Mese: luglio 2021

Der fliegende Holländer

Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’Olandese volante)

★★★★★

Bayreuth, Festspielhaus, 25 luglio 2021

(video streaming)

Due donne e tre debutti aprono il Festival di Bayreuth 2021

Per capire quanto è cambiata la messa in scena dell’opera oggi basterebbe confrontare il duetto Senta/Erik dell’Olandese volante ora a Bayreuth con una qualunque produzione di trent’anni fa: questo è teatro a tutti gli effetti e al massimo livello possibile, una recitazione che lascia sbalorditi per naturalezza e intensità. Asmik Grigorian ed Eric Kutler sono talmente attori che quasi si dimentica la perfezione vocale dei due interpreti. Vero è che Dmitrij Černjakov farebbe recitare anche i sassi, ma qui la perfezione attoriale rende totalmente convincente l’azzardata drammaturgia di Tatiana Vereščagina che trasforma la leggenda marinara in un thriller di terraferma.

Infatti, durante l’ouverture quello che vediamo ci indica una classica trama poliziesca: un ragazzino vede sua madre che ha una relazione con Daland, l’uomo più ricco del villaggio. Quando poi lui la scaccia, lei viene espulsa dalla comunità del villaggio e si impicca per la disperazione. Sotto i suoi piedi penzolanti c’è il figlio, il ragazzino, che più tardi diventerà l’”olandese volante” e un giorno ritornerà al villaggio, farà visita all’ex amante della madre e gliela farà pagare cara.

Nella scenografia dello stesso Černjakov, illuminata dalle sapienti luci di Gleb Filštinskij e con i costumi anni ’60 di Elena Zaitseva, non ci sono né mari né vascelli. Un lindo ma inquietante villaggio immerso nelle brume nordiche, con la chiesa dall’aguzzo campanile e le case dai muri di mattoni, forma l’ambiente in cui si svolge questa storia di spietata vendetta che ha atteso molto tempo prima di essere consumata con calcolata freddezza.

Gli edifici si spostano e si ricollocano con movimenti fluidi per formare la piazzetta del bar in cui Daland incontra l’olandese o quella delle prove del coro delle donne. Gli stretti vicoli sembrano nascondere segreti inconfessati, ma i fantasmi della vicenda musicata da Wagner qui sono dentro le persone: Senta è un’adolescente ribelle che fa dell’ostinazione a salvare il marinaio maledetto la sua ragione di vita per uscire da quell’ambiente ipocrita dominato dal padre Daland; la madre (Mary) è quella che forse custodisce un segreto o ha capito le intenzioni dello straniero, comunque, sarà quella che risolverà la situazione alla fine uccidendo l’olandese, dopo che lui e i suoi uomini hanno appiccato il fuoco alle case del villaggio e freddato un paio di cittadini. Sotto le ceneri dell’incendio che scendono come una neve nera, Erik, Senta e Mary siedono distanti, forse hanno trovato a caro prezzo la pace.

La storia di amore incondizionato e redenzione qui diviene lo sviluppo e la soluzione di un trauma in un ambiente borghese totalmente antiromantico che la maestria del regista russo sviluppa con precisione chirurgica e una regia attoriale strabiliante. Dopo essere stato ospite di tutti i maggiori teatri europei, Černjakov debutta qui a Bayreuth, ma non tutti i frequentatori del festival, quest’anno dimezzati per i soliti problemi di distanziamento, hanno gradito. Si sa la prima volta è sempre difficile: la lezione di Chéreau dovrebbe fare testo – accolto e subissato da fischi la prima volta, verrà salutato da ovazioni di un’ora alla ripresa qualche anno dopo – e nel finale scelto da Černjakov si può forse vedere un riferimento al finale del Ring di Chéreau.

Un altro debutto è quello di Oksana Lyniv, la prima donna a condurre l’orchestra del teatro in tutta la storia del festival, quest’anno arrivato al 145° anno. Tutto si può dire della direzione di Katharina Wagner, ma di certo non che non cerchi nuove strade e non abbatta primati discutibili, tra gli ultimi quello di aver fatto venire il prima regista ebreo (e omosessuale dichiarato, Barrie Kosky) a mettere in scena un lavoro del bisnonno. A Oksana Lyniv sono andati applausi calorosi dal pubblico che ha apprezzato la drammaticità e assieme la trasparenza di una concertazione che ha lasciato spazio alle voci – non sempre enormi – e alla scrittura strumentale della partitura.

Il terzo debutto è quello di Asmik Grigorian, il soprano lituano rivelazione degli ultimi anni. Della sua capacità attoriale stupefacente s’è detto, ma questa è tutt’una con la sua interpretazione vocale caratterizzata da una sicurezza di emissione e un’intensità fuori del comune. Pochi come lei sanno usare il linguaggio del corpo in maniera così teatralmente espressiva e la sua Senta rimane tra le figure indimenticabili sulle scene di questi ultimi anni, quanto la sua Salome, la sua Marietta o la sua Tatjana.

Terzo nell’intensità degli applausi del pubblico della Festspielhaus è stato Eric Cutler, indimenticabile Lohengrin, che ha dato alla parte di Erik un’energia inusuale. Altrettanto festeggiato Georg Zeppenfeld, consumato wagneriano che ha prestato il suo bel timbro e la perfetta dizione al personaggio di Daland. Particolarmente importante in questa produzione è la parte di Mary, non più nutrice ma madre di Senta, che ha avuto in Marina Prudenskaja un’ottima interprete vocale e un’attrice di grande intensità. Molto apprezzato anche il timoniere Attilio Glaser, di bella liricità. Nella parte del titolo il baritono svedese John Lundgren ha compensato un volume tutt’altro che imponente con l’espressività a cui il pubblico ha risposto con applausi di cortesia. Risolto con efficacia è invece stato il problema del coro che ha cantato metà dalla sala prove e metà sul palcoscenico in playback.

Forse non è stata l’inaugurazione che alcuni si aspettavano, ma ritornare in scena dopo due anni e con uno spettacolo tale poteva essere motivo di ancora maggiore apprezzamento.

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Pimpinone

William Hogart, Marriage A-la-Mode (“The Marriage Settlement”), 1743-1745

Georg Philipp Telemann, Pimpinone, ovvero Le nozze infelici

★★★★☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 24 luglio 2021

La “farsetta” di Herr Telemann

Uberto e Vespina si sono sposati, ma il matrimonio non è quello che sperava il vecchio: la giovane sposa si rivela capricciosa e indisciplinata. Potrebbe essere il sequel de La serva padrona con i nomi cambiati in Pimpinone e Vespetta se gli intermezzi di Telemann non fossero andati in scena nove anni prima di quelli pergolesiani, ma i personaggi sono caratteri talmente immortali che ha poco senso la cronologia esatta.

Un Pimpinone su libretto di Pietro Pariati era già stato intonato da Tomaso Albinoni nel 1708. Telemann ne aveva fatto tradurre i recitativi in tedesco da Johann Philipp Prætorius e con le arie e i duetti in italiano era nato il Pimpinone oder Die ungleiche Heirat, andato in scena il 31 ottobre 1724 al King’s Theatre di Londra come intermezzo al Tamerlano di Händel. Riproposto ad Amburgo l’anno successivo, divenne il maggior successo teatrale del prolifico compositore tedesco che noi oggi ricordiamo soprattutto per i pezzi sacri, la musica da camera e i concerti.

Intermezzo I. Vespetta, giovane e intraprendente cameriera, è in cerca di una nuova sistemazione. Si proclama onesta e priva di secondi fini: vorrebbe mettere da parte un po’ di soldi, ma intende guadagnarli con il sudore della propria fronte. Tuttavia quando ha la fortuna di imbattersi in Pimpinone – uno scapolo non nobile, ma ricco – non riesce a fare a meno di immaginare un altro modo per elevare la propria condizione. La giovane attira l’attenzione di Pimpinone mettendo in mostra la propria raffinata postura e il proprio incedere elegante e trova il modo di dirgli che non desidera altro che di poter servire un uomo come lui – educato, intelligente, gar- bato, bello e gentile. A Pimpinone gira la testa: si chiede se la ragazza non stia cercando di sedurlo, ma in effetti lui è ormai irrimediabilmente impaniato. Le propone un impiego come cameriera e Vespetta accetta. Mentre Pimpinone gongola per il colpo di fortuna, Vespetta ride alle sue spalle: tutto sta procedendo secondo i suoi piani.
Intermezzo II. Vespetta minaccia Pimpinone di lasciare il servizio: non riesce a tener dietro alle troppe cose che ha da fare; inoltre, dice, il padrone non sa gestire le spese di casa. Pimpinone, che per nulla al mondo vorrebbe perdere una governante così precisa e inappuntabile, le affida le chiavi della cassaforte e, per di più, le fa dono di un paio di splendidi orecchini, non nascondendo di essere invaghito di lei. Vespetta lo zittisce: è un’onesta cameriera, ma è giovane, è bella, ed è al servizio di un uomo non più giovane ma ancora prestante – quanto basta per suscitare pettegolezzi e un’umile domestica non può far nulla per fermare le calunnie. Pimpinone le propone dunque di mettere a tacere le malelingue sposandola. Vespetta protesta che in lei non c’è calcolo o malizia: infatti non è interessata ai passatempi tipici delle signore benestanti – i balli in maschera, il gioco delle carte, l’opera, le visite di società. Pimpinone, entusiasta per questa professione di sobrietà, dichiara che a quelle condizioni Vespetta potrà essere la sua cara sposa: ma Vespetta ribatte che, priva com’è di una dote, non potrà che continuare a essere la sua cameriera, così Pimpinone le offre una generosa dote, a una condizione: non dovrà fare o ricevere visite. Vespetta accetta senza esitazioni. Ancora una volta Pimpinone si compiace per la propria buona sorte, mentre Vespetta si fa beffe della sua dabbenaggine.
Intermezzo III. Vespetta si sta preparando a uscire in gran pompa. Pimpinone, seccatissimo, osserva che, come minimo, ha il diritto di sapere dove stia andando. La ragazza risponde che si reca a far visita alla propria madrina e l’uomo, furente, la accusa di voler spettegolare su di lui con le altre donne. Le chiede perlomeno di rincasare presto, al che Vespetta replica indispettita che ciò di cui va in cerca – i ricevimenti, l’opera, il gioco delle carte – lo si può trovare solo la sera tardi. esasperato, Pimpinone le ricorda di aver promesso che avrebbe evitato le visite di società, ma Vespetta lo liquida ribattendo di aver preso quell’impegno quando era la sua cameriera: ora è sua moglie e lui deve chiudere il becco se lei vuol fare come le altre signore rispettabili che parlano francese, partecipano ai balli, e indossano abiti eleganti! Pimpinone minaccia di bastonarla per ricondurla alla ragione, ma Vespetta non si fa certo intimidire e al culmine di un acceso battibecco lo avverte: se ne andrà con la propria dote, se lui non la lascerà libera di fare ciò che vuole. Pimpinone. Un po’ per amore, un po’ per paura della collera della moglie si vede costretto, ancora una volta, a far buon viso a cattivo gioco.

Riportati all’italiano, gl’intermezzi del Pimpinone arrivano ora nel cortile dell’Arsenale per la stagione estiva del Regio torinese, una settimana dopo quelli di Pergolesi. Gli esecutori sono gli stessi e medesimi sono anche i creatori della parte visiva. Il regista Mariano Bauduin e la scenografa Claudia Boasso propongono un ambiente simile, solo più ingombro. I costumi di Laura Viglione e le attente luci di Andrea Anfossi ricreano l’originale ambientazione settecentesca, la più congrua alla proposizione della vicenda, che aveva interessato anche William Hogarth nel suo ciclo di sei dipinti Marriage A-la-Mode del 1743-45.

Il confronto con gli intermezzi pergolesiani è inevitabile: quelli di Telemann hanno un maggior numero di pezzi musicali – 7 arie (le cinque del libretto di Pariati più due di Prætorius ) e 4 duetti (due in italiano e due in tedesco) rispetto alle cinque arie e ai due duetti de La serva padrona (senza contare il duetto finale tratto dal Flaminio). Telemann non ha la miracolosa semplicità melodica di Pergolesi, le sue arie sono musicalmente più complesse, tripartite e con da capo, e hanno più colorature nella linea vocale. Per arrivare a una serata che arrivi almeno a un’ora, qui a Torino la parte musicale  è stata rimpolpata con l’ouverture e due arie della Beggar’s Opera (1728 ) di John Gay e Johann Christoph Pepusch. La prima è una pomposa introduzione, un po’ troppo ingombrante per lo smilzo svolgimento musicale che segue, le seconde, nella libera traduzione di Bauduin, sono collocate alla conclusione della prima e della seconda parte e affidate a un mimo/attore, ma qui non hanno avuto il magico effetto dell’aria napoletana nello spettacolo precedente.

L’arguto libretto del Pariati delinea con molta efficacia lo strategico piano della furba servetta che prima si propone come cameriera modello («Chi mi vuol? Son cameriera. | Fo di tutto. Pian. M’intendo | di quel tutto che conviene»); poi mette in atto la questione morale per farsi sposare («Mormora il mondo, e ciarla. […] Ogn’un vuol dir, quando vuol dir del male. | L’onor mio troppo vale»); infine incanta il vecchio già rimbambito con la sua finta ingenuità («Pimpinone: Non vo’ concier. Vespetta: Io lo depongo or ora. P: Sul balcon… V: Mai non ebbi un tal diletto. P: Cene, teatri, e balli… V: Io non li bramo. P: Giochi e veglie… V: Il mio genio è solitario. P: Libri amorosi… V: Io leggerò il lunario. P: Maschera… V: Non so dir cos’ella sia») proprio come farà la Norina donizettiana 135 anni dopo: «Don Pasquale: Volea dir ch’alla sera la signora amerà la compagnia. Norina: Niente affatto. Al convento si stava sempre sole. D: Qualche volta al teatro? N: Non so che cosa sia, né saper bramo. D: Sentimenti ch’io lodo. Ma il tempo, uopo è passarlo in qualche modo. N: Cucire, ricamar, far la calzetta, badare alla cucina: il tempo passa presto». Rispetto al Don Pasquale di Donizetti, ma anche rispetto all’Uberto di Pergolesi, qui manca un po’ l’elemento patetico e tenero nei confronti del vecchio innamorato: Pimpinone è più maschera della Commedia dell’Arte che personaggio per cui intenerirsi.

La “dispotica cameriera” dell’altro titolo alternativo (Die herrschsüchtige Cammer-Mädgen) del Pimpinone è dunque la stessa Vespina ascoltata in Pergolesi la settimana scorsa, Francesca di Sauro, qui alle prese con una parte maggiormente articolata e vocalmente impegnativa, più sopranile: le prime due arie solistiche del primo intermezzo, un arioso e un’aria nel secondo, un’altra aria nel terzo, sono quasi tutte infarcite di agilità affrontate e risolte con agio e gusto dal mezzosoprano.

Se la parte del leone ce l’ha Vespetta, quella di Pimpinone – un’aria solistica per ogni intermezzo – permette comunque a Marco Filippo Romano di dimostrare le sue magistrali doti mattatoriali, che si tratti di «Ella mi vuol confondere» con cui il personaggio dopo le due sfrontate arie femminili dimostra la sua debolezza e confusione, o quella in cui rivela la sua sbandata senile, «Guarda un poco in questi occhi di foco | ed in lor vedrai, mio tesoro, | che sei del Pimpinon la Pimpinina». Ma è nel terzo intermezzo che Romano dà fuoco alle sue cartucce di entertainer quando, cambiando il registro della voce e usando il falsetto, imita due diverse voci femminili che commentano la situazione, e qui abbiamo dunque tre diversi personaggi resi dallo stesso interprete: «So quel che si dice, e quel che si fa. | Strissima; strissima. Come si sta? | Bene. E poi subito. Quel mio marito | è pur stravagante, è pure indiscreto. Pretende che in casa io sia tutto il dì. | E l’altra risponde: «Gran bestia ch’egli è, | prendete, comare, l’esempio da me. | Voleva anche il mio. Ma l’ho ben chiarito | di far a mio modo trovato ho ’l segreto | s’ei dice: no, no, io dico: sì, sì». Un bell’esempio di teatro nel teatro che il regista porta in scena con la costruzione di un improvvisato teatrino di burattini per il duetto finale.

L’orchestra del Teatro Regio si impegna nel ricreare le sonorità settecentesche di una partitura che ha maggior spessore di quella pergolesiana e meglio sopporta la lettura non sempre trasparentissima di Giulio Laguzzi. L’accompagnamento dei recitativi è efficacemente realizzato da Carlo Caputo al clavicembalo.

Con abilità e senso del teatro l’attore Pietro Pignatelli si trasforma in una serie di personaggi muti – il cicisbeo, il notaio, la comare… – e nel mendicante cantastorie, personaggio inventato dal regista per invitare il pubblico prima dello spettacolo: «Tutto nel mondo è sogno. E non vi azzardate a me scetà…. E lasciateci sognare, e se vi fa piacere, sognate insieme a noi questa farsetta che qui vi “sogniamo”».

Sulla scia del successo del loro Pimpinone Prætorius e Telemann scrissero un seguito dal titolo Die amours der Vespetta oder der Galan in der Kiste (Gli amori di Vespetta, ovvero Il galante in affari) la cui musica è però andata persa.

Peccato, avremmo avuto il terzo capitolo della storia.

Tristan und Isolde

Richard Wagner, Tristan und Isolde

★★★☆☆

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 8 luglio 2021

(video streaming)

Tristano e Isotta: la crisi di una coppia borghese

Per la prima volta sulle scene del Festival di Aix-en-Provence Tristan und Isolde arriva con la messa in scena di Simon Stone, una ricostruzione iper-realista del mito tristaniano rivissuto come una storiadella nostra contemporaneità, ch eè tutt’altro che mitica. Simon Stone non vuole trattare la vicenda come una storia d’amore che culmina nell’estasi e nella trascendenza, ma, al contrario, mostra una passione che si affievolisce e svanisce fino alla rottura, una lettura che ignora in gran l’eros wagneriano ed è più un’analisi della decadenza di una coppia borghese. Ma è qui che sorge il problema: la musica dice tutt’altro da quello che si vede in scena, vista e ascolto qui sono alternative. O l’una o l’altro: se ti lasci ammaliare dalle belle ma incongrue immagini non ascolti la musica, se invece la ascolti ti chiedi che cosa c’entra quello che vedi.

E tutto inizia dal preludio quando in scena vediamo un appartamento di una città con i suoi grattacieli fuori dalle finestre. All’interno si festeggia il Natale: scambio di regali, vini e liquori a disposizione. Atmosfera falsamente rilassata con un lui che corteggia una ragazza giovane sotto gli sguardi gelosi di una lei che poi si corica e nel suo sogno l’appartamento si trasforma in nave che solca gli oceani le cui onde vediamo ora dalle finestre. Il filtro è custodito da una Brangania punk in una scatola delle Nike che ha come etichetta l’emoticon dell’innamorato.

Nel second’atto siamo in un ufficio di cui lei è la dirigente. Lui arriva col trolley e lei gli consegna il vestito ritirato dalla lavanderia in cui è stato trovato un capo di biancheria intima femminile, rosso. O il filtro è durato poco oppure lui non è Tristano e lei non è Isotta. Mah. Rimasta sola, lei non sembra particolarmente turbata dall’episodio e appresta una cena con quanto ha portato Brangania. Il tavolo è pieno di candele che lei accende, ma non saranno la fiaccola del segnale: quella sarà una lampada da ufficio. Ancora una volta il paesaggio urbano fuori delle finestre cambia, ora è un cielo nuvoloso tinto dal tramonto. Quando la notte è scesa lui – o è un altro uguale? – arriva come se nulla fosse e si abbracciano. Un’altra coppia, più giovane e snella, si incarica di tradurre in atto quello che i due cantano nel duetto prima di essere interrotti dall’arrivo di un bambino, il figlio della coppia legittima: in scena quello era l’amante. Ma un’altra coppia, con gli stessi vestiti, rivive i problemi della famiglia. Un’altra coppia ancora si aggiunge. A un certo punto in scena ci sono cinque diverse coppie di amanti, di varie età, compresa quella con un lui in carrozzella e col respiratore a ossigeno.

Altra doccia scozzese aspetta lo spettatore nel terzo atto: siamo nella metropolitana parigina, la linea 11 per la precisione, con le stazioni che si succedono e avvicendano a viste sulla campagna verde o sul mare del nord. Lui e lei in abito da sera ritornano da una serata a teatro, l’assolo di corno inglese è suonato da un musicista nel vagone. Il figlio della coppia, Melot, in seguito a una discussione accoltella il padre nella totale indifferenza degli altri occupanti il vagone. Al capolinea di Châtelet tutti scendono eccetto lui che nonostante sia ferito si mette a cercare sul telefonino, qualche altra avventura?

È tutto un sogno che trasforma la realtà a misura della psicologia e del subconscio del personaggio femminile.

Alla cervellotica rilettura, peraltro magnificamente realizzata da Simon Stone e dai suoi collaboratori – Ralph Meyers per le scene, Mel Page per i costumi, James Farncombe per le luci, Luke Halls per le impeccabili proiezioni video – si affianca la magnifica concertazione di Sir Simon Rattle alla testa della London Symphony Orchestra, una direzione analitica e di grande trasparenza dove è massima la cura dei particolari e la varietà dei colori.

In scena  il Tristano e l’Isotta degli ultimi decenni: Stuart Skelton e Nina Stemme, due interpreti che portano sulle spalle la gloria passata con invidiabile baldanza, ma talora si preferirebbe ascoltare due cantanti meno stagionati. Skelton mantiene l’eroismo ma perde il romanticismo del personaggio e talora la voce raggiunge il limite sforzando. Sono meglio le sue mezze voci. Per la Stemme certi suoni fissi sono compensati da una grande proiezione della voce, ma il suo Liebestod non è più quello a cui ci aveva abituato nel passato. Diversamente dalla produzione di Chéreau, qui la non giovinezza degli interpreti non induce a sentimenti di empatia nei confronti dei personaggi, che rimangono lontani e scostanti. Ottimi gli altri cantanti, dall’introverso Re Marke di Franz-Josef Selig, alla decisa Brangäne di Jamie Barton, al Kurwenal di Josef Wagner al Melot di Dominic Sedgwick. Particolarmente apprezzabile Linard Vrielink lirico marinaio e poi voce del pastore.

La serva padrona

Jean-Étienne Liotard, La belle chocolatière, 1743

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

★★★★☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 17 luglio 2021

Pergolesi insaporisce la stagione estiva del Regio

C’è un teatro in Italia che ha passato un momento ancora più difficile degli altri: oltre ai devastanti effetti della pandemia che conosciamo, il Regio ha visto un commissariamento straordinario per cercare di risolvere la sua difficile crisi finanziaria e ora che le sale aprono al pubblico, seppure con cautela, quella torinese deve chiudere per improrogabili lavori di adeguamento e rinnovamento del suo impianto scenico.

Si vorrebbe citare la proverbiale caparbietà subalpina – se non fosse che la commissaria che fa le veci di sovrintendente e il direttore artistico provengono una dal sud Italia e l’altro dalla Germania del nord… – nel fatto che pur in questa condizione si riesca a mettere assieme una miracolosa stagione estiva per non privare il pubblico torinese del teatro dal vivo e degli stimoli culturali, come recita il titolo della rassegna: «Regio Opera Festival. A difesa della Cultura».

Lo splendido cortile del Palazzo dell’Arsenale è messo generosamente a disposizione dal Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito e la prestigiosa location diventa la sede per le rappresentazioni all’aperto. Tra i titoli scelti, necessariamente popolari e di richiamo per un pubblico che si vorrebbe il più vasto possibile, Sebastian Schwarz è riuscito a inserire due chicche settecentesche di grande interesse: la prima, più nota, è La serva padrona di Pergolesi, la seconda, molto meno nota, è il Pimpinone nella intonazione di Georg Philipp Telemann – due “intermezzi”.

Se l’opera barocca secentesca conteneva sia l’elemento serio sia quello comico – si pensi ai lavori di Cavalli o all’ultimo Monteverdi – il gusto del Settecento preferisce invece separare i due momenti e quello comico è relegato tra il primo e il secondo atto e tra il secondo e il terzo delle opere serie. Nascono così gli intermezzi, generalmente in due parti, per alleviare la tensione del dramma e tenere occupato negli intervalli il rumoroso pubblico che affolla i teatri dell’epoca. Il genere è caratterizzato da una coppia di cantanti-attori, assenza o quasi di scenografia, talora addirittura davanti al sipario, come si farà due secoli dopo negli intermezzi comici del teatro di varietà nostrano. Se all’inizio i personaggi parodiavano quelli della storia principale, dal 1725 cominciano a sviluppare una vicenda del tutto autonoma facendo diventare l’intermezzo una breve opera comica a sé stante.

Pochissimi intermezzi sono arrivati a noi: non erano considerati degni di essere inseriti nella partitura dell’opera seria e quindi sono andati persi. Non La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, che non solo divenne l’archetipo del genere, ma farà furore quando alcuni anni dopo verrà portata in Francia dove innescherà l’accesa querelle des bouffons. Nel 1752 era infatti successo che il lavoro di Pergolesi fosse allestito contemporaneamente all’Acis et Galatée, la “pastorale eroïque” di Jean-Baptiste Lully del 1686, suscitando le polemiche tra due avverse fazioni: quella del “coin du roi” a sostegno della supremazia della musica francese, e quella del “coin de la reine” a sostegno invece della musica italiana, ammirata per la piacevolezza e semplicità dell’invenzione melodica in contrapposizione alla complessità e artificiosità della musica di Lully. Rameau e Rousseau furono tra le maggiori figure a schierarsi nelle rispettive opposte fazioni. Solo l’intervento di Louis XV nel 1754 mise fine alla interminabile serie di libelli e lettere polemiche, mettendo tout court al bando dai teatri francesi i bouffons italiani.

La serva padrona era nata come intermezzo in due parti per i tre atti de Il prigionier superbo dello stesso Pergolesi, presentato al San Bartolomeo di Napoli il 28 agosto 1733. La vicenda è quella eterna e intramontabile del vecchio e ricco padrone innamorato della servetta giovane. Uberto, il protagonista maschile, è sulla scia dei vari Pantaleone, Balanzone, Don Pomponio, Don Corbolone ecc. che l’avevano preceduto e del Don Pasquale donizettiano che lo seguirà un secolo dopo. E lo stesso è per Serpina, la protagonista femminile, e delle sue alter-ego Vespetta, Vespina, Serpilla ecc. e della futura Serpetta mozartiana (La finta giardiniera), la serva furba che sfrutta arguzia e sex appeal per diventare moglie del vecchio e quindi padrona.

Il libretto di Gennaro Antonio (Gennarantonio) Federico, lo stesso autore de La Salustia (la prima opera seria di Pergolesi) e de Lo frate ‘nnamorato, ebbe come modello l’omonima commedia di Pier Jacopo Nelli che, sfoltita delle situazioni da Commedia dell’Arte, diventò lo snello testo in cui la caratterizzazione psicologica trovava un efficace risultato grazie alla  musica di Pergolesi.

Musica che viene proposta dall’orchestra del teatro sotto la direzione di Giulio Laguzzi e l’accompagnamento al cembalo di Carlo Caputo. Lontano dalla secchezza di suono e dalla frenesia ritmica a cui ci hanno abituato certe esecuzioni “storicamente informate”, il maestro concertatore fornisce qui una lettura complessivamente corretta sui cui equilibri sonori non è agevole fornire un fondato giudizio data l’acustica non ottimale del cortile all’aperto e l’utilizzo della amplificazione. Più agevole quello sugli interpreti in scena, cantanti/attori di grande esperienza. Su Marco Filippo Romano si va sul sicuro: è forse il miglior baritono buffo che abbiamo ora in Italia e il suo Uberto ha pochi rivali per musicalità, pienezza vocale, limpidezza di fraseggio e un’intelligente vis comica che non si affida alle gag ma alle situazioni drammaturgiche per esprimere quell’umorismo che è la quint’essenza degli intermezzi dell’opera italiana. Un umorismo qui venato di tenerezza nel recitativo che precede l’aria «Son imbrogliato io già» quando parla tra sé e sé ammettendo che «per altro io penserei… ma… ella è serva… ma… il primo non saresti…» e già si capisce che capitolerà. Anche Serpina trova in Francesca di Sauro un’interprete validissima. Lontano dal ruolo di soubrettina dalla voce petulante, il mezzosoprano sfodera un timbro piacevole, una voce di grande proiezione e una verve irresistibile. Nel passaggio dalla frizzante e punzecchiante aria «Stizzoso, mio stizzoso» a quella astuta e venata di finta malinconia «A Serpina penserete» con gli a parte rivolti al pubblico «Ei mi par che già pian piano | s’incomincia a intenerir», la cantante napoletana costruisce con molta efficacia il suo personaggio. Pregevoli sono per entrambi gli interpreti i da capo con sapide e stilisticamente giuste variazioni. Anche il ruolo muto di Vespone viene ben messo in evidenza dall’attore Pietro Pignatelli con movenze e maschera da commedia dell’arte, il quale però alla fine dell’Intermezzo I la maschera se la toglie e intona con nostalgia un’antica canzone popolare napoletana strumentata per l’occasione. Una sorpresa molto gradevole che sottolinea l’atmosfera napoletana di questa Serva padrona servita in un italiano impeccabile.

Con l’attenta e sobria regia di Mariano Bauduin, lo spettacolo si avvale della semplice scenografia di Claudia Boasso: uno schermo traforato, che rappresenta lo schema prospettico della sala di un teatro all’italiana col boccascena e le fughe di palchi, e un fondale dipinto con un interno rococò, qui della palazzina di Stupinigi – giusto omaggio alla città. I costumi settecenteschi come al solito perfetti ed eleganti di Laura Viglione e il suggestivo gioco luci di Andrea Anfossi completano l’aspetto visivo di uno spettacolo che è stato molto gradito dal folto pubblico accorso.

La settimana prossima si raddoppia con un altro intermezzo: il Pimpinone di Telemann, con i medesimi interpreti.

Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

★★★☆☆

Florence, Teatro del Maggio, 13 julliet 2021

 Qui la versione italiana

L’opéra Siberia de Giordano rencontre un joli succès à Florence, grâce à une interprétation musicale inspirée

Pour la deuxième fois en peu de temps, la scène du Teatro del Maggio Musicale Fiorentino accueille les steppes glaciales de Russie, mises en musique par des compositeurs du début du XXe siècle : l’année dernière, c’était avec Risurrezione (1904) de Franco Alfano, aujourd’hui c’est au tour de Siberia (1903) d’Umberto Giordano, l’opéra qui devait ouvrir la saison du Regio de Turin alors que Gianandrea Noseda en était encore le directeur musical. Les choses se sont passées autrement, mais c’est cependant le même chef qui propose à Florence cet opéra auquel il semble tenir beaucoup…

la suite sur premiereloge-opera.com

Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio, 13 luglio 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Siberia di Giordano a Firenze. Un’occasione riuscita a metà.

Per la seconda volta in poco tempo il palcoscenico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ospita le gelide lande russe messe in musica da compositori dell’inizio del XX secolo: l’anno scorso fu il caso di Risurrezione (1904) di Franco Alfano, ora è la volta di Siberia (1903) di Umberto Giordano, l’opera che doveva inaugurare la stagione del Regio di Torino quando ancora Gianandrea Noseda ne era direttore musicale. Poi le cose sono andate diversamente e ora è lo stesso direttore a riproporre qui a Firenze un’opera a cui sembra tener molto.

Dopo il successo di Fedora (1998) Giordano cerca di replicare con un altro dramma di ambientazione russa. C’è Dostoevskij alla fonte del libretto che gli appresta Luigi Illica, sia per il tema dei deportati in Siberia (Memorie da una casa di morti) sia per quello della donna perduta che si redime col sacrificio – e qui sono le varie Katjuša, Anna, Sonja, Grušenka degli altri suoi romanzi a offrire il modello per Stephana. Illica spinge sul tema politico e sociale, Giordano propende invece per il dramma passionale e il testo proposto dal librettista viene sforbiciato per raggiungere una concisione drammatica che sarà ancora maggiore nella seconda versione del 1927 – quella scelta da Noseda – che seguirà a quella della prima del 10 dicembre 1903 alla Scala di Milano.

Atto I. La donna. A Pietroburgo, all’alba della festa di S. Alessandro. Mentre in lontananza si ode un malinconico canto di mugiki, nella “Rotonda”, la palazzina che il principino Alexis ha regalato a Stephana, sua amante, la fedele Nikona e il servo Ivan attendono con ansia la loro padrona, che non è ancora rincasata. Giunge Gléby, primo amante di Stephana che ha fatto di lei una cortigiana: Nikona prova a convincerlo che la giovane è indisposta, ma questi insiste, deve assolutamente parlarle di un affare d’oro. Bussa alla porta della camera e poiché Stephana non gli risponde comprende che ha passato la notte fuori di casa. Avrà trovato “un amante del cuore”, commenta sarcastico. In quel momento Ivan annuncia l’arrivo di Alexis, seguito da una schiera di amici, fra cui il capitano Walinoff e il banchiere Miskinsky. Nikona è disperata, ma Gléby non perde la calma e si dice sicuro di salvare la situazione. Quando Alexis chiede di Stephana, Nikona risponde che sta dormendo: allora Gléby propone di intonare, invece che una serenata, una “mattinata”, così da dare il tempo alla giovane di prepararsi: il principe e i suoi amici accompagneranno il canto col tintinnio delle loro spade, Gléby con quello di due rubli. Finita la canzone, Gléby propone una partita di baccarà e tutti entrano nella sala da gioco. Giunge Stephana, che ha sentito tutto, e rivela a Nikona ciò che l’angoscia: il suo nuovo amante non deve mai sapere chi sia in realtà e quale genere di vita abbia condotto fino ad allora. L’amore che prova per lui l’ha fatta rifiorire a nuova vita, finalmente libera dal suo passato. Ritorna Gléby e svela alla giovane l’affare che intende combinare: nella sala da gioco c’è un ricco cliente, disposto a pagar bene per i favori di Stephana, la quale però rifiuta decisamente: non si venderà più per danaro. Gléby ribatte che per gente come loro, nati poveri, non c’è altra via per raggiungere una vita agiata. Poi insinua cinicamente che “l’amante del cuore”, se povero, non l’ami davvero, ma calcoli i vantaggi che può ottenere dalla loro relazione. Giunge Alexis: il suo amore per Stephana, dice, è ogni giorno più intenso e ardente e le offre uno splendido braccialetto. In quel mentre Ivan annuncia che un giovane ufficiale chiede di Nikona: è Vassili, il figlioccio della donna, da poco giunto a Pietroburgo e in procinto di partire per la guerra contro i Turchi. Le confessa di essersi innamorato di una ricamatrice, povera ma onesta, come lui. Mentre sta per andarsene, entra Stephana. Vassili è stupito riconoscendo in lei il suo grande amore. La donna, sgomenta nel vederlo nella ricca casa in cui abita, lo aggredisce, ripensando alle parole di Gléby: dunque Vassili sapeva chi era e aspettava l’occasione per entrare a casa sua. Mentre Nikona tenta di farlo andar via, Vassili dichiara nuovamente il suo amore per Stephana: è lei il suo “destin soave” che deve amare. Quando Nikona rivela che il giovane è il suo figlioccio venuto a trovarla, Stephana commossa, comprendendo di averlo accusato ingiustamente, gli chiede perdono, ma lo invita ad andarsene e a dimenticarla. La  passione di Vassili però è troppo forte: non potrà mai scordarla, perché nel suo cuore è scolpito l’amore per lei e l’amerà anche sapendo chi è in realtà. Alexis sorprende i due abbracciati e Stephana gli confessa che si tratta del suo amante: il principino l’insulta e Vassili si scaglia su di lui. I due si battono e Alexis viene ferito.
Atto II. L’amante. Alla frontiera fra Siberia e Russia. Alla poloo-tappa (tappa della fame) da Omsk a Kolyan, contadini e rivenditori attendono l’arrivo della colonna dei forzati per tentare di vendere i loro prodotti. Vi è anche una fanciulla che chiede se i condannati siano vicini: insieme al fratellino spera di poter vedere per l’ultima volta il padre, destinato alle miniere. Un cosacco la rassicura: i forzati stanno per arrivare. Per riconoscenza, la fanciulla offre al cosacco qualche moneta, ma questi, commosso, rifiuta: “Tienle per tuo padre”, le dice. Da lontano si ode un canto triste: è la catena vivente dei condannati che si avvicina. Appare poi una troika sulla quale sta una donna sola: è Stephana, che chiede del condannato 107. Ma subito lo scorge, è Vassili, deportato in Siberia per aver ferito Alexis. La donna prorompe in esaltate frasi d’amore: è decisa a rimanere sempre accanto a lui, per redimersi dalla sua vita dissoluta. Ha donato ai poveri la sua ricca casa e adesso vuol condividere la sorte del suo amato, non lasciarlo più. Invano Vassili tenta di dissuaderla, descrivendole gli orrori della “maledetta” Siberia: Stephana ribatte che il suo destino è vivere vicino a lui e che il suo amore l’ha redenta. Vassili, commosso, le confessa che credeva finita la vita e la speranza, ma l’amore di lei gli dà nuova forza. I due tacciono all’udire il canto disperato dei forzati, dopo essersi promessi di rimanere sempre insieme.
Atto III. L’eroina. L’interno della “Casa di forza” nelle miniere del Trans-Baikal. È il Sabato Santo e un coro di donne saluta la luce primaverile che concede un po’ di calore. Un vecchio invalido, dopo aver scambiato qualche parola con le donne, che si preparano allo spettacolo teatrale di Pasqua, riferisce a Stephana che un condannato la sta cercando, ma la donna ribatte che non vuol parlare con nessuno. Poi dà qualche moneta all’invalido. Di nuovo il coro di donne si rallegra per una giornata che darà sollievo al loro soffrire, quando Stephana e Vassili intrecciano un duetto d’amore: sognano la libertà e inneggiano all’amore che, pur nella sofferenza, allevia le loro sciagure. Dopo l’arrivo del Governatore, Gléby si presenta a Stephana: è caduto in disgrazia ed è stato condannato anche lui alla Siberia. Ha trovato un modo di evadere, attraverso un pozzo: ha provato il percorso, ma il ricordo di lei l’ha riportato indietro. Le propone dunque, con parole appassionate, di fuggire insieme. Stephana rifiuta recisamente, ma Gléby insiste: se tornerà con lui, riavrà una vita gioiosa, piena di feste e di splendore. La donna ribatte che egli le ricorda un passato di vergogna, mentre nella Siberia, colma di miserie e dolori, ella respira “il trionfo dell’amore”. Ama Vassili e rimarrà con lui. Gléby se ne va minacciandola, mentre il Governatore annuncia un giorno di riposo dal lavoro. Ma Gléby torna ben presto e dopo aver schernito Vassili, racconta agli altri forzati la storia sua e di Stephana: l’aveva conosciuta quando aveva appena quindici anni ed era povera ma bellissima. L’aveva dunque avviata ad una vita da cortigiana, piena di feste e avventure. Vassili vuole avventarsi contro di lui, ma Stephana lo trattiene. Però le parole di Gléby lo hanno ferito: il ricordo del passato dell’amata, le sue relazioni con altri uomini lo torturano. Quel passato torna per volere di Dio, che nega il perdono, e la sua sola speranza è la morte. Stephana reagisce chiamandolo falso amante: anche se avesse in fronte tutto il fango del mondo, aggiunge, per il suo pianto Dio la perdonerà. Vassili si pente delle sue parole e le chiede perdono, mentre Stephana afferra Gléby per il collo e rivolta a Vassili prorompe in un grido: Gléby è stato il suo primo amante e l’ha venduta; un amore puro l’ha redenta, ma ecco ritornare con lui il “vile destino” della sua vita. Il vero nome di Gléby? Usura e falso! Mentre Stephana sviene, il Governatore e i forzati inneggiano a Cristo risorto; quindi iniziano i preparativi dello spettacolo teatrale. Stephana propone allora a Vassili di fuggire attraverso il pozzo; il giovane è perplesso ma viene convinto a tentare dall’amata. Si odono grida di “All’armi” e colpi di fucile: Stephana è riportata dai cosacchi ferita a morte, mentre Vassili è arrestato. Il Governatore lo fa liberare, mentre Stephana si rivolge affettuosamente all’amato: la sublime parola “libertà” le nasce finalmente in cuore; muore felice di sentirsi redenta e sarà sempre con lui, sul suo cuore. Mentre i forzati intonato un triste coro, Vassili chiama disperato Stephana.

Giordano ha sempre considerato Siberia il suo capolavoro, in effetti il lavoro ha un taglio moderno e teatrale, soprattutto il secondo atto. La partitura impiega temi popolari russi tra cui la canzone dei battellieri del Volga che torna a più riprese a mo’ di Leitmotiv. Diversamente dall’Andrea Chénier non ha ariosi orecchiabili, si sviluppa in un’alternanza di declamato e cantabile con momenti più melodici come la “mattinata” a 4 voci o la “quasi romanza” di Stephana «Io l’amai | per l’esistenza | rinnovata: | pura in me» dell’atto primo o le «Orride steppe» con cui Vassili mette in guardia la donna da quello che la aspetterà in Siberia. L’opera inizia in maniera insolita: la voce di un mugiki nel silenzio e fuori scena canta il fatalistico dolore di vivere, il vero tema di Siberia: «Godi dunque il suo sole, se c’è sole; | godi la luna, se la luna c’è; | è vita anche la tua ché, se Dio vuole, | c’è ultima la morte anche per te».

Il libretto di Luigi Illica, qui senza l’essenziale collaborazione di Giuseppe Giacosa – che era il vero versificatore della rinomata ditta Illica&Giacosa dei capolavori pucciniani – gioca con rime («fondo-tondo-mondo, malori-dolori, languire-soffrire, penare-tremare, Siberia-miseria), allitterazioni consonantiche che sono quasi degli scioglilingua («bara mesta di tetri scheletri») e copiosità di attributi (difficilmente un sostantivo è accompagnato da meno di tre aggettivi), senza arrivare a una efficace drammaturgia.

Gianandrea Noseda, che finalmente realizza il suo progetto, legge la partitura come se fosse di uno degli autori russi da lui prediletti. Non c’è finezza strumentale che non sia messa in evidenza, che siano i toni cupi degli ottoni e dei bassi del tema di «Volga, Volga» o l’orchestra di balalaike del terzo atto, qui ricreate con cetra, mandolini e… pianoforte preparato! Il vigore e l’entusiasmo con cui Noseda dirige l’orchestra del teatro trovano i momenti migliori nelle pagine sinfoniche, come lo splendido preludio al secondo atto. Il volume sonoro, le dimensioni dell’immensa buca orchestrale e la non ottimale acustica del teatro fanno sì però che spesso le voci siano coperte dagli strumenti anche se in scena ci sono voci ragguardevoli. Così è perlomeno quella di Sonya Yoncheva, non cantante “verista” ma interprete di temperamento per la figura di Stephana, «la bella orientale». Il soprano bulgaro, che da Händel e Monteverdi è passata a Verdi e Puccini, debutterà alla Scala l’anno prossimo nei panni di un’altra russa maliarda, la Fedora, sempre di Giordano. Qui oltre al bel timbro e ai facili acuti fa mostra anche di una buona dizione e una magnetica presenza scenica. Acuti invece un po’ al limite per Giorgi Sturua, ma la parte di Vassili, creata per il particolare strumento di Giovanni Zenatello, cantante all’epoca dai mezzi vocali smisurati, è tutt’altro che agevole, ma il tenore georgiano ne esce con onore. Più a suo agio nel suo ruolo è il rumeno George Petean, che si trova a dover rendere plausibile una parte come quella di Gléby senza caricarla di eccessiva malignità. Di buon livello i comprimari, dal principe Alexis di Giorgio Misseri alla Nikona di Caterina Piva e tutti gli altri.

Visivamente l’allestimento di Roberto Andò parte bene: la scena altoborghese e realistica all’apertura di sipario di Gianni Carluccio si trasforma in uno studio cinematografico dove si girano le pellicole del realismo socialista di epoca staliniana: un finto operatore e un finto microfonista intervengono a tratti e talora gli interpreti si cambiano costume o aspettano la loro battuta ai lati della scena. Su due schermi che scendono dall’alto vengono proiettate le immagini degli attori che interpretano la vicenda nel mezzo filmico, o spezzoni di cinegiornali d’epoca – compresa la faccia di Stalin stesso che appare alle parole «Cristo è risorto» nella scena della Pasqua del terzo atto. Ma l’idea non ha un’effettiva necessità e la mancanza di regia attoriale trasforma la performance in una esecuzione tradizionale con i cantanti al proscenio rivolti al pubblico e con i soliti gesti. Ci voleva probabilmente un regista come Livermore per sfruttare la lettura cinematografica con maggior convinzione. Peccato, così la riproposta di Siberia è stata un’occasione riuscita a metà.

Die ersten Menschen

Fernand Cormon, Caïn fuyant avec sa famille, 1880

Rudi Stephan, Die ersten Menschen (I primi uomini)

★★★★☆

Amsterdam, Het Muziektheater, 3 giugno 2021

(video streaming)

In principio fu il complesso di Edipo

Allo scoppio della Grande Guerra Karl Kraus scriveva il suo pessimistico Die letzten Tage der Menschheit (Gli ultimi giorni dell’umanità). Nello stesso periodo il ventisettenne Rudi Stephan completava il “dramma erotico” Die ersten Menschen, l’unico titolo operistico della sua breve carriera di musicista.

Considerato una delle maggiori speranze tra i compositori della sua generazione – nacque nel 1887 e morì a 28 anni nella Grande Guerra – Rudi Stephan è ora un autore quasi completamente dimenticato. Sul musicista cadde la maledizione di chi muore troppo giovane e quindi lascia il dubbio di aver raggiunto oppure no la maturità artistica. Per di più non aiutano le parole che sembra aver detto ai genitori prima di partire per la guerra: «Finché non succede niente alla mia testa… è ancora piena di tante cose belle». Sedici giorni dopo moriva sul fronte ucraino con la testa trapassata dal proiettile di un cecchino russo.

Il suo stile musicale è tardo-romantico e proto-espressionista, fondendo tonalità e atonalità come nel primo Schönberg. Aliene da intenzioni programmatiche, le composizioni del suo smilzo catalogo sono caratterizzate da titoli neutri: Musica per orchestra (n° 1, 1910; n° 2, 1912-3), Musica per violino e orchestra (1910), Musica per sette strumenti a corde (1907-11), Lieder per voce e pianoforte (1905, 1906, 1907, 1914).

In due atti, Die ersten Menschen è la messa in musica dell’omonimo dramma di Otto Borngräber, oggetto degli strali della censura che ne vietò le rappresentazioni in Baviera dopo la prima del 1912: la società cattolica non era disposta ad accettare la riscrittura radicale del racconto della Genesi dove la storia del fratricidio di Caino e Abele era vista in una prospettiva particolare, per non dire blasfema e scandalosa.

La composizione dell’opera si trascinò per un lungo periodo di tempo. Stephan l’aveva iniziata subito dopo i suoi primi colloqui con Borngräber nel 1909 per poi completare il lavoro probabilmente all’inizio del luglio 1914. Molti amici cercarono di sconsigliargli di andare avanti con questo progetto perché riconoscevano chiaramente come il nome di Borngräber non fosse esattamente una raccomandazione. Poco dopo la morte di Stephan, il suo editore Ludwig Strecker scriveva al padre dell’autore: «Lei sa che molto tempo prima che suo figlio iniziasse il lavoro sul dramma di Borngräber ne avevo parlato senza particolare entusiasmo; sì, posso anzi dire che glielo avevo addirittura sconsigliato perché l’opera in quanto tale suscitava seri dubbi, più che giustificati dal suo fallimento come dramma.[…] Da parte mia, continuo a dubitare che possa avere successo, nonostante la bella musica di suo figlio; quel materiale trascina nell’abisso anche la musica più celestiale».

Atto primo. Nella prima famiglia sulla Terra, Adamo (Adahm) si occupa di coltivare la terra, mentre Eva (Chawa) è sensualmentesedotta dalla primavera del mondo. I figli Caino (Kajin) e Abele (Chabel) hanno una visione molto diversa: mentre Chabel è devoto a Dio a cui sacrifica animali, Kajin si sente unito alla natura ed è alla ricerca della soddisfazione dei sensi in una donna «dolce e selvaggia».
Atto secondo. Al calar della notte, Chawa – accecata dal chiaro di luna e da desideri erotici inappagati – vede un Adahm più giovane insuo figlio Chabel. Kajin osserva sua madre rivolgersi al fratello come al suo amore infantile perduto. È l’attrazione erotica di Kajin per sua madre che lo spinge a uccidere il fratello minore. Dopo il fratricidio Kajin scompare nella natura selvaggia mentre Chawa e Adahm rimangono soli a guardare al ciclo della vita e al futuro dell’umanità.

Già nel maggio 1914, prima del completamento dell’opera, fu firmato un contratto preliminare con l’Opera di Francoforte per la prima, che fu fissata per l’inizio del 1915; il contratto definitivo doveva seguire dopo il completamento, a metà agosto e un accordo era stato raggiunto con la casa editrice, ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale vanificò tutti questi piani. Il 2 marzo 1915 Stephan fu chiamato al servizio militare. Usò i permessi di giugno e agosto per accelerare i piani di esecuzione dell’opera: in giugno spedì le partiture per pianoforte e all’inizio di luglio diede l’incarico di iniziare a scrivere le parti per orchestra, ma nel settembre 1915 Stephan ricevette l’ordine di mettersi in marcia. Die ersten Menschen andò in scena postumo il 1° luglio 1920 a Francoforte. Una seconda versione curata da Karl Holl fu presentata invece a Münster nel ’24. L’opera ebbe favorevoli riconoscimenti critici all’epoca per poi scomparire. Negli ultimi anni l’opera è stata riproposta in forma scenica. La base di queste esecuzioni, tuttavia, era la versione Holl. L’opera di Stephan è stata nuovamente ascoltata nella versione originale nel 1998 al Konzerthaus di Berlino in un concerto. Nel 2006 nel 2014 sono state fatte due registrazioni su cd.

In questa produzione dell’Opera Nazionale Olandese l’orchestra del Koncertgebouw in alto sul fondo del palcoscenico è il quinto protagonista: le telecamere indugiano sui singoli strumentisti o sul complesso dell’orchestra nei momenti di più intensa sonorità di questa lussureggiante partitura ricreata da François-Xavier Roth con vigore ma anche trasparenza e grande cura strumentale. Gli influssi wagneriani e straussiani sono evidenti, ma non è lontana l’atmosfera della Verklärte Nacht schönberghiana o delle sinfonie di Skrjabin. Con le spalle ai cantanti Roth riesce a concertare con precisione avendo a disposizione un cast di eccellenti interpreti che affrontano per la prima volta un testo di grande complessità, vocalmente arduo e scenicamente impegnativo. Si devono quindi perdonare loro le occhiate agli schermi che rimandano l’immagine del direttore, impietosamente riprese dai primi piani della regia video. Sul velatino che separa l’azione al proscenio dall’orchestra vengono proiettate le immagine riprese da due steadycam, ma la ripresa video privilegia i primi piani e i dettagli, come le scarpe a stiletto di Chawa, la bocca da cui esce sangue di Kajin o la statuetta ermafrodita e itifallica che Chawa forma con l’argilla – quella con cui sarà ucciso Chabel alla fine di una scena in cui si raggiungono momenti di orgasmo in musica.

Bieito ci mostra gli ambigui rapporti tra i componenti di questa prima famiglia che egli riunisce attorno a un tavolo sormontato da fiori e frutti. Bieito non fa altro che spingere la visione malsana già presente nel libretto e nella musica per offrirci una vicenda contemporanea di desideri indicibili esplicitamente rappresentati. Elementi materici e sensuali pervadono la sua lettura: terra, argilla, sangue, mele da addentare, frutti da cui spremere avidamente il succo. La scenografia di Rebecca Ringst, oltre al tavolo suddetto sotto cui si rifugiano spesso i personaggi, mette in scena una fragile casa di tulle semitrasparente che verrà nel seguito strappato. Nei costumi di Ingo Krügler i due fratelli sono inizialmente in giacca e cravatta, ma finiranno a torso nudo e coperti di terra e sangue dopo la notte percorsa da incestuosi brividi erotici.

Adahm dopo la cacciata dall’Eden ha acquistato conoscenza (lo vediamo infatti utilizzare un laptop) ma è apatico e ha perso lo slancio della giovinezza. Non lo slancio vocale per il basso-baritono Kyle Ketelsen che lo interpreta. Chawa, non lontana parente della Salome straussiana per la stessa morbosa sensualità, ha nostalgia della giovinezza sua e del marito. Annette Dasch si dimostra ancora una volta una cantante dalla magnetica presenza scenica e dalla sicura vocalità. Il Kajin affetto dal complesso di Edipo trova in Leigh Melrose un interprete intenso che non si risparmia in scena, accarezzando la scarpa della madre o lanciando sguardi di disperato desiderio imappagato. Nella sua sua estatica spiritualità e innocenza Chabel arriva a sacrificare il suo peluche preferito, un bianco agnellino che si imbratterà di sangue. John Osborn ne affronta con agio l’acuta tessitura.

All’elenco comprendente Salome (anch’essa liberamente ispirata dal Vecchio Testamento), Sancta Susanna e Lady Macbeth di Mcensk con cui il teatro del Novecento ha messo in musica desideri insoddisfatti e passioni malsane, ora possiamo aggiungere anche il titolo dell’opera di Stephan.

Innocence

Kaija Saariaho, Innocence

★★★★★

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 10 luglio 2021

(diretta streaming)

La nuova opera di Kaija Saariaho, un capolavoro dei nostri tempi

Ogni edizione del Festival di Aix-en-Provence vede nascere un lavoro in prima mondiale di un compositore vivente. Quest’anno è la volta di Kaija Saariaho con la sua quinta opera, prevista l’anno scorso ma non andata in scena per le note ragioni. Coprodotta con l’Opera Nazionale Finlandese, la Royal Opera House di Londra, l’Opera Nazionale Olandese e l’Opera di San Francisco, Innocence mette in campo donne per la composizione, per la stesura del libretto, per la direzione d’orchestra, per il progetto della scenografia (Chloe Lamford) e il disegno e la realizzazione dei costumi (Mel Page).

Dopo le rarefatte atmosfere zen di Only the Sound Remains (2017), con questo nuovo lavoro la Saariaho affronta la storia altamente drammatica e disturbante di un testo della più popolare narratrice finlandese di oggi, Sofi Oksanen. Una storia che tratta delle ferite del passato e del loro traumatico riemergere. Innocence è una tragedia contemporanea sublimata dalla musica e caratterizzata dalla mescolanza di diverse lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, greco, ceco, svedese, rumeno, nella traduzione di Aleksi Barrière), quelle dei tanti personaggi.

Difficile narrarne la vicenda senza svelare i misteri di questo thriller che ha nel finale una rivelazione sconvolgente. Si può solo dire che c’è una festa di nozze in una città cosmopolita della Finlandia di oggi: lo sposo è finlandese, la sposa rumena, la suocera francese, la cameriera ceca. Dieci anni prima, questi stessi personaggi sono stati colpiti da un evento tragico: una strage in una scuola internazionale. Lo sposo è il fratello dell’assassino e la sua famiglia, che è stata ostracizzata e vuole disperatamente andare oltre l’accaduto, ha tenuto nascosto tutto alla sposa, ma i fantasmi delle vittime fanno rivivere il ricordo del loro trauma.

Una nebbia di colpevolezza avvolge tutti i personaggi, è quella che si alza dai lunghi toni sepolcrali del preludio nei bassi e nel controfagotto, prima che un frammento acuto di fagotto trafigga la quiete con un canto malinconico. Qualcosa di profondamente scuro e minaccioso è successo, la memoria ne vibra ancora. In poche battute è definito il tono dell’opera quale si svilupperà in una tensione lenta e angosciosa in cinque atti senza intervallo. La compositrice aveva dato all’opera il titolo provvisorio di Affresco, in quanto ispirata da L’ultima cena da cui ha derivato la dimensione del cast (13 solisti), il tema della colpevolezza e le esperienze collegate ma separate di persone che hanno condiviso un trauma.

Nonostante il virtuosismo e la densità della partitura, l’attenzione dello spettatore è attratta continuamente da quanto avviene sul palcoscenico, a cui la musica è totalmente integrata per esplorare e intensificare il dramma di un’azione lucida e inesorabile come quella di una tragedia greca. Diretta con sensibilità da Susanna Mäkki, la London Symphony Orchestra avvolge con i suoi strumenti il canto in modo leggero, mai sottolineandolo esplicitamente né entrando in competizione. I cantanti utilizzano una grande varietà di stili vocali differenti: la sposa (la bravissima Lilian Farahani) è quella con l’espressione più lirica; Marketa (la cantante pop Vilma Jää) usa gli stilemi della musica popolare finlandese; un’intensa Magdalena Kožená è la cameriera, madre chiusa nel suo dolore che continua a comprare i regali di compleanno per la figlia uccisa e le mele che lei amava; una sofferta Sandrine Piau è la madre che porta su di sé il peso della colpa di aver dato la vita a un assassino; Tuomas Pursio il padre che cerca invece di cancellare il passato; Markus Nykänen lo sposo che ha un terribile segreto da nascondere; nel suo canto parlato Lucy Shelton è l’insegnante anche lei vittima della furia omicida; Beate Mordal, Julie Hega, Simon Kluth, Camilo Delgado Díaz e Marina Dumont sono gli altri studenti, ognuno efficacemente caratterizzato in un ruolo parlato. Fuori scena l’Estonian Philharmonic Chamber Choir delinea un paesaggio sonoro talmente tranquillo da risultare inquietante.

La messa in scena questa volta non è affidata al solito collaboratore Peter Sellars, che ha dato immagine visuale alle opere precedenti della Saariaho, bensì al regista australiano Simon Stone che qui al Festival di Aix-en-Provence produce anche Tristan und Isolde. La sua lettura iper-realista qui è perfettamente funzionale alla vicenda e l’ambiente rotante si adatta agli avvenimenti e alle battute con la precisione di un orologio, una sincronia realizzata in maniera sorprendente.

Innocence è veramente l’opera dei nostri giorni, immersa nella politica e nella storia contemporanea. Il melting pot della scuola internazionale è una metafora della nostra Europa la cui pacifica unione può essere messa in crisi da una inesprimibile violenza per la mancata integrazione di alcuni dei suoi membri, qui un giovane disturbato e vittima del bullismo e della derisione dei suoi compagni. Nel finale i suoni dissonanti passano attraverso un momento di consonanza, ma è difficile percepire un messaggio di ottimistica speranza.

Boys don’t cry

Hervé Koubi e Fayçal Hamlat, Boys don’t cry

Venaria, Teatro Concordia, 8 luglio 2021

Danzare la libertà

Boys don’t cry trasmette il messaggio della libertà di essere sé stessi e la gioia della danza. Sette ragazzi dalla pelle ambrata e a torso nudo esprimono la costruzione della propria identità in una società chiusa e maschilista. Ci dicono cosa vuol dire scegliere di diventare ballerino invece che giocatore di football e vincere le tensioni che questa scelta può causare con la famiglia. E quanto costa affrancarsi dalla oppressiva mascolinità dei paesi dell’Africa del Nord da cui provengono, dove la differenza di genere pesa come un macigno sui destini individuali.

Con i movimenti acrobatici della danza hip hop, di quella moderna e del ballo di strada eseguiti con virtuosa fluidità, la coreografia di Hervé Koubi e del suo compagno Fayçal Hamlat – uno ebreo, l’altro mussulmano; uno detesta il calcio, l’altro lo adora… – è costruita su un testo di Chantal Thomas e si avvale delle musiche di Stéphane Fromentin. Su uno sfondo immacolato di teli bianchi e in pantaloni bianchi, a turno i giovani danzatori prendono la parola a un microfono – anch’esso bianco – per raccontare dei rapporti con i genitori, del bullismo subito, dei talora dolorosi tentativi di emancipazione.

Ipnotizzandolo con la bellezza dei loro corpi in movimento, dal palco trascinano il pubblico con la loro energia sfrenata e condividono con orgoglio il loro amore per la danza, rompendo stereotipi e pregiudizi in uno sfogo disinibito e potente di rivolta e di piacere.

Eine florentinische Tragödie / Gianni Schicchi

Alexander Zemlinsky, Eine florentinische Tragödie (Una tragedia fiorentina)

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 23 marzo 2014

Morte a Firenze

Non è solo l’Italia umbertina a scoprire e infatuarsi per il Rinascimento fiorentino – quanti mobili finto Quattrocento nei salotti borghesi e negli studi notarili dell’epoca! Anche oltralpe si guarda alle torbide vicende di quel periodo come occasione per drammi a tinte fosche e passioni violente. Erano nate così: la Francesca da Rimini (1914) di Zandonai, la Mona Lisa (1915) di Max von Schillings, la Violanta (1916) di Korngold, il Palestrina (1917) di Pfitzner, Die Gezeichneten (1918) di Schreker.

Non è da meno Alexander Zemlinsky che in quegli stessi anni mette in musica A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, la pièce lasciata incompiuta a causa del processo intentato al suo autore.

Simone, ricco mercante fiorentino, ritorna a casa e trova la moglie Bianca sola con un giovane nobile, Guido Bardi, rampollo unigenito del principe di Firenze. Simone tenta di eludere la scabrosità della situazione sciorinando la logorrea tipica degli affaristi e, facendo mostra di credere che Guido si trovi in casa sua per motivi di affari, gli propone l’acquisto di alcune merci particolarmente preziose. Di fronte alla spavalda insolenza con cui il rivale gli replica, Simone, pur conservando un contegno impenetrabile, sente ribollire il sangue e incomincia a lasciar cadere una serie di allusioni sinistre. Quando Guido, dopo aver baciato Bianca, manifesta l’intenzione di congedarsi, Simone lo costringe a duellare con lui e, avuta la meglio, lo strangola; ma quando si volta verso la moglie infedele, deciso a uccidere anche lei, avviene un inaspettato rovesciamento di sentimenti: fissandosi negli occhi i due cadono l’una nelle braccia dell’altro, chiedendosi in eco: «Perché non mi hai mai detto che eri così forte?» – «Perché non mi hai mai detto che eri così bella?».

La vicenda aveva già tentato il torinese Carlo Ravasegna che aveva composto Una tragedia fiorentina su un libretto in italiano di Ettore Moschino pubblicato nel 1914. Con il libretto in tedesco di Max Meyerfeld, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky era andata in scena a Stoccarda il 30 gennaio 1917 diretta da Max von Schillings. La brevità e incompletezza del lavoro non avevano frenato l’interesse del compositore, allora direttore del Deutsches Landestheater di Praga. Le lacune del testo erano state abilmente risolte e la musica aveva fatto il resto.

«Contrazione della vicenda a un atto unico e riduzione dei personaggi a una rosa ristrettissima erano elementi peculiari del dramma espressionistico: eppure Eine florentinische Tragödie non può essere definita solo come lavoro espressionistico. La poetica estetizzante del beau geste riconduce infatti anche a un clima decadente, intriso di raffinatezza Jugendstil: la sconfitta del dandy da parte del mercante testimonia il prevalere della forza sulla bellezza, ma suggella anche la crisi definitiva dei Des Esseintes e degli Sperelli. Il sapore liberty che pervade l’opera è confermato dall’assenza di ferinità nella lotta silenziosa che i due avversari conducono per la stessa donna: Simone parla di tessuti e di pietre preziose e l’orchestra attutisce l’agitazione del suo battito cardiaco sotto il delicato orpello di arpe, xilofoni, glockenspiel, mandolino, triangolo. La pièce di Wilde si configurava come tragedia della procrastinatio, tutta intessuta cioè sul continuo differimento del climax conclusivo: Zemlinsky ottiene musicalmente un effetto analogo imbrigliando l’orchestra e lasciandola sfogare in un crescendo risolutivo solo negli ultimi minuti dell’azione. Le sonorità di Zemlinsky sono un continuo ricamo che sottilmente si insinua nel testo: questa partitura calibrata sui particolari, su cellule seminascoste come perle nell’ostrica non risalta forse pienamente in una rappresentazione teatrale, ma nasce dalla precisa volontà di tradurre in forma artistica adeguata l’eleganza minuta del verso di Wilde, già necessariamente illanguidito dalla traduzione tedesca in prosa. Il preludio iniziale non assolve solo una funzione introduttiva, ma sostituisce la scena d’amore fra Guido e Bianca, ovviando in parte all’incompiutezza del lavoro wildiano; un precedente analogo si riscontra nel Rosenkavalier e a questo proposito va notato come l’empito cavalleresco che accompagna le sortite del nobile Bardi non sia troppo lontano dai profili straussiani di Oktavian e Don Juan. La vocalità trascorre dal declamato fluente della loquela di Simone al parlato roco su cui si consuma il duello, per riemergere alla melodia spiegata con lo splendido coup de foudre finale, in cui l’amore nasce dalla morte e ogni potenziale trionfalismo viene annullato nella piega dolorosa degli ultimi sussulti cromatici. Il cromatismo pervade l’intera opera senza mai sconfinare in forzature artificiose, perché si sovrappone con grazia perfetta agli addentellati del testo; gli stessi temi, che nel preludio risuonano gonfi di passione, ritornano trasfigurati nel corso della vicenda e le loro metamorfosi sembrano essere il termometro interiore del dramma dei protagonisti. In questo modo si salvaguarda l’unità e insieme la varietà della forma; anche i particolari più espressionistici del testo (ad esempio il presagio del vino versato, come macchia di sangue pronta a dilagare) vengono raccolti in questa rete analitica e addensati in ombre sempre più gravide di minaccia. La leggerezza di certi pizzicati, l’inopinata soavità delle numerose emersioni solistiche delle prime parti orchestrali, gli arabeschi intessuti dall’arpa testimoniano l’originalità della strumentazione di Zemlinsky e si attagliano molto bene all’atmosfera di gioco pericoloso che domina questa insolita conversazione a tre; il preziosismo delle sonorità individua anche con notevole intuito il clima claustrofobico della vicenda, svolta interamente fra quattro mura, in un hortus conclusus che non sa aprirsi verso il mondo (Simone stesso commenta fra sé: “Il mondo intero si è dunque ristretto a questa stanza e ha solo tre anime come abitanti?”). Il respiro melodico, sempre latente eppure sempre trattenuto (come la notte fiorentina, che occhieggia dalla vetrata senza poter spezzare l’incubo della clausura che grava sui tre) si sfoga finalmente nello squarcio lirico del duetto di Bianca e Guido: musica appassionata e febbrile come quella di certe pagine di Berg, che infatti amava molto l’anima espressiva di Zemlinsky. Se il tema sottinteso al dramma di Wilde era quello della bellezza sopraffatta e illanguidita dalla mediocrità quotidiana, la riscrittura operistica di Zemlinsky si svolge come un ininterrotto peana alla bellezza; la scrittura strumentale, precisa e nitida come un fregio di Klimt, e la forma, serrata ed elegante, diventano pendant di un estetismo ormai sconfitto e pronto a mutare la sua tragedia nelle allucinazioni espressionistiche. Proprio il carattere ambiguo dell’abbozzo di Wilde si prestava al trapasso fra questi due mondi spirituali, di cui la Florentinische Tragödie offre una sintesi personalissima». (Elisabetta Fava)

L’atto unico di Zemlinsky è spesso abbinato a un altro breve lavoro ambientato nella Firenze dell’epoca, di tono totalmente diverso e per questo complementare: il Gianni Schicchi di Puccini. Così era successo alla Scala nel 2004, così avviene ora al Regio di Torino che affida a Stefan Anton Reck la direzione del dittico. Sotto la sua bacchetta l’orchestra del teatro riproduce il lirismo sinfonico di Zemlinsky, che dallo stile straussiano vira all’espressionismo della Seconda Scuola di Vienna, con piglio energico ed esuberante. I due interpreti maschili in scena sono Mark S. Doss, autorevole bass-baritono che dà voce a Simone, e Zoran Todorovich, Guido. Insinuante ma mancante di proiezione la Bianca di Ángeles Blancas Gulín.

Del tutto discutibile la realizzazione visiva di Vittorio Borrelli sia nell’ambientazione novecentesca e nella scenografia (di Saverio Santoliquido), che non ha alcuna attinenza con l’attività del personaggio Simone, sia nel finale in cui il regista stravolge completamente l’ironia beffarda del libretto facendo ammazzare la donna dal marito!

Le cose non migliorano con il Gianni Schicchi, non tanto per l’ambientazione novecentesca con lo stesso letto al proscenio, qui non particolarmente incongrua, quanto per il tono dato dal regista, che scambia il grottesco con la farsa, infarcendo di gag una vicenda che vuol mettere in evidenza l’ipocrisia dei parenti, qui trasformati in macchiette scatenate. Va contro corrente Alessandro Corbelli, attore di grande intelligenza, che di Gianni Schicchi dà una raffigurazione sobria molto più in linea con le intenzioni dell’autore. Nella folta schiera di cantanti in scena si stacca la coppia dei giovani Rinuccio e Lauretta, Francesco Meli e Serena Gamberoni, compagni anche nella vita. Qui in Puccini si sente maggiormente la mano pesante del direttore, disattento ai dettagli e con sonorità soverchianti le voci.