Mese: aprile 2024

Cambio madre por moto

Frank Nuyts, Cambio madre por moto

Gand, Muziektheater Transparant, 25 settembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Interno borghese con percussioni

È rimasta per dieci anni chiusa in un cassetto la partitura di Cambio madre por moto prima che il Flanders Festival di Gand presentasse in prima mondiale l’opera da camera del compositore belga Frank Nuyts.

Classe 1957, Nuyts ha studiato percussioni e musica da camera al Conservatorio Reale di Gand e poi composizione all’Istituto di Psicoacustica e Musica Elettronica. Il suo è un linguaggio neo-tonale e influenzato da generi musicali cosiddetti commerciali. Tuttavia, ha scritto anche composizioni per formazioni classiche: oltre a singoli lavori orchestrali e a molta musica da camera, le sue opere includono cinque sinfonie e molta musica vocale (Lieder e cori). Cambio madre è la sua quinta opera per il teatro su un arguto libretto di Rosa Montero, giornalista del quotidiano madrileno El Pais dal 1976, che ha pubblicato undici romanzi, molti dei quali sono stati bestseller in Spagna.

In una serie di brevi scene si racconta la storia di una coppia che vuole divorziare, Manuel e xx. I due ne parlano con i figli per la prima volta: la figlia Clara non accetta la situazione e piange, il figlio Dani non è molto colpito dalla notizia e vorrebbe anzi trarne dei vantaggi, infatti comunica che vuole una moto, «Necesito una moto para tranquilizarme», dice. Arrivano intanto la madre del marito, che prende le parti del nipote e si dice del tutto contrario a ospitare il figlio, e l’avvocato Víctor. Quest’ultimo è un amico di famiglia e specializzato in divorzi, ma si rivela essere più vicino alla madre di quanto ci si aspettasse. E la rivelazione della relazione della madre con Víctor cambia gli equilibri delle forze, tanto che la madre offre al figlio, oltre alla moto, anche una chitarra elettrica per averlo dalla sua parte. Inizia così una gara da parte dei genitori a ingraziarsi i figli e a liberarsi dei mobili indesiderati. Quando sembra sia arrivato il momento irreparabile i bei ricordi del passato riporta a un’atmosfera di malinconia e tutto si ricompone in maniera «civilizada»: la moto al figlio e un cane per la figlia.

Il lavoro è ora presentato in collaborazione con il Muziektheater Transparant con l’ensemble olandese Asko|Schönberg – formato da clarinetto, tastiere, 4 percussionisti, arpa, violoncello – sotto la direzione musicale di Benjamin Haemhouts. La mise-en-espace di Aïda Gabriëls prevede che orchestra e cantanti si dividano il palcoscenico, gli strumentisti a destra, gli interpreti a sinistra in uno spazio delimitato da una superficie di piastrelle bianche e nere con in mezzo un divano attorno al quale si dispongono i personaggi. Un ironico quadro di intimità borghese è condensato in pochi elementi che caratterizzano la scelta stilistica della giovane regista belga: sul fondo un crocefisso di tubi fluorescenti e messo di traverso rivela al suo interno delle Barbie, mentre tante teste di bambole riempiono il cubo di perspex su cui poggia un abat-jour formato da una parrucca bionda.

I personaggi cambiano posizione ad ogni scena in una serie di tableaux-vivants dalla recitazione non-naturalistica. I costumi contemporanei distinguono i ruoli, mentre le parrucche sono diverse solo per il genere ma non per l’età dei personaggi. Gli atteggiamenti dei visi sono fissi e la gestualità meccanica, ma ciononostante i sei personaggi sono efficacemente caratterizzati anche grazie alla musica e allo stile di canto. Per L’amico avvocato, ad esempio, la voce di basso-baritono sale dal grave fino al falsetto e il canto della figlia incorpora anche il pianto. Ottimi gli interpreti: Emma Posman, La figlia (soprano); Graciela Morales, La madre (soprano); Marie-Juliette Ghazarian, La nonna (mezzosoprano); William Branston, Il figlio (tenore); Thierry Vallier, Il padre (baritono); Wilfired Van den Grande, L’amico avvocato (basso-baritono).

Un lavoro molto personale questo di Nuyts che dimostra ancora una volta come l’opera in musica possa dire qualcosa di nuovo anche con mezzi tradizionali. Non ci sono strumenti elettronici o di elaborazione dei suoni, ma arpa, clarinetto, violoncello e soprattutto le percussioni, tutti vengono trattati in modo da esaltarne la specificità in una composizione dai toni molto vari e ironicamente teatrale, praticamente un settimo personaggio che commenta, sottolinea, contrappunta l’azione. 

Lucca Classica Music Festival

foto © Lucca Classica Music Festival

Legacies

King’s Singers

Lucca, Teatro del Giglio, 24 aprile 2024

Eredità

È sempre sorprendente la vita culturale delle piccole città del nostro paese in cui proliferano eventi anche di alto prestigio, come questo Lucca Classica Music Festival, arrivato ai dieci anni dalla sua creazione e a sessanta dalla nascita dell’Associazione Musicale Lucchese. E questo nel centenario della morte di Giacomo Puccini, il più illustre figlio della città, a cui viene dedicata una prima giornata di studi (la seconda sarà a Milano a ottobre) con un Convegno dell’Associazione Nazionale Critici Musicali, “Puccini in scena, oggi”, gentilmente ospitato da Lucca Classica.

Settanta sono gli appuntamenti ripartiti in cinque giorni, con concerti di grande interesse, tra i quali quelli dedicati a Luigi Nono e Arnold Schönberg, di cui si celebrano gli anniversari della nascita – cento e centocinquanta rispettivamente. Non vengono però dimenticati neppure i duecento anni dalla creazione della Nona Sinfonia, con alcune lezioni-concerto sul capolavoro beethoveniano. Nell’elenco degli esecutori spicca il nome di Giovanni Sollima in una serata in cui il grande violoncellista esegue da par suo un montaggio di musiche proprie e di autori come Vivaldi e Tartini per celebrare Venezia quale città di convivenza di comunità e culture diverse.

Sede principale di tutte queste manifestazioni è il bel Teatro del Giglio che ospita la serata inaugurale con un concerto dei King’s Singers, un gruppo vocale a cappella fondato nel 1968 in Inghilterra prendendo il nome dal King’s College di Cambridge. Formato da sei studiosi di canto corale la cui popolarità, dopo l’apice negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta prima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti e infine nel mondo, continua indiscussa ancora oggi attirando ogni volta fedeli fans. Nel tempo si sono avvicendati nuovi membri a quelli originali e oggi abbiamo: Patrick Dunachie (primo controtenore), Edward Button (secondo controtenore), Julian Gregory (tenore), Christopher Bruerton (primo baritono), Nick Ashby (secondo baritono) e Jonathan Howard (basso).

Come suggerisce il titolo, il loro concerto unisce brani di epoche molto diverse. Di Thomas Weelkes (1576-1623) si ascolta Hark, all ye lovely saints above, gioiosa celebrazione dell’amore e della fine del regno di castità di Diana, un brano pieno di energia e di movimento, con il ritornello ripetuto «Fa la la» che aumenta il senso di allegria. Anche di Weelkes è As Vesta was from Latmos Hill descending, un madrigale tratto da The Triumphs of Oriana, pezzi scritti per celebrare la regina Elisabetta I, uno dei cui titoli onorifici era appunto “Oriana”. Si tratta di un brano trionfale e festoso pieno di madrigalismi e di spiritose battute contrappuntistiche, che si conclude con decine di acclamazioni, alte, basse, veloci, lente, vicine e lontane sul distico «Then sang the shepherds and nymphs of Diana: Long live fair Oriana». La gioia cristallizzata in musica, che i sei cantanti esaltano con ironia.

Tra i più rinomati rappresentanti della musica inglese di quest’epoca è William Byrd (1543-1623). Praise our Lord, all ye gentiles è un mottetto tra i più conosciuti, con testo tratto dalla Bibbia e appartenente all’ultima collezione Psalmes, Songs and Sonnets dell’anziano musicista. Un brano dalla intricata polifonia reso con sapienza e stile. Un cantus planus dall’andamento solenne è invece quello di Qui pace Christi di un certo Antonius Peragulfus. Insolita è la storia del suo ritrovamento: più di quarant’anni fa, nell’archivio di Stato di Lucca, il musicologo Reinhard Strohm notò che le rilegature di alcuni libri erano insolite, costituite cioè dalle pagine di un manoscritto musicale vecchio di secoli. Negli anni successivi, Strohm lavorò con gli archivisti per rimuovere queste pagine e riassemblare il più possibile il manoscritto originale, un importante recupero culturale oggi noto come “Lucca Choir Book”. A questa raccolta di brani appartiene anche l’anonimo Vidi speciosam, mai eseguito. Un mottetto dalla sapiente struttura contrappuntista che permette però ai singoli solisti di emergere con le loro frasi luminose e perfettamente concatenate, frutto di un’intesa mirabile fra i giovani cantanti di questo consort of voices.

Con un salto di alcuni secoli arriviamo al Novecento. I Nonsense Madrigals di György Ligeti (1923-2006) furono commissionati proprio per i King’s Singers. Qui si ammira la straordinaria capacità dei giovani interpreti a rendere i testi umoristici di Lewis Carroll (The Lobster Quadrille e A Long, Sad Tale) e di William Brighty Rands (Cuckoo in the Pear-Tree) con i loro irresistibili giochi di parole, le invenzioni fonetiche e le sorprese musicali degli inni britannico e francese inseriti in The Lobster Quadrille. 

Gli altri brani in programma sono la dolcissima canzone Alive di Francesca Amewudah-Rivers attrice inglese di origine nigeriana nata nel 1998. È la sua prima composizione corale e si colloca a metà strada tra una canzone pop, una ballata folk e un inno corale. Nel testo, che è stato ispirato da una visita a Cipro poco dopo la pandemia quando ha visto il mare per la prima volta dopo anni, chiede all’ascoltatore di essere consapevole e di apprezzare il mondo che lo circonda. Il brano si conclude con l’insistente ritornello «Sai come ci si sente a essere vivi?». Più drammatico e rarefatto il successivo I was there di Joe Hisaishi (nato nel 1950) ispirato a tragedie dei nostri tempi. I tre brani dello svedese Hugo Alfvén (1872-1960), sinfonista svedese tardoromantico, riportano ad atmosfere nordiche che ricreano un clima di serena malinconia (Aftonen, La sera), intimità (Uti vår hage, Sul nostro prato) e spensieratezza (Och jungfrun hon går i ringen, Una fanciulla è nel cerchio) rese con grande sensibilità dai sei interpreti che dopo l’intervallo entusiasmano il pubblico con la loro spigliata reinterpretazione di classici pop quali Seaside Rendezvous dei Queen, Blackbird dei Beatles, temi da film di Disney e da Porgy and Bess di Gershwin. Gli applausi insistenti richiedono altri pezzi fuori programma, che il sestetto inglese è ben lieto di offrire.

Orgía

foto © David Ruano – Gran Teatre del Liceu

Héctor Parra, Orgía

Barcellona, Gran Teatro del Liceu, 13 aprile

Maurizio Rebaudengo è stato a Barcellona per questa opera contemporanea.
Ecco la sua recensione.

Dare voce all’enigma della carne

Al Gran Teatre del Liceu di Barcellona va in scena Orgía del compositore catalano Héctor Parra, opera per tre voci (baritono [Uomo], soprano [Donna] e soprano [Ragazza]) ed orchestra da camera, libretto di Calixto Bieito, tratto dall’omonima tragedia in un prologo e sei episodi di Pier Paolo Pasolini, che fu rappresentata per la prima volta al Deposito d’Arte Presente di Torino il 27 novembre 1968, per la regìa dello stesso autore, la struttura scenica e simboli di Mario Ceroli e le musiche di Ennio Morricone, con l’interpretazione di Laura Betti (Donna), Luigi Mezzanotte (Uomo) e Nelide Giammarco (Ragazza).

L’attuale versione operistica è curata per la conduzione musicale da Pierre Bleuse, da poco (settembre 2023) subentrato a Matthias Pintscher per un mandato quadriennale alla conduzione del prestigioso Ensemble InterContemporain, fondato nel 1976 da Pierre Boulez. La regìa, le scene, i costumi sono di Calixto Bieito. Si tratta di una coproduzione tra il teatro di Barcellona, il Festival Castell de Peralada e il Teatro Arriaga Antzokia di Bilbao, dove ha avuto la sua prima il 22 giugno 2023, con il ruolo dell’Uomo affidato al britannico Leigh Melrose.

A testimoniare il valore della composizione, è giusto ricordare come il progetto abbia ricevuto nel 2021 il premio per artista residente presso Villa Medici/Accademia di Francia a Roma, dove il compositore ha soggiornato tra il settembre del 2021 e l’agosto del 2022, potendo così studiare la “lingua del corpo”, espressa plasticamente nelle sculture ellenistiche custodite nei musei capitolini, ispirandosene per trasferire nella scansione sia musicale sia vocale della partitura le sinuosità emotive degli ucronici corpi marmorei antichi.

Per comprendere meglio eventuali variazioni dal testo pasoliniano al libretto, occorre ripercorrere la trama originale, almeno nelle sue linee essenziali.

Nel Prologo, l’Uomo, post mortem, con un flash-back introduce gli spettatori alla vicenda a cui stanno per assistere, un percorso di progressiva consapevolezza della propria diversità, incompatibile con l’omologazione borghese – che nel corso del testo verrà definita come «abitudine alla morte». Nei sei episodi successivi, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, la domenica di Pasqua (Episodio I) in procinto di consumare pratiche sadomasochistiche, rievocano le rispettive origini (lei da modesta famiglia di campagna; lui da una famiglia piccolo-borghese di provincia, con un padre tirannico e una madre succube). L’Uomo lega la Donna mani e piedi (Episodio II), perché le anticipa di volerla umiliare totalmente fino ad ucciderla, cominciando a percuoterla. L’alba successiva (Episodio III), la Donna e l’Uomo si ricompongono, nostalgici di un passato in cui l’umanità non era ancora alienata: la violenza sadomaso è per loro strumento per tornare alle origini della civiltà incorrotta. Addormentatosi l’Uomo, dopo essersi fatto il segno della Croce (episodio IV), la Donna, incinta, è in preda al delirio: rimpiange i corpi maschili da cui avrebbe voluto essere posseduta, senza potersi concedere, perché costretta dai vincoli borghesi. Preso un coltello in cucina, uccide i due figli, per poi suicidarsi. Qualche mese dopo, in autunno (Episodio V), l’Uomo porta a casa la Ragazza, su cui sfoga il proprio sadismo, minacciandola di morte e percuotendola, ma è colpito da un infarto, permettendo così alla Ragazza di fuggire. Una volta rinvenuto (Episodio VI), l’Uomo si spoglia dei suoi abiti borghesi per indossare gli indumenti lasciati dalla Ragazza, prendendo manifesta coscienza della sua diversità, impiccandosi.

Il libretto riproduce (in italiano) la tragedia pasoliniana rispettandone l’intreccio, ma eliminando quanto di ripetitivo – se non ridondante – è diffusamente presente, per lasciare spazio alla musica e alla parola cantata. Il regista allestisce un ambiente concentrazionario, che condensi l’estetica medio (se non piccolo)-borghese degli anni ‘60: pareti incolori (ravvivate solo dalle luci di Michael Bauer) contengono ai due lati del palco i letti che rappresentano le camere da letto (a sinistra dello spettatore quello matrimoniale, a destra il letto a castello), ciascuna con un televisore (lo strumento dell’appiattimento critico e dell’omologazione consumistica per eccellenza), una dispensa a sinistra e una petineuse a destra; al centro in successione, partendo dal boccascena, due divani e un tavolino in mezzo; la tavola da pranzo con sei sedie e, in fondo, una credenza.

Per evidenziare il valore polemico del testo verso l’ipocrisia della società borghese, Bieito introduce tre fondamentali elementi interpretativi: nel Prologo, l’Uomo non è ancora morto, ma canta appeso, vestito da donna, violentemente scosso dalle convulsioni dell’agonia; la Donna uccide simbolicamente i due figli, pugnalando un loro peluche sul letto a castello; nel Finale, la Ragazza, rientrata silenziosamente in scena vestita da mistress (corpetto e stivaloni alti neri), allestisce con grazia la tavola, a cui si seggono l’una di fronte all’altro la Donna e l’Uomo, abbigliati in modo identico (un top di lamè argento e una gonna a palloncino nera): brindano, fissandosi negli occhi, prima che il sipario cali.

La nuova composizione riesce ad esprimere la continua tensione del testo (1) tra squarci lirici, esasperazione emotiva e il grado zero della riflessione. Il Prologo, breve ed intenso, comincia con accordi di grande impatto timbrico e si sviluppa strumentalmente con una gran ricchezza cromatica, specialmente grazie all’uso delle percussioni e dei legni (in particolare dell’oboe). I glissando dell’arpa contribuiscono a creare una atmosfera onirica, mentre il baritono combina parti cantate a parti parlate, in una scena movimentata dalle indicazioni agogiche. I contrasti tra le esitazioni della Donna e la risolutezza dell’Uomo sono espressi ritmicamente, grazie ad una alternanza di crome (lei) e semicrome (lui). La nostalgica rievocazione di un passato arcadicamente mitizzato è resa con l’intervento dell’arciliuto e il ricorso al falsetto nella voce dell’Uomo (rifacendosi alle origini dell’opera). Il confronto sadomaso è reso dall’orchestra con una progressione inquietante in “agitato angoscioso”, prima del canto dei personaggi, accompagnato sempre da una musica violenta, con una linea vocale ‘strappata’, che combina (almeno per l’Uomo) passi cantati – occasionalmente in falsetto – a parti parlate. Nel monologo sulla Madre (Episodio III) a contrasto con l’episodio precedente il canto della Donna è accompagnato dal flauto (coloratura con semicrome legate); la parola «colpa» alla fine dell’intervento dell’Uomo (segnato con “quasi rituale”) è tenera e supplicante, mentre quello della Donna “quasi una sarabanda” con accompagnamento dell’arciliuto. Il canto della Ragazza è leggero, in contrasto con la gravità dell’Uomo e l’episodio è contraddistinto da una particolare violenza orchestrale. L’opera si conclude con un lungo monologo dell’Uomo, con un passaggio inquietante, di grandi contrasti ritmici e una linea di canto che usa salti di intervalli per sottolineare il delirio del personaggio.

La difficoltà nel trasporre in musica un testo siffatto è che si parte dal cosiddetto «teatro di parola», come chiarito da Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel gennaio-marzo 1968): un teatro, quindi, che nulla concede all’articolazione della trama o ai soliti appigli del teatro borghese (la scena e/o la complicità tra agenti sul palco e pubblico in sala), ponendo quindi a compositore e regista una doppia sfida nel musicare una parola originariamente più ascoltata che agita. Nel suo saggio all’interno del programma, Parra specifica di aver lavorato esplorando i limiti della voce cantata, per giustapporre forme di vocalità quasi contrapposte e sviluppando così la capacità espressiva di una parola che passa per la fisiologia del proprio corpo. Il contrasto espressivo raggiunge l’apice quando una voce semiparlante deve convivere con una voce cantata in pieno lirismo (Uomo). Il contrasto è più delicato quando la Donna dispiega un lungo assolo per ricordare gli abusi subiti dal padre, che la conducono a un canto disperato, di malinconico lirismo (“con una lentezza inquieta, anche malinconica e lirica”), e laddove il flusso della parola è più rapido, le linee melodiche seguono da vicino i profili sinuosi e ritmati della lingua italiana, accentuando i principali colori fonetici di ciascuna frase con dinamiche e registri più estremizzati, mentre i passaggi di transizione (soprattutto da un episodio all’altro) sono espressi con voce quasi parlata.

Si può dire che la doppia sfida risulti abbondantemente vinta da entrambi – compositore e regista -, grazie anche – e soprattutto – al direttore d’orchestra e ai cantanti. Il baritono Christian Miedl è il protagonista indiscusso: dopo un inizio non proprio spumeggiante, spesso coperto dall’orchestra e una dizione non sempre perfetta (“profèzie”, ahinoi), domina la scena, dando dimostrazione di ottime capacità attoriali, riuscendo ad alternare senza strappi né cedimenti le parti prosodiche a quelle cantate, interpretando al meglio la deriva della lucida rivendicazione di una diversità non più sopprimibile, determinata anche ad un gesto estremo pur di affermarsi. Aušriné Stundyté, ammirata già il gennaio scorso al Covent Garden come Elektra (ed era pure una sostituta della titolare Nina Stemme), è bravissima ad attribuire al suo personaggio l’altra faccia di Medea: della tragedia greca conserva solo l’infanticidio, ma è sempre e comunque succube di un patriarcato che la guida anche nello sfogo sadomasochistico. La cantante lituana non ha alcun cedimento né vocale (dizione perfetta, e con i versi pasoliniani la questione è tutto meno che scontata; registro acuto – che nella partitura è il più ricorrente – e basso dominati in modo impareggiabile) né interpretativo. Jone Martínez interpreta perfettamente sia vocalmente (qualche consonante scempia raddoppiata: niente di che) sia scenicamente l’equivoca innocenza del personaggio, svelando con le sue grazie sinuose l’ipocrisia delle ritrosie a cui il contesto la costringe.

Pierre Bleuse dirige, come scritto, un organico da camera (quattro primi violini e quattro secondi, tre viole, due violoncelli, due contrabbassi, un oboe, un clarinetto, un fagotto, una tromba, un trombone, un percussionista, un’arpa, un arciliuto), riuscendo magnificamente a riprodurre il cromatismo variegato della partitura, soprattutto nei momenti di estremo conflitto e amplificando le aperture liriche con evidenti richiami monteverdiani.

L’attento e folto pubblico ha riservato ovazioni a tutti i protagonisti, che per un’opera contemporanea di assunto così impietosamente violento non è poca cosa.

(1) Dai versi contenuti nell’Episodio III di Orgia di Pier Paolo Pasolini si può evincere la matrice di una drammaturgia musicale per tale tragedia: le parole ormai logorate dall’uso ormai asemantico di una civiltà prostituita al consumo (di beni, di corpi, di comunicazione) necessitano di una rivitalizzazione acustica per esprimere – finalmente – la carne che le emette:

DONNA: Sì, noi stiamo dando uno spettacolo
UOMO: Il mio corpo è inequivocabile.
[…]
La nostra carne è un enigma che come enigma si esprime.
Ma le nostre parole, adesso, sono poveri suoni
che non dicono niente se non che la vita ricomincia.

Cavalleria rusticana / Pagliacci



Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2024

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

È sempre bello anche tredici anni dopo lo spettacolo di Martone

Negli ultimi tempi non è stato sempre scontato vedere rappresentati assieme nella stessa serata Cav & Pag, come amano chiamare nei paesi anglosassoni l’accoppiata di Cavalleria rusticana e Pagliacci. Molte volte sono stati eseguiti singolarmente, soprattutto per ragioni di budget, altre volte in abbinate secondo criteri fantasiosi se non addirittura bizzarri. Così c’è stato il legame del tema femminista (Cavalleria con La voix humaine di Poulenc), l’ambientazione geografica (Cavalleria con La giara, il balletto su musiche di Casella) oppure per puro contrasto stilistico o cronologico (Pagliacci con L’incantesimo di Montemezzi o con Sull’essere angeli di Filidei). Questo per limitarsi ad alcuni degli esempi più recenti. Il Teatro alla Scala segue invece la tradizione, proponendo assieme i due lavori d’esordio di Mascagni e di Leoncavallo, comunemente considerati i più rappresentativi del movimento verista in musica.

Anche se solo due anni separano le due composizioni, quella di Leoncavallo (1892) ha dei caratteri di modernità più spiccati rispetto all’opera di Mascagni (1892) e il proporle assieme permette una volta di più percepire le differenze di stile e di propositi dei due lavori. Con la sua ambientazione siciliana l’opera di Mascagni veniva a interrompere una serie di composizioni intrise di cultura nordica quali l’Amleto di Faccio, Le Villi di Puccini, I Lituani di Ponchielli. Cavalleria sarà poi vista come una reazione al wagnerismo nell’Italia fascista di alcuni decenni dopo. Dalla novella del Verga del 1880 al dramma scritto dallo stesso per la Duse nel 1884 all’opera, la passionalità si accende sempre più in personaggi dai sentimenti elementari e violenti tradotti dal compositore in un linguaggio efficace che infatuerà, tra gli altri, Gustav Mahler, che la dirigerà a Budapest a soli sei mesi dalla prima al Costanzi di Roma e varie altre volte ad Amburgo e a Vienna. In Pagliacci invece, elemento di straordinaria modernità è lo scambio tra vita reale e teatro, l’ambiguità tra uomo e attore, tra finzione scenica e autenticità dei sentimenti, tematiche che confluiranno poi nel teatro di Pirandello.

Tanto è rutilante di colori la Sicilia di Dolce & Gabbana attualmente in mostra a Palazzo Reale, quanto scura e scarna è la messa in scena di Cavalleria di Mario Martone, lo spettacolo del 2011 ripreso da Federica Stefani che non è invecchiato per nulla e se allora venne contestato ora viene considerato uno dei migliori allestimenti del dittico verista. Sul palcoscenico vuoto ci sono soltanto le sedie del coro, una presenza di massa del popolo che è quasi un’eco del coro della tragedia greca. Con i visi che si voltano dall’altra parte quando c’è Santuzza, si capisce come Janáček amasse quest’opera: la sua Jenůfa trasporta in Moravia una vicenda simile e come nel lavoro di Mascagni anche lì il paese è un protagonista antagonista della figura principale. La dimensione tragica della storia è messa a nudo senza orpelli e l’ipocrisia della società è chiaramente indicata quando vediamo compare Alfio uscire dal bordello prima di andare dal barbiere. La scena diventa vuota quando Santuzza è abbandonata da tutti, anche Alfio fa segno di disprezzare la sua delazione e Mamma Lucia è troppo chiusa nel dolore per il figlio morto da darle retta.

Proprio la nudità della scena esalta la performance di Elīna Garanča, Santuzza lettone che cova sotto un comportamento controllatissimo un temperamento appassionato in cui la voce dal timbro di velluto svetta con facilità in acuti lancinanti. Una performance la sua che è stata oggetto di ovazioni da parte del pubblico. Brian Jagde è un Turiddu di grande squillo, ma si vorrebbe una maggiore espressività. Di Roman Burdenko, Alfio, non si può non confermare quanto già rilevato altrove: nell’opera italiana sconta una dizione perfettibile e una certa rozzezza espressiva che dà più fastidio in Mascagni di quanto avvenga in Leoncavallo. Francesca di Sauro è una fresca e seducente Lola mentre Elena Zilio si conferma la Mamma Lucia par excellence: la voce è quella che è, il parlato si sostituisce talora al canto, ma scenicamente è perfetta, minuta e con un gioco di mani e di sguardi che senza eccessi fanno capire tutto il dramma.

La direzione di Giampaolo Bisanti non convince del tutto, trascinante e teatrale non si conforma alla sobrietà della scena di Martone e le sottigliezze strumentali di Mascagni – sì, ci sono – si perdono: senza fare riferimento a Karajan, basta ascoltare il giovane Lorenzo Viotti nella produzione di Amsterdam come riesce ad arrivare a risultati di grande bellezza qui non toccati nonostante un’orchestra ancora più prestigiosa. Anche l’Intermezzo scorre via senza lasciare traccia. Le cose vanno leggermente meglio in Pagliacci, dove le forti tinte sono più accettabili.

Lo scenografo Sergio Tramonti, la costumista Ursula Patzak e il light designer Pasquale Mari hanno avuto più da fare nel lavoro di Leoncavallo: il viadotto che domina la scena, la lurida roulotte e le automobili richiamano un teatro più realista dove Martone fa traboccare la realtà oltre il sipario, quasi annullando la distanza tra la scena e gli spettatori: il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i Contadini, Silvio trepida in sala e il pubblico della pantomima è un’estensione sulla scena di quello della platea, con gli stessi abiti eleganti. Nella regia di Martone due soli gli errori, uno all’inizio e uno alla fine. All’inizio il sipario si apre per farci vedere la scena e poi si richiude (!) per il prologo di Tonio e alla fine la cinica battuta «La commedia è finita!» è tolta a Tonio, l’anima nera della vicenda, e data a Canio. D’accordo che è di tradizione, ma si tratta solo di compiacere il tenore, non ha senso drammaturgico, è Tonio che ha fin da subito ha dichiarato «L’autore ha cercato invece di pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispirasi».

A parte Roman Burdenko, di cui s’è detto, nella seconda parte dello spettacolo tutti nuovi sono gli interpreti. Fabio Sartori è uno specialista del ruolo di Canio a cui offre uno squillo e una proiezione sonora di tutto rispetto. Il personaggio è intriso di un rancore che scaccia la lacrima da «Vesti la giubba» e riempie di violenza il suo «Ah! … sei tu? Ben venga!» prima di ammazzare Silvio. Nedda nostalgica per una vita che avrebbe voluto diversa è quella di Irina Lungu, che sfoga la sua linea lirica nell’aria in cui invidia gli uccelli liberi che «Stridono lassù». Mattia Olivieri è il Silvio ideale per giovanile baldanza e avvenenza fisica, che non guasta e giustifica ampiamente l’infatuazione di Nedda. Che poi il suo mezzo vocale disponga di un colore e di una ricchezza di sfumature invidiabili non fa che confermare l’impressione. Con Jinxu Xiahou, simpatico Peppe, i Contadini Gabriele Valsecchi e Luigi Albani, artisti del coro, si completa il cast dei solisti. Coro come sempre in gran spolvero quello diretto da Alberto Malazzi. Grande successo di pubblico accorso a riempire ogni singolo posto del teatro.

Le Villi

foto © Daniele Ratt – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, Le Villi

Torino, Teatro Regio, 20 aprile 2024

★★★

«La brevità, gran pregio!»

Lo dirà Rodolfo ne La bohème, ma già nel suo primo lavoro per il teatro il giovane compositore sembra voler fare sua la massima. La brevità è comunque tra i requisiti richiesti per partecipare al Concorso Sonzogno del 1883 in cui vinceranno due titoli oggi del tutto dimenticati, mentre il lavoro di Puccini diventerà un trampolino di lancio per la sua carriera teatrale. Il concorso prevedeva un atto unico con una parte sinfonica e Puccini ottempera: Le Willis del concorso si strutturano con preludio, coro d’introduzione, duetto Anna-Roberto, preghiera, Tregenda per sola orchestra, preludio e scena di Guglielmo, gran scena e duetto finale. 

Cupa storia di vendetta fantasma, come quella del balletto Giselle, qui è Anna a essere abbandonata dall’infedele Roberto che, partito per raccogliere l’eredità di una «vecchia di Magonza […] avara matrina», dilapida la fortuna irretito da «una sirena | [che] i vecchi e i giovinetti affascinava [e che] trasse Roberto all’orgia oscena». «In cenci abbandonato» il giovane ritorna, ma diviene vittima delle Villi, le figure leggendarie delle fidanzate abbandonate e morte, tra cui il fantasma di Anna che si vendica: «con lui danza e ride e, colla foga del danzar, l’uccide».

Sfortunato al concorso, l’atto unico ebbe però successo di pubblico e di critica la sera del 31 maggio 1884 al Teatro Dal Verme. Per la successiva rappresentazione a Torino l’editore Ricordi suggerì di rielaborare il lavoro e così, con il titolo italianizzato e in due atti, Le Villi andò in scena al Teatro Regio il 26 dicembre 1884. Furono anche aggiunti tre numeri musicali: la romanza di Anna («Se come voi piccina io fossi») nel primo atto, nel secondo la scena drammatica del tenore («Ecco la casa… Dio, che orrenda notte») e l’intermezzo sinfonico “L’abbandono”. Nel gennaio 1885, durante le repliche alla Scala l’autore aggiunse la romanza di Roberto («Torna ai felici dì»), che da allora è il pezzo più conosciuto dell’opera.

Centoquarant’anni dopo, Le Villi ritorna dunque sulle scene del teatro che in questa stagione ha più investito per celebrare il compositore di Lucca, con ben sette titoli operistici su tredici. Alla guida dell’orchestra del teatro c’è Riccardo Frizza che deve tenere in equilibrio il melodismo e il sinfonismo, elementi entrambi presenti. E sappiamo quanto il “problema del sinfonismo” fosse critico per chi scriveva musica in quegli anni, con l’accusa di wagnerismo appena si concedeva più spazio all’orchestra invece che alle voci dei cantanti. In poco più di un’ora, l’opera vive di atmosfere differenti: dal suadente Preludio al tono festoso del fidanzamento, alla malinconia tesa di fremiti dell’addio dei due giovani nel primo atto, tutto è reso col giusto colore e l’efficace colore orchestrale. Ancora più vario il secondo atto dopo i due intermezzi sinfonici che dipingono prima “L’abbandono” e poi “La tregenda” in cui una voce recitante racconta della leggenda delle fidanzate morte e assetate di vendetta a cui segue la scena del padre Guglielmo che piange la perdita della figlia, e subito dopo l’arrivo di Roberto e del suo incontro col fantasma di Anna. Frizza mette in luce la lussureggiante orchestrazione che molto deve alla musica francese – “Massenet italiano” venne definito Puccini – e la teatralità di un finale che diventa una convulsa ridda infernale, una corsa verso la morte.

Nel secondo cast si fanno valere le voci di Laura Giordano, una lirica Anna in preda a tristi presentimenti nella romanza «Se come voi piccina» con cui la ragazza si rivolge ai fiori, per poi diventare spietata in «Tu dell’infanzia mia», quando da morta rinfaccia a Roberto il suo tradimento. Il giovane soprano siciliano rende con molta sensibilità e appropriato fraseggio il carattere della fanciulla. Arrivato a sostituire quasi all’ultimo momento uno dei due tenori, Raffaele Abete si impegna generosamente in una parte dalla vocalità impervia che risolve con una voce di bel timbro e facilità di acuti. Sua è la pagina più nota dell’opera, la romanza «Torna ai felici dì», forse il momento più pucciniano di un lavoro che solo a tratti fa intravedere il futuro genio. Gëzim Myshketa è un umanissimo Guglielmo, anche lui ha a disposizione uno dei momenti più importanti, quando ripensa con dolore alla figlia persa. La scena è resa con molta efficacia dal baritono albanese che vi dispiega la sua bella voce timbrata. Tre soli i cantanti solisti, il resto è affidato al coro, come sempre magistralmente istruito da Ulisse Trabacchin.

Pier Francesco Maestrini ambienta la vicenda in epoca vittoriana e la «modesta casa» di Guglielmo diventa una lussureggiante serra giardino in cui invece di montanari e montanare si muovono ricchi borghesi negli elegantissimi costumi di Luca Dall’Alpi. Il regista punta sui colori e sulla sericità delle stoffe per appagare la vista mentre i fiori fuori scala sembrano un omaggio ai dipinti del piemontese Romano Gazzera. La scenografia di Guillermo Nova e le luci di Bruno Ciulli costruiscono un mondo che per i colori rutilanti e i particolari surreali dei fiori giganti strizza l’occhio al fantasy – un genere da lui proposto già ne La campana sommersa di Respighi prodotta a Cagliari. Suggestive risultano anche le immagini video dello stesso Nova. L’opulenza della scena contrasta però con la semplicità della vicenda narrata, didascalica nei suoi propositi. Scontata è la banalità della scena in cui si narra della perdizione di Roberto, dove il palcoscenico è occupato dall’enorme dipinto di una donna nuda in una cornice dorata mentre danzatrici con i movimenti coreografici di Michele Cosentino fanno del loro meglio per rappresentare le lusinghe della carne tentatrice. Ancora meno convincente è il finale in cui le Villi si trasformano in Baccanti inferocite per sbranare non Orfeo ma il povero Roberto e offrirne il cuore sanguinolento alla spietata fidanzata cadavere. Un momento di grand guignol fuori contesto dalla romantica storia. Ma al pubblico non foltissimo del sabato pomeriggio è piaciuto e non sono mancati gli applausi.

Bozzetto della scenografia

Saint François d’Assise

foto © Carole Parodi

Olivier Messiaen, Saint François d’Assise

Ginevra, Grand Théâtre, 16 aprile

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La musica dell’invisibile

Due erano le preoccupazioni maggiori di Olivier Messiaen: la fede cattolica e la passione per l’ornitologia. Con Saint François d’Assise, la sua unica opera, il compositore avignonese le coniuga entrambe. Avrebbe voluto nientemeno Gesù Cristo come protagonista, ma si dovette accontentare del santo a lui più vicino, quel Giovanni di Pietro Bernardone che in un certo momento della sua vita aveva abbandonato la famiglia, le ricchezze e le bravate della gioventù per la povertà assoluta diventando il Santo d’Assisi. 

Su libretto proprio – come faceva Wagner… – nel suo lavoro Messiaen pone al centro la predica agli uccelli: è il quadro sesto, il più lungo di otto quadri suddivisi in tre atti. L’azione drammatica e i tempi teatrali non sono al primo posto nella sua concezione: ben poco succede sulla scena e i tempi sono dilatati a dismisura, arrivando l’esecuzione musicale a superare abbondantemente le quattro ore che con i due intervalli vogliono dire cinque ore e mezza di spettacolo.

Quarant’anni dopo la prima parigina, questa cantata religiosa-meditazione spirituale-inno alla bellezza della creazione-celebrazione della musica – molti sono i modi di definire questo anomalo lavoro – arriva sulle sponde del Lago Lemano dove trova un teatro, il Grand Théâtre di Ginevra, col coraggio di metterla in scena in una produzione che ha del grandioso per i mezzi messi in campo. Già solo l’orchestra è sterminata: una ventina di legni, quasi altrettanti ottoni, una settantina d’archi, cinque percussionisti impegnati in una miriade di strumenti oltre a xilofono, xylorimba, marimba, vibrafono, glockenspiel e ben tre suonatori di Ondes Martenot, strumento quest’ultimo utilizzato da Messiaen anche nella sua sinfonia Turangalîla. A capo della gloriosa Orchestra della Suisse Romande è Jonathan Nott, esperto di musica contemporanea che gestisce impavidamente i suoni di una partitura che non fa concessioni a nessuno strumentista, chiedendo da ognuno il massimo. La partitura, nonostante le ripetitività, ad esempio del motto di quattro note che ricorre per tutta l’opera, ha momenti sorprendenti: i richiami degli uccelli, ad esempio, più che dai prevedibili fiati sono realizzati dalle percussioni e la celestiale e rarefatta pagina affidata alle Ondes Martenot – la lingua di Dio… – si scontra con gli aggressivi suoni degli ottoni pieni di minaccia, quasi il risveglio di Fafner. Nulla è scontato in questa colossale partitura in otto poderosi volumi che Nott realizza nonostante gli inconvenienti della scelta di porre l’orchestra dietro i cantanti, che stanno per lo più al proscenio, con il coro confinato al fondo del palcoscenico con i microfoni per portare le voci in sala e risolvere così il problema della distanza. Il suono dell’orchestra è così in qual modo ovattato e viene privilegiata la chiarezza delle linee strumentali piuttosto che il suono dei pieni orchestrali.

Non minori sono anche le esigenze dal punto di vista vocale, con nove parti soliste e un centinaio di coristi. Il canto del protagonista evoca il cantus firmus gregoriano con l’orchestra che commenta dopo ogni verso. Robin Adams si accolla l’impegnativo compito di essere sempre presente in scena in sette quadri su otto. Il suo canto declamato dalle mille screziature ci restituisce un Francesco intensamente umano e la sua solida presenza scenica si avvale di una dizione che, a parte la pronuncia della r francese, rende il testo ben comprensibile nella sua chiara articolazione. Più varia è la linea di canto dell’Angelo, affidata al soprano Claire de Sévigné, unica voce femminile, dalla pura radiosità vocale espressa su un registro acuto particolarmente etereo. Più terreno il carattere del Lebbroso e il tenore Aleš Briscein si rivela efficace con i suoi salti di registro nella trasformazione del personaggio dalla autocommiserazione per il suo tragico stato alla guarigione alla redenzione. Di gran livello sono i ruoli secondari dove si sono fatti ammirare per la solennità della figura William Meinert (fra Bernardo), Kartai Karagedik (un autorevole fra Leone), Omar Mancini (un ironicamente connotato fra Elia), Joé Bertili (fra Silvestro), Anas Séguin (padre Ruffino) e Jason Bridges (fra Masseo). La voce di Dio è affidata al coro, qui quello del teatro rinforzato dal Choeur Motet de Genève.

Per la messa in scena di questo unicum di Messiaen è stato chiamato l’artista visivo Adel Abdessemed il quale, alla sua prima esperienza teatrale, per ogni quadro più che una scenografia ha ideato un’installazione con oggetti non sempre di chiara comprensibilità. Vada per l’enorme piccione dal petto insanguinato issato su un mucchio di forme rotondeggianti che potrebbero essere dei teschi – con i piccioni l’artista franco-algerino è diventato famoso per una sua scultura che capovolge l’immagine popolare del piccione viaggiatore e lo trasforma in un uccello distruttivo: in quest’opera monumentale (2 metri di alluminio) il piccione viaggiatore diventa la rappresentazione di una bomba a orologeria, la paura degli altri che minaccia la nostra società – chiaro è il mappamondo che si sgonfia da un quadro all’altro, evidente simbolo della nostra Terra minacciata da guerre e inquinamento. Meno evidenti sono il dromedario che viene issato lentamente nell’ottavo quadro o i robot che pigiano l’uva nel secondo.

Abdessemed porta in scena elementi della sua cultura come il richiamo a un hammam nel quadro del lebbroso con i tappeti berberi appesi o i due grandi dischi istoriati con le immagini cabalistiche dei triangoli e dei quadrati intrecciati su cui vengono proiettati dei video, ma non mancano richiami all’iconografia cristiana, come il ritratto del santo di Cimabue o l’arcangelo Gabriele del Beato Angelico da cui copia le ali multicolori per l’Angelo. Di Abdessemed sono anche i costumi dei francescani fatti di vecchie strisce di stoffa, tuniche approssimative con fagotti (a guisa di migranti) e cuciti gli scarti della nostra civiltà digitale: componenti di dispositivi elettronici di vario tipo, CD, tastiere di telefonini, circuiti stampati. Quasi sempre congrui con la vicenda, talora gli oggetti scenici ideati dall’artista rompono l’equilibrio visivo, come la riproduzione della chiesa della Porziuncola che invade il palcoscenico, fino a quel momento tenuto pressoché vuoto, coprendo quasi totalmente la vista dell’orchestra che invece era giustamente in piena vista nel quadro della predica agli uccelli, o dell’Angelo musicante quando il santo sale verso il cielo sulle note ipnotiche delle Ondes Martenot.

Per curioso contrappasso, la città di Calvino ospita dunque il messaggio fortemente intriso di cattolicità del compositore francese. Con un libretto dove la parola Dieu viene ripetuta 49 volte e Seigneur 39 volte, per un non credente come me questa dichiarazione di fede qual è l’opera di Messiaen è stata un’esperienza puramente estetica e, perché negarlo, faticosa. Ciononostante, neanche questa volta ho provato la «gioia perfetta» della paziente sofferenza…

Il disciplinato pubblico ginevrino ha accusato qualche defezione nel corso della serata, ma alla fine ne è rimasto abbastanza per salutare calorosamente gli artefici della produzione, soprattutto Robin Adams e Claire de Sévigné.

La vita che ti diedi

Luigi Pirandello, La vita che ti diedi

regia di Stéphane Braunschweig

Torino, Teatro Carignano, 14 aprile 2024

«E… e non s’è nemmeno inginocchiata»

Sono le prime parole, qui pronunciate dalla vecchia nutrice Elisabetta, in questa lettura di Stéphane Braunschweig che elimina la scena iniziale con le litanie funebri per la morte del figlio di Donn’Anna Luna, la madre che ne rifiuta la morte perché è ancora vico nel suo cuore e ne aspetta il ritorno da un momento all’altro.

Breve tragedia in tre atti, La vita che ti diedi è il teatrale percorso d’arrivo iniziato da Pirandello con tre racconti scritti tra il 1914 e il 1916: I pensionati della memoria, in cui si interroga sul rapporto fra i vivi e i morti; Colloqui coi personaggi, scritto subito dopo la morte della madre, è un lungo dialogo con la defunta; ne La camera in attesa, scritto durante la Grande Guerra, la madre e le sorelle di un soldato scomparso continuano a preparargli la camera in attesa del suo ritorno.

Il rifiuto del lutto è dunque alla base del lavoro scritto per Eleonora Duse che però non poté recitarlo e al suo posto ci fu Alda Borelli alla prima del 12 ottobre 1923 al Teatro Quirino di Roma. L’idea di Pirandello è che la morte di un corpo non è nulla rispetto a quella morte lenta che costituisce la vita stessa nelle sue metamorfosi: la progressiva e ineluttabile scomparsa del bambino che eravamo per nostra madre. Ne La vita che ti diedi Donn’Anna dice al parroco don Giorgio: «Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora, è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio».

Donn’Anna ha assistito alla morte del proprio figlio e quindi non può prendere a pretesto l’incertezza della sua morte come ne La camera in attesa. La donna non sta negando i fatti: decide del tutto consapevolmente di continuare la sua vita come se il figlio non fosse morto. Si affretta a far rimuovere il corpo senza nemmeno prendersi il tempo di vestirlo e finisce per scrivere in sua vece una lettera all’innamorata a cui nasconde la sua morte quando quest’ultima decide di andarlo a trovare. Donn’Anna trasforma la sua casa in un teatro, dove il protagonista è assente sì, ma fin troppo vivo. «Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! Se l’era vissuta lui, la sua, lontano da me, senza che io ne sapessi più nulla. E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo? Che è morto di lui, che non fosse già morto per me?» è la straziante logica di Donn’Anna.

Teatro e follia sono sempre legati in Pirandello, i suoi personaggi spesso sembrano pazzi, ma la loro è una follia voluta, cercata, che rifiuta una realtà ridotta alla sola verità dei fatti: il figlio Fulvio è per così dire fuggito lontano dalla madre, per cadere innamorato di una donna già sposata e madre a sua volta. Per sette anni Fulvio e Lucia si sono amati platonicamente, poi la passione della carne è prevalsa, seppure per un unico amplesso, e Lucia è rimasta incinta e torna da Fulvio fuggito dalla madre. Ma qui è morto improvvisamente, forse per punirsi, per espiare la sua colpa.

L’allestimento di Stéphane Braunschweig, che vanta una lunga e significativa del teatro di Pirandello, prevede la collaborazione di Lisette Buccellato, che ha disegnato anche i costumi, le preziose luci di Marion Hewtt e i rarefatti suoni di Filippo Conti che solo nella straziante scena finale fa ricorso a una musica più strutturata, il “Lacrimosa” del Requiem di Mozart. Il regista fa svolgere l’azione per lunghi tratti sul proscenio, davanti a un sipario interno nero, nella terra di nessuno fra la vita e la rappresentazione della vita. E quando quel sipario si alza, appare la realtà come si manifesta nei sogni di Donn’Anna: la stanza con il figlio morto composto sul letto immersa in una tenue luce azzurrina, come in un delirio onirico. Ai lati due finestre chiuse, una scrivania, un armadio, due porte. Poi al secondo atto la stessa stanza, senza più il corpo del figlio morto, ha le finestre spalancate ed è letteralmente inondata di fiori in vaso: il figlio, morto nella realtà, “rifiorisce” come immagine. Nell’ultimo atto, dopo i drammatici colloqui con Lucia e la madre, Donn’Anna accetta finalmente la morte del figlio, ne disfà il letto e vi si sdraia. «È ben questa la morte, figlia. ‒ Cose da fare, si voglia o non si voglia ‒ e cose da dire…. ‒ Ora, un orario da consultare ‒ poi, la vettura per la stazione ‒ viaggiare…. ‒ Siamo i poveri morti affaccendati. ‒ Martoriarsi ‒ consolarsi ‒ quietarsi. ‒ È ben questa la morte».

Essenziale come la scenografia è la recitazione degli attori, sotto tono ma intensa, i personaggi, anche quelli minori della vecchia Elisabetta e del giardiniere sono magistralmente connotati dalla voce e dalle movenze. Daria Deflorian è una strepitosa e controllatissima Donn’Anna Luna, Federica Fracassi si divide efficacemente tra Donna Fiorina, la sorella, e Francesca Noretti, la madre della giovane Lucia, qui la brava ed espressiva Cecilia Bertozzi. Fulvio Pepe (don Giorgio e Giovanni il giardiniere), Enrica Origo (Elisabetta), Caterina Tieghi e Federico Costella (i figli Lida e Flavio) completano il bel cast.

In questa regia così essenziale solo due errori: alla ricerca di un maggior effetto teatrale il regista fa muovere la sedia della scrivania e aprire la porta dell’armadio come per la presenza di un fantasma. Il brivido che procurano fa perdonare la trovata, meno perdonabile invece è la presenza del figlio morto (che tra l’altro ha le fattezze del fratello Flavio) che “consola” la madre nel finale. Se quella del figlio “non morto” è un’idea della madre, l’idea non può concretizzarsi in una presenza. A parte questo, si è trattato di uno dei migliori spettacoli della stagione.

Mefistofele


foto © Michele Crosera

Arrigo Boito, Mefistofele

Venezia, Teatro La Fenice, 12 aprile 2024

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Mefistofele a Venezia: «Riddiamo, riddiamo»!

Tempi fortunati per Arrigo Boito: il suo Mefistofele ha inaugurato pochi mesi fa la stagione dell’Opera di Roma e a Cagliari ha fatto scalpore il suo Nerone. Ora Mefistofele è in scena a Venezia e si conferma opera di interesse soprattutto oggi per il suo carattere eccessivo, estremamente moderno per il taglio delle scene ben distinte e con un carattere e uno stile musicale proprio. «Opera del presente» l’aveva definita Boito, «suprema incarnazione del dramma […] completa obliterazione della forma», quella tradizionale del melodramma ovviamente, con una concezione totalmente innovativa. Un lavoro anomalo questo e uno dei pochi casi, assieme alla Gioconda – su libretto dello stesso Boito ma la musica di Ponchielli stilisticamente sembra più vecchia di cinquant’anni – è l’unica opera non di Verdi di questo periodo ad essere rimasta in repertorio. Lavoro fortemente provocatorio nei confronti della critica del tempo e del pubblico a cui l’autore dirige preventivamente i fischi, anticipando di mezzo secolo le intemperanze dei futuristi.

Tre le versioni: quella originale del 1868, estremamente ambiziosa, in due prologhi, un intermezzo sinfonico e otto quadri in cinque atti, dopo il solenne fiasco milanese venne in parte distrutta dall’autore; una seconda versione a Bologna nel 1875 e una terza definitiva dopo le riprese a Venezia (1879) e nuovamente alla Scala (1881) in un prologo, quattro atti e un epilogo. L’orchestra è wagneriana nelle dimensioni: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, 6 clarinetti, clarinetto piccolo, 2 fagotti, 8 corni, 8 trombe, 8 tromboni, oficleide, basso tuba, timpani, percussioni, organo e archi. La forma rifugge il modello classico del melodramma all’italiana e si configura come manifesto dei nuovi ideali estetici di ispirazione wagneriana. Opera faro della scapigliatura milanese, voleva realizzare l’ambizioso progetto di rinnovare il melodramma italiano anche se nel Mefistofele sono presenti i “famigerati” numeri chiusi, ma qui stiamo parlando della terza versione, della prima non sappiamo nulla.

Questa problematica è ben presente nella lettura di Nicola Luisotti, che a capo dell’orchestra del teatro in serata di grazia affronta un titolo che ha già eseguito, ma questa volta utilizza una versione depurata delle correzioni strumentali apportate da Toscanini nel 1919, la versione che è stata sempre utilizzata. Quella di Luisotti è quanto ascoltarono i Veneziani del Teatro Rossini nel 1876 nella direzione di Franco Faccio, con la fuga della ridda infernale e l’aria di Margherita «Spunta l’aurora pallida». Pur evidenziando la diversità dei quadri, Luisotti riesce a dare unità al lavoro esaltandone l’aspetto beffardo e sarcastico con tempi sostenuti, una forza teatrale trascinante  e volumi sonori adeguati – le voci disponibili, lo vedremo, lo permettono – assieme ad abbandoni lirici o di angoscioso dolore come la scena di Margherita nel carcere. Una prova che il pubblico ha dimostrato di apprezzare per la sua eccellenza.

Era già stato il Mefistofele di Berlioz (La damnation de Faust a Roma nel 2017) e di Gounod (Faust qui a Venezia nel 2021 e nuovamente nel 2022), per non dire del Lindorf /Coppelius/Miracle/Dapertutto di Offenbach (Contes d’Hoffmann ancora a Venezia per l’apertura di questa stagione): Alex Esposito sembra avere una disposizione per i personaggi  diabolici che ricrea con la sua ineguagliabile presenza scenica e una voce che ogni volta stupisce per proiezione e che supera agevolmente qualunque fortissimo orchestrale. E poi per l’estensione nella gamma di  baritono-basso, per la bellezza del timbro, l’espressività, la cura della parola, la tenuta dei fiati e la resistenza alla fatica, queste ultime due doti essenziali in una parte quasi sempre presente sulla scena e alla quale l’autore non fa sconti in termini di richieste vocali. Esposito non sembra accusare la minima stanchezza e la standing ovation che gli tributa il pubblico – cosa che raramente accade nel teatro veneziano – è il giusto merito per una performance che non è esagerato definire storica.

In un’opera in cui Mefistofele ha rubato il titolo a Faust, passato da baritono nella prima versione a tenore, il ruolo diventa “secondario” ma non certo per le difficoltà vocali richieste. Piero Pretti debutta nella parte e conferma luci e ombre del suo stile: una voce potente e sonora ma con un declamato stentoreo e un’espressività piatta. L’emozione del debutto deve essere poi stata la causa per qualche intonazione non ineccepibile. Problemi più evidenti invece per Maria Agresta, ammirata Margherita nel Mefistofele romano, ma qui in cattiva serata probabilmente per una non perfetta forma fisica: i suoni nel quartetto del secondo atto sono decisamente brutti e nell’aria «L’altra notte in fondo al mare» una nota presa male non ha confermato una situazione che ci auguriamo di cuore migliori nelle prossime repliche.

Efficacemente connotata risulta la Marta di Kamelia Kader, anche Pantalis, mentre Maria Teresa Leva offre la sua sontuosa presenza e vocalità al personaggio di Elena. Enrico Casari completa il cast come Wagner e Nereo. Ottimi i cori: da quello del teatro guidato da Alfonso Caiani a quello di voci bianche dei Piccoli Cantonri Veneziani istruiti da Diana d’Alessio.

Una coppia di francesi ha allestito l’attuale Sonnambula di Roma, un’altra coppia francese ha messo in scena questo spettacolo veneziano, ma con risultati nettamente diversi: se al Costanzi la regia è stata accolta da rumorosi dissensi, qui alla Fenice i creatori della parte visiva sono stati accomunati nelle ovazioni a quelli della parte musicale. Patrice Caurier e Moshe Leiser, quest’ultimo anche per le scene, con i bellissimi costumi di Agostino Cavalca, il geniale light design di Christophe Forey, il sobrio ma efficace video design di Etienne Guiol e la gustosa coreografia di Beate Vollack hanno concepito uno spettacolo che si è rivelato gioiosamente godibile, molto ben costruito e soprattutto perfettamente in linea con lo spirito dissacratore e iconoclasta dell’opera. Ambientato nel presente, dell’attualità ha denunciato i problemi senza però deviare dalla linea del racconto che è stato rispettato alla lettera così come è stato fatto con la musica.

Il prologo non si svolge in cielo, ma nel salotto di Mefistofele il quale, dopo aver consegnato la sua partitura al direttore d’orchestra, si toglie le corna, si sveste e fa la doccia. Poi si rimette la felpa e si sprofonda in poltrona dove invece delle falange celesti e dei cori mistici segue una trasmissione col Papa: il telecomando che non funziona costringe il diavolo a seguire CattoTv! La scena è quella vuota del teatro dietro le quinte, ma dall’alto scende la scatola/stanza di Faust e se non fosse per un violoncello appoggiato a una sedia, lo si scambierebbe per un grigio impiegato del catasto dalla mesta figura, l’uomo giusto da adescare e a cui promettere i servigi per le sue voglie in questa vita. Infatti, dopo la scena della festa di Pasqua magnificamente realizzata (una vivacissima partita di calcio con la squadra del Francoforte…), il misterioso frate grigio propone il contratto e inizia il viaggio – un trip provocato da un’iniezione di eroina – verso «l’orgie ghiotte».

Si inizia dal giardino di Martha, il triste dehors di una Bier Stube con tanto di porcello da cavalcare. Il sabba infernale è invece un rave con personaggi dark che non si curano dell’incendio che divampa nella foresta e poi nel teatro. E, inutile dirlo, vedere le fiamme nella sala della Fenice, anche se sono soltanto immagini proiettate,  fa una certa impressione. 

Il sabba classico è una soirée musicale con un’Elena primadonna accanto a un pianoforte senza pianista e con momenti coreografici di un ironico ballet blanc. Tutto in nero invece il finale dove ritroviamo Faust nella sua stanzetta mentre strimpella il violoncello e il diavolo questa volta contro il pubblico non rivolge il suo fischio, bensì un’arma, ma inutilmente, mentre le falangi celesti intonano gloriosamente «qui eterna è l’ora; a misurar | non vale ègro tempo mortale | l’inno ideale che si canta in ciel». 

Il Mefistofele mancava da Venezia dal 1969. Questa produzione fa perdonare la colpa di così lunga assenza e ha definitivamente consacrato questo anomalo lavoro quale titolo degno di una maggiore frequentazione nel repertorio.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Roma, Teatro dell’Opera, 11 aprile 2024

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il sonno agitato di Amina

La Svizzera, che era totalmente assente nel Guillaume Tell scaligero, la ritroviamo ne La sonnambula ora in scena al Costanzi, ma solo nel nome della galleria d’arte “Elvezia”, la location che Elvino ha noleggiato per le sue nozze con Amina, perché la vicenda è ambientata a Roma dove la fanciulla, dopo aver visitato il Palazzo Barberini si addormenta in una camera dell’hotel Quirinale. Quello collegato al Teatro dell’Opera da una porta nel suo giardino che dà direttamente sul corridoio dei palchi di prim’ordine sinistro: Domenico Costanzi nel 1874 fece costruire lungo la nuova via Nazionale prima l’Hotel Quirinale e nel 1880, sul terreno confinante, il teatro d’opera che nella nuova capitale ancora mancava. L’architetto di entrambi gli edifici aveva ideato quel passaggio che veniva regolarmente utilizzato dagli artisti che soggiornavano nell’albergo, da Verdi alla Callas e della Divina nello spettacolo viene mostrato il ritratto, uno fra i tanti appesi sulle pareti della galleria. In realtà si tratta di video in cui si possono vedere capolavori del passato come la Maddalena penitente del Vouet rivisitata in stile contemporaneo, o la Velata del Corradini che diventa il «marmo dell’estinta madre» di Elvino su cui si rotolano molto irriverentemente in uno scomodo amplesso i due giovani.

Sul programma di sala ben tredici pagine sono dedicate alle note di regia dello spettacolo affidato a Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil > Le lab, un collettivo artistico di Bordeaux che ha tra i collaboratori Christof Pitoiset per le scene e le luci, Pascal Boudet e Timothée Buisson per gli interventi video e Julien Roques graphic design. Con la drammaturgia di Luc Bourrousse la semplice vicenda diventa la visualizzazione di diversi livelli di esplorazione dell’inconscio in cui «il sonno diventa riserva di metafore visive: della vita erotica, della vita spirituale, della malattia e della morte. L’allestimento crea un dialogo costante tra i video e l’azione teatrale sul palco. Un dialogo tra sogni, incubi, allucinazioni, ossessioni e immagini mentali».

Prima che inizi la musica vediamo dunque una ragazza alter ego di Amina che dopo aver vagato di notte per Roma entra nella stanza dove soggiornava la Divina, stanza trasformata in un piccolo museo con foto e manifesti dei suoi spettacoli romani, manda giù qualche pasticca con del liquore e cade in un sonno profondo. Non è dunque sonnambula e la vicenda di Scribe trasformata in libretto da Felice Romani non è che un incubo indotto dal mix di psicofarmaci e superalcolici. Non un’idea originalissima, ma accettabile se la realizzazione fosse convincente. Cosa che non avviene in questo caso in cui la discrepanza tra quanto teorizzato e quanto rappresentato è massima, cozza con la musica, si fa beffe dell’opera stessa e introduce trovate di dubbio gusto o del tutto ridicole, come l’apparizione di Amina con due cuscini legati dietro la testa o i numeri musicali annunciati come “performance”.

Alla seconda recita i registi non si presentano per i saluti finali e quindi si sono risparmiati i probabili bu che hanno caratterizzato il loro ingresso alla prima e il pubblico ha concentrato il suo favore sui fautori della parte musicale, primo fra tutti Francesco Lanzillotta che della difficile partitura di questo “semplice” lavoro, il settimo titolo del catalogo di Bellini, ha dato una lettura difficilmente superabile per qualità. «La semplicità dell’orchestra belliniana è un complesso lavoro compositivo che porta alla sublimazione dell’elemento melodico. “Ah! Non credea mirarti” è depurata persino di ipotetici raddoppi degli strumentini. Scrivere musica con pochi elementi, raggiungendo vette artistiche così alte, è più complesso che farlo con molti», dichiara il Maestro Lanzillotta che evidenzia la difficoltà di scrivere per un’orchestra ridotta: è facile ottenere grandi risultati con settanta e più strumenti, ognuno col proprio colore e il proprio timbro. È con pochi strumenti a disposizione che si vede l’abilità di un compositore a esprimersi e il giovane direttore romano, presenza di eccellenza in tutti i maggiori teatri e festival mette magistralmente in luce la qualità di scrittura del giovane Bellini e dimostra la sua abilità nel gestire l’ampiezza dei cantabili di depurata bellezza. 

Il secondo cast dell’11 aprile non fa quasi rimpiangere le stelle assolute del primo. Soprattutto Marco Ciaponi, giovane tenore dal bellissimo timbro che ricorda quello del giovane Pavarotti. Apprezzato interprete del repertorio belcantistico – Nemorino, Tonio, Ernesto… – e vincitore di prestigiosi concorsi, Ciaponi ha già interpretato il ruolo di Elvino a Dresda. Assieme al dono naturale della voce si ammira la sensibilità di uno stile elegante mentre nelle pagine più liriche esibisce filati e mezze voci da brivido. Molto ben realizzate anche le variazioni nelle riprese. Solo gli acuti sono sembrati talora un po’ cauti, ma nel complesso la sua è stata una prestazione di gran classe e molto applaudita. Di Ruth Iniesta ricordiamo le sue ottime prove in repertori molto diversi quali la zarzuela, l’opera francese o il bel canto italiano. Qui dimostra una volta di più la sua convincente tecnica e il suo bel mezzo vocale. Non solo i momenti magici di «Come per me sereno» o «Ah, non credea mirarti», ma anche i duetti con Elvino rivelano la chiarezza delle agilità e il fraseggio espressivo del soprano spagnolo. Il giovane Manuel Fuentes delinea un solido Conte Rodolfo anche se con una certa monotonia nella linea vocale e talora la difficoltà di mantenere il passo con l’orchestra. Monica Bacelli da par suo conferisce una sapida dimensione a mamma Teresa mentre Francesca Benitez si rivela una sorprendente Lisa nelle sue due arie zeppe di impervie difficoltà affrontate e risolte con grande agio e temperamento. Mattia Rossi (Alessio) e Leonardo Trinciarelli (Notaro) completano un cast calorosamente applaudito assieme al coro molto ben preparato da Ciro Visco. Giuste ovazioni per Francesco Lanzillotta.

Medea

foto © Luigi de Palma

Euripide, Medea

regia di Leonardo Lidi

Torino, Fonderie Limone, 10 aprile 2024

Medea, una storia d’amore

Dopo tante riscritture, riletture, adattamenti, è salutare tornare al testo originale, o quasi. Le Medee di Seneca (I secolo d.C.), Corneille (1635), Grillparzer, (1821), Anouilh (1946), Alvaro (1949) e poi Charpentier (1693), Rameau (1721), Cherubini (1797), Mayr (1813), Pacini (1843), Reimann (2020) tra quelle messe in musica, Pasolini (1969) e von Trier (1988) quelle cinematografiche, devono tutto a Euripide che la presentò alle Grandi Dionisie del 431 a.C. come parte di una tetralogia andata in parte perduta. Ora il Teatro Stabile di Torino ha in programma alle Fonderie Limone una versione da Euripide, ossia una Medea filtrata attraverso la traduzione di Umberto Albini, la regia di Leonardo Lidi e la drammaturgia di Riccardo Baudino,  che con sensibilità moderna propongono la loro lettura della tragica vicenda.

Quando Giasone giunge nella Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, Medea se ne innamora perdutamente e per aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto. Quando lo zio di Giasone rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del tesoro,  Medea sfrutta le proprie abilità magiche e convince le figlie di Pelia a somministrare al padre una pozione che,  dopo averlo fatto a pezzi e bollito, lo avrebbe ringiovanito completamente. Le figlie ingenue si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre. Acasto, figlio di Pelia, bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposeranno. (Con una tale storia di sangue alle spalle, non sorprende il ricorrere di Medea all’omicidio prima della fidanzata rivale e poi dei figli, una decisione sofferta sì, ma presa razionalmente e che non suscita particolari sensi di colpa nella donna.)

Tutto questo è raccontato dalla nutrice nella prima scena sia in Euripide sia nello spettacolo di Lidi, ambientato in una stanza chiusa da pareti di vetro che separano dal pubblico gli attori. L’unico personaggio al di fuori di questo “acquario umano” è il re Egeo, che promette a Medea asilo purché lo guarisca dalla infecondità. Nella drammaturgia di Riccardo Baudino il personaggio del re Creonte è sostituito dalla figlia Glauce, presenza muta in Euripide, questo per sottolineare il confronto al femminile tra le due donne. Donna e straniera, Medea è la “diversa” che cerca la solidarietà delle donne di Corinto. Anche la scena finale tra Medea e Giasone è diversa, trasformata in un monologo di quest’ultimo.

Nello spettacolo di Lidi Medea ha perso ogni connotazione magica e regale, è dimessa, non è vestita sontuosamente, non ha un trucco particolare: è una povera donna sconvolta dal dolore di essere abbandonata, per un’altra più giovane, da un uomo a cui ha sacrificato tutto. Orietta Notari connota con grande intensità la sofferta psicologia della donna e nello stesso tempo la lucida spietatezza con cui arriva a ideare un piano così efferato senza cercare di costruire la grandezza del personaggio. Con un accorto uso del corpo e della voce – essendo in una gabbia vetro gli attori usano microfoni per farsi sentire ma il risultato è convincente – dimessamente vestita, scalza, utilizza un’ampia gamma espressiva con cui confrontarsi con gli altri personaggi. Giasone soprattutto, ma anche i due giovani attori che rappresentano la nutrice e il pedagogo, a cui si rivolge maternalmente,  infatti alla fine saranno loro a impersonare i figli fino a quel momento totalmente assenti dalla scena. Valentina Picello e Alfonso de Vreese interpretano con sensibilità questi due unici personaggi simpatetici della vicenda, il secondo anche con una chitarra elettrica da cui scaturiscono sobri ma accarezzevoli suoni. Marta Malvestiti impersona Glauce che qui sostituisce prima Creonte mentre riferisce a Medea l’ordine di abbandonare la città e poi il nunzio che racconta della fine della giovane sposa con particolari d’un orrore raccapricciante. Lorenzo Bartoli è Egeo nel breve unico momento non drammatico della storia e infine Nicola Pannelli è un Giasone che non ha nulla di eroico, è l’uomo pusillanime che giustifica nel modo più ipocrita il suo tradimento. 

Con una recitazione naturalistica e sempre attenta ai significati delle parole, i pochi attori in scena hanno connotato con efficacia uno spettacolo visivamente depurato da elementi distraenti. Però neanche questa volta è mancato il momento pop, quando Glauce ha preso il microfono per cantare una canzone allo sposo e anche Medea si illude di poter vivere un altro momento di felicità ballando col fedifrago.