
∙
Umberto Giordano, Siberia
★★★☆☆
Firenze, Teatro del Maggio, 13 luglio 2021
Ici la version française
Siberia di Giordano a Firenze. Un’occasione riuscita a metà.
Per la seconda volta in poco tempo il palcoscenico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ospita le gelide lande russe messe in musica da compositori dell’inizio del XX secolo: l’anno scorso fu il caso di Risurrezione (1904) di Franco Alfano, ora è la volta di Siberia (1903) di Umberto Giordano, l’opera che doveva inaugurare la stagione del Regio di Torino quando ancora Gianandrea Noseda ne era direttore musicale. Poi le cose sono andate diversamente e ora è lo stesso direttore a riproporre qui a Firenze un’opera a cui sembra tener molto.
Dopo il successo di Fedora (1998) Giordano cerca di replicare con un altro dramma di ambientazione russa. C’è Dostoevskij alla fonte del libretto che gli appresta Luigi Illica, sia per il tema dei deportati in Siberia (Memorie da una casa di morti) sia per quello della donna perduta che si redime col sacrificio – e qui sono le varie Katjuša, Anna, Sonja, Grušenka degli altri suoi romanzi a offrire il modello per Stephana. Illica spinge sul tema politico e sociale, Giordano propende invece per il dramma passionale e il testo proposto dal librettista viene sforbiciato per raggiungere una concisione drammatica che sarà ancora maggiore nella seconda versione del 1927 – quella scelta da Noseda – che seguirà a quella della prima del 10 dicembre 1903 alla Scala di Milano.
Atto I. La donna. A Pietroburgo, all’alba della festa di S. Alessandro. Mentre in lontananza si ode un malinconico canto di mugiki, nella “Rotonda”, la palazzina che il principino Alexis ha regalato a Stephana, sua amante, la fedele Nikona e il servo Ivan attendono con ansia la loro padrona, che non è ancora rincasata. Giunge Gléby, primo amante di Stephana che ha fatto di lei una cortigiana: Nikona prova a convincerlo che la giovane è indisposta, ma questi insiste, deve assolutamente parlarle di un affare d’oro. Bussa alla porta della camera e poiché Stephana non gli risponde comprende che ha passato la notte fuori di casa. Avrà trovato “un amante del cuore”, commenta sarcastico. In quel momento Ivan annuncia l’arrivo di Alexis, seguito da una schiera di amici, fra cui il capitano Walinoff e il banchiere Miskinsky. Nikona è disperata, ma Gléby non perde la calma e si dice sicuro di salvare la situazione. Quando Alexis chiede di Stephana, Nikona risponde che sta dormendo: allora Gléby propone di intonare, invece che una serenata, una “mattinata”, così da dare il tempo alla giovane di prepararsi: il principe e i suoi amici accompagneranno il canto col tintinnio delle loro spade, Gléby con quello di due rubli. Finita la canzone, Gléby propone una partita di baccarà e tutti entrano nella sala da gioco. Giunge Stephana, che ha sentito tutto, e rivela a Nikona ciò che l’angoscia: il suo nuovo amante non deve mai sapere chi sia in realtà e quale genere di vita abbia condotto fino ad allora. L’amore che prova per lui l’ha fatta rifiorire a nuova vita, finalmente libera dal suo passato. Ritorna Gléby e svela alla giovane l’affare che intende combinare: nella sala da gioco c’è un ricco cliente, disposto a pagar bene per i favori di Stephana, la quale però rifiuta decisamente: non si venderà più per danaro. Gléby ribatte che per gente come loro, nati poveri, non c’è altra via per raggiungere una vita agiata. Poi insinua cinicamente che “l’amante del cuore”, se povero, non l’ami davvero, ma calcoli i vantaggi che può ottenere dalla loro relazione. Giunge Alexis: il suo amore per Stephana, dice, è ogni giorno più intenso e ardente e le offre uno splendido braccialetto. In quel mentre Ivan annuncia che un giovane ufficiale chiede di Nikona: è Vassili, il figlioccio della donna, da poco giunto a Pietroburgo e in procinto di partire per la guerra contro i Turchi. Le confessa di essersi innamorato di una ricamatrice, povera ma onesta, come lui. Mentre sta per andarsene, entra Stephana. Vassili è stupito riconoscendo in lei il suo grande amore. La donna, sgomenta nel vederlo nella ricca casa in cui abita, lo aggredisce, ripensando alle parole di Gléby: dunque Vassili sapeva chi era e aspettava l’occasione per entrare a casa sua. Mentre Nikona tenta di farlo andar via, Vassili dichiara nuovamente il suo amore per Stephana: è lei il suo “destin soave” che deve amare. Quando Nikona rivela che il giovane è il suo figlioccio venuto a trovarla, Stephana commossa, comprendendo di averlo accusato ingiustamente, gli chiede perdono, ma lo invita ad andarsene e a dimenticarla. La passione di Vassili però è troppo forte: non potrà mai scordarla, perché nel suo cuore è scolpito l’amore per lei e l’amerà anche sapendo chi è in realtà. Alexis sorprende i due abbracciati e Stephana gli confessa che si tratta del suo amante: il principino l’insulta e Vassili si scaglia su di lui. I due si battono e Alexis viene ferito.
Atto II. L’amante. Alla frontiera fra Siberia e Russia. Alla poloo-tappa (tappa della fame) da Omsk a Kolyan, contadini e rivenditori attendono l’arrivo della colonna dei forzati per tentare di vendere i loro prodotti. Vi è anche una fanciulla che chiede se i condannati siano vicini: insieme al fratellino spera di poter vedere per l’ultima volta il padre, destinato alle miniere. Un cosacco la rassicura: i forzati stanno per arrivare. Per riconoscenza, la fanciulla offre al cosacco qualche moneta, ma questi, commosso, rifiuta: “Tienle per tuo padre”, le dice. Da lontano si ode un canto triste: è la catena vivente dei condannati che si avvicina. Appare poi una troika sulla quale sta una donna sola: è Stephana, che chiede del condannato 107. Ma subito lo scorge, è Vassili, deportato in Siberia per aver ferito Alexis. La donna prorompe in esaltate frasi d’amore: è decisa a rimanere sempre accanto a lui, per redimersi dalla sua vita dissoluta. Ha donato ai poveri la sua ricca casa e adesso vuol condividere la sorte del suo amato, non lasciarlo più. Invano Vassili tenta di dissuaderla, descrivendole gli orrori della “maledetta” Siberia: Stephana ribatte che il suo destino è vivere vicino a lui e che il suo amore l’ha redenta. Vassili, commosso, le confessa che credeva finita la vita e la speranza, ma l’amore di lei gli dà nuova forza. I due tacciono all’udire il canto disperato dei forzati, dopo essersi promessi di rimanere sempre insieme.
Atto III. L’eroina. L’interno della “Casa di forza” nelle miniere del Trans-Baikal. È il Sabato Santo e un coro di donne saluta la luce primaverile che concede un po’ di calore. Un vecchio invalido, dopo aver scambiato qualche parola con le donne, che si preparano allo spettacolo teatrale di Pasqua, riferisce a Stephana che un condannato la sta cercando, ma la donna ribatte che non vuol parlare con nessuno. Poi dà qualche moneta all’invalido. Di nuovo il coro di donne si rallegra per una giornata che darà sollievo al loro soffrire, quando Stephana e Vassili intrecciano un duetto d’amore: sognano la libertà e inneggiano all’amore che, pur nella sofferenza, allevia le loro sciagure. Dopo l’arrivo del Governatore, Gléby si presenta a Stephana: è caduto in disgrazia ed è stato condannato anche lui alla Siberia. Ha trovato un modo di evadere, attraverso un pozzo: ha provato il percorso, ma il ricordo di lei l’ha riportato indietro. Le propone dunque, con parole appassionate, di fuggire insieme. Stephana rifiuta recisamente, ma Gléby insiste: se tornerà con lui, riavrà una vita gioiosa, piena di feste e di splendore. La donna ribatte che egli le ricorda un passato di vergogna, mentre nella Siberia, colma di miserie e dolori, ella respira “il trionfo dell’amore”. Ama Vassili e rimarrà con lui. Gléby se ne va minacciandola, mentre il Governatore annuncia un giorno di riposo dal lavoro. Ma Gléby torna ben presto e dopo aver schernito Vassili, racconta agli altri forzati la storia sua e di Stephana: l’aveva conosciuta quando aveva appena quindici anni ed era povera ma bellissima. L’aveva dunque avviata ad una vita da cortigiana, piena di feste e avventure. Vassili vuole avventarsi contro di lui, ma Stephana lo trattiene. Però le parole di Gléby lo hanno ferito: il ricordo del passato dell’amata, le sue relazioni con altri uomini lo torturano. Quel passato torna per volere di Dio, che nega il perdono, e la sua sola speranza è la morte. Stephana reagisce chiamandolo falso amante: anche se avesse in fronte tutto il fango del mondo, aggiunge, per il suo pianto Dio la perdonerà. Vassili si pente delle sue parole e le chiede perdono, mentre Stephana afferra Gléby per il collo e rivolta a Vassili prorompe in un grido: Gléby è stato il suo primo amante e l’ha venduta; un amore puro l’ha redenta, ma ecco ritornare con lui il “vile destino” della sua vita. Il vero nome di Gléby? Usura e falso! Mentre Stephana sviene, il Governatore e i forzati inneggiano a Cristo risorto; quindi iniziano i preparativi dello spettacolo teatrale. Stephana propone allora a Vassili di fuggire attraverso il pozzo; il giovane è perplesso ma viene convinto a tentare dall’amata. Si odono grida di “All’armi” e colpi di fucile: Stephana è riportata dai cosacchi ferita a morte, mentre Vassili è arrestato. Il Governatore lo fa liberare, mentre Stephana si rivolge affettuosamente all’amato: la sublime parola “libertà” le nasce finalmente in cuore; muore felice di sentirsi redenta e sarà sempre con lui, sul suo cuore. Mentre i forzati intonato un triste coro, Vassili chiama disperato Stephana.
Giordano ha sempre considerato Siberia il suo capolavoro, in effetti il lavoro ha un taglio moderno e teatrale, soprattutto il secondo atto. La partitura impiega temi popolari russi tra cui la canzone dei battellieri del Volga che torna a più riprese a mo’ di Leitmotiv. Diversamente dall’Andrea Chénier non ha ariosi orecchiabili, si sviluppa in un’alternanza di declamato e cantabile con momenti più melodici come la “mattinata” a 4 voci o la “quasi romanza” di Stephana «Io l’amai | per l’esistenza | rinnovata: | pura in me» dell’atto primo o le «Orride steppe» con cui Vassili mette in guardia la donna da quello che la aspetterà in Siberia. L’opera inizia in maniera insolita: la voce di un mugiki nel silenzio e fuori scena canta il fatalistico dolore di vivere, il vero tema di Siberia: «Godi dunque il suo sole, se c’è sole; | godi la luna, se la luna c’è; | è vita anche la tua ché, se Dio vuole, | c’è ultima la morte anche per te».
Il libretto di Luigi Illica, qui senza l’essenziale collaborazione di Giuseppe Giacosa – che era il vero versificatore della rinomata ditta Illica&Giacosa dei capolavori pucciniani – gioca con rime («fondo-tondo-mondo, malori-dolori, languire-soffrire, penare-tremare, Siberia-miseria), allitterazioni consonantiche che sono quasi degli scioglilingua («bara mesta di tetri scheletri») e copiosità di attributi (difficilmente un sostantivo è accompagnato da meno di tre aggettivi), senza arrivare a una efficace drammaturgia.
Gianandrea Noseda, che finalmente realizza il suo progetto, legge la partitura come se fosse di uno degli autori russi da lui prediletti. Non c’è finezza strumentale che non sia messa in evidenza, che siano i toni cupi degli ottoni e dei bassi del tema di «Volga, Volga» o l’orchestra di balalaike del terzo atto, qui ricreate con cetra, mandolini e… pianoforte preparato! Il vigore e l’entusiasmo con cui Noseda dirige l’orchestra del teatro trovano i momenti migliori nelle pagine sinfoniche, come lo splendido preludio al secondo atto. Il volume sonoro, le dimensioni dell’immensa buca orchestrale e la non ottimale acustica del teatro fanno sì però che spesso le voci siano coperte dagli strumenti anche se in scena ci sono voci ragguardevoli. Così è perlomeno quella di Sonya Yoncheva, non cantante “verista” ma interprete di temperamento per la figura di Stephana, «la bella orientale». Il soprano bulgaro, che da Händel e Monteverdi è passata a Verdi e Puccini, debutterà alla Scala l’anno prossimo nei panni di un’altra russa maliarda, la Fedora, sempre di Giordano. Qui oltre al bel timbro e ai facili acuti fa mostra anche di una buona dizione e una magnetica presenza scenica. Acuti invece un po’ al limite per Giorgi Sturua, ma la parte di Vassili, creata per il particolare strumento di Giovanni Zenatello, cantante all’epoca dai mezzi vocali smisurati, è tutt’altro che agevole, ma il tenore georgiano ne esce con onore. Più a suo agio nel suo ruolo è il rumeno George Petean, che si trova a dover rendere plausibile una parte come quella di Gléby senza caricarla di eccessiva malignità. Di buon livello i comprimari, dal principe Alexis di Giorgio Misseri alla Nikona di Caterina Piva e tutti gli altri.
Visivamente l’allestimento di Roberto Andò parte bene: la scena altoborghese e realistica all’apertura di sipario di Gianni Carluccio si trasforma in uno studio cinematografico dove si girano le pellicole del realismo socialista di epoca staliniana: un finto operatore e un finto microfonista intervengono a tratti e talora gli interpreti si cambiano costume o aspettano la loro battuta ai lati della scena. Su due schermi che scendono dall’alto vengono proiettate le immagini degli attori che interpretano la vicenda nel mezzo filmico, o spezzoni di cinegiornali d’epoca – compresa la faccia di Stalin stesso che appare alle parole «Cristo è risorto» nella scena della Pasqua del terzo atto. Ma l’idea non ha un’effettiva necessità e la mancanza di regia attoriale trasforma la performance in una esecuzione tradizionale con i cantanti al proscenio rivolti al pubblico e con i soliti gesti. Ci voleva probabilmente un regista come Livermore per sfruttare la lettura cinematografica con maggior convinzione. Peccato, così la riproposta di Siberia è stata un’occasione riuscita a metà.
⸪