Mese: giugno 2017

Otello

Antonio Muñoz Degrain, Otelo y Desdémona, 1880

Giuseppe Verdi, Otello

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 28 giugno 2017

(live streaming)

Forse l’erede di Domingo in Otello deve ancora arrivare

L’atteso debutto di Jonas Kaufmann nella penultima opera verdiana è dunque avvenuto, smentendo le maligne previsioni che davano per inaffidabile il tenore tedesco. Sul palco della Royal Opera House londinese si è verificata l’epifanica apparizione che non ha deluso, ma nemmeno ha sorpreso più di tanto. Il Moro di Kaufmann è stato esattamente quello che ci si aspettava, complice anche un allestimento estremamente tradizionale pur nella sua minimalista modernità.

Per essere un debutto è comunque stato un signor debutto: tecnicamente ineccepibile, perfettamente intonato, con dinamiche sempre ben controllate (mezze voci, pianissimi…), Kaufmann è cantante dalla grande musicalità, ottima dizione e magnetica presenza fisica – questa enormemente apprezzata dal pubblico femminile e da buona parte di quello maschile – e ha sfruttato al meglio le potenzialità della sua voce usandone intelligentemente i diversi registri. Dal punto di vista interpretativo il suo Otello è un giovane ex-eroe che perde il controllo e la ragione per eccessiva emotività e insicurezza, non ci sono altre profonde implicazioni nella sua interpretazione. La figura manca poi di una maggiore autorevolezza, che sicuramente verrà col tempo. Il suo è un Moro introverso, ripiegato su sé stesso, che accetta passivamente il processo di autodistruzione innescato dal suo “onesto” alfiere ed è coerente con la sua lettura del personaggio il registro scuro scelto dal cantante, piuttosto che i toni squillanti. Encomiabile come sempre la sua fedeltà alle indicazioni dell’autore, tanto che sembra “nuova” la sua interpretazione dopo tanti arbitrii perpetrati dalle grandi voci del passato.

L’altro protagonista – quello che nelle originali intenzioni di Verdi doveva dare il titolo all’opera – è Jago, che tesse i fili della rovina del Moro riducendolo a una marionetta senza energia. All’alzarsi del sipario lo vediamo solo in scena impugnare due maschere, una nera e una bianca. Ed è la bianca che getta a terra spezzandola, mentre solleva sprezzante quella nera, che imporrà a un Otello annientato dalla gelosia nel finale del terzo atto. Nel ruolo abbiamo Marco Vratogna, subentrato all’inizialmente previsto Ludovic Tézier. Probabilmente il baritono francese avrebbe affrontato il suo ruolo limando e togliendo il più possibile da una figura che già nel testo e nella musica ha una presenza teatralmente cospicua, il baritono italiano sceglie invece la strada opposta e declina la lucida perfidia del personaggio non solo nei mille colori della voce (parlato, falsetto, sussurri, ringhi…), ma anche con gli sguardi, le espressioni della bocca, l’uso del corpo – dei tre interpreti è certamente quello con la maggiore fisicità, pur muovendosi meno di Otello. Non nuovo nel ruolo (già affrontato nel 2013 a New York e a Tel Aviv; 2014 a Houston e  2016 a Barcellona) il cantante spezzino ha conteso la scena all’attesa star ricevendo la sua abbondante dose di applausi dal pubblico alla fine della rappresentazione. Applausi che sono stati equamente divisi con Maria Agresta, una Desdemona più lirica che drammatica, che infatti dà il meglio nella canzone del salice e nella preghiera. Anche lei comunque piega la sua voce a colori diversi e non delude nella sua espressiva interpretazione. Efficace è Frédéric Antoun, tenore canadese che delinea un non troppo azzimato Cassio.

Su tutti domina la mano ferma e possente di Antonio Pappano, neanche lui nuovo alla partitura che aveva eseguito qui a Londra nel 2012. Fin dalle prime note della tempesta iniziale si capisce che non sarà una serata musicalmente trascurabile: la vividezza della direzione nei momenti più drammatici si allea alla rarefatta, cosmica pittura orchestrale del finale dell’atto primo, ai sinistri accordi dell’ingresso di Otello nella camera di Desdemona. La musica esce ancora più intensa poiché in scena c’è poco che distragga la vista: la regia di Keith Warner dipana con chiarezza la vicenda facendone di Jago il motore principale ed è lui che talora fa scivolare le enormi quinte nere delle scenografie firmate da Boris Kudlička. Semplici ma efficaci, queste quinte si trasformano nella tenebrosa gabbia che chiude l’anima di Otello ma anche nelle pareti perforate dalla luce di una cattedrale durante il “Credo” di Jago o si scostano per farci vedere l’arrivo della nave di Otello. Alcune trovate teatrali punteggiano l’allestimento: la statua marmorea del leone di san Marco arrivata con gli ambasciatori risulterà spezzata, eco del testo di Boito: «Jago (ritto e con gesto d’orrendo trionfo, indicando il corpo inerte d’Otello) Ecco il leone!». Graffite sulle pareti appaiono talora le parole di Otello e una concessione splatter è il sangue copioso che tinge di rosso le bianche coltri del letto di Desdemona, il muro,  la camicia di Otello. Ma si sa, il sangue fa regia moderna.

Macbeth

Henry Fuseli, The Three Witches Appearing to Macbeth and Banquo, 1794

Giuseppe Verdi, Macbeth

Torino, Teatro Regio, 27 giugno 2017

(secondo cast)

Con il cast alternativo di questa produzione diventa ancora più forte la lettura femminista della regista Emma Dante: con Oksana Dyka si afferma infatti ancora di più il protagonismo della Lady, che qui ha una presenza scenica ancora maggiore. Sul piano vocale il timbro metallico e a volte perforante del soprano ucraino sarebbe in teoria adatto al ruolo, ma un eccesso di temperamento rende la sua performance insopportabilmente sopra le righe trasformando il bel canto di questo giovane Verdi in una lettura quasi verista. Il ruolo della Lady è già tutto nella musica del Macbeth, non occorre caricarlo con effetti talora sguaiati.

Contagiato dalla moglie, anche il Macbeth di Gabriele Viviani tende a strafare, con risultati che magari esaltano il pubblico della pomeridiana ma non esaltano la linea del canto. E magari sarebbe bene attenersi alle indicazioni della partitura: il finale della sua ultima aria,   «Pietà, rispetto, amore» passa da pp a p, non da f a ff!

Esemplare, come ci si poteva aspettare, il Banco di Marko Mimica, uno dei migliori bass-bariton del momento, in cui potenza, bellezza di timbro ed eleganza di emissione si alleano felicemente. Non delude nel suo unico toccante intervento il Macduff di Giuseppe Gipali.

Un’improvvisa indisposizione di Gianandrea Noseda, che ha dovuto cancellare tutti i suoi futuri impegni in questo allestimento, ha portato sul podio Giulio Laguzzi. Il maestro lo ha degnamente sostituito senza mutare l’impostazione complessiva data dal titolare.

2016

2015

2014

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2009

2008

L’Orfeo

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

Firenze, Teatro Goldoni,  10 marzo 1998

(registrazione video)

Ronconi e il suo primo Monteverdi

In occasione del quarto centenario della nascita del melodramma con La Dafne di Jacopo Peri, il Maggio Musicale Fiorentino produce questo Orfeo con la regia di Luca Ronconi, al suo debutto monteverdiano, le scene di Margherita Palli e i costumi di Vera Marzot, mentre alla testa del suo Concerto Vocale c’è René Jacobs. Con la regia video dello stesso Ronconi lo spettacolo viene ripreso e trasmesso dalla RAI. Il video non è in commercio, ma fortunatamente è disponibile su youtube.

Tutta la platea del teatro Goldoni, allora appena riaperto dopo un restauro durato vent’anni, svuotata delle poltrone è allagata con circa quarantamila litri d’acqua su cui si muove la barca di Caronte, ma ospita anche il letto-catafalco di Euridice. Il palcoscenico è ricoperto di un vero prato verde con tre cipressi, questi finti e sullo sfondo grandi specchiere spezzate opache alle immagini che dovrebbero riflettere. Meno di duecento spettatori sono ammessi nei palchi e in galleria e anche per questo sembra che il costo della produzione abbia contribuito al dissesto finanziario dell’ente fiorentino poco dopo.

La compagnia di canto è giovane e italiana – e si sa quanto importante per l’articolazione della parola monteverdiana sia la giusta dizione della lingua – e quasi tutti sono specialisti di musica antica. In più hanno il merito di saper cantare spesso dietro il direttore d’orchestra, il sempre giustissimo René Jacobs. Uscendo dalla buca orchestrale, la Musica, Cecilia Gasdia, che ricopre anche i ruoli di Euridice ed Eco, con il suo encomiastico intervento rivolto agli «incliti eroi, sangue gentil di regi, | di cui narra la fama eccelsi pregi, | né giugne al ver perch’è troppo alto il segno» ci introduce alla vicenda. Orfeo è il pregevole il basso-baritono Roberto Scaltriti dalla effimera carriera, un giovane bendato e dalla lunga chioma bionda e come i pastori è vestito come un borghese fine Ottocento. Interrompe la gaia scena di festa la Messaggera, una stilisticamente perfetta e intensa Sara Mingardo che sarà anche Speranza. Marina Comparato (Proserpina) e Antonio Abete (Plutone) sono tra gli altri interpreti. Il bravo controtenore Claudio Cavina (che fonderà il glorioso gruppo de “La Venexiana”) viene definito «inopportuno e inadeguato» da Dino Villatico nella sua recensione su La Repubblica del 12 marzo 1998 – ancora oggi i pregiudizi su questo tipo di vocalità restano immutati al di qua delle Alpi.

Una bella analisi dello spettacolo si può trovare nel libro Il Seicento da poco uscito, in cui  l’autore Elvio Giudici lamenta che il video, per il suo livello concettuale, scenico e musicale, non sia ancora stato incluso nel catalogo d’una etichetta ufficiale o quanto meno di una qualche iniziativa editoriale. Se non è successo con la scomparsa di Ronconi due ani fa, ci sono poche speranze che possa avvenire in futuro.

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TEATRO NAZIONALE

 

Teatro Nazionale

Atene (1901)

600 posti

Il Teatro Nazionale (Εθνικο Θεατρο) di Atene fu edificato tra il 1895 e il 1901 come Teatro Reale sotto il re Giorgio I. I disegni dell’edificio si devono all’architetto sassone Ernst Ziller, autore di molti edifici pubblici di allora. Fu inaugurato il 24 novembre 1901. Due anni dopo le rappresentazioni dell’Orestea di Eschilo messa in scena da Yorgos Sotiriadis innescarono un lungo conflitto linguistico tra i fautori del greco moderno (δημοτική) e quelli della versione arcaizzante e purista (kαθαρεύουσα): gli studenti degli studi classicisti dell’Università di Atene marciarono lungo Agiou Konstantinou, la strada dove si trova il teatro, per impedirne le rappresentazioni e nei tumulti che seguirono ci scappò addirittura un morto. 

All’assassinio del re Giorgio nel 1913 seguì un periodo di declino che portò alla chiusura del teatro. Fu riaperto come Teatro Nazionale nel 1932 e nel 1939 fu fondata l’Opera Nazionale Greca (Εθνική Λυρική Σκηνή). La prima produzione è il Fledermaus di Johann Strauss jr.Nel 1942 Maria Callas vi fa la sua prima apparizione come Tosca. Nel 1948 sarà la volta dell’attrice Melina Mercouri. Nel 2009 l’edificio neoclassico è stato ampiamente restaurato.

Macbeth

Henry Fuseli, The Three Witches Appearing to Macbeth and Banquo, 1794

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

648126338.png Qui la versione in italiano

Turin, Teatro Regio, 21 June 2017

Macbeth in the deep south in Emma Dante’s staging

Macbeth is Giuseppe Verdi’s tenth work and his first staging of a Shakespeare’s play. It is also his first true masterpiece where the musical colour is innovative and becomes drama itself. The opera was not appreciated by the Florentine audience in 1847. It was only a tepid success, and in 1865 the author revised his creature for Paris…

continues on bachtrack.com

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

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Torino, Teatro Regio, 21 giugno 2017

Il profondo sud del Macbeth di Emma Dante

Macbeth è la decima opera e prima incursione nel mondo di Shakespeare da parte di Giuseppe Verdi ed è il primo vero capolavoro “verdiano” in cui il colore musicale è originale e diventa esso stesso dramma. Non lo capì il pubblico fiorentino del 1847 che decretò solo un tiepido successo all’opera e nel 1865 l’autore rimaneggiò la sua creatura per i teatri francesi. Usualmente l’opera viene rappresentata in un mix delle due versioni: la seconda, senza però i balletti, ma con l’inserimento del finale della prima versione. Scomparsa dal repertorio operistico per quasi un secolo è stata riportata in auge da Maria Callas nel 1952 al Teatro alla Scala.

Ora un’altra donna, Emma Dante, fa rivivere in scena Macbeth – e che la vera protagonista sia la Lady è più che evidente nel suo allestimento: è lei l’artefice di tutto. Il marito è manipolato psicologicamente dalla moglie, è un pupazzo nelle sue mani che si merita uno schiaffone quando sta per tradirsi con le sue allucinazioni durante la festa ed è il marito che viene lasciato da solo lassù nel suo trono/gabbia cui era asceso tramite una scala di altri troni in una scalata al potere senza ritorno. E se non fosse ancora abbastanza chiaro, è lei che entra in scena nel terzo atto sul cavallo del marito, il cavallo scheletrico uscito dagli affreschi del Trionfo della morte del palermitano Palazzo Abatellis.

Innumerevoli sono le immagine pittoriche e i simboli iconografici in questa regia in cui si avvicendano momenti di grande teatro ad altri di un barocco eccessivo e allucinato. Innanzitutto l’ambientazione: dall’erica delle brughiere scozzesi passiamo ai fichi d’India di una Sicilia proposta nei suoi più cupi aspetti, quelli di una religiosità dove le croci diventano spade, e viceversa, e il giovane cadavere di Duncano (tutt’altro che “vegliardo” come è nel testo) viene lavato e atteggiato come quello del Cristo deposto dalla croce o della Madonna dei sette dolori trafitta da sette spade. La musichetta dell’ingresso del re Duncano è accompagnata da una processione di pupi siciliani e memorabile tra le tante è la scena del sonnambulismo della Lady che vaga da un lettino all’altro, lettini da ospedale che le danzano attorno fino a stringerla in un cerchio.

Qui le streghe, come era nelle intenzioni di Verdi, sono il terzo personaggio principale. Ingravidate da satiri, le loro pance sono contenitori di profezie, neonati sgravati nei pentoloni («dito d’un pargolo | strozzato nel nascere» è d’altronde uno degli ingredienti delle loro pozioni magiche) («Finger of birth-strangled babe | ditch-deliver’d by a drab» nell’originale scespiriano). Il futuro che tanto ossessiona Macbeth è rappresentato dalla capacità nelle donne di perpetuare la specie e le barbe che tanto lo colpiscono sono qui i lunghi capelli che esse si portano davanti al viso come la creatura del film horror giapponese Ringu.

Pochi sono gli elementi scenici: i troni di diverse misure di cui s’è detto e le cancellate-corone, anche loro di misure diverse, che scendono dall’alto a ingabbiare i personaggi. I colori predominanti sono il nero e il rosso mentre i costumi, lunghissime pellicce da Crudelia De Mon, danno un tocco di barbarica e sanguinosa violenza in più ai due coniugi che sono qui interpretati da una coppia stilisticamente eterogenea ma convincente. Dalibor Jenis, nel ruolo titolare, ha presenza scenica, un timbro di voce molto personale e un’emissione molto varia, con alcune note soffocate o di gola che si rivelano efficaci per la definizione del personaggio. Anna Pirozzi domina nel ruolo della Lady con intensità ed espressività e non delude le aspettative nei passaggi di agilità belcantistiche richieste dalla sua parte. Banco è il bravo Vitalij Kowaljov mentre nell’unica ma stupenda aria di Macduff si distingue per bellezza di canto ed incisività il tenore Piero Pretti. Il suo «Ah, la paterna mano», unica oasi di pietà in tanto sangue, tiene sospeso il pubblico prima del finale in cui, rispetto alla versione di Palermo dove aveva debuttato qualche mese fa questo allestimento, Gianandrea Noseda elimina il coro finale e molto opportunamente le ultime note dell’opera si spengono con la morte di Macbeth. Un altro merito del direttore è aver dato una lettura veemente e piena di colori della partitura, senza però trascurare i momenti più musicalmente intensi (come il meraviglioso fagotto della scena della Lady) o le note sospese di «Patria oppressa», una scena indimenticabile con il coro sullo sfondo nero, solo i volti appena visibili e in proscenio una distesa di cadaveri coperti da teli bianchi, un’immagine di sconvolgente realtà. Sì, l’opera è sempre attuale.

El Niño

★★★☆☆

L’oratorio di Natale di Adams non mette le ali

John Adams si autodefinisce il primo compositore della “LP generation”, il primo compositore cioè ad aver avuto a disposizione l’alta fedeltà e i mezzi elettronici più sofisticati della riproduzione sonora. Nato sotto l’influenza di John Cage e del minimalismo di Steve Reich e Philip Glass, negli anni di formazione è combattuto tra l’avanguardia fredda e rigorosa dei Boulez e degli Stockhausen e la musica rock dei Beatles, dei Rolling Stones, del jazz. Opterà per la tonalità e, pur nella modernità costruttiva, le sue opere avranno sempre una forte presa sul pubblico, anche quello meno abituato al linguaggio serio della musica classica.

Ne è un esempio questo El Niño, su testo dello stesso Adams e di Peter Sellars basato sulla traduzione di pagine della Bibbia di Richmond Lattimore (1906-1984), classicista americano cui si devono le migliori traduzioni in inglese dei poemi omerici.

Concepito originariamente come un oratorio, un “Oratorio di Natale”, ben presto però ha preso la forma di un’opera a tutti gli effetti grazie soprattutto al coinvolgimento di Peter Sellars, da tempo sodale del compositore nella messa in scena di suoi lavori, incluso questo. La registrazione del DVD si riferisce alla prima produzione allo Châtelet di Parigi nel dicembre 2000.

Il titolo si riferisce ovviamente al bambino Gesù in spagnolo, ma anche all’uragano che periodicamente devasta le coste meridionali degli USA. Centrato sulla figura di Maria, il lavoro ne racconta la vicenda dall’annunciazione alla fuga in Egitto come viene narrata dai vangeli apocrifi. Le 24 parti di cui è composto alternano gli interventi di tre solisti (un soprano, un mezzosoprano e un baritono, ognuno dei quali, come nel Messiah di Händel, interpreta diversi personaggi), un trio di controtenori e un coro. Le lingue sono l’inglese, il latino e lo spagnolo di alcuni poeti sudamericani poiché la vicenda del Vangelo si riflette in una moderna storia ambientata tra i latinos della California che vediamo in un film girato dallo stesso Sellars in bianco nero e proiettato su un grande schermo al di sopra del palcoscenico vuoto. In questo film la natività non ha nulla del nostro presepe: siamo su una spiaggia attorno a un falò con dei simpatici poliziotti nel ruolo di pastori e la fuga da Erode avviene in auto per le strade di Los Angeles. La gestualità dei solisti, dei tre controtenori del “Theatre of Voices”(che danno voce all’arcangelo Gabriele e ai re Magi) e del coro è ripresa e amplificata da tre danzatori.

Kent Nagano alla testa della Deutsches Symphonie-Orchester di Berlino dipana con dedizione le iterate frasi tipiche di Adams che qui hanno una liricità in più e sono espresse da un eccellente trio di interpreti: Dawn Upshaw, Lorraine Hunt Lieberson e Willard White. Ciononostante lo spettacolo non sfugge a una certa staticità e monotonia che la regia video di Peter Maniura con il suo montaggio, che alterna le immagini del film a quanto avviene in scena, cerca di movimentare.

Il disco contiene extra interessanti, tra cui interviste agli artefici della produzione. Tre tracce audio e sottotitoli in quattro lingue ma non in italiano.

Acis and Galatea

Georg Friedrich Händel, Acis and Galatea

Dublino, O’Reilly Theatre, 11 aprile 2017

★★★☆☆

Ninfe e pastori al pub

Nei paesi anglosassoni Händel non è quell’autore paludato e parruccone come viene rappresentato al di qua delle Alpi quando, molto raramente, viene messo in scena. Anche a Dublino il caro sassone è trattato sì con rispetto, ma con la disinvoltura con cui si tratta un vecchio amico. La favola pastorale Acis and Galatea (1718, rifacimento della giovanile Aci, Galatea e Polifemo data nel 1708 a Napoli) è ambientata dal regista Tom Creed in un bar irlandese di oggi per l’Opera Theatre Company in una produzione itinerante per l’Irlanda. Questo spettacolo è stato registrato nella capitale al teatro O’Reilly.

A capo della smilza Irish Baroque Orchestra c’è uno specialista, Peter Whelan e in scena degli efficaci interpreti poco noti all’estero: Eamonn Mulhall, Susanna Fairbarn, Edward Grint e Andrew Gavin (rispettivamente, Acis, Galatea, Polyphemus e Damon). Altri quattro cantanti formano il coro di ninfe e pastori, qui degli operai che alla fine della giornata si tolgono la tuta da lavoro per rifocillarsi con una Guinness al locale pub gestito da Galatea e Damon, ricostruito fedelmente sulla solita piattaforma rotante (la scenografia è di Paul O’Mahony) che ci permette di vedere interni, retrobottega ed esterni del locale.

L’ambientazione pastorale (country, in inglese) diventa qui un “country pub” dove gli stivali, le camicie a scacchi e i cappelli da cowboy dei costumi di Catherine Fay trasformano la serenata in un film western con il cattivo che entra nel saloon armato non di una pistola, ma di un mattone… D’accordo che la vicenda dell’amore contrastato di due giovani non ha tempo, ma il divario tra il testo di John Gay e quello che vediamo diventa spesso sconcertante e far credere che la barista di un modesto pub abbia poteri divini tali da trasformare il cadavere dell’amato in una fonte è impresa dura. Per non parlare del mostruoso gigante Polifemo, qui un attraente giovane barbuto. Per di più ci si aspetta sempre un qualcosa di inedito dalla regia di Creed, ma inutilmente. Non c’è nessun colpo di scena che venga a movimentare l’andamento lineare, per non dire prosaico, della lettura registica.

Invece della country music, logicamente di casa, ci sono le belle musiche di Händel del tutto decontestualizzate e non particolarmente esaltate dal minuscolo strumentale e da una concertazione senza colore.

Il viaggio a Reims

François Gérard, Le sacre de Charles X à Reims, 1827

Gioachino Rossini, Il viaggio a Reims

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 14 giugno 2017

La “petite pièce” per l’incoronazione di Carlo X

Nel 1825 Rossini è a Parigi come direttore del Théâtre Italien e tra i suoi compiti c’è quello di scrivere lavori per l’Opéra, allora Académie Royale de Musique. Gli viene offerta un’occasione per contribuire con una “petite pièce” ai festeggiamenti per il sacre di Carlo X che si sarebbe svolto, come tradizione, nella cattedrale di Reims. Il lavoro di circostanza diventa invece una “cantata scenica” di proporzioni monumentali ed eseguita con un cast stellare per l’epoca. (1)

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Già autore in passato di cantate celebrative per Marat (Inno dell’Indipendenza, 1815) o i Borboni (La Riconoscenza, 1821, ripresentata in seguito per altre occasioni come Vero Omaggio, Serto Votivo, Augurio Felice…) che avevano messo in scena gli dèi dell’Olimpo, Rossini si adegua ai tempi e il nuovo lavoro affida il suo messaggio al divertimento di un “dramma giocoso” sui versi strampalati di Luigi Balocchi in cui una improvvisatrice romana (Corinna), una dama polacca vedova di un italiano (la marchesa Melibea), una vedova francese pazza per le mode (la contessa di Folleville), un ufficiale francese (il cavalier Belfiore), un generale russo (il conte di Libenskof), un colonnello inglese (Lord Sidney), un letterato fanatico delle antichità (Don Profondo), un maggiore tedesco fanatico della musica (il barone di Trombonok) e un grande di Spagna (Don Alvaro) si trovano a Plombières ospiti della casa di bagni all’insegna del “Giglio d’oro” gestita dalla tirolese madama Cortese e dal dottore Don Prudenzio e tutti in attesa di partire per Reims e partecipare così all’incoronazione del re. A questi undici personaggi “principali” se ne aggiungono altri sette tra compagne di viaggio, governanti, cameriere e camerieri. Tra la costernazione generale si scopre però che mancano i cavalli per il trasporto del composito gruppo. Un banchetto organizzato da madama Cortese solleva in parte gli animi dei presenti, che a turno magnificano la casa reale in numeri musicali tipici del paese di provenienza. L’ultima parola è per Corinna, che nella sua improvvisazione auspica prosperità e vittorie per il nuovo sovrano e per il suo popolo.

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Le quasi tre ore di musica del Viaggio a Reims sono formate da tre arie, due duetti e quattro grandiosi pezzi di insieme, tra cui un gran pezzo concertato a 14 voci («A tal colpo inaspettato») e un finale estremamente composito. «Il viaggio a Reims rappresenta una luminosa metafora del rossinismo per la natura ambigua di opera-non opera: refrattaria a ogni definizione, risponde egregiamente al capriccio di un musicista che sfugge i percorsi della verosimiglianza e della logica». (Alberto Zedda)

La musica del Viaggio oltre che nel Comte Ory fu utilizzata, contro la volontà dell’autore, per due pasticci: Andremo a Parigi? (1848) per onorare i moti rivoluzionari della capitale francese (!) e Il viaggio a Vienna (1854) per un matrimonio degli Asburgo. Per molto tempo si è pensato che la partitura fosse addirittura andata distrutta, ma il lavoro di studiosi quale Philip Gossett e Alberto Zedda, entrambi recentemente scomparsi, ha permesso la ripresa di questo titolo glorioso.

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Dopo la leggendaria edizione pesarese di Abbado/Ronconi ben pochi sono stati i registi che si sono cimentati con Il viaggio a Reims se non Dario Fo nella sua particolare versione vista a Genova nel 2004. Nel gennaio 2015 Damiano Michieletto ha presentato ad Amsterdam, con enorme successo di pubblico e critica, il suo allestimento dedicato proprio alla memoria di Claudio Abbado scomparso un anno prima. Ora lo spettacolo arriva al Costanzi dedicato a Philip Gossett.

Alla domanda di Don Profondo «Vorrei che m’indicaste | ove trovar potrei | il brando di Fingallo, la corazza | d’Artur, l’arpa d’Alfred…» Lord Sidney risponde in modo asciutto «Nei musei | cercar conviene» e in un museo, più precisamente nelle sale della “Golden Lilium Gallery”, è ambientata la geniale messa in scena del regista veneziano. Madama Cortese è l’isterica curatrice in apprensione per il vernissage, Don Profondo si occupa della catalogazione delle opere, Lord Sidney è uno studioso che si innamora della Madame X del quadro di Sargent che sta restaurando, Corinna è una giovane studiosa d’arte e gli altri personaggi, vestiti a metà, sono usciti da un quadro in cui riprenderanno posto nell’apoteosi finale. Nel frattempo le loro schermaglie, anche amorose, avranno a che fare con l’Infanta Margarita di Velázquez, la Dora Maar di Picasso, la Duquesa de Alba di Goya con relativo cagnolino, l’omino con bombetta e mela di Magritte, uno dei tanti ritratti di Frida Kahlo, il baffuto travestito di Botero, il van Gogh dell’autoritratto con l’orecchio fasciato e una figurina di Keith Haring. Tutti usciti dalle rispettive cornici di questa eterogenea collezione. Momenti di particolare efficacia teatrale sono quelli della prima celestiale aria di Corinna («Arpa gentil, che fida | compagna ognor mi sei») cantata fuori scena mentre il gruppo marmoreo delle Tre Grazie del Canova si scioglie in una delicata azione coreografica o il «Medaglie incomparabili» di Don Profondo che accompagna una vendita all’asta di mirabilia varie tra cui un elmo piumato di cui si impossessa il direttore d’orchestra.

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L’assenza di drammaturgia del lavoro di Rossini trova qui una soluzione che si coniuga a meraviglia con la stupefacente scenografia di Paolo Fantin, i fantasiosi costumi di Carla Teti e le luci di Alessandro Carletti, il magic team di Michieletto, che rende lo spettacolo visivamente sorprendente. Sulle note del canto di Corinna si ricostruisce al rallentatore un grandioso tableau vivant che si svela essere L’incoronazione di Carlo X a Reims di François Gérard, l’enorme dipinto del Musée des Beaux-arts di Chartres. Sul velario sceso nel frattempo viene proiettato l’originale e nel museo si festeggia l’acquisizione della nuova tela.

Stefano Montanari dirige con piglio beethoveniano l’originale partitura e quando suona il continuo o improvvisa sul forte-piano l’eccentrico direttore si ficca la bacchetta tra i denti o nella schiena sotto la t-shirt a mo’ di freccia nella faretra! Non c’è spazio per particolari finezze nella sua lettura ma originali sono i colori dell’orchestra con gli ottoni trattati come strumenti antichi.

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Nella sterminata compagnia di canto il reparto femminile ha punte di eccellenza nella Corinna di Mariangela Sicilia e nella contessa di Folleville di Maria Grazia Schiavo. Pregevoli sono comunque Anna Goriačëva (marchesa Melibea) e Francesca Dotto (Madama Cortese). Tra gli uomini il meglio lo dà il Lord Sydney di Adrian Sâmpetrean dal bel timbro baritonale mentre Juan Francisco Gatell, Merto Sungu, Nicola Ulivieri, Simone del Savio e Bruno de Simone disimpegnano con efficacia i rispettivi ruoli di Cavalier Belfiore, conte di Libenskof, Don Profondo, Don Alvaro e barone di Trombonok. Convincenti anche gli interpreti delle parti di fianco e il coro.

Successo vivissimo della serata con innumerevoli applausi equamente ripartiti fra tutti gli artefici dello spettacolo.

(1) Giuditta Pasta, Adelaide Schiassetti, Laura Cinti, Ester Mombelli, Domenico Donzelli, Marco Bordogni, Felice Pellegrini, Vincenzo Graziani, Carlo Zucchelli, Nicolas-Prosper Levasseur.

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