Der fliegende Holländer

holandes-tr-1024x722

Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’olandese volante)

★★☆☆☆

Madrid, Teatro Real, 23 dicembre 2016

(live streaming)

A Madrid un Olandese coreano

Esattamente quarant’anni dopo Chéreau, anche Álex Ollé con Wagner denuncia i danni del capitalismo, anche se in maniera più esplicita. Il suo Olandese volante madrileno è ambientato a Chittagong, Bangladesh, uno dei posti più inquinati al mondo, uno squallido cimitero navale, “l’inferno sulla Terra”. La scena del Teatro Real è occupata da un enorme scafo arenato da dove gli uomini scaricano tutto il possibile e le donne lo riciclano. Qui un padre può vendere una figlia per denaro e la figlia vedere la morte come via di salvezza da una vita senza speranza. Metafora del materialismo capitalista, la storia di Senta e del marinaio condannato a vagare senza tregua per i mari, è qui una coproduzione del teatro spagnolo con quelli di Lione, Bergen, Lilla e Opera Australia.

Con pochi oggetti in scena, una gigantesca àncora e un ripidissimo barcarizzo, Alfons Flores monta una scenografia in cui il mare si è prosciugato: solo esiste nella mente dell’Olandese, essendo la sua nave in secca su un deserto cosparso di rottami, un deserto però realizzato con dei gonfiabili che sembrano grossi ravioli su cui camminano traballando i cantanti. È la videografica de La Fura dels Baus che suggerisce con le sue immagini digitali sulla sabbia il mare in tempesta e il brulichio dei marinai fantasmi. «Quelli che emergono dal ventre della nave – il capitano, la truppa – sono gli stessi fantasmi degli operai che la distruggono. Sono i loro desideri, le loro ambizioni, le loro ansie di potere, di ricchezza, di libertà, le loro stesse paure. […] Sono l’anima della società capitalista naufragata sugli scogli del secolo XXI. L’“altro” della nostra società, uno sguardo all’altro lato dello specchio dell’occidente». Così scrive nelle sue note di regia Alex Ollé che si allontana non poco dalle intenzioni idealistiche e romantiche del compositore (qui non c’è alcuna redenzione), ma il regista catalano propone comunque uno spettacolo, almeno visivamente, valido, che fa della tecnologia un uso ottimale. Particolarmente riuscito è il finale con l’acqua che inonda virtualmente il palcoscenico fino a far scomparire tutto in un mare spettrale. Quello che viene a mancare qui è il dramma, mentre carente risulta lo sviluppo e la caratterizzazione dei personaggi, anche a causa dello scarso carisma dei cantanti.

Entrambi coreani e con lo stesso cognome, Youn, sono i due interpreti maschili principali: Samuel è l’Olandese e Kwangchul è Daland. Il primo ha voce possente, ma l’articolazione della parola non riesce a scolpire vocalmente il personaggio, che rimane caratterizzato solo scenicamente dalle occhiate di sbieco e dalla smorfia della bocca. Il secondo è un Daland anche troppo meschino e poco autorevole e dal fastidioso eccesso di vibrato della voce. La Senta di Ingela Brimberg convince per la drammaticità più che per la bellezza del timbro. Nikolai Schukoff interpreta un Erik scoraggiato e perdente fin dall’inizio, mai lirico e dalla voce spezzata. Efficace invece nella sua breve parte di timoniere Benjamin Bruns.

Tutt’altro che memorabili la direzione di Pablo Heras-Casado e la resa dell’orchestra. Nonostante sia stata scelta la versione senza divisioni in atti, la lettura musicale manca di unitarietà e coerenza, con certe pagine sguaiate e altre fiacche. Nella concertazione dei cantanti il monologo dell’olandese e i duetti non emergono mai da una certa monotonia. Squilibrati e timbricamente grossolani i reparti dell’orchestra e neanche il coro sembra aver dato il meglio.

1482148333_463924_1482148391_noticia_normal

c0cd-wpxcaawtdg

holerrante-4366

Pubblicità