foto @ Birgit Gufler
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Giovanni Bononcini, Astarto
Innsbruck, Landestheater, 27 agosto 2022
Astarto de Bononcini, de Rome à Innsbruck via Londres
la suite sur premiereloge-opera.com
⸪
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Giovanni Bononcini, Astarto
Innsbruck, Landestheater, 27 agosto 2022
Astarto de Bononcini, de Rome à Innsbruck via Londres
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Giovanni Bononcini, Astarto
Innsbruck, Landestheater, 27 agosto 2022
Alle settimane di musica antica di Innsbruck un’opera di rara esecuzione diventa uno spassoso spettacolo
La seconda opera settecentesca ripescata dal direttore musicale delle Innsbrucker Festwochen der alten Musik – Alessandro de Marchi al suo ultimo anno di incarico – permette un interessante confronto sulle messe in scena delle opere del Settecento.
Con il Silla di Carl Heinrich Graun il regista Georg Quander aveva scelto di lasciare alla musica e alla complessità degli interventi vocali, soprattutto nel secondo atto, la costruzione della drammaturgia. In un certo senso l’ex sovrintendente della Staatsoper unter der Linden di Berlino aveva restituito con fedeltà l’intento serio del libretto di Federico II versificato in italiano dal Tagliazucchi, intervenendo con una regia molto sobria. Invece, con l’Astarto di Giovanni Bononcini, opera su libretto di Apostolo Zeno e Pietro Pariati presentato al Teatro Capranica di Roma nel gennaio 1715, Silvia Paoli fa della vicenda solo un pretesto per mettere in burla le solite sconclusionate avventure amorose di personaggi storici o di fantasia al limite del risibile delle opere settecentesche, parlando del nostro presente. (1)
L’ambientazione scelta dalla regista e realizzata tramite le efficaci scenografie di Eleonora de Leo e i costumi di Alessio Rosati, è un generico paese dittatoriale futuro ma che guarda agli anni ’60 del secolo scorso con tocchi di camp, soprattutto nel caso di Fenicio, contestatore con immagini di Che Guevara e Gandhi sulla parete, bandiera arcobaleno sulla tavola e travestimenti gay al momento giusto. Innumerevoli sono le gag e i particolari divertenti che animano questa “tetra dittatura”. Anche qui nel finale, come nel recente Farnace alla Fenice, la presa del potere di Elisa e Clearco (ora Astarto) significa un definitivo addio ad ogni velleità di libertà: a Venezia con la carneficina dei personaggi, qui a Innsbruck facendo tutti diventare prigionieri in tuta arancione, unico tocco drammatico di una regia ironica e spiazzante che trova giustificazione tra l’altro anche dalla fluidità dei generi dei cantanti che si sono succeduti nelle varie produzioni: alla prima romana del 1715 tutti gli interpreti erano ovviamente maschili per le note prescrizioni papali, mentre alla ripresa di Londra del novembre 1720, col libretto rivisto da Paolo Rolli e la partitura adattata alle diverse tessiture delle voci e ai differenti stili vocali, sulle scene del King’s Theatre non solo i due personaggi femminili erano affidati a due cantanti donne – la mitica Margherita Durastanti (Elisa) e Maria Maddalena Salvasi (Sidonia) – ma anche il personaggio di Agenore era stato cantato da un soprano (Caterina Gallerati) mentre nella parte del titolo si era esibito il castrato Francesco Bernardi, il Senesino, qui al suo debutto londinese, il quale diventerà idolo delle folle e interprete tra i preferiti di Händel. Nella ripresa moderna di Innsbruck, nella versione di Londra, i generi dei ruoli sono ancora cambiati, con un predominio di cantanti donne in tutte le parti, anche quelle maschili, ad eccezione di Fenicio.
Rivale di Händel (1685-1759), di cui era quasi coevo, Giovanni Bononcini (Modena, 18 luglio 1670 – Vienna, 9 luglio 1747) non riuscì a eguagliare il collega di Halle nella facilità melodica e nella ricchezza armonica, ma neanche perpetuò lo stile napoletano allora in gran voga: il suo è un tratto personale ben evidente in questa sua opera consistente in una sinfonia e di una trentina di numeri chiusi distribuiti equamente in tre atti, tutte arie solistiche ad eccezione di tre duetti. Musicalmente il peso dei sei personaggi è nettamente squilibrato tra Sidonia, Agenore e Fenicio (che hanno ognuno a disposizione tre interventi) ed Elisa, Clearco e Nino (rispettivamente otto, nove e sei, tra arie solistiche e duetti).
Con Astarto Bononcini raggiunge il culmine della sua maturità artistica con la versione del 1720, più compatta di quella originale sia nella lunghezza dei recitativi sia nei numeri chiusi, qui ridotti, con la soppressione della parte di Geronzio e una più ricca strumentazione. Per di più qui la parte di Clearco beneficia di arie che nell’originale romano erano affidata ad altri personaggi. Per nulla insolito per i compositori dell’epoca è il riutilizzo di proprio materiale, e Bononcini non fa eccezione riproponendo pagine già scritte per altre opere presentate a Vienna, città in cui aveva lavorato per oltre tredici anni. «Quest’anno Astarto sarà rappresentato per la prima volta in Austria. Una partitura nata a Roma e perfezionata a Londra, ma concepita a Vienna in armonia con la tradizione e i costumi musicali del luogo. Come il suo compositore, Astarto è l’opera di un’anima cosmopolita e inquieta, ricca di stimoli e passioni umane», scrive Giovanni Andrea Sechi sul programma di sala riassumendo le caratteristiche di questo raro lavoro.
La ricostruzione di materiali dell’opera e dei recitativi, mancanti in questa versione, si deve a Stefano Montanari che imbracciando il violino dirige la Enea Barock Orchestra, una compagine di 27 musicisti che formano un ensemble dal suono pulito ma non del tutto esaltante nella ricchezza di colori. È l’entusiasmo del maestro Montanari a conferire smalto a una partitura che, complice anche la omogeneità dei registri quasi tutti femminili, non sembra offrire le gemme melodiche e strumentali del Silla di Graun, ma confida nella professionalità delle voci. Qui è la diversità degli “affetti” messi in campo dagli interpreti a costituire l’interesse per questo negletto lavoro.
Dara Savinova è Elisa, la regina di Tiro combattuta tra l’amore e il ruolo di neo-monarca. Il magnifico timbro e lo stile elegante della cantante riempiono la scena con grande sicurezza. Il suo non è tra i ruoli più ricchi di colorature, ma le agilità comunque presenti sono affrontate con sicurezza. Le sue arie sono spesso contrastate, con una sezione mossa, di furore («Sdegni tornate in petto | del mio tradito affetto | le ingiurie a vendicar») seguita da una più calma, riflessiva («Ma so che invan m’alletta | quest’alma alla vendetta | se poi non la sa far») in cui tradisce il suo lato più femminile, più umano. La parte di Clearco/Astarto trova in Francesca Ascioti un’interprete sensibile che più che sulle pirotecniche agilità punta sulla espressività nelle sue nove arie. Particolarmente convincente quella del terzo atto «Amante e sposa | sì gli sarai». La presenza di un controtenore avrebbe comunque reso più plausibile e musicalmente più vario il ruolo affidato originariamente a un grande castrato. Irresistibile sulla scena è la Sidonia di Theodora Raftis, vocalmente ineccepibile, che la regista trasforma in un personaggio delle commedie anni ’70 di John Waters con la sua parrucca uscita dal film Hairspray e gli outfit di Barbie. Autorevoli vocalmente il Nino di Paola Valentina Molinari, il personaggio più bistrattato nella vicenda, e l’Agenore di Ana Maria Labin, che nella ripresa della sua aria del secondo atto «Spero, ma sempre peno» si impenna in una gloriosa puntatura acuta. Unico maschio in un cast al femminile imperante è quella del basso Luigi de Donato che delinea in maniera efficace un Fenicio ironico o drammatico a seconda delle necessità e sempre preciso nelle agilità, così difficili da realizzare quando sono assegnate a una voce grave. Grande esperto in questo genere, ha confermato le qualità già ammirate altrove.
Il festival si è concluso come tutti gli anni con la esibizione dei finalisti del Concorso Cesti: da 159 partecipanti sono stati selezionati dieci giovani interpreti che hanno dimostrato tutti un buon livello di preparazione e maturo talento. Al primo posto si è classificato un ventiquattrenne tenore britannico – Laurence Kilsby, un nome da tenere a mente – che ha incantato il pubblico e convinto la giuria con la sua intensa interpretazione di «Deh ti piega | deh consenti» da La fida ninfa di Vivaldi, una delle opere in programma l’anno prossimo. Un motivo in più per ritornarci.
(1) Antefatto. Elisa, regina di Tiro, ha deciso di sposare Clearco, il suo amato eroe navale, per proteggerlo dalle macchinazioni di Astarto, il figlio di Abdastarto, il legittimo re che è stato deposto e ucciso da Sicheo, padre di Elisa. Anche se si crede che Astarto siamorto in fasce, c’è chi dice che sia ancora vivo. Infatti Astarto si nasconde nella persona di Clearco, salvato da bambino da Fenicio e cresciuto da lui come un figlio. Nessuno, a parte Fenicio, conosce l’identità segreta di Clearco, che si ritiene figlio di quest’ultimo.
Atto I. Elisa comunica ai grandi del regno, Agenore, Nino e Fenicio, il suo desiderio di sposare Clearco. Agenore, che vuole sposare Elisa, escogita un piano per impedire le nozze e disonorare Clearco. Agenore condivide i suoi pensieri con Nino, che a sua volta è innamorato di Sidonia, la sorella di Agenore. Sidonia, che finge di essere innamorata di Nino, è in realtà innamorata di Clearco e vuole anche impedire il suo matrimonio con Elisa. Clearco torna vittorioso dalla sua ultima missione militare e apprende da Fenicio che Elisa ha deciso di sposarlo. Fenicio ammonisce il figlio e lo esorta a non cedere alle lusinghe del tiranno. La regina ha letto un falso messaggio, in realtà scritto da Agenore, contenente un patto tra Clearco e Astarto per dividere il regno. Clearco viene accusato di tradimento e arrestato. Sidonia approfitta della debolezza di Clearco per avvicinarlo mentre sta scrivendo una lettera d’amore indirizzata a Elisa. Sidonia si offre di consegnare la lettera, alla quale manca il nome della destinataria. Dopo un’accesa discussione sul messaggio sbagliato, Elisa si convince della sincerità di Clearco, lo libera dalla prigionia e ribadisce il suo desiderio di sposarlo. Sidonia decide di usare la lettera di Clearco a suo vantaggio: la mostra a Elisa sostenendo di essere l’amante segreta di Clearco e che il contenuto della lettera era indirizzato a lei. Elisa si ritrova ancora una volta tradita.
Atto secondo. Fenicio sta preparando un complotto per rovesciare Elisa, mentre Clearco cerca di dissuaderlo. Clearco è combattuto tra l’amore per Elisa e quello per il padre. Assorto nei suoi pensieri, viene sorpreso da Elisa, che gli regala Sidonia accusa nuovamente Elisa di tradimento e gli ordina di non parlarle mai più. Sidonia informa Agenore di essere riuscita a oltraggiare Elisa. Quando lei arriva, i due insistono affinché Clearco scopra la cospirazione e insinuano che lui ne sia l’artefice. Nino arriva e informa la regina che il palazzo è attaccato dai suoi nemici, guidati da Fenicio. Clearco accetta di combattere contro il padre. Elisa preferisce affidare la guida dell’esercito ad Agenore, al quale promette la sua mano e il regno. Disperato, Clearco si dichiara ancora una volta innocente. Elisa sta per credergli, ma Nino e Sidonia la convincono a imprigionare nuovamente Clearco. Rimasta sola, Sidonia chiede un giuramento a Nino, che accetta stupidamente di prestarlo. Gli rivela di essere l’amante di Clearco e gli ordina di assecondare i suoi piani e di non rivelarlo a nessuno. Nino si sente perso, combattuto tra la promessa fatta e la gelosia. Fenicio viene portato davanti a Elisa, che lo interroga davanti a Clearco. Elisa minaccia padre e figlio di morte se non le diranno dove si trova Astarto e li lascia soli per qualche istante. Clearco chiede a suo padre di rivelare dove si trova Astarto e Astarto gli rivela la sua vera identità: Clearco è in realtà Astarto, l’erede al trono. Quando Elisa torna, Clearco la blocca e le dice che le rivelerà il segreto solo in privato.
Atto terzo. Elisa è sorpresa di trovare Sidonia e Nino negli appartamenti reali e li affronta. Sidonia coglie l’occasione per confessare a gran voce il suo amore a Nino. Nino, minacciato da Sidonia ricambia il suo amore. Clearco arriva e conferma di sapere dove si trova Astarto, ma lo consegnerà alla regina solo a una condizione: che rinunci al matrimonio con Clearco e sposi invece Astarto. Piena di rabbia, Elisa fa aspettare Clearco e ordina a Nino di uccidere chiunque si avvicini in compagnia dell’ammiraglio. Nel frattempo, Fenicio si è liberato dalla prigionia e sta preparando un nuovo attacco al palazzo con i cospiratori. Clearco incontra Agenore e lo informa che Astarto sposerà Elisa in modo che non ci sia più rivalità tra loro. Lo convince a recarsi dalla regina per poter vedere Astarto con i suoi occhi. Agenore vede che i suoi piani sono definitivamente falliti. Nino torna nella sala del re e comunica a Elisa di aver eseguito l’ordine. Fenicio arriva alla testa dei cospiratori. Elisa gli annuncia con soddisfazione che Astarto è morto. Fenicio, sconvolto dalla notizia, rivela la vera identità di Clearco: se Astarto è morto, Clearco è morto. Fenicio vuole uccidere Elisa, ma viene fermato da Clearco. Tra lo stupore di tutti, Clearco perdona tutti e ristabilisce l’unità tra i presenti.
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William Hogart, Marriage A-la-Mode (“The Marriage Settlement”), 1743-1745
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Georg Philipp Telemann, Pimpinone, ovvero Le nozze infelici
★★★★☆
Torino, Cortile dell’Arsenale, 24 luglio 2021
La “farsetta” di Herr Telemann
Uberto e Vespina si sono sposati, ma il matrimonio non è quello che sperava il vecchio: la giovane sposa si rivela capricciosa e indisciplinata. Potrebbe essere il sequel de La serva padrona con i nomi cambiati in Pimpinone e Vespetta se gli intermezzi di Telemann non fossero andati in scena nove anni prima di quelli pergolesiani, ma i personaggi sono caratteri talmente immortali che ha poco senso la cronologia esatta.
Un Pimpinone su libretto di Pietro Pariati era già stato intonato da Tomaso Albinoni nel 1708. Telemann ne aveva fatto tradurre i recitativi in tedesco da Johann Philipp Prætorius e con le arie e i duetti in italiano era nato il Pimpinone oder Die ungleiche Heirat, andato in scena il 31 ottobre 1724 al King’s Theatre di Londra come intermezzo al Tamerlano di Händel. Riproposto ad Amburgo l’anno successivo, divenne il maggior successo teatrale del prolifico compositore tedesco che noi oggi ricordiamo soprattutto per i pezzi sacri, la musica da camera e i concerti.
Intermezzo I. Vespetta, giovane e intraprendente cameriera, è in cerca di una nuova sistemazione. Si proclama onesta e priva di secondi fini: vorrebbe mettere da parte un po’ di soldi, ma intende guadagnarli con il sudore della propria fronte. Tuttavia quando ha la fortuna di imbattersi in Pimpinone – uno scapolo non nobile, ma ricco – non riesce a fare a meno di immaginare un altro modo per elevare la propria condizione. La giovane attira l’attenzione di Pimpinone mettendo in mostra la propria raffinata postura e il proprio incedere elegante e trova il modo di dirgli che non desidera altro che di poter servire un uomo come lui – educato, intelligente, gar- bato, bello e gentile. A Pimpinone gira la testa: si chiede se la ragazza non stia cercando di sedurlo, ma in effetti lui è ormai irrimediabilmente impaniato. Le propone un impiego come cameriera e Vespetta accetta. Mentre Pimpinone gongola per il colpo di fortuna, Vespetta ride alle sue spalle: tutto sta procedendo secondo i suoi piani.
Intermezzo II. Vespetta minaccia Pimpinone di lasciare il servizio: non riesce a tener dietro alle troppe cose che ha da fare; inoltre, dice, il padrone non sa gestire le spese di casa. Pimpinone, che per nulla al mondo vorrebbe perdere una governante così precisa e inappuntabile, le affida le chiavi della cassaforte e, per di più, le fa dono di un paio di splendidi orecchini, non nascondendo di essere invaghito di lei. Vespetta lo zittisce: è un’onesta cameriera, ma è giovane, è bella, ed è al servizio di un uomo non più giovane ma ancora prestante – quanto basta per suscitare pettegolezzi e un’umile domestica non può far nulla per fermare le calunnie. Pimpinone le propone dunque di mettere a tacere le malelingue sposandola. Vespetta protesta che in lei non c’è calcolo o malizia: infatti non è interessata ai passatempi tipici delle signore benestanti – i balli in maschera, il gioco delle carte, l’opera, le visite di società. Pimpinone, entusiasta per questa professione di sobrietà, dichiara che a quelle condizioni Vespetta potrà essere la sua cara sposa: ma Vespetta ribatte che, priva com’è di una dote, non potrà che continuare a essere la sua cameriera, così Pimpinone le offre una generosa dote, a una condizione: non dovrà fare o ricevere visite. Vespetta accetta senza esitazioni. Ancora una volta Pimpinone si compiace per la propria buona sorte, mentre Vespetta si fa beffe della sua dabbenaggine.
Intermezzo III. Vespetta si sta preparando a uscire in gran pompa. Pimpinone, seccatissimo, osserva che, come minimo, ha il diritto di sapere dove stia andando. La ragazza risponde che si reca a far visita alla propria madrina e l’uomo, furente, la accusa di voler spettegolare su di lui con le altre donne. Le chiede perlomeno di rincasare presto, al che Vespetta replica indispettita che ciò di cui va in cerca – i ricevimenti, l’opera, il gioco delle carte – lo si può trovare solo la sera tardi. esasperato, Pimpinone le ricorda di aver promesso che avrebbe evitato le visite di società, ma Vespetta lo liquida ribattendo di aver preso quell’impegno quando era la sua cameriera: ora è sua moglie e lui deve chiudere il becco se lei vuol fare come le altre signore rispettabili che parlano francese, partecipano ai balli, e indossano abiti eleganti! Pimpinone minaccia di bastonarla per ricondurla alla ragione, ma Vespetta non si fa certo intimidire e al culmine di un acceso battibecco lo avverte: se ne andrà con la propria dote, se lui non la lascerà libera di fare ciò che vuole. Pimpinone. Un po’ per amore, un po’ per paura della collera della moglie si vede costretto, ancora una volta, a far buon viso a cattivo gioco.
Riportati all’italiano, gl’intermezzi del Pimpinone arrivano ora nel cortile dell’Arsenale per la stagione estiva del Regio torinese, una settimana dopo quelli di Pergolesi. Gli esecutori sono gli stessi e medesimi sono anche i creatori della parte visiva. Il regista Mariano Bauduin e la scenografa Claudia Boasso propongono un ambiente simile, solo più ingombro. I costumi di Laura Viglione e le attente luci di Andrea Anfossi ricreano l’originale ambientazione settecentesca, la più congrua alla proposizione della vicenda, che aveva interessato anche William Hogarth nel suo ciclo di sei dipinti Marriage A-la-Mode del 1743-45.
Il confronto con gli intermezzi pergolesiani è inevitabile: quelli di Telemann hanno un maggior numero di pezzi musicali – 7 arie (le cinque del libretto di Pariati più due di Prætorius ) e 4 duetti (due in italiano e due in tedesco) rispetto alle cinque arie e ai due duetti de La serva padrona (senza contare il duetto finale tratto dal Flaminio). Telemann non ha la miracolosa semplicità melodica di Pergolesi, le sue arie sono musicalmente più complesse, tripartite e con da capo, e hanno più colorature nella linea vocale. Per arrivare a una serata che arrivi almeno a un’ora, qui a Torino la parte musicale è stata rimpolpata con l’ouverture e due arie della Beggar’s Opera (1728 ) di John Gay e Johann Christoph Pepusch. La prima è una pomposa introduzione, un po’ troppo ingombrante per lo smilzo svolgimento musicale che segue, le seconde, nella libera traduzione di Bauduin, sono collocate alla conclusione della prima e della seconda parte e affidate a un mimo/attore, ma qui non hanno avuto il magico effetto dell’aria napoletana nello spettacolo precedente.
L’arguto libretto del Pariati delinea con molta efficacia lo strategico piano della furba servetta che prima si propone come cameriera modello («Chi mi vuol? Son cameriera. | Fo di tutto. Pian. M’intendo | di quel tutto che conviene»); poi mette in atto la questione morale per farsi sposare («Mormora il mondo, e ciarla. […] Ogn’un vuol dir, quando vuol dir del male. | L’onor mio troppo vale»); infine incanta il vecchio già rimbambito con la sua finta ingenuità («Pimpinone: Non vo’ concier. Vespetta: Io lo depongo or ora. P: Sul balcon… V: Mai non ebbi un tal diletto. P: Cene, teatri, e balli… V: Io non li bramo. P: Giochi e veglie… V: Il mio genio è solitario. P: Libri amorosi… V: Io leggerò il lunario. P: Maschera… V: Non so dir cos’ella sia») proprio come farà la Norina donizettiana 135 anni dopo: «Don Pasquale: Volea dir ch’alla sera la signora amerà la compagnia. Norina: Niente affatto. Al convento si stava sempre sole. D: Qualche volta al teatro? N: Non so che cosa sia, né saper bramo. D: Sentimenti ch’io lodo. Ma il tempo, uopo è passarlo in qualche modo. N: Cucire, ricamar, far la calzetta, badare alla cucina: il tempo passa presto». Rispetto al Don Pasquale di Donizetti, ma anche rispetto all’Uberto di Pergolesi, qui manca un po’ l’elemento patetico e tenero nei confronti del vecchio innamorato: Pimpinone è più maschera della Commedia dell’Arte che personaggio per cui intenerirsi.
La “dispotica cameriera” dell’altro titolo alternativo (Die herrschsüchtige Cammer-Mädgen) del Pimpinone è dunque la stessa Vespina ascoltata in Pergolesi la settimana scorsa, Francesca di Sauro, qui alle prese con una parte maggiormente articolata e vocalmente impegnativa, più sopranile: le prime due arie solistiche del primo intermezzo, un arioso e un’aria nel secondo, un’altra aria nel terzo, sono quasi tutte infarcite di agilità affrontate e risolte con agio e gusto dal mezzosoprano.
Se la parte del leone ce l’ha Vespetta, quella di Pimpinone – un’aria solistica per ogni intermezzo – permette comunque a Marco Filippo Romano di dimostrare le sue magistrali doti mattatoriali, che si tratti di «Ella mi vuol confondere» con cui il personaggio dopo le due sfrontate arie femminili dimostra la sua debolezza e confusione, o quella in cui rivela la sua sbandata senile, «Guarda un poco in questi occhi di foco | ed in lor vedrai, mio tesoro, | che sei del Pimpinon la Pimpinina». Ma è nel terzo intermezzo che Romano dà fuoco alle sue cartucce di entertainer quando, cambiando il registro della voce e usando il falsetto, imita due diverse voci femminili che commentano la situazione, e qui abbiamo dunque tre diversi personaggi resi dallo stesso interprete: «So quel che si dice, e quel che si fa. | Strissima; strissima. Come si sta? | Bene. E poi subito. Quel mio marito | è pur stravagante, è pure indiscreto. Pretende che in casa io sia tutto il dì. | E l’altra risponde: «Gran bestia ch’egli è, | prendete, comare, l’esempio da me. | Voleva anche il mio. Ma l’ho ben chiarito | di far a mio modo trovato ho ’l segreto | s’ei dice: no, no, io dico: sì, sì». Un bell’esempio di teatro nel teatro che il regista porta in scena con la costruzione di un improvvisato teatrino di burattini per il duetto finale.
L’orchestra del Teatro Regio si impegna nel ricreare le sonorità settecentesche di una partitura che ha maggior spessore di quella pergolesiana e meglio sopporta la lettura non sempre trasparentissima di Giulio Laguzzi. L’accompagnamento dei recitativi è efficacemente realizzato da Carlo Caputo al clavicembalo.
Con abilità e senso del teatro l’attore Pietro Pignatelli si trasforma in una serie di personaggi muti – il cicisbeo, il notaio, la comare… – e nel mendicante cantastorie, personaggio inventato dal regista per invitare il pubblico prima dello spettacolo: «Tutto nel mondo è sogno. E non vi azzardate a me scetà…. E lasciateci sognare, e se vi fa piacere, sognate insieme a noi questa farsetta che qui vi “sogniamo”».
Sulla scia del successo del loro Pimpinone Prætorius e Telemann scrissero un seguito dal titolo Die amours der Vespetta oder der Galan in der Kiste (Gli amori di Vespetta, ovvero Il galante in affari) la cui musica è però andata persa.
Peccato, avremmo avuto il terzo capitolo della storia.
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