foto © Magali Dougados
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Fromental Halévy, La Juive
★★★★☆
Ginevra, Grand Théâtre, 17 settembre 2022
Ici la version française
La Juive inaugura la stagione di Ginevra: l’intolleranza religiosa è sempre d’attualità
Fanatismo religioso, intolleranza per chi ha un diverso credo: roba del passato, quando un ebreo rischiava la pena di morte per aver lavorato la domenica, giorno dedicato al riposo per i cristiani.
Poi però leggi che oggi una ragazza in Iran è stata massacrata per aver portato male il velo e scopri ancora una volta che le vicende assurde e violente che vediamo rappresentate in teatro sono spesso di una grottesca e tragica attualità. Ha buon gioco quindi il regista americano David Alden a trasporre in tempi più vicini a noi la vicenda del XV secolo de La Juive, raccontata da Eugène Scribe e messa in musica da Jacques-François-Fromental-Élie Halévy, spettacolo che inaugura la nuova stagione lirica del Grand Théâtre de Genève.

Autore fecondo – il suo catalogo d’opere è formato da quasi una quarantina di lavori composti tra il 1820 e il 1856, l’ultimo essendo quel Noé lasciato incompiuto alla sua morte nel 1862 e completato dal genero Georges Bizet – Halévy era nato nel 1799 in una famiglia ebraica della Baviera trasferitasi in Francia in seguito all’emancipazione degli ebrei dopo la Rivoluzione Francese. La sua attenzione alla cultura ebraica si ritrova non solo in questo lavoro del 1835, ma anche nel successivo Le juif errant (L’ebreo errante, 1852) e nelle composizioni di musica sacra per la sinagoga. Musicista di successo, aveva suscitato l’ammirazione di Wagner malgrado fosse ebreo, ben diversamente dai sentimenti antisemiti che il compositore di Lipsia esprimerà invece nei confronti di Meyerbeer e Mendelssohn. Il libretto de La Juive era stato offerto, tra gli altri, anche a Meyerbeer, che però l’aveva rifiutato.
La Juive è il prototipo del grand opéra, genere prettamente francese caratterizzato dalla scelta di un soggetto a sfondo storico e dai forti contrasti passionali, dal taglio spettacolare delle scene, dall’utilizzo di una grande orchestra, con cori, balletti e dalla notevole durata suddivisa in quattro o cinque atti, come qui. È un genere che proprio allora si consolidava sulle scene parigine dopo il grande successo de La muette de Portici di Auber del 1828, del Guillaume Tell di Rossini (1829) e di Robert le diable di Meyerbeer (1831). Se a Venezia nel Seicento il teatro musicale aveva lasciato le corti aristocratiche per affrontare la folla pagante dei teatri pubblici, ora a Parigi con il grand opéra avveniva un’altra rivoluzione: il teatro diventava un’impresa commerciale, un prodotto di consumo di massa, con spettacoli colossali destinati a quella borghesia che poteva in tal modo ostentare il suo nuovo ruolo sociale e il suo potere d’acquisto: ecco quindi scenografie grandiose, personaggi in numero sterminato, rappresentazioni interminabili, balletti.
E ballerine, che il pubblico maschile poteva incontrare dopo lo spettacolo. Se in Italia il pubblico mangiava, beveva, giocava, amoreggiava nei palchi dei teatri della penisola, a Parigi il teatro d’opera fungeva da grand bordel e il gusto decorativo di Palais Garnier rifletterà quello delle lussuose case di piacere della capitale francese – da una di queste case uscirà la maîtresse di Robert de Saint Loup, una prostituta ebrea che Marcel Proust battezzerà Rachel-quand-du-seigneur…

Come avviene spesso nelle opere, anche La Juive si basa su un antefatto essenziale allo sviluppo della vicenda che vediamo rappresentata sulla scena: molti anni prima l’ebreo Éléazar viveva in Italia e aveva assistito alla condanna e all’esecuzione dei suoi figli come eretici da parte del conte romano de Brogni; Éléazar stesso era stato bandito e costretto a fuggire in Svizzera e nel suo viaggio aveva trovato una bambina abbandonata all’interno di una casa bruciata che si rivelò essere la casa dello stesso de Brogni: banditi vi avevano appiccato il fuoco mentre il conte si trovava a Roma. Éléazar aveva cresciuto la bambina come se fosse sua figlia, chiamandola Rachel, mentre de Brogni era diventato sacerdote e poi cardinale.
Ora siamo nel 1414 a Costanza, dove un Concilio ha riaffermato la supremazia della chiesa di Roma e ha condannato al rogo l’eretico Jan Hus, teologo e riformatore boemo e primo anticipatore della Riforma Protestante di un secolo dopo. I ricordi di quelle antiche vicende diventano vivi quando l’orefice Éléazar rischia la pena di morte per aver lavorato la domenica e solo l’intervento del cardinale de Brogni lo salva. Ma presto un altro problema mette a repentaglio la sua famiglia: la figlia Rachel si innamora del giovane Samuel, in realtà il principe Léopold, un cristiano, e la legge del tempo puniva con la morte l’unione di un’ebrea con un cristiano. Nel finale, quando una conversione potrebbe salvare la vita della ragazza, lei rifiuta e sale sul rogo. Solo ora Éléazar può rispondere alle domande di de Brogni al quale aveva confessato che Rachel è la figlia salvata dall’incendio: «Ma fille existe t-elle encore? Où donc est elle?» (Mia figlia è ancora viva? Dov’è allora?). «La voilà!» (Eccola!) esclama l’ebreo indicando le fiamme del rogo.

Titolo poco frequente nei cartelloni dei teatri, La Juive è per di più l’unica ancora rappresentata tra quelle di Halévy. La prima a Parigi il 23 febbraio 1835 avvenne all’Académie Royale de Musique (Salle Le Peletier) giusto un mese dopo I puritani di Bellini (24 gennaio, Théâtre-Italien) e di questa ha lo stesso gusto per il bel canto e la melodia. Tratti italiani si trovano a più riprese in questo suo lavoro: nella cavatina di de Brogni del primo atto, nella serenata di Léopold sempre nel primo atto, nel bolero di Eudoxie nel terzo. Il ruolo di padre avrebbe richiesto per convenzione una voce grave e Halévy aveva infatti inizialmente pensato a un basso-baritono per Éléazar, ma il tenore Adolphe Nourrit aveva insistito per interpretare il personaggio, quasi una sfida con sé stesso e col pubblico nel creare un ruolo che mettesse in evidenza il suo talento drammatico dopo essersi fatto ammirare fino a quel momento della sua carriera nelle acrobazie vocali delle opere di Rossini (di cui fu, tra l’altro, l’Arnold del Guillaume Tell) e Meyerbeer (Robert le diable, mentre Les Huguenots sarà il suo più grande ma anche ultimo successo). Occorre quindi un cantante che alla sicura tecnica vocale assommi una forte personalità drammatica e John Osborn, debuttante nel ruolo, si dimostra pienamente in possesso di queste qualità. Il suo Éléazar non ha solo lo stile, l’eleganza e il magistrale fraseggio che gli sono sempre stati riconosciuti: il tenore americano delinea magistralmente un personaggio che ha la complessità dello Shylock scespiriano allorché è combattuto tra il desiderio di vendetta nei confronti del conte de Brogni, che gli ha sterminato la famiglia, e l’amore per Rachel, la figlia, peraltro non sua.

La Juive è nota soprattutto per una sola aria, quella del quarto atto «Rachel, quand du Seigneur | la grâce tutélaire | à mes tremblantes mains confia ton berceau», il primo successo discografico mondiale quando Enrico Caruso la incide nel 1920. Nourrit aveva chiesto al librettista Scribe che le parole avessero una precisa sequenza vocalica per esaltare le sue qualità e il risultato fu un’aria che conteneva anche un lontano richiamo a una struggente melodia ebraica cantata in sinagoga. La pagina dà la possibilità ad Osborn di esprimere al meglio le sue potenzialità nei lancinanti contrasti suggeriti dalle parole, dove berceau (culla) rima con bourreau (patibolo). In quest’aria si può ammirare anche la raffinatezza orchestrale esibita da Halévy, con i due corni inglesi sul tappeto di pizzicati degli archi con cui inizia. Ma l’aria stessa fa parte di una lunga e complessa sequenza, con coro fuori scena, che dimostra il talento teatrale del compositore e la sicura presenza scenica dell’interprete. La performance di Osborn conferma ancora una volta l’idea che l’opera si sarebbe dovuta più opportunamente intitolare Le Juif, data l’importanza del personaggio.
Tenore è anche uno dei due antagonisti di Éléazar – il terzo essendo de Brogni, un basso – : Ioan Hotea è un giovane rumeno dal generoso strumento vocale caratterizzato da un bellissimo timbro e da acuti luminosi anche se un po’ tirati. Nei panni ingrati del principe Léopold che si spaccia per l’ebreo Samuel per frequentare la casa di Éléazar e della figlia Rachel, il personaggio non diventa più simpatico – alla fine si salva perché lui è ricco e nobile – ma è reso con una sicura tecnica vocale che convince il pubblico. Il quale pubblico non può che ammirare l’eccellenza del cast qui impiegato, con il basso russo Dmitrij Ul’ianov, autorevole de Brogni, spesso lasciato solo dall’orchestra con le sue frasi nel registro più grave magnificamente rese con grande sostegno di fiato, o con il baritono Leon Košavić, giovane cantante croato impegnato con sicurezza e felice presenza scenica nelle parti di Ruggiero, Albert e del boia.

Per le due interpreti femminili era stato annunciato prima dello spettacolo che non erano perfettamente in forma, entrambe per motivi di salute, ma sinceramente è stato difficile trovare dei punti deboli nelle performance delle due cantanti che si sono equamente divise i calorosi applausi. Ruzan Mantashyan era già stata ammirata come Nataša nel Guerra e pace di Prokof’ev qui a Ginevra l’anno scorso e anche ora come Rachel il soprano armeno riesce a delineare con sensibilità un personaggio continuamente combattuto tra slanci amorosi, disperazione e pensieri di morte. Anche se Rachel non ha una vera e propria aria tutta per sé – l’unico momento in cui è da sola c’è il coro a punteggiare le sue frasi – pur trattandosi di duetti con Samuel/Léopold o il padre o la principessa, la Mantashyan riesce ad emergere con grande personalità. E grande personalità è anche quella di Elena Tsallagova, che rende vivido il personaggio altrimenti superficiale della principessa Eudoxie, quella a cui Halévy affida le agilità vocali più belcantistiche che il soprano russo affronta e risolve con sorprendente facilità e rende empatico un personaggio che sulla carta certo non lo è.
Sul podio dell’Orchestre de la Suisse Romande Marc Minkowski porta la sua esperienza nel repertorio francese per fornire una Juive musicalmente meno grand opéra di quello che il pubblico si aspettava, e qualcuno è rimasto deluso – soprattutto per la regia: dove erano i seicento figuranti e i venti cavalli della prima parigina? Minkowski ha privilegiato la trasparenza della scrittura orchestrale e sottolineato con ironia i momenti un po’ klezmer di una musica che in tutta questa tragicità ha oasi di vivacità quasi offenbachiana: «Des ducats, des ducats, des florins, | quel plaisir de tromper ces chrétiens» canta allegro Éléazar dopo aver venduto per trenta mila ducati una catena d’oro con annessa reliquia alla principessa. Minkowski ben conosce il genere avendolo frequentato spesso e con ammirevoli risultati.
La sterminata partitura è stata opportunamente ridotta alle capacità di ascolto del pubblico di oggi, comunque tre ore piene di musica, eliminando i balletti, le pantomime e alcune pagine poco significative, ma mantenendo l’integrità di quelle rimaste. La sua scelta è stata vincente: hanno così avuto maggior risalto i momenti teatralmente più drammatici e più spettacolari che la regia di David Alden ha enfatizzato mettendo in scena i soprusi di una religione sull’altra. Ad apertura di sipario vediamo infatti gli ebrei aggirarsi timorosi sotto la minaccia dei manganelli di lugubri figuri mentre il coro dei cristiani canta le lodi del suo signore da una chiesa connotata da un enorme organo. Sempre con le Bibbie in mano i borghesi minacciano gli ebrei che vengono umiliati – il carro del Cardinale e poi quello dell’Imperatore non sono trainati da cavalli ma da un ebreo scalzo – e soggetti a soprusi e leggi assurde. La retata degli ebrei con le loro misere valigie ricorda altre tremende immagini del secolo scorso e il rogo del finale è un corridoio in lamiera ondulata che conduce a dei forni di cui vediamo il bagliore. Il costumista Jon Morrell veste i cristiani in abiti ottocenteschi, quelli dell’epoca della composizione, mentre per gli ebrei opta per il periodo tra le due guerre. I tratti facciali grottescamente caricaturali dei borghesi di Costanza e le luci radenti e le ombre di D.M. Wood danno un taglio espressionista all’aspetto visivo assieme alle efficaci scenografie di Gideon Davey. Oltre che con i singoli interpreti, Alden dimostra di muovere con sapienza le masse in scena, qui il coro del teatro diretto ottimamente da Alan Woodbridge.
Il risultato è uno spettacolo coerente ma che non ha pienamente convinto il pubblico ginevrino, in verità non accorso in massa nel suo teatro che è rimasto con molti posti vuoti. Il discredito di cui soffre il grand opéra non è stato del tutto cancellato, ma probabilmente per motivi opposti: il pubblico si aspettava forse qualcosa di più grandioso. Avrà comunque una ulteriore possibilità l’anno prossimo, quando il cartellone prevederà un altro titolo del genere, al momento ancora top secret.

⸪