Eugène Scribe

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Düsseldorf, Opernhaus, 15 marzo 2023

★★★★☆

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Bellini in purple

Ecco uno spettacolo che non sarebbe possibile presentare in un teatro italiano. Non per la drammaturgia di Anna Melcher che rende intrigante la tenue vicenda dalle innumerevoli fonti letterarie – il vaudeville La Somnambule (1819) di Eugène Scribe e Germain Delavigne; la commedia-vaudeville La Villageoise somnambule ou Les deux fiancés (1827) di Armand d’Artois e Henri Daupin; il balletto-pantomima La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur (1827) di Scribe e Jean-Pierre Aumer – ma perché nella scenografia e in gran parte dei costumi di questa produzione della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf il tono dominante è il viola, tinta che sui nostri palcoscenici è bandita in quanto considerata in potere di portare sfortuna – e solo perché era il colore della Quaresima, periodo in cui in passato i teatri italiani dovevano rimanere chiusi.

In area tedesca tali fisime non hanno peso ed ecco quindi che il regista Johannes Erath e lo scenografo Berhardt Hammer riempiono il palcoscenico di divani e abiti viola. I costumi moderni suggeriscono una certa contemporaneità, ma particolari tirolesi come i Lederhosen confermano l’ambiente alpino. La scena è divisa orizzontalmente in due parti: in basso si svolge l’azione dell’opera vera e propria con un tavolo per il ricevimento nuziale perennemente presente in scena e attorniato da elementi imbottiti viola che fungono da divani; in alto si svolgono scene oniriche con una ballerina vestita dell’altrettanto onnipresente abito da sposa bianco e video di paesaggi invernali. Il coro svolge un ruolo centrale, perché formula le aspettative della società e si intreccia strettamente con i numeri musicali dei protagonisti: in un ambiente così chiuso come quello di un villaggio alpino sperduto tra le montagne, l’opinione degli altri esseri umani è importante e il controllo sociale asfissiante. Anche nella regia di Erath non possono mancare i doppi dei personaggi, ma qui almeno sono più accettabili e la semplice psicologia di Amina, Elvino & Co. acquista uno spessore maggiore nella lettura del 48enne regista tedesco ex violinista ed assistente di Graham Vick.

Rimpiazzo all’ultimo momento della titolare indisposta, Stacey Alleaume stupisce per l’agio con cui affronta il ruolo di Amina, dove le agilità sono importanti quanto la sensibilità, ma il soprano coloratura australiano supera pienamente la prova con acuti che raggiungono il do sopracuto e una presenza scenica efficace. Meno sorprendente la bella performance di Edgardo Rocha in una parte, quella di Elvino, che richiede una voce spinta verso il registro alto che il tenore uruguayano raggiunge con l’eleganza e lo stile che gli vengono riconosciuti da tempo. Una sorpresa invece per il Conte Rodolfo di Bogdan Taloș, basso rumeno di bel timbro, grande proiezione, rapinoso fraseggio e bella presenza scenica. Una Lisa particolarmente pungente è quella di Heidi Elisabeth Meier, precisa nelle agilità e buona attrice. Antonino Fogliani dirige l’orchestra dei Düsseldorfer Symphoniker con tempi e volumi sonori adeguati e accompagna con intelligenza i cantanti.

Uno spettacolo che meriterebbe fosse portato in Italia. Ma quel viola…

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La tempesta

 

Fromental Halévy, La tempesta

Wexford, National Opera House, 3 novembre 2022

★★★☆☆

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Non tutte le trouvailles si rivelano dei tesori nascosti

Talora quello che si riscopre ha un indubbio interesse per capire i gusti di un’epoca o arricchire la conoscenza di un compositore, ma niente più.

È questo il caso de La tempesta, opera che Fromental Halévy scrisse 15 anni dopo La Juive e che, terminata la prima serie di rappresentazioni nel giugno 1850, non fu mai più riproposta. Questa ripresa al festival di Wexford si può considerare la prima esecuzione nella stesura originale poiché a Londra la musica prevista per Ariele fu sostituita da ballabili così da permettere a Carlotta Grisi di esibire le sue qualità di danzatrice nella parte dello spirito dell’aria.

Trentesima delle quaranta opere composte da Fromental Halévy, La tempesta è su libretto di Eugène Scribe, libero adattamento dall’omonimo lavoro di Shakespeare, tradotto in italiano da Pietro Giannone. In sintesi, «due francesi riscrivono un’opera inglese del XVI secolo come un’opera italiana per un pubblico inglese» (Christopher Hendley, “Fromental Halévy’s La Tempesta: a study in the negotiation of cultural differences”). I giornali dell’epoca spiegarono il successo dell’operazione come il risultato di un adattamento del compositore alle aspettative del pubblico operistico di Londra e all’eccellenza del cast, che comprendeva il basso Luigi Lablache come Calibano, il baritono Filippo Coletti come Prospero e appunto Carlotta Grisi come Ariele. Mentre nel lavoro di Shakespeare l’unico personaggio femminile della vicenda è Miranda, nel libretto di Scribe ce ne sono altri due: Ariele e Sicorace, la madre di Calibano che nell’originale è appena morta. Per adeguarsi al modello operistico ottocentesco, ecco quindi tre diversi ruoli femminili nettamente contrastanti per carattere e registro vocale: due soprani (Miranda e Ariele) e un mezzosoprano (Sicorace).

Inizialmente Scribe segue in gran parte l’essenziale della trama di Shakespeare: dopo la tempesta evocata da Ariele, che fa naufragare gli usurpatori napoletani, Prospero parla a Miranda dell’isola – anche se tralascia gran parte della storia del suo ducato – e chiarisce al pubblico che sta tramando affinché sua figlia sposi il figlio di Alonso, Fernando, per riconquistare il suo ducato. Durante il lungo materiale espositivo, Calibano viene messo a servizio trasportando tronchi (in questa produzione mattoni). A questo punto, l’opera prende una brusca sterzata da Shakespeare: la madre di Calibano, a cui Prospero ha rubato l’isola, è viva e vegeta e la prigionia in una roccia non impedisce la sua stregoneria perché riesce a far avere al figlio alcuni petali magici che concedono tre desideri al loro possessore – un utile tropo operistico – incaricandolo di usare le sue richieste per aiutarla a fuggire dalla prigionia, liberarsi dalla schiavitù e riconquistare l’isola. Ma Calibano invece non l’ascolta, ammalia il folletto e lo imprigiona in un albero e sfrutta un altro desiderio per perseguire la sua passione per Miranda. Scribe fa del tentativo di stupro della figlia di Prospero da parte del selvaggio, che è parte del retroscena in Shakespeare, il fulcro della trama.

Segue un assemblaggio di scene piuttosto scollegate tra loro. Stefano fa ubriacare Calibano con il rum, un’ottima occasione per un brindisi e un coro, mentre una furiosa Sicorace interviene di nuovo convincendo Miranda che Fernando è un falso amante e che lei deve ucciderlo, altrimenti la vita di suo padre sarà in pericolo. Ma, mentre Miranda sta per conficcare il pugnale nel petto di Fernando addormentato, lui pronuncia il suo nome e lei esita. Prospero appare davanti ai napoletani e racconta che la morte di Fernando è dovuta alla loro avidità e al loro tradimento. La loro angoscia è il compimento della sua vendetta. Alla fine comunque, si ottiene una rapida riconciliazione di tutte le parti.

Non c’è quindi alcun accenno a un contesto coloniale; non c’è l’idealismo utopico di Gonzalo; non ci si interroga sui difetti, le motivazioni e il controllo oppressivo di Prospero su coloro che vivono sull’isola; non ci sono trame parallele di usurpazione e non c’è quasi nessuna magia, solo la stregoneria di Sicorace. Si tratta di un libretto monodimensionale con al centro la passione e la ferocia di Calibano piuttosto che il desiderio di vendetta di Prospero. I personaggi non hanno rilievo e a volte manca la chiarezza nello svolgersi delle scene.

Ci vorrebbe dunque un regista che desse un senso a tutto questo con una forte coesione drammatica, invece Roberto Catalano opta per l’astrazione e una totale assenza di ambiguità morale con un design in bianco e nero – il bene e il male – senza sfumature, sia nei costumi di Ilaria Ariemme sia nella scenografia di Emanuele Sinisi che costruisce una facciata con uno squarcio che i mattoni portati in scena e l’impastatrice dovrebbero chiudere, ma ciò non avviene. Libri, specchi, lanterne, letti, barchette di carta hanno una presenza più simbolica che drammaturgica e la parola NOSTALGIA incisa sulla facciata non si capisce a che cosa si riferisca.

Musicalmente La tempesta sembra quasi una parodia dell’opera italiana, con arie, cabalette, gorgheggi, concertati e strette totalmente avulse da una convincente drammaturgia. Un Donizetti formato export che è quello che il pubblico dello Haymarket voleva sentire e che alle nostre orecchie risulta puttosto falso, nonostante l’appassionata concertazione di Francesco Cilluffo che della riproposizione di titoli desueti ha fatto la sua missione. Dopo un inizio di singolare colore cupo che prometterebbe bene, la partitura vira verso stilemi e forme che risultano già in ritardo con l’opera italiana e non – il 1850 è l’anno del Lohengrin, Donizetti aveva terminato la sua carriera da sette anni, Verdi un anno dopo col Rigoletto scriverà un’opera in anticipo sui suoi tempi e Meyerbeer l’anno prima con Le prophète consolidava il modello grand-opéra.

Nel cast si fanno notare il Calibano del basso georgiano Giorgi Manoshvili, uscito dalla Accademia Rossiniana di Pesaro, l’Ariele del soprano irlandese Jade Phoenix e il Prospero del baritono russo Nikolaij Zemlianskikh. Il soprano israeliano Hila Baggio ha voce un po’ stridula ma sicura tecnica e agilità ferme anche se è poco convincente come Miranda. Di Giulio Pelligra (Fernando) viene annunciato che canterà nonostante la non perfetta disposizione fisica, e infatti si sente. Singolare il ruolo di Sicorace: la voce della cantante Emma Jüngling proviene da due altoparlanti che scendono un po’ minacciosamente dall’alto. Qualche piccolo sbandamento nel coro non ne pregiudica il rendimento, che risulta vivace e pronto.

Essendo lo spettacolo coprodotto con il teatro Coccia ci sarà la possibilità di vederlo a Novara in futuro.

Le Comte Ory

Gioachino Rossini, Le Comte Ory

★★☆☆☆

Pesaro, Arena Vitrifrigo, 9 agosto 2022

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Al ROF un Comte Ory goliardico

Guardando la produzione de Le Comte Ory al Rossini Opera Festival di quest’anno mi è venuto in mente quanto scriveva Alberto Zedda: «Eugène Scribe, il più esperto e stimato librettista francese del momento, e Charles Gaspard Delestre-Poirson, che si erano accollati l’incombenza di provvedere a Rossini il testo della nuova opera, dovettero riempire con nuovi versi un mosaico di schema metrici obbligati, corrispondenti alle pagine trasposte dal Viaggio a Reims (1). Queste pagine dovettero poi venir collegate a quelle di nuova composizione da un tessuto connettivo che conferisse capo e coda al nuovo testo, per arrivare a dar senso coerente al racconto. La saldatura fra le parti recuperate dal Viaggio a Reims e le nuove composte da Rossini è risultata talmente felice che è impossibile accertare dove la sutura ha avuto luogo senza preventivamente conoscere il contenuto di entrambe le opere. Un’ulteriore difficoltà riguardante le parti riutilizzate, per lo più risolta brillantemente, è sorta dalla diversa accentuazione delle parole nella lingua italiana (Viaggio a Reims) e francese (Le Comte Ory), condizionante la scansione metrica del verso». Un esempio lampante è l’aria di Don Profondo nel Viaggio, «Medaglie incomparabili», una lunga lista di oggetti che nell’Ory diventa «Dans ce lieu solitaire» di Raimbaud che racconta con dovizia di dettagli il suo avventurarsi nei locali del castello di Fourmoutier («Je sors de l’oratoire | et j’entre au réfectoire») fino ad arrivare alla cantina «Près des vins de Touraine | je vois ceux d’Aquitaine […] Là je vois l’Allemagne; | ici, brille l’Espagne ; | là, frémit le Champagne» punteggiato dai pertichini del coro. Se uno non conoscesse l’originale giurerebbe che mai nessuna musica è più adatta di questa ad accompagnare il testo.

Poi Zedda continua «Sembrerebbe incredibile che al direttore d’orchestra, al regista, al cantante, all’ascoltatore tenuti a confrontarsi con una di queste due opere mai avvenga di andare col pensiero all’altra, di mescolare suggestioni parallele o di confondere i diversi significati della rappresentazione. Si aggiunga che per molti commentatori il cambio di collocazione ha comportato una vera e propria mutazione d’identità, una sostanziale trasformazione idiomatica, tanto da ravvisare nel Comte Ory una vena d’ispirazione autenticamente francese, non avvertibile ne Il viaggio a Reims. Cambia radicalmente anche la cifra stilistica: nel Viaggio a Reims Rossini ripropone la mescolanza di buffo e di serio già sperimentata nel Barbiere e nella Cenerentola; ne Le Comte Ory ritorna alla comicità assoluta delle farse e dell’Italiana in Algeri, il modo di esprimersi che ha consentito al giovane Rossini di liberare l’immenso potenziale della sua arte, spinta a un astrattismo sganciato da ogni prudenza». Ma questa vena «autenticamente francese» non è molto ravvisabile né nella concertazione di Diego Matheuz né nella messa in scena di Hugo de Ana. «Il melomane francese non ama la farsa, alla quale preferisce l’intelligente snodarsi della commedia di carattere. […] Superata la banalità del primo livello, l’Ory si rivela una feroce satira di costume, esercitata attraverso la scandalosa esaltazione di una licenziosità spinta oltre ogni limite. Il gioco viene condotto non su quello che avviene in scena, ma su ciò che si immagina accadere e che non accadrà mai. Il meccanismo illusorio del travestimento non riguarda tonache, barbe finte, appuntamenti improbabili: si indirizza all’inconscio, destando desideri che si vorrebbero reali, sicché la vera natura dei comportamenti e i moventi che li determinano sono altro da ciò che si vede sul palcoscenico. Il travestimento diviene strumento di ambiguità e, col pretesto di divertire, cela l’azione ribalda sotto l’apparenza del gioco e arriva a smentire la realtà prefigurando atti che non verranno mai compiuti, ma che la potenza evocativa della musica rende veri nell’immaginario dell’ascoltatore. Il fugace alternarsi di apparenza e realtà, realtà e fantasticheria, fantasticheria e sogno, induce un’atmosfera di raffinato erotismo e accende attese inconfessabili».

E invece, la regia di de Ana si muove in direzione esattamente opposta: all’inizio sembra voglia rifare il Dario Fo di vent’anni fa, poi si capisce che punta invece al cinema di Alvaro Vitali degli anni ’80 con un umorismo greve, una comicità sempre sopra le righe in cui tutto è esplicito, con travestimenti grotteschi e atteggiamenti politically incorrect in un’atmosfera goliardica oltre ogni limite del buon gusto. Sbilenchi ma ben riconoscibili sono i pannelli del Trittico del Giardino delle Delizie di Jeronymus Bosch che, chissà perché – né l’epoca né lo spirito sembrano avvicinare il capolavoro del maestro fiammingo al lavoro di Rossini – sono lo sfondo visivo al bailamme di una scena perennemente ingombra di coristi, figuranti, mimi, ballerine, oggetti in un horror vacui che non risparmia neppure i personaggi del quadro di Bosch realizzati in tre dimensioni e tristi come i mascheroni delle sfilate di carnevale. Gli sgargianti costumi esageratamente kitsch rimandano agli anni ’60 – sì, ancora e sempre quelli! Non tutte ben azzeccate le dissacranti ironie sulla religiosità, abbastanza inutile la parodia dell’ultima cena, più divertente quella dei crociati rappresentati in mutande, un imbuto in testa e cerchioni delle auto come scudi. Risolta male invece la scena del terzetto al buio, qui un partouze a tre tra l’acrobatico e il ridicolo che non ha reso per nulla la magica atmosfera della pagina.

Degli interpreti in scena alcuni sembrano divertirsi particolarmente, come il direttore artistico del festival Juan Diego Flórez qui assatanato eremita travestito da Mosè e poi scatenata soeur Colette. Dopo un quarto di secolo di frequentazione del ruolo, che rende vocalmente in maniera mirabile, senza alcun segno di stanchezza nelle agilità, negli acuti, nell’espressività, il tenore peruviano si sente in dovere di spingere l’acceleratore della comicità trascurando gli aspetti scuri se non demoniaci del personaggio. Maggior eleganza in scena dimostrano la contessa Adèle di Julie Fuschs e l’Isolier di Maria Kataeva, entrambe con vocalità sicura, ottimo fraseggio e, loro sì, con il giusto esprit francese. Fanno il loro dovere anche Andrzej Filonczyk (Raimbaud) e Nahuel di Pierro (Gouverneur) e Monica Bacelli (Ragonde).

Alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI come s’è detto Diego Matheuz non dimostra particolari raffinatezze e non utilizza la versione critica. Anche il coro del Teatro Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina sembra divertirsi un mondo, così come il pubblico.

(1) «Con l’ineffabile duetto fra Isolier e Ory, anch’esso di nuova composizione, scatta la magia di specchi moltiplicati all’infinito: al travestimento vestuario si aggiunge quello psicologico dei doppi e tripli sensi che invitano all’ebbrezza di una sapida ambiguità. […] La Comtesse, per confidare affanni e invocare la pace dei sensi, si appropria dell’aria con la quale nel Viaggio a Reims Folleville smaniava la sua disperazione per lo smarrimento di un cappello alla moda. La polivalenza di significati diventa iperbolica quando la musica esplode frenetica per festeggiare l’inattesa ricomparsa del cappello: nella nuova collocazione la musica accompagna l’invito dell’eremita a fidarsi ciecamente dei suoi suggerimenti abbandonandosi all’ebbrezza dell’amore. […] La tresca viene interrotta dall’inopinata ricomparsa del Gouverneur che, ignaro di rompere le uova nel paniere, rivela la vera identità dell’eremita provocandone l’ira furibonda. La trovata, drammaturgicamente strampalata, si giustifica con la necessità di riportare in scena tutti i personaggi e il coro per il canonico Finale Primo, che vede qui riciclato il Gran Pezzo Concertato del Viaggio a Reims, opportunamente adattato. Al posto della lettera con l’invito a partecipare ai festeggiamenti parigini arriva l’annuncio che la crociata che ha allontanato mariti e amanti è terminata, e dunque gli uomini stanno per tornare. Quanti tabú irrisi da Rossini, e quanta ipocrisia nella divertita condiscendenza di un pubblico che vede infangate le immagini della virtù! Nell’incantevole duetto fra Ragonde e Adele, di nuova composizione, che apre il secondo atto, le due donne commentano, con insincera preoccupazione, lo scampato incontro col diabolico Comte Ory. Nuovo anche il temporale che darà pretesto a un gruppo di pellegrine (Ory e i suoi accoliti travestiti da suore) di chiedere asilo e conforto per sottrarsi alla caccia di Ory, l’infame libertino che le sta perseguendo. Ricevuto nel castello in veste di madre superiora, Ory incontra privatamente la Comtesse e si profonde in ringraziamenti debordanti che non lasciano dubbi d’interpretazione. La musica, infatti, è la stessa che nel Viaggio a Reims sottolinea le focose profferte d’amore del Cavalier Belfiore per la riluttante Corinna. La resistenza della contessa Adele è debole e incerta e la faccenda prenderebbe una brutta piega se i compagni pellegrini non si affacciassero inopinatamente, guidati dal solito Gouverneur rompiscapole, per sollecitare cibo e assistenza. Rossini aggiunge qui una musica di dirompente energia per accompagnare una festicciola con cena frugale offerta dalle amiche della castellana, fortunosamente ravvivata da un buon numero di bottiglie recuperate da Raimbaud, occasione per riciclare un’altra splendida pagina del Viaggio a Reims, l’irresistibile scioglilingua di Don Profondo “Medaglie incomparabili”. La festa è interrotta dalla Comtesse che viene ad augurare la buona notte; giunge il paggio Isolier a rivelarle che il gruppo di pellegrine a cui ha dato ospitalità è una banda di scavezzacolli guidata dallo stesso Ory; per rincuorarla la informa che il fratello Crociato è in procinto di ritornare al castello. Adele ignora l’avvertimento e consente a un Ory che si finge impaurito di entrare nella sua camera e di sedersi sul letto accanto a lei. Nell’oscurità si immaginano atti che le melliflue parole pronunziate propiziano, e che si complicano quando sullo stesso letto si aggiunge Isolier, sopravvenuto per proteggere Adele. Per questo evanescente terzetto, (una donna e due uomini? Due donne e un uomo? Chi ama e chi brama? Chi ride e chi piange?) Rossini compone la musica piú bella uscita dalla sua mente: come il Mozart di Cosí fan tutte avvolge i torbidi moti del desiderio in atmosfere celestiali, mescolando, con la suprema perversione dell’innocenza, delizie paradisiache e morbose turpitudini sospese fra sonno e veglia, fra sogno e realtà. Si librano supremi stordimenti, bruscamente interrotti da una marcetta plebea che scioglie l’incantesimo con felliniana crudeltà e annuncia l’arrivo dei Crociati. La folle cavalcata nell’evasione si dissolve in poche, rapidissime battute e tutto rientra nell’ordine: la morale è salva, il pubblico può tornare a casa soddisfatto. Non è successo niente».

Les Huguenots

 

Giacomo Meyerbeer, Les Huguenots

★★★★☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 19 giugno 2011

(registrazione video)

La modernità dell’opera di Meyerbeer alla prova dei tempi

La narrazione di una vicenda intima intrecciata con quella pubblica e politica è uno specifico del dramma teatrale: lo fu per Romeo and Juliet di Shakespeare, lo è per la stragrande maggioranza dei melodrammi dell’Ottocento e del grand-opéra in particolare. Come Les Huguenots che Giacomo Meyerbeer presentò a Parigi nel 1836 con grande successo tanto che nella sola Opéra di Parigi il lavoro arriverà nel 1906 alla 1000 esima rappresentazione.

Un po’ meno frequente nel XX secolo a causa della grandiosità della scenografia, sta ora riprendendo i favori dei teatri grazie a registi che non puntano tutto sulla macchinosità della messa in scena. Come fa qui alla Monnaie Oliver Py che monta uno spettacolo inconfondibilmente “suo”: predominio dei colori scuri, elementi mobili nella scenografia di Pierre-André Weitz, costumi che mescolano la contemporaneaità e il Rinascimento, nudità e deliri religiosi. Ne risulta uno spettacolo di straordinaria potenza visiva, soprattutto in certi quadri come la benedizione dei pugnali o il finale. L’idea forte è il contrasto tra le religioni e il loro immischiarsi nella guerra: i crocefissi che diventano pugnali, il fucile sollevato in alto dal vescovo. Le guerre di religione sono un soggetto sempre attuale e così Les Huguenots hanno qualcosa da dire anche alla nostra contemporaneaità. Py e Weitz coniugano modernamente la sontuosità e la macchinosità dell’epoca con effetti di luce impressionanti che con le strutture mobili che richiamano le facciate di palazzi rinascimentali restituite con toni bronzei costruiscono ambienti diversi per ogni quadro con atmosfere diverse ma unite da una visione fantasmatica. Dopo un primo atto festaiolo, il secondo è più sensuale, con un’immensa luna che illumina la bianca figura di Marguerite. Ai limiti dell’erotismo la scena di Chenonceau con l’acqua e il bagno delle signore e il focoso incontro di Raoul con la regina. La scena del giuramento, invece, abbandona questa tranquilla bellezza per l’atmosfera più rigida di una sala vuota. La grande piazza del terzo atto è una strada a gradoni, che permette di collocare i cantanti e il coro in uno spazio molto efficace. Il quarto atto diventa più sobrio, il palcoscenico si evolve da una piccola stanza fino al grande vuoto finale dove la tela sullo sfondo sembra essere l’abisso in cui si getteranno i due giovani amanti, Raoul e Valentine. Nel quinto atto la scena dell’Hôtel de Nesle, che sembra essere già stato attaccato dai cattolici, è molto scarna. La scena della chiesa e quella finale si fondono in un quadro molto forte in cui gli ugonotti vengono schiacciati dai cattolici che li sovrastano.

La lettura di Marc Minkowski alla testa dell’orchestra de la Monnaie si basa sulla nuova edizione critica approntata da Ricordi che permette di godere di una partitura pressoché completa e ci fa scoprire pagine inedite pur con qualche rinuncia a passaggi spesso comunque trascurati nelle esecuzioni. La musica è resa in tutta la sua ricchezza senza però troppa magniloquenza, ma con una pulsazione che dà tensione a una scrittura raffinata, con peculiarità strumentali, quali gli assoli della viola d’amore o del clarinetto basso, giustamente evidenziati. Minkowsli riesce a dare vita anche alle pagine di balletto che lardellano il grand-opéra.

Tra gli interpreti della storica prima vi furono due cantanti che lasceranno un marchio nella storia del canto lirico, Adolphe Nourrit e Marie-Cornélie Falcon, rispettivamente Raoul de Nangis e Valentine. Al primo è legata una tecnica vocale che poteva sostenere tessiture acutissime e un’ampia estensione (due ottave e mezza, da sol1 a re4) grazie all’utilizzo del falsettone. Un haute-contre, dunque, ma con la cantabilità italiana che piacque tanto a Rossini che ne fece uno dei suoi interpreti preferiti. Alla seconda si deve il fatto di aver portato in scena una voce che era la variante di un soprano drammatico con estensione ai suoni acuti (fino al si4 ) e buona tenuta di quelli centrali e gravi, fino al sol2. Un modo di cantare che convinse  Wagner a scrivere tre ruoli per la tessitura centrale di un soprano come la Falcon: Ortrud nel Lohengrin, Venus nel Tannhäuser e Kundry nel Parsifal. In questa produzione Raoul è Eric Cutler, voce dal bel timbro luminoso e perfettamente a suo agio nell’impervia tessitura. La sua è una prestazione di eccellente livello appena frenata da una presenza scenica non delle più efficaci. Valentine qui è Mireille Delunsch, un ruolo particolarmente esigente sia dal punto vista vocale che drammatico e il soprano s’immerge totalmente nella parte rivelandone i lati più reconditi, più appassionati e fieri e con un registro acuto affrontato e risolto con grande sicurezza ed espressività.

Altro nome nome mitico della prima produzione fu quello del basso Nicolas Levasseur come Marcel, soldato ugonotto e servitore di Raoul, parte affidata qui a Jérôme Varnier dalla intonazione non sempre impeccabile, molto meglio il Comte de Nevers di Jean-François Lapointe. Philippe Rouillon è un autorevole Comte de Saint-Bris mentre Marlis Petersen è una magnifica Marguerite de Valois, ma la sorpresa della serata è l’Urbain di Julija Ležneva dalla presenza scintillante. Ottimi gli altri interpreti così come il coro del teatro.

La Juive

foto © Magali Dougados

Fromental Halévy, La Juive

★★★★☆

Genève, Grand Théâtre, 17 septembre 2022

 Qui la versione italiana

La Juive ouvre la saison à Genève : l’intolérance religieuse est toujours d’actualité
Le fanatisme religieux, l’intolérance à l’égard de ceux qui ont des croyances différentes : des problèmes du passé, alors qu’un juif risquait la peine de mort pour avoir travaillé le dimanche, jour de repos des chrétiens?
Rien n’est moins sûr lorsqu’on lit qu’une jeune fille dans l’Iran des ayatollahs a été arrêtée pour avoir porté le voile d’une façon inappropriée, et est morte lors de sa garde à vue : nous découvrons, une fois de plus, que les événements absurdes et violents que nous voyons représentés au théâtre sont souvent d’une atroce actualité. Le metteur en scène américain David Alden a donc raison de transposer l’histoire de La Juive du XVe siècle, comme l’a racontée Eugène Scribe et l’a mise en musique Jacques-François-Fromental-Élie Halévy, dans une époque plus proche de la nôtre. C’est ce spectacle qui ouvre la nouvelle saison lyrique du Grand Théâtre de Genève…

la suite sur premiereloge-opera.com

La Juive

foto © Magali Dougados

Fromental Halévy, La Juive

★★★★☆

Ginevra, Grand Théâtre, 17 settembre 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

La Juive inaugura la stagione di Ginevra: l’intolleranza religiosa è sempre d’attualità

Fanatismo religioso, intolleranza per chi ha un diverso credo: roba del passato, quando un ebreo rischiava la pena di morte per aver lavorato la domenica, giorno dedicato al riposo per i cristiani.

Poi però leggi che oggi una ragazza in Iran è stata massacrata per aver portato male il velo e scopri ancora una volta che le vicende assurde e violente che vediamo rappresentate in teatro sono spesso di una grottesca e tragica attualità. Ha buon gioco quindi il regista americano David Alden a trasporre in tempi più vicini a noi la vicenda del XV secolo de La Juive, raccontata da Eugène Scribe e messa in musica da Jacques-François-Fromental-Élie Halévy, spettacolo che inaugura la nuova stagione lirica del Grand Théâtre de Genève.

Autore fecondo – il suo catalogo d’opere è formato da quasi una quarantina di lavori composti tra il 1820 e il 1856, l’ultimo essendo quel Noé lasciato incompiuto alla sua morte nel 1862 e completato dal genero Georges Bizet – Halévy era nato nel 1799 in una famiglia ebraica della Baviera trasferitasi in Francia in seguito all’emancipazione degli ebrei dopo la Rivoluzione Francese. La sua attenzione alla cultura ebraica si ritrova non solo in questo lavoro del 1835, ma anche nel successivo Le juif errant (L’ebreo errante, 1852) e nelle composizioni di musica sacra per la sinagoga. Musicista di successo, aveva suscitato l’ammirazione di Wagner malgrado fosse ebreo, ben diversamente dai sentimenti antisemiti che il compositore di Lipsia esprimerà invece nei confronti di Meyerbeer e Mendelssohn. Il libretto de La Juive era stato offerto, tra gli altri, anche a Meyerbeer, che però l’aveva rifiutato.

La Juive è il prototipo del grand opéra, genere prettamente francese caratterizzato dalla scelta di un soggetto a sfondo storico e dai forti contrasti passionali, dal taglio spettacolare delle scene, dall’utilizzo di una grande orchestra, con cori, balletti e dalla notevole durata suddivisa in quattro o cinque atti, come qui. È un genere che proprio allora si consolidava sulle scene parigine dopo il grande successo de La muette de Portici di Auber del 1828, del Guillaume Tell di Rossini (1829) e di Robert le diable di Meyerbeer (1831). Se a Venezia nel Seicento il teatro musicale aveva lasciato le corti aristocratiche per affrontare la folla pagante dei teatri pubblici, ora a Parigi con il grand opéra avveniva un’altra rivoluzione: il teatro diventava un’impresa commerciale, un prodotto di consumo di massa, con spettacoli colossali destinati a quella borghesia che poteva in tal modo ostentare il suo nuovo ruolo sociale e il suo potere d’acquisto: ecco quindi scenografie grandiose, personaggi in numero sterminato, rappresentazioni interminabili, balletti.

E ballerine, che il pubblico maschile poteva incontrare dopo lo spettacolo. Se in Italia il pubblico mangiava, beveva, giocava, amoreggiava nei palchi dei teatri della penisola, a Parigi il teatro d’opera fungeva da grand bordel e il gusto decorativo di Palais Garnier rifletterà quello delle lussuose case di piacere della capitale francese – da una di queste case uscirà la maîtresse di Robert de Saint Loup, una prostituta ebrea che Marcel Proust battezzerà Rachel-quand-du-seigneur

Come avviene spesso nelle opere, anche La Juive si basa su un antefatto essenziale allo sviluppo della vicenda che vediamo rappresentata sulla scena: molti anni prima l’ebreo Éléazar viveva in Italia e aveva assistito alla condanna e all’esecuzione dei suoi figli come eretici da parte del conte romano de Brogni;  Éléazar stesso era stato bandito e costretto a fuggire in Svizzera e nel suo viaggio aveva trovato una bambina abbandonata all’interno di una casa bruciata che si rivelò essere la casa dello stesso de Brogni: banditi vi avevano appiccato il fuoco mentre il conte si trovava a Roma. Éléazar aveva cresciuto la bambina come se fosse sua figlia, chiamandola Rachel, mentre de Brogni era diventato sacerdote e poi cardinale.

Ora siamo nel 1414 a Costanza, dove un Concilio ha riaffermato la supremazia della chiesa di Roma e ha condannato al rogo l’eretico Jan Hus, teologo e riformatore boemo e primo anticipatore della Riforma Protestante di un secolo dopo. I ricordi di quelle antiche vicende diventano vivi quando l’orefice Éléazar rischia la pena di morte per aver lavorato la domenica e solo l’intervento del cardinale de Brogni lo salva. Ma presto un altro problema mette a repentaglio la sua famiglia: la figlia Rachel si innamora del giovane Samuel, in realtà il principe Léopold, un cristiano, e la legge del tempo puniva con la morte l’unione di un’ebrea con un cristiano. Nel finale, quando una conversione potrebbe salvare la vita della ragazza, lei rifiuta e sale sul rogo. Solo ora Éléazar può rispondere alle domande di de Brogni al quale aveva confessato che Rachel è la figlia salvata dall’incendio: «Ma fille existe t-elle encore? Où donc est elle?» (Mia figlia è ancora viva? Dov’è allora?). «La voilà!» (Eccola!) esclama l’ebreo indicando le fiamme del rogo.

Titolo poco frequente nei cartelloni dei teatri, La Juive è per di più l’unica ancora rappresentata tra quelle di Halévy. La prima a Parigi il 23 febbraio 1835 avvenne all’Académie Royale de Musique (Salle Le Peletier) giusto un mese dopo I puritani di Bellini (24 gennaio, Théâtre-Italien) e di questa ha lo stesso gusto per il bel canto e la melodia. Tratti italiani si trovano a più riprese in questo suo lavoro: nella cavatina di de Brogni del primo atto, nella serenata di Léopold sempre nel primo atto, nel bolero di Eudoxie nel terzo. Il ruolo di padre avrebbe richiesto per convenzione una voce grave e Halévy aveva infatti inizialmente pensato a un basso-baritono per Éléazar, ma il tenore Adolphe Nourrit aveva insistito per interpretare il personaggio, quasi una sfida con sé stesso e col pubblico nel creare un ruolo che mettesse in evidenza il suo talento drammatico dopo essersi fatto ammirare fino a quel momento della sua carriera nelle acrobazie vocali delle opere di Rossini (di cui fu, tra l’altro, l’Arnold del Guillaume Tell) e Meyerbeer (Robert le diable, mentre Les Huguenots sarà il suo più grande ma anche ultimo successo). Occorre quindi un cantante che alla sicura tecnica vocale assommi una forte personalità drammatica e John Osborn, debuttante nel ruolo, si dimostra pienamente in possesso di queste qualità. Il suo Éléazar non ha solo lo stile, l’eleganza e il magistrale fraseggio che gli sono sempre stati riconosciuti: il tenore americano delinea magistralmente un personaggio che ha la complessità dello Shylock scespiriano allorché è combattuto tra il desiderio di vendetta nei confronti del conte de Brogni, che gli ha sterminato la famiglia, e l’amore per Rachel, la figlia, peraltro non sua.

La Juive è nota soprattutto per una sola aria, quella del quarto atto «Rachel, quand du Seigneur | la grâce tutélaire | à mes tremblantes mains confia ton berceau», il primo successo discografico mondiale quando Enrico Caruso la incide nel 1920. Nourrit aveva chiesto al librettista Scribe che le parole avessero una precisa sequenza vocalica per esaltare le sue qualità e il risultato fu un’aria che conteneva anche un lontano richiamo a una struggente melodia ebraica cantata in sinagoga. La pagina dà la possibilità ad Osborn di esprimere al meglio le sue potenzialità nei lancinanti contrasti suggeriti dalle parole, dove berceau (culla) rima con bourreau (patibolo). In quest’aria si può ammirare anche la raffinatezza orchestrale esibita da Halévy, con i due corni inglesi sul tappeto di pizzicati degli archi con cui inizia. Ma l’aria stessa fa parte di una lunga e complessa sequenza, con coro fuori scena, che dimostra il talento teatrale del compositore e la sicura presenza scenica dell’interprete. La performance di Osborn conferma ancora una volta l’idea che l’opera si sarebbe dovuta più opportunamente intitolare Le Juif, data l’importanza del personaggio.

Tenore è anche uno dei due antagonisti di Éléazar – il terzo essendo de Brogni, un basso – : Ioan Hotea è un giovane rumeno dal generoso strumento vocale caratterizzato da un bellissimo timbro e da acuti luminosi anche se un po’ tirati. Nei panni ingrati del principe Léopold che si spaccia per l’ebreo Samuel per frequentare la casa di Éléazar e della figlia Rachel, il personaggio non diventa più simpatico – alla fine si salva perché lui è ricco e nobile – ma è reso con una sicura tecnica vocale che convince il pubblico. Il quale pubblico non può che ammirare l’eccellenza del cast qui impiegato, con il basso russo Dmitrij Ul’ianov, autorevole de Brogni, spesso lasciato solo dall’orchestra con le sue frasi nel registro più grave magnificamente rese con grande sostegno di fiato, o con il baritono Leon Košavić, giovane cantante croato impegnato con sicurezza e felice presenza scenica nelle parti di Ruggiero, Albert e del boia.

Per le due interpreti femminili era stato annunciato prima dello spettacolo che non erano perfettamente in forma, entrambe per motivi di salute, ma sinceramente è stato difficile trovare dei punti deboli nelle performance delle due cantanti che si sono equamente divise i calorosi applausi. Ruzan Mantashyan era già stata ammirata come Nataša nel Guerra e pace di Prokof’ev qui a Ginevra l’anno scorso e anche ora come Rachel il soprano armeno riesce a delineare con sensibilità un personaggio continuamente combattuto tra slanci amorosi, disperazione e pensieri di morte. Anche se Rachel non ha una vera e propria aria tutta per sé – l’unico momento in cui è da sola c’è il coro a punteggiare le sue frasi – pur trattandosi di duetti con Samuel/Léopold o il padre o la principessa, la Mantashyan riesce ad emergere con grande personalità. E grande personalità è anche quella di Elena Tsallagova, che rende vivido il personaggio altrimenti superficiale della principessa Eudoxie, quella a cui Halévy affida le agilità vocali più belcantistiche che il soprano russo affronta e risolve con sorprendente facilità e rende empatico un personaggio che sulla carta certo non lo è.

Sul podio dell’Orchestre de la Suisse Romande Marc Minkowski porta la sua esperienza nel repertorio francese per fornire una Juive musicalmente meno grand opéra di quello che il pubblico si aspettava, e qualcuno è rimasto deluso – soprattutto per la regia: dove erano i seicento figuranti e i venti cavalli della prima parigina? Minkowski ha privilegiato la trasparenza della scrittura orchestrale e sottolineato con ironia i momenti un po’ klezmer di una musica che in tutta questa tragicità ha oasi di vivacità quasi offenbachiana: «Des ducats, des ducats, des florins, | quel plaisir de tromper ces chrétiens» canta allegro Éléazar dopo aver venduto per trenta mila ducati una catena d’oro con annessa reliquia alla principessa. Minkowski ben conosce il genere avendolo frequentato spesso e con ammirevoli risultati.

La sterminata partitura è stata opportunamente ridotta alle capacità di ascolto del pubblico di oggi, comunque tre ore piene di musica, eliminando i balletti, le pantomime e alcune pagine poco significative, ma mantenendo l’integrità di quelle rimaste. La sua scelta è stata vincente: hanno così avuto maggior risalto i momenti teatralmente più drammatici e più spettacolari che la regia di David Alden ha enfatizzato mettendo in scena i soprusi di una religione sull’altra. Ad apertura di sipario vediamo infatti gli ebrei aggirarsi timorosi sotto la minaccia dei manganelli di lugubri figuri mentre il coro dei cristiani canta le lodi del suo signore da una chiesa connotata da un enorme organo. Sempre con le Bibbie in mano i borghesi minacciano gli ebrei che vengono umiliati – il carro del Cardinale e poi quello dell’Imperatore non sono trainati da cavalli ma da un ebreo scalzo – e soggetti a soprusi e leggi assurde. La retata degli ebrei con le loro misere valigie ricorda altre tremende immagini del secolo scorso e il rogo del finale è un corridoio in lamiera ondulata che conduce a dei forni di cui vediamo il bagliore. Il costumista Jon Morrell veste i cristiani in abiti ottocenteschi, quelli dell’epoca della composizione, mentre per gli ebrei opta per il periodo tra le due guerre. I tratti facciali grottescamente caricaturali dei borghesi di Costanza e le luci radenti e le ombre di D.M. Wood danno un taglio espressionista all’aspetto visivo assieme alle efficaci scenografie di Gideon Davey. Oltre che con i singoli interpreti, Alden dimostra di muovere con sapienza le masse in scena, qui il coro del teatro diretto ottimamente da Alan Woodbridge.

Il risultato è uno spettacolo coerente ma che non ha pienamente convinto il pubblico ginevrino, in verità non accorso in massa nel suo teatro che è rimasto con molti posti vuoti. Il discredito di cui soffre il grand opéra non è stato del tutto cancellato, ma probabilmente per motivi opposti: il pubblico si aspettava forse qualcosa di più grandioso. Avrà comunque una ulteriore possibilità l’anno prossimo, quando il cartellone prevederà un altro titolo del genere, al momento ancora top secret.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

★★★☆☆

Palermo, Teatro Massimo, 20 gennaio 2022

(diretta streaming)

Siciliani al cubo i Vespri antimafia di Emma Dante

Siciliana la vicenda, siciliano il luogo di rappresentazione, siciliana la regista: Les Vêpres siciliennes inaugurano la stagione del Massimo di Palermo nel trentennale delle stragi di mafia e venticinque anni dopo la riapertura del teatro. Una forte messa in scena esalta la «beauté qu’on outrage» della città dell’ex conca d’oro: è la Palermo di oggi a fare da sfondo alle vicende che nel 1282 videro i palermitani rivoltarsi contro gli allora oppressori francesi. Oggi è la stessa città che si rivolta contro l’oppressione della mafia: Hélène porta un drappo con l’effigie di Paolo Borsellino invece del fratello e a questo si aggiungono in processione quelle dei santi laici che si sono opposti e sono caduti: Giovanni Falcone, Peppino Impastato e le tante altre vittime. L’aveva già fatto Davide Livermore nel 2011.

Durante la sinfonia una carrettata di pupi viene scaricata sul proscenio. Inerti, prendono poi vita prima che il sipario si apra sulla Fontana Pretoria (la scenografia è al solito affidata a Carmine Maringola) di cui occupano la scalinata con i loro movimenti da burattini, per poi finire agonizzanti tra i rifiuti che ne lordano la bellezza marmorea. Una ballerina sulle punte esegue il primo ballabile nel poco spazio lasciato libero da sacchi neri e oggetti abbandonati. I divertissement sono infatti distribuiti nei vari atti e ognuno è una denuncia contro la presenza e l’attività delle cosche. Dall’alto, assieme alla barca che porta Procida scendono anche le lapidi con i nomi delle strade e delle piazze che sono state il palcoscenico delle tante stragi mafiose. Immagini particolarmente forti e piene di significato qui nel capoluogo siciliano.

Ben venga che Emma Dante intrida il grand-opéra di sicilianità (o meglio palermitudine) riempiendo il palcoscenico di figure iconiche – teste in terracotta di Caltagirone, coppole, santa Rosalia, la barca “Rosalia” sospesa in aria, reti per la mattanza dei tonni che qui servono per lo sterminio degli invasori francesi alias mafiosi – e le prevedibili autocitazioni – donne che spargono acqua con i capelli, spose chiuse in sacchi neri di plastica, stuprate, tarantolate – ma manca una lettura psicologica dei personaggi e una cura attoriale degli stessi. “Particolari” i costumi di Vanessa Sannino con i siciliani in gonna e camicie di pizzo, Guy de Monfort come vestito da Versace, i guappi in tute di acrilico.

Omer Meir-Wellber, che aveva diretto l’opera a Monaco di Baviera nel 2018, attuale direttore musicale del Teatro Massimo, approccia con molto vigore la sinfonia, poi la sua direzione diventa un po’ incerta, oscillando tra il Verdi infuocato della trilogia popolare e il grand’opéra. Soprattutto accetta molti tagli, anche nei ballabili sparsi tra i vari atti e sfoltiti dell’Inverno, con l’Autunno trascritto per un trio di gusto klezmer formato da clarinetto, fisarmonica e contrabbasso, la Primavera ridotta al solo andante e anche l’Estate, eseguita nel punto previsto dalla partitura però accorciata. Il quartetto di solisti ha la sua punta più convincente nel Monfort del baritono Mattia Oliveri autorevole vocalmente e scenicamente. Anche Selene Zanetti, a parte un certo vibrato, sostiene lodevolmente e con temperamento l’impegnativa parte di Hélène. Erwin Schrott (Procida) sostituisce all’ultimo momento il basso Luca Tittoto indisposto con ottimi risultati e senza scadere nell’eccesso di gigioneria sempre in agguato con questo interprete. Deludente invece la performance del tenore Leonardo Caimi. Omogenea e di buon livello la folta schiera dei comprimari di cui ricordiamo almeno Carlotta Vichi (Ninetta), Matteo Mezzaro (Thibault) e Francesco Pittari (Danieli). Ottimo lavoro anche quello del coro diretto da Ciro Visco. Oltre ai ballerini del corpo di ballo del teatro coreografati da Manuela lo Sicco, sono in scena gli efficaci attori della Compagnia Sud Costa Occidentale.

Alcuni prevedibili dissensi sono stati coperti dai folti applausi del pubblico. Lo spettacolo è co-prodotto col Teatro San Carlo di Napoli, il Comunale di Bologna e il Real di Madrid, ma questo era il posto giusto per vederlo.

 

L’elisir d’amore

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Élixir d’amour

★★★☆☆

Bergame, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

 Qui la versione italiana

Le festival Donizetti de Bergame s’est ouvert dans une ambiance de fête, avec un Élixir d’amour très abouti musicalement, mais à la mise en scène bien terne.

Cette année, le festival Donizetti de Bergame, qui en est à sa septième édition, ne dénichera pas de joyaux cachés dans le catalogue infini de l’illustre citoyen. En effet, 2021 ne verra le bicentenaire d’aucun de ses opéras, le dernier ayant eu lieu en 2019 avec Pietro il Grande, créé à Venise en 1819. Le prochain anniversaire devrait avoir lieu l’année prochaine avec Zoraide di Granata, l’opera seria créé à Rome en janvier 1822.

C’est en tout cas une occasion de réfléchir que nous offre cette édition du festival de Bergame, en cette année de réouverture des théâtres – mais le Festival Donizetti ne s’est à vrai dire pas vraiment arrêté, même en 2020, avec trois productions jouées sans public et diffusées en direct en streaming…

la suite sur premiereloge-opera.com

L’elisir d’amore

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

A Bergamo festosa riapertura del Teatro Donizetti, malgrado la regia

Quest’anno il Festival Donizetti di Bergamo, giunto alla sua settima edizione, non porta alla luce nessuna gemma nascosta dello sterminato catalogo dell’illustre concittadino. Il 2021 non prevede infatti alcun bicentenario di una sua opera, l’ultimo era stato il 2019 con Pietro il Grande che era stato presentato a Venezia nel 1819. Il futuro appuntamento dovrebbe quindi essere l’anno prossimo con Zoraide di Granata, l’opera seria andata in scena a Roma nel gennaio 1822.

È dunque un’occasione di riflessione quella offerta dalla rassegna di Bergamo nell’anno in cui si riaprono i teatri – anche se il Festival Donizetti in verità non si è fermato neanche nel 2020, con ben tre produzioni realizzate senza pubblico e trasmesse in diretta streaming: Marino Faliero, Belisario e Le nozze in villa. Ecco dunque due capolavori assoluti della maturità del compositore quali il melodramma giocoso L’elisir d’amore del 1832 e l’opéra-comique La fille du régiment del 1840. Viene parimenti messo in scena anche un lavoro del suo maestro Simone Mayr, Medea in Corinto, melodramma tragico del 1813.

Ma il festival quest’anno ha avuto un prologo con un inedito operashow intitolato C’erano una volta due bergamaschi presentato al Teatro Sociale giovedì 18 novembre. Con la drammaturgia di Alberto Mattioli, il piacevole spettacolo ha portato in scena il grande basso Alex Esposito e gli allievi della Bottega Donizetti, sei promettenti voci che hanno avuto la fortuna di essere istruiti sull’arte vocale e scenica da Esposito stesso, Francesco Micheli, Damiano Michieletto e altri illustri protagonisti del mondo teatrale italiano. Sul palcoscenico sono state ripercorse le vite di due grandi bergamaschi, Donizetti ed Esposito appunto, accomunati dalla passione della musica, dal registro di basso della voce, dalla necessità di cercare al di fuori della loro città il compimento delle loro aspettative, dal dramma del colera per il compositore ottoentesco e da quello del Covid per il cantante di oggi. I brani musicali scelti – Donizetti of course, ma anche Offenbach, Rossini, Mozart, Boito e Berlioz – hanno permesso di mettere in luce la riconosciuta eccellenza del basso bergamasco e le qualità dei giovani interpreti. Una bella occasione per «ripensare il mestiere, i suoi trucchi ma anche la sua etica. Per fare l’opera come la vogliamo, un teatro del presente per il presente, affacciato sul futuro», come dice Francesco Micheli, infaticabile e coinvolgente direttore artistico del Festival. E su questo stesso tema si svolge il convegno di Opera Europa, intitolato quest’anno Elixir of life, che riunisce in questi stessi giorni a Bergamo gli operatori internazionali di 215 fra teatri e festival provenienti da 43 paesi.

C’erano una volta due bergamaschi, Teatro Sociale, Bergamo, 18 novembre 2018

Ma è con il vero L’elisir d’amore che inizia il festival e viene contemporaneamente inaugurato il Teatro Donizetti dopo rilevanti lavori di ristrutturazione. Prima dello spettacolo una banda che intona le musiche dell’opera attira i passanti davanti all’edificio per una rappresentazione del teatro di burattini di Daniele Cortesi, che rivedremo poi sul palcoscenico, per presentare “a grandi e piccini” le vicende di Nemorino & Co. Ed è questo coinvolgimento della città un altro dei non pochi pregi di questo festival che trasforma Bergamo in una Salzburg pedemontana pullulante di stranieri che anche quest’anno, malgrado la pandemia, costituiscono lo zoccolo duro del pubblico della manifestazione. L’aria di festa all’esterno si respira anche dentro il teatro nei nuovi locali e nella sala tirata a lucido: ai presenti vengono distribuite delle bandierine con il testo del ritornello del coro con cui l’opera riprende dopo l’intervallo e tutto il pubblico viene così coinvolto nella vicenda intonando allegramente «Cantiamo, facciam brindisi a sposi così amabili». E non se la cava neanche male, il pubblico, perché invece il coro del Donizetti Opera qualche sbandamento durante la serata lo avrà.

E una vera festa è soprattutto la musica di questo Elisir, che presenta anche pagine mai ascoltate prima, come la cabaletta di Adina che conclude la scena ottava del secondo atto dopo «Prendi; per me sei libero»: passando dal Fa al La bem la musica ma anche le parole cambiano («Ah fu con te verace, | se presti fede al cor» diventa «Ah l’eccesso del contento | non si dice con l’accento») per terminare con un’esibizione di agilità e raffica di acuti che originariamente dovevano mettere in evidenza le qualità vocali della primadonna in una delle riprese del lavoro, forse la Fanny Tacchinardi Persiani per quella parigina del 1839. Il direttore musicale Riccardo Frizza concerta l’orchestra Gli Originali su strumenti antichi senza apportare tagli alla partitura – una pratica virtuosa che non dovrebbe essere riservata soltanto ai festival quella di ripulire le esecuzioni dagli interventi spuri di una malintesa tradizione – e con un sound particolare, più “rustico”, dato anche dal diapason più basso adottato, circa un semitono sotto. Se ne avvantaggia il colore della strumentazione e la vivezza delle linee melodiche, anche se su strumenti originali l’intonazione diventa più precaria, soprattutto per quelli a fiato. Nessun problema invece per i due preziosissimi cimeli della collezione di Villa Medici Giulini utilizzati per questa esecuzione e posizionati nei due palchi di proscenio: in quello di destra un fortepiano costruito da Gaetano Scappa nel 1796, in quello di sinistra un’arpa Érard costruita su un modello del 1839. Il ricupero di una prassi esecutiva storica «può riattivare, per mezzo di una interruzione delle abitudini d’ascolto, un’attenzione nuova nei confronto dell’opera […] interrompendo il rapporto passivo che si instaura nella ripetizione sempre uguale di una tradizione interpretativa» scrive Livio Aragona sul programma di sala ed è quello che riesce magistralemente a Riccardo Frizza, che di questo repertorio è affermato interprete. La scelta dei tempi e l’equilibrio sonoro tra buca dell’orchestra e palcoscenico sono perfetti e se ne avvantaggiano i cantanti, tutti di grande livello. Javier Camarena fornisce un’interpretazione senza pecche dove fraseggio e mezze voci sono espressi per ben delineare il personaggio di Nemorino, malgrado il ruolo da scemo del villaggio che gli viene imposto dal regista, il quale carica di inutili gag – goliardiche quelle del duetto con Adina nel primo atto – la sua recitazione. Elegantemente stilizzato è il Belcore di Florian Sempey dove si ammirano la sicura vocalità e la felice presenza scenica del baritono francese. Roberto Frontali forse può deludere chi si aspettava un Dulcamara fortemente declinato sul comico: il baritono romano non è certo un buffo, ma la sua interpretazione, senza spingere sul pedale del farsesco, è ben caratterizzata ed evidenzia le particolarità vocali di un ruolo liberato dalle caccole di tradizione. E infine la Adina di Caterina Sala, giovane soprano comasco dalla voce di grande proiezione, precisa tecnica vocale e sicurezza interpretativa, anche se gli acuti hanno un timbro un po’ perforante. Impavida nei virtuosismi della sua “nuova” cabaletta ha scatenato l’entusiasmo del pubblico che ha tributato agli interpreti della parte musicale massicce ovazioni.

La scenografia di Federica Parolini fa di questo Elisir una produzione site specific: la sempre presente sagoma della facciata del Teatro Donizetti e la ricostruzione – a dire il vero misera con quei teli dipinti – del quadriportico piacentinano di fronte al teatro ambientano la vicenda in un contesto urbano alieno al tono rurale della storia – «Faresti meglio a recarti in città presso tuo zio» dice a un certo punto Adina a Nemorino – e al carattere naïf dei personaggi. Per lo meno questa volta la regia di Frederic Wake-Walker non ha fatto peggio di quanto aveva fatto alla Scala con Le nozze di Figaro e l’Ariadne auf Naxos, ma un giorno o l’altro il regista scozzese dovrà imparare a far muovere i personaggi e il coro. E magari avere anche qualche idea registica valida.

Un ballo in maschera

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

★★★★☆

Parma, Teatro Regio, 24 settembre 2021

(video streaming)

Tra Eros, Thanatos e fluidità di genere: il Ballo di Graham Vick completato da Jacopo Spirei

Un omaggio a Graham Vick quello del Regio di Parma: è infatti suo il progetto per Un ballo in maschera – o meglio Gustavo III poiché si tratta della versione originale tratta dal dramma Gustave III ou Le bal masqué che Eugène Scribe aveva scritto per Daniel Auber nel 1833. Ripreso dal regista Jacopo Spirei lo spettacolo inaugura il Festival Verdi di quest’anno.

La vicenda ritorna dunque in Svezia e il protagonista ridiventa re dopo che la censura aveva imposto un’ambientazione più anonima e lontana. Ma questa non è l’aggiustatina con cui talora si ripristina l’originale sostituendo «sire» con «conte», Gustavo con Riccardo, Svezia con America: viene utilizzato proprio il libretto musicato da Verdi, quello sottoposto alla censura romana, che qui viene innestato sulla partitura definitiva che, al contrario del testo, non ha subito modificazioni. La scomparsa del regista inglese ha lasciato dunque incompiuto un lavoro già travagliato di sé. Vick avrebbe costruito il suo spettacolo sul campo, come era suo solito, ed è proprio questo che è mancato e gli spazi lasciati bianchi sono stati completati da Spirei con dedizione ma senza rinunciare alla sua cifra stilistica.

Uno dei temi dominanti della lettura è la diversità: il re Gustavo III era omosessuale e l’ambiguità del paggio Oscar ha sempre aggiunto alla sua figura un tocco di indeterminatezza di genere. Nell’allestimento di Spirei molti uomini sono vestiti da donna e viceversa e Oscar, che è una cantante femminile en travesti, qui si ritraveste da bajadera per andare da Ulrica. Per chi ancora si è sentito in dovere di scandalizzarisi per le figure in gonnella ma con i baffi, ricordiamo che il titolo dell’opera è appunto Un ballo in maschera

Richard Hudson, autore anche dei costumi, costruisce una scena a semicerchio che delimita un vuoto al cui centro si erge il nero monumento funebre di Gustavo III sormontato da un angelo della morte con le ali spiegate. In alto, in una specie di galleria, il coro. Inizia con il funerale del re infatti quella che altro non è che una corsa verso la fine, più volte annunciata, del monarca, dove l’amore è impossibile, la visione è cupa, lugubre, sottolineata dalle fredde luci di Giuseppe di Iorio, fredde anche quando si passa dal verde al giallo al rosso. Una moltitudine di figuranti abita questa corte frivola e disperata che cerca invano un appagamento nell’eros per esorcizzare l’ombra della morte. L’atmosfera da fassbinderiano Querelle de Brest continua nel postribolo gestito da Ulrica, dove neanche i rigidi congiurati, qui Ribbing e Dehorn, il primo baffuto come Vittorio Emanuele II, disdegnano la marchetta di un marinaretto.

La commistione di alto e basso, tragico e comico, che è la caratteristica di questo lavoro di Verdi, trova nella direzione di Roberto Abbado un equilibrio perfetto grazie anche a un cast di buon livello dominato dalla presenza di Piero Pretti che affronta con sicurezza ed efficacia il personaggio di Gustavo: la voce sale e scende con agio e il volume generoso si alterna a mezze voci e pianissimi resi con eleganza. Chiamata all’ultimo momento a sostituire la cantante inizialmente prevista, Anna Pirozzi (Amelia) dimostra una volta di più tecnica sicura e grande capacità drammatica. Amartuvshin Enkhbat (Ackastrom, ossia Renato) non sorprende più per la ricchezza del timbro e la proiezione vocale già ampiamente dimostrate, ma per la perfezione del fraseggio e della dizione. Quella che ancora difetta in parte è l’espressività. Memorabile Ulrica è quella di Anna Maria Chiuri mentre Fabrizio Beggi e Cristiano Olivieri rendono convincenti anche se un po’ troppo inamidati i due congiurati. Ottima la prova del coro.

La registrazione dello spettacolo è attualmente disponibile su RAI Play.