
Un esercizio di stile donizettiano
«Derivata da un farraginoso pastrocchio di Dumas padre [Charles VII chez ses grands vassaux], la vicenda ambientata all’epoca di Giovanna D’Arco riguarda una signora [Gemma] che non può avere figli e viene ripudiata da un marito [il conte di Vergy] preda di rimorsi ma anche di desiderio per “l’altra” [Ida di Gréville] che va a impalmare e – lui spera – ingravidare; “l’infeconda” (la chiamano proprio così) oscilla tra seccata matrona e donna molto disturbata che via via prevale; c’è un arabo [Tamas] che non si sa da dove venga, forse prigioniero ma munito di spade e pugnali così da poter uccidere due uomini (il secondo è il marito ripudiante), viene perdonato del primo omicidio ma per il secondo provvede a suicidarsi perché par di capire ama la ripudiata e ha voluto vendicarne l’oltraggio. Il tutto con versi orripilanti di romanticismo di terza mano («d’uman sangue sitibondo», «mal genio del deserto») e arcadia di quarta («cosa di cel mi sei»), tradotti in una musica dove la routine la fa da padrona, da un lato scadendo nel mestiere più trito, e dall’altro facendo lampeggiare qua e là sparuti interessi strumentali e vocali, come nel bel concertato conclusivo del prim’atto». Così Elvio Giudici presenta l’opera che debuttò alla Scala il 24 dicembre 1834 su libretto di Giovanni Emanuele Bidera, il poeta che per Donizetti l’anno dopo scriverà anche il Marin Faliero.
Non molto positivo è anche il giudizio dell’Ashbrook che considera il personaggio di Gemma «fondamentalmente individualistico ed egoistico. […] resta troppo isolata da qualunque rapporto umano per poter suscitare un’autentica e profonda compassione […] l’assenza di quella forma di catarsi sentimentale che ci fa partecipi delle sofferenze di Anna, Parisina, Maria Stuarda, è in definitiva il motivo per cui al personaggio di Gemma manca il calore umano».
Presto uscita di repertorio dopo il successo iniziale, Gemma di Vergy fu riportata sulle scene nel 1975 da Montserrat Caballé che la registrò ben tre volte su disco (due dal vivo: prima al SanCarlo di Napoli con Armando Gatto e poi a New York con Eve Queler, e una in studio nuovamente con Gatto e l’Orchestre Philharmonique de Radio France). La Caballé aveva giudicato la parte di Gemma difficile quanto tre Norme – e Norma quanto tre Brunildi…
Questa è la registrazione della produzione bergamasca del 2011 con un Roberto Rizzi Brignoli che non riesce a farci cambiare idea sulla qualità della musica dell’opera e una messa in scena di Laurent Gerber che allestisce un banale teatro dei pupi. Colpa di direttore e regista è di prendere troppo sul serio quest’opera e non proporne invece una lettura drammaturgica critica.
Per fortuna c’è Maria Agresta a sostenere un ruolo quasi impossibile che Donizetti aveva affidato a Giuseppina Ronzi de Begnis, cantante voluttuosamente in carne e di ribollente temperamento sfogato nei suoi alterchi con la rivale Anna Del Sere durante le prove della Maria Stuarda. Fin dal suo poderoso ingresso l’Agresta sfoggia una vocalità sicura e omogenea nei vertiginosi passaggi di registro. Quello che le manca è una presenza attoriale che renda più teatrali le smanie di questa donna fuori di senno, ma musicalmente il soprano lucano non ha rivali e l’ultima scena, con quel gioco di pianissimi e fiati lunghissimi, sta a dimostrarlo ampiamente. Gregory Kunde compie il miracolo di riuscire a dare senso a quel personaggio assurdo di Tamas con la sua generosità vocale e la sua credibilità scenica. Mario Cassi è il marito tentennante e solo la sua bella voce di baritono riesce a farci quasi dimenticare il suo risibile ingresso in scena con armigeri impacciati e un coro, soprattutto quello femminile, talora impacciato.
Costumi sontuosi compensano le scenografie appena abbozzate di Angelo Sala che però non si fa mancare sagome di cavalli come in un Ronconi al risparmio, e pure un vero falco con annesso falconiere.
Sulla confezione del disco si parla di un ideatore di “movimenti coreografici” del tutto inesistenti. Una stella in più del valore effettivo il disco se la merita per la proposizione del raro titolo.
⸪