskij ha sconfitto i polacchi, e che il nuovo zar Michail Romanov è stato eletto dall’assemblea dei boiari: Susanin benedice i futuri sposi e tutti si rallegrano.
Atto secondo. In un palazzo polacco si sta svolgendo un ballo con militari e civili. Arriva un messaggero con la notizia della sconfitta polacca e dell’elezione del nuovo zar, che esclude così il pretendente polacco, il principe Wladislaw. Un drappello di soldati viene immediatamente spedito a Kostroma, dove risiede il nuovo zar, per farlo prigioniero.
Atto terzo. Susanin annuncia al figlio adottivo Vanja l’elezione dello zar Michail: ai timori del ragazzo per una possibile rappresaglia polacca, Susanin risponde che nessuno riuscirà a trovare il nuovo zar, ben nascosto in un monastero. Antonida e Sobinin si uniscono in un quartetto di felicità e speranza. Arriva un drappello di soldati polacchi che, fingendosi in missione ufficiale, chiede di essere portato in presenza del nuovo zar. Susanin prima rifiuta poi, minacciato, finge di accettare: cercherà di condurli fuori strada e intanto manda Vanja al monastero ad annunciare l’imminente pericolo. Antonida, intuendo che la vita del padre è a rischio, si dispera in presenza delle amiche venute a festeggiare il fidanzamento. Sobinin, alla notizia dell’arrivo dei polacchi, si mette a capo di un gruppo di contadini pronti alla vendetta.
Atto quarto. Sobinin, con i contadini in armi, è sorpreso da una tempesta nella foresta, ma li incoraggia a non desistere. Vanja arriva al monastero e mette al corrente della situazione i monaci e lo zar. Irritati con Susanin, che non li ha ancora condotti dallo zar, i polacchi decidono di fermarsi nella foresta per la notte e si addormentano. Susanin sa di avere le ore contate e aspetta l’alba pregando e meditando: quando è sicuro che Vanja ha avuto il tempo necessario per compiere la missione, rivela ai polacchi l’inganno e viene ucciso. Sobinin con i suoi attacca i polacchi, ma troppo tardi per salvare Susanin.
Epilogo. Sulla Piazza Rossa di Mosca una folla immensa attende l’inconorazione dello zar Michail: sono presenti anche Antonida, Sobinin e Vanja, affranti per la morte di Susanin. I soldati li confortano, assicurandoli che lo zar non dimenticherà il sacrificio dell’eroe. Tutti intonano l’inno di gloria allo zar.

La prima del 27 novembre 1836 fu un evento non privo di polemiche nel mondo musicale della capitale, ma l’opera fu definita a buona ragione il punto di svolta tra passato e futuro della musica russa e trovò tra i suoi più accesi sostenitori letterati famosi come Puškin, Gogol’, Herzen.

«Da un punto di vista musicale, l’opera si muove su un’antitesi evidente: l’ambito russo e l’ambito polacco. Mentre la linea scelta dal compositore per l’ambito polacco è basata su ritmi di danza e su declamazioni corali abbastanza impersonali, per quello russo emerge una ricchezza melodica del tutto sconosciuta alla musica russa del tempo, dovuta sia alla vasta cultura assorbita su scala europea (Glinka aveva sentito in Italia le opere di Rossini e Bellini, in Germania quelle di Weber e Beethoven) sia a un attento studio del patrimonio musicale russo colto e popolare. Motivo unificante il tema trionfale del coro finale “Slav’sja”, diventato subito una sorta di secondo inno nazionale, che affiora fin dal primo atto nell’aria di Susanin accompagnato dal coro; ritorna nel terzo, all’annuncio dell’elezione, quando tutta la famiglia di Susanin cade in ginocchio e di fronte ai soldati polacchi, quando Susanin afferma la sua lealtà e il suo amore per il sovrano». (Fausto Malcovati)

L’edizione del Bol’šoj registrata su DVD è del 1992, ma potrebbe anche essere del 1942, o del 1892, tanto tradizionale è l’allestimento di Nikolai Kuznetsov. La direzione di Alexander Lazarev e gli interpreti (Evgenij Nesterenko, Marina Mescheriakova, Alexander Lomonosov ed Elena Zaremba) sono garanzia di qualità e al di sopra di ogni sorpresa.

Il DVD è regionalizzato, l’immagine è nel formato 4:3 e ha i sottotitoli in italiano.