Mese: giugno 2015

Ricciardo e Zoraide

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Gioachino Rossini, Ricciardo e Zoraide

direzione di Riccardo Chailly

regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti

3 agosto 1990, Pesaro

La meno rappresentata e conosciuta del catalogo rossiniano, Ricciardo e Zoraide, su libretto di Francesco Berio di Salsa, debutta nel 1818 a Napoli con buon successo, ma poi cade in oblio per quasi un secolo e mezzo e viene ripresa solo ora al Rossini Opera Festival in questo allestimento di Ronconi. Esiste un’edizione in CD dell’Opera Rara con due degli stessi cantanti che troviamo qui a Pesaro, Matteuzzi e Ford.

Antefatto All’epoca delle crociate, il principe Ircano ha fondato un regno ai confini della Nubia; Agorante, re della regione, gli ha mosso guerra e lo ha cacciato, avendo Ircano rifiutato di concedergli la mano della figlia Zoraide. Nella fuga Zoraide incontra il prode paladino Ricciardo, se ne innamora, e abbandona il padre per vivere nel campo dei crociati. Ircano, disperato, vaga alla ricerca della figlia scomparsa, travestito da cavaliere nero. Agorante, venuto a conoscenza del nascondiglio di Zoraide, l’ha fatta rapire e condurre nella sua reggia, dove egli vive con la moglie Zomira.
Atto primo. La scena si apre su una piazza fuori del recinto della città di Duncala, capitale della Nubia. Agorante, acclamato per la sua vittoria su Ircano, afferma di non temere la vendetta di Ricciardo né degli eserciti dei crociati. Zoraide, che sente le grida di trionfo, si dispera con la confidente Fatima per il proprio destino; teme infatti la doppia vendetta del padre Ircano e della moglie di Agorante, Zomira, oltre a essere affranta per la separazione da Ricciardo. Giunge Zomira, che cerca di farle confessare il suo amore per il paladino: amore che Zoraide dissimula per non irritare Agorante, il quale arriva dichiarando di voler sposare la prigioniera. Zoraide rifiuta l’offerta, ma nonostante questo Agorante promette di unire la sua anima a quella di lei, mentre Zomira giura vendetta. Nella pianura nei pressi di Duncala. Ricciardo approda con Ernesto, ambasciatore del campo cristiano, sulla riva del fiume Nubio. Travestito da guida africana, è giunto per liberare Zoraide, per il cui amore è disposto a sacrificare la sua vita. Intanto, nella reggia di Agorante, Zomira invita la confidente Elmira a spiare ogni mossa della rivale Zoraide. Giunge Ernesto, accompagnato da Ricciardo, per chiedere ad Agorante spiegazione del rapimento di Zoraide e di alcuni guerrieri franchi. Egli è disposto a liberare i guerrieri, ma non Zoraide e quando Ernesto lo avverte che questo potrebbe provocare una ripresa delle ostilità, Agorante dichiara a Zoraide il suo amore davanti a tutti. Ella si schermisce, chiamando in causa il suo dolore per la lontananza del padre, ma Agorante, determinato nel suo intento, chiama le proprie truppe a raccolta, affermando orgogliosamente di essere in grado di difendere la patria.
Atto secondo. Zamorre, dignitario di corte, riferisce ad Agorante che la guida dell’ambasciatore franco – in realtà Ricciardo sotto mentite spoglie – desidera parlargli. La finta guida simula di odiare Ricciardo e tutti i paladini, affermando che proprio Ricciardo gli avrebbe rapito la moglie e che lo stesso Ricciardo attenderebbe il ritorno di Zoraide per vendicarsi, ritenendola l’amante di Agorante. Il re non vede di meglio che invitare la finta guida a svelare a Zoraide il tradimento dell’amato, sperando che questo la induca ad accettare il suo amore. Ricciardo può così incontrare Zoraide, alla quale promette una pronta liberazione. Ma Elmira ha spiato non vista l’incontro e corre a riferirne a Zomira. Agorante, frattanto, ha deciso di mostrarsi generoso e risolve di liberare Zoraide, salvo poi cambiare idea al pensiero di restituirla al suo nemico Ircano. Le sorti di Zoraide saranno decise dallo scontro di un paladino con un campione africano. Si fa avanti un cavaliere misterioso, Ircano, con indosso un’armatura nera, e si proclama difensore di Zoraide. Agorante sceglie come proprio campione la finta guida, mentre Zoraide è condotta al carcere. Zomira, alla quale Elmira ha rivelato la vera identità della finta guida, va intanto a trovare Zoraide prigioniera, avvertendola che la guida ha vinto il duello e affermando di conoscerne l’identità. Fingendosi complice, indica a Zoraide una via attraverso la quale fuggire con Ricciardo; ma si tratta di una trappola e i due amanti vengono catturati dalle guardie della regina. Agorante ha intanto scoperto che il cavaliere misterioso è Ircano e promette di fare giustizia. Nella piazza di Duncala Ricciardo e Zoraide, condannati a morte, avanzano tra la folla, quando giunge Ircano, anch’egli condannato e ferito durante il duello. Ircano ripudia Zoraide, accusandola di averlo abbandonato per un amore foriero di interminabili disgrazie. Zoraide, in preda al rimorso, chiede ad Agorante di salvare almeno il padre: di fronte a questa richiesta il re chiede un’ultima volta a Zoraide di sposarlo. Divisa tra l’amore per il padre e quello per Ricciardo, Zoraide cede pur di salvare Ircano. Ma improvvisamente entra Ernesto, che dichiara di aver sconfitto gli eserciti della Nubia. Ricciardo, con magnanimità, risparmia la vita ad Agorante e Zomira mentre Ircano, commosso per il sacrificio della figlia, la perdona acconsentendo alla sua unione con Ricciardo.

«Ricciardo, ci si dice, è un paladino; ma nulla di quel che fa sotto i nostri occhi ha a che vedere con le imprese di un paladino: questo signore parla solo d’amore e si nasconde dietro una veletta ogni volta che vede un nemico. Possiede comunque una qualità speciale: egli è tenore, e di quell’arma abusa moltissimo, in guerra e in amore: si può capire quindi come le cose gli vadano abbastanza male. Il fatto è che anche l’avversario, Agorante, è tenore, e perfettamente alla pari: donde una serie di scontri all’ultimo coccodè. I due incontrano in qualche angolo della Nubia personaggi dai nomi leggendari: Zoraide, l’amata (da entrambi, si capisce), Ircano, Zomira, Elmira, Zamorre e intrecciano rapporti d’odio con tutti. Ma si capisce che andrà tutto bene, che i crociati vinceranno i mori, che Ricciardo e Zoraide saranno finalmente sposi, che i crudeli saranno risparmiati e che a morire sarà solo una manciata di mori. […] Perché diciamo che Ricciardo e Zoraide è un’opera minore? Perché il mestiere prevale sull’idea, e qualche volta non c’è neppure quello: due intere scene consecutive realizzate con recitativo secco (orchestrale, ma secco) saranno giustificabili dalle consuetudini ma sono francamente insopportabili. E se prendiamo il quartetto del primo atto, che si avvia benissimo, dobbiamo constatare che vi funziona, appunto, solo l’inizio e che subito dopo Rossini si perde. Peccato, perché il libretto (di Francesco Berio di Salsa) è fatto bene e la partitura sfoggia in apertura una pagina sinfonica molto insolita, trattata cameristicamente con una serie di variazioni per strumenti soli (corno, clarinetto, flauto) e in assoluta rinuncia ai celebri e celebrati crescendo. C’è poi un continuo passaggio dall’orchestra in buca alla banda fuori scena, dal coro in scena al coro fuori scena, sì da movimentare e connotare in maniera originale l’impianto dell’opera. Ma in lavori come questi in cui la bellezza complessiva deriva dalla bellezza dei singoli pezzi, dobbiamo rimarcare la scarsissima presenza di numeri belli. […] L’allestimento, comunque, è di gran pregio: Gae Aulenti disegna per Luca Ronconi un palcoscenico deserto completamente chiuso dal cielo. L’apparizione di personaggi, cori, elementi scenici avviene verticalmente attraverso botole con saliscendi. Gli oggetti sono ridotti al minimo, ma sono belli e costruiti ingegnosamente: così quella barchetta che va per dune desertiche, le attraversa, si gira e scompare come un giocattolo di alta tecnologia teatrale. Ronconi ha buon agio, sul palcoscenico scavato come una groviera, nel disseminare coristi e comparse, quasi tutti neri come l’ebano e bellissimi negli splendidi costumi di Giovanna Buzzi. Ha anche occasione per esercitare l’ironia da figurine Liebig: quella guerra a suon di fionde tra mori e crociati, le pose di Agorante, la svenevolezza di Zoraide svelano il divertimento che c’è sotto. Pure, c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di fischiare. Magari dopo aver applaudito l’esecuzione musicale. La quale appariva, tanto per cominciare, pesantissima. In opere così fragili dovrebbe essere individuata, almeno, una linea esecutiva impeccabile per leggerezza e precisione. Né Riccardo Chailly né l’orchestra del Comunale di Bologna hanno saputo o voluto trovarla. E anche il Coro Filarmonico di Praga non può essere lodato come altre volte se non per la disinvoltura con la quale si è lasciato dipingere di nero e spogliare di molti panni. Naturalmente, in un’opera di tenori, dovrebbero essere questi gli artefici della serata. Ma mentre Bruce Ford ha qualche qualità da esibire, William Matteuzzi ne ha ben poche: svettano entrambi, si sbizzarriscono in fioriture continue ed estenuanti ma con scarsa capacità di coinvolgimento. Molto al di sotto del suo standard la Zoraide di June Anderson. L’onore della serata è andato così a Gloria Scalchi, una buona Zomira. Qualche annotazione, per finire. Il Festival rossiniano è entrato da qualche anno nella rosa dei festival più seri e accreditati d’Europa. Non sarà arrivata l’ora di cercare un’orchestra degna di un festival internazionale? E non bisognerà provvedere a refrigerare decentemente il Teatro Rossini anziché far liquefare gli spettatori? Dicono che l’ordine di spegnere i condizionatori sia venuto dai cantanti. Cosa faranno questi quando sono in aereo o in treno o al supermercato?» (Michelangelo Zurletti)

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Alessandro

Georg Friedrich Händel: ALESSANDRO; Parnassus Arts Production / Armonia Atenea Copyright: Martin Kaufhold, Ernst-Göbel-Str. 37a D - 65207 Wiesbaden, 0171 4158942 Nutzungsrechte beim Urheber. Nutzungshonorar zzgl. 7% MwSt.: Sparkasse Bochum BLZ 430 500 01 KTO 11 35 61 450

Georg Friedrich Händel, Alessandro

Versailles, Opéra Royal, 2 giugno 2013

(video streaming)

Ciak, si gira

Col numero d’opus HWV 21 Alessandro fu composto nel 1726 su libretto di Paolo Rolli tratto dalla storia de La superbia d’Alessandro di Ortensio Mauro. Quella fu la prima volta che le famose cantanti Faustina Bordoni e Francesca Cuzzoni sarebbero comparse insieme in un’opera di Händel. Il cast originale comprendeva anche il Senesino.

Il compositore aveva originariamente previsto che Alessandro fosse il suo primo contributo alla stagione della Royal Academy, ma la Bordoni non arrivò a Londra in tempo e Alessandro fu sostituito dallo Scipione fino al suo arrivo. L’opera ebbe la sua prima rappresentazione il 5 maggio 1726 al King’s Theatre di Londra e fu un clamoroso successo, con una serie di tredici repliche che sarebbero state ancora di più se il Senesino non si fosse ritirato per un’indisposizione. Lady Sarah Cowper si lamentò in una lettera che era difficile ottenere i biglietti, tanto che Händel fece rivivere l’opera nelle stagioni 1727 e 1732.

La storia racconta il viaggio di Alessandro Magno in India e lo descrive meno in vena eroica che vanagloriosa e indeciso nelle questioni di cuore, tanto da farne quasi un’opera comica.

Atto I. È in corso una battaglia con Alessandro (Alessandro Magno) che assedia la città indiana di Oxidraca. Nonostante le numerose vittorie ottenute altrove, i difensori della città ottengono il meglio dal suo esercito ed è in pericolo personale quando viene salvato dal suo generale Clito (Clito il Nero), principe di Macedonia. Nell’accampamento di Alessandro, due principesse, entrambe innamorate di Alessandro, sono molto preoccupate per la sua sicurezza: Lisaura, una principessa di Scizia, e Rossane (Roxana), una principessa presa prigioniera da Alessandro nella sua precedente campagna in Persia. Le principesse rivali sono tormentate dalla gelosia perché Alessandro sembra incapace di decidere quale di loro preferisca. Il re indiano Tassile, a cui Alessandro ha salvato la vita e riportato sul trono, porta la lieta novella alle principesse che Alessandro è sano e salvo. Entrambe le donne sono felicissime per la notizia, che rattrista Tassile, poiché è irrimediabilmente innamorato della principessa Lisaura. Nel tempio di Giove, Alessandro ringrazia per l’ennesima gloriosa vittoria, ma la sua apparente invincibilità gli è andata alla testa. Annuncia di essere un dio, il figlio del divino Giove, e ordina che sia adorato come tale. Il generale Clito protesta contro questo sacrilegio, facendo infuriare Alessandro, che ordina l’esecuzione di Clito, ma alla fine cede alle suppliche delle principesse e mostra misericordia.
Atto II. Alessandro, trovando entrambe le principesse affascinanti, non riesce ancora a decidere tra loro due e le incoraggia entrambe allo stesso modo. Rossane, la prigioniera, si appella ad Alessandro per liberarla e mostrare la sua magnanimità. Alessandro esita a farlo, temendo che lei lo lasci, ma alla fine accetta di liberarla dalla sua schiavitù. Nel frattempo, il generale Leonato e altri ufficiali di Alessandro sono sconvolti dalla sua apparente folle megalomania e complottano per assassinarlo. Nei suoi alloggi Alessandro annuncia ai generali riuniti che intende dividere tra loro i vasti territori che ha conquistato e regalarli tutti. Il suo status di dio vivente da adorare sarà sufficiente per lui. Il generale Clito è costretto ancora una volta dalla sua coscienza a denunciare tanta prepotenza, al che Alessandro sta per trafiggerlo con la spada, ma all’improvviso il tetto crolla. Miracolosamente nessuno è ferito, il che non fa che rafforzare la convinzione di Alessandro di essere amato dagli dèi. Alessandro ordina al suo seguace Cleone di condurre Clito in prigione. Rossane ha sentito parlare dell’attentato ad Alessandro e crede che abbia avuto successo. Piange disperata e Alessandro, udendola, è profondamente toccato da tanta devozione e decide che sarà la donna di sua scelta. Non appena glielo ha chiarito, tuttavia, re Tassile porta la notizia che il popolo di Oxidraca, che sembrava essere stato finalmente sconfitto, sta inscenando una rivolta. Alessandro si precipita in battaglia, lasciando Rossane ancora una volta ansiosamente a pregare per la sua sicurezza.
Atto III. Il generale Leonato libera Clito dal carcere e getta invece Cleone in galera, ma anche Cleone viene rilasciato dai suoi sostenitori. I cospiratori sono ora decisi a condurre una guerra aperta contro il loro ex leader Alessandro e guidano gran parte del suo esercito all’ammutinamento. Cleone è a conoscenza di questa trama e informa Alessandro che, avendo deciso di prendere in moglie Rossane, dà dolcemente la notizia alla principessa Lisaura, spiegando che non è abbastanza buono per lei e che Re Tassile, il suo più caro amico, la ama e non lo vuole ostacolare. Tassile è felicissimo. I congiurati e l’esercito ribelle si lanciano in battaglia contro Alessandro, ma il re Tassile lo sostiene con le sue truppe e i congiurati vengono sconfitti. Chiedono pietà, che Alessandro generosamente concede. Alessandro sposerà Rossane, Tassile avrà Lisaura, tutti sono perdonati e lodano la magnanimità del grande eroe.

Come per tutta l’opera seria settecentesca, Alessandro è rimasto ineseguito per molti anni, ma con la rinascita dell’interesse per la musica barocca e l’esecuzione storicamente informata, oggi viene presentato in festival e teatri d’opera quali il Badisches Staatstheater di Karlsruhe nel 2012 e Versailles nel 2013, da cui proviene questa produzione disponibile solo in CD audio della DECCA con una distribuzione leggermente diversa da quella  trasmessa da Antenne 2. Nella registrazione video si riconosce subito lo stile della coreografa Lucinda Childs, qui anche regista, nei danzatori che piroettano durante l’ouverture e questa volta la danza moderna ben si adatta alle note saltellanti della musica o a quel che sappiamo della danza dell’epoca.

«I primi minuti di questo Alessandro fanno venire allo spettatore i sudori freddi: i personaggi piumati, i costumi falsamente Grand Siècle, gli atteggiamenti pseudo-barocchi, le pose statiche o ridicole… Mica ci propinano uno pseudo-Pier Luigi Pizzi, un Massimo Gasparon, o peggio? Niente affatto. Passata la prima scena, in cui Alessandro Magno distrugge le mura della città assediata di Ossidraca a colpi d’ariete – ovviamente nulla di tutto ciò si vede in scena – ci rendiamo conto che quello che abbiamo appena visto è stato solo una “messa in scena”, in particolare la ripresa di un film – come avrebbe dovuto farci capire il ciak prima dell’ouverture. Lucinda Childs ha infatti avuto l’idea molto pertinente, anche se non originale [si pensi anche solo al Ciro in Babilonia di Livermore], di trasferire nella Hollywood degli anni ’20 il libretto impossibile di Antonio Paolo Rolli, dove la gelosia amorosa relega molto sullo sfondo la dimensione politica (la conquista dell’India) e religiosa (le origini divine rivendicate dal conquistatore). Alessandro diviene qui un protagonista snob, una sorta di Tom Mix che, invece di western, gira dei peplum di serie B, mentre Rossane e Lisaura sono le attrici tra cui divide i suoi favori: una bionda Gloria Swanson tendenza peste e labbra gonfie la prima, una specie di bruna Pola Negri, sua rivale alla Paramount, l’altra. L’odio tra le stelle del cinema muto regge bene il confronto con le primedonne del tempo di Händel a Londra e probabilmente parla più al pubblico oggi che non lo scontro tra la Cuzzoni e la Bordoni. […] Lo spettacolo si svolge a volte al di fuori dello studio cinematografico, nei camerini delle signore o al “Händel’s Bar”, dove gli attori si rilassano tra una ripresa e l’altra. Quest’ultimo dettaglio naturalmente evoca il famoso “Harpsichord Bar” di David McVicar nella sua indimenticabile Agrippina […], ma tutto ciò viene assimilato in un insieme coerente, dove la danza è perfettamente integrata nell’azione senza prevalere sul canto. […] Abbiamo trascorso una piacevole serata in compagnia di un’opera che, pur non ponendosi in cima alla produzione händeliana non è meno ricca di pagine superbe». (Bernard Schreuders)

L’Orchestra Armonia Atenea diretta dal suo George Petrou svela tutta l’energia che il compositore sassone ha posto nel suo lavoro. Eroe della serata è ovviamente il Cenčić, che dipana i virtuosismi scritti per il Senesino con facilità ed eleganza. La coppia di dame, Blandine Staskiewicz (Rossane) e Adriana Kučerová (Lisaura) qui è meno sfavillante di quella su disco (Julia Ležneva e Karina Gauvin), mentre Xavier Sabata (Tassile) si conferma tra i migliori controtenori del momento e la resa della sua aria «Vibra cortese amor» incanta giustamente il pubblico dell’Opéra Royal. Il basso Pavel Kudinov (Clito), il controtenore Vasily Khoroshev (Cleone) e l’immancabile Juan Sancho completano il cast.

Dopo Versailles, lo spettacolo è stato ripreso a Vichy, Vienna, Bucarest, Atene.

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La locandina dello spettacolo

SCHAUSPIELHAUS

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Dresda (1919)

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All’inizio del ‘900 la borghesia di Dresda voleva un proprio teatro. Fondata un’associazione con 2,7  milioni di marchi per la costruzione, l’edificio fu edificato tra il 1911 e il 1919 dagli architetti William Lossow e da suo figlio Max Hans Kühne in stile neo-barocco e liberty. Il teatro fu scelto dai nazisti come sede del I Reich e del festival del maggio-giugno 1934 diretto da Joseph Goebbels e frequentato da Adolf Hitler. Il 13 e 14 febbraio 1945 il teatro è stato distrutto dai  bombardamenti alleati su Dresda come tutti gli altri edifici teatrali della città. Nel dicembre dello stesso anno ne fu decisa la ricostruzione. L’interno del teatro è in gran parte nuovo. La cerimonia di inaugurazione ha avuto luogo il 22 settembre 1948 con il Fidelio di Beethoven Fidelio. Costruito da macerie e con materiali inadeguati la costruzione aveva sempre bisogno di riparazioni e a partire dal luglio del 1993 è stato chiuso fino a settembre 1995 per la più ampia ricostruzione della sua storia. Le inondazioni dell’agosto del 2002 avevano distrutto l’attrezzatura tecnica, ma dalla stagione 2003/2004 il teatro ha ripreso a funzionare.schauspielhaus_01_popup

VOLKSTHEATER

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Volkstheater

Vienna (1889)

970 posti

volkstheater2-1280x1280Nato come controparte civica al Burgtheater, fu costruito, come la Schauspielhaus di Hamburg, dagli architetti Ferdinand Fellner e Hermann Helmer. Fin dall’inizio il suo repertorio è stato indirizzato ad autori austriaci. L’edificio include anche il Red Bar utilizzato per cabaret, concerti e dibattiti.

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Il Volkstheater fu fondato da una società presieduta dal poeta Ludwig Anzengruber e dall’imprenditore, Felix Fischer in quanto la nuova classe viennese di imprenditori e industriali non si sentiva a suo agio al Burgtheater, dove dominavano la nobiltà e l’aristocrazia imperiali. C’era poi la coscienza della popolazione di lingua tedesca e il fiorente nazionalismo dell’epoca. Per questi motivi il teatro fu chiamato Deutsches Volkstheater.

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Il primo presidente onorario fu Franz Thonet, il famoso industriale delle sedie. Lo spettacolo di inaugurazione fu una pièce di Ludwig Anzengruber. Durante il Nazismo il teatro fu utilizzato per il programma di indottrinamento attraverso il divertimento “Kraft durch Freude”. L’edificio fu alterato a questo scopo e nel 1944 fu colpito da una bomba per poi riaprire nel 1945 senza l’imbarazzante “Deutsches” nel nome.

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BURGTHEATER

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Burgtheater

Vienna (1888)

1175 posti

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Il Burgtheater (teatro di corte), conosciuto originariamente come K.K. Theater an der Burg, e successivamente, fino al 1920, come K.K. Hofburgtheater, è il teatro nazionale austriaco a Vienna. Fu fatto edificare dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria degli Asburgo allo scopo di avere un teatro adiacente al suo palazzo e fu inaugurato il 14 marzo 1741. Il figlio di Maria Teresa, imperatore Giuseppe II lo chiamò il “teatro nazionale tedesco” nel 1776.

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Tre opere di Wolfgang Amadeus Mozart furono rappresentate per la prima volta al Burgtheater: Il ratto dal serraglio nel 1782, Le nozze di Figaro nel 1786 e Così fan tutte nel 1790. Il 14 ottobre 1888 venne spostato in un nuovo edificio sulla Ringstraße disegnato da Gottfried Semper e Karl von Hasenauer. Il 12 marzo 1945  venne quasi completamente distrutto in un raid aereo e, un mese più tardi, il 12 aprile, venne ulteriormente danneggiato da un incendio dalle origini sconosciute. È stato ricostruito con le sembianze originarie tra il 1953 e il 1955.

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Il Burgtheater ha un ruolo importante nell’architettura e nella decorazione del XIX secolo a Vienna. Le due scale imperiali hanno dipinti di Gustav Klimt, il fratello Ernst Klimt e Franz Matsch, così come il foyer principale con statue, busti e numerosi dipinti di autori e attori famosi.Burgtheater-47192

Il suo palcoscenico è uno dei più grandi al mondo. Nel 1888 la sua tecnologia era già innovativa ed è stato modernizzato in molte occasioni. Durante la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale è stata installata una serie di  attrezzature  ancora all’avanguardia come la piattaforma rotante costituita da un cilindro di 21 m di diametro e alto 15 m e quattro ascensori idraulici. Così lo scenario può essere modificato in 40 secondi.

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Il matrimonio segreto

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★★☆☆☆

No, non è Le nozze di Figaro

L’ouverture de Il matrimonio segreto si apre con i tre accordi del Flauto magico, qui nella tonalità di re maggiore (come quella delle Nozze di Figaro), mentre in Mozart sono in mib maggiore. I rimandi tra Cimarosa e Mozart sono molti essendo l’epoca e i luoghi gli stessi: il compositore italiano aveva fatto tappa a Vienna di ritorno dalla Russia (dove era rimasto quattro anni) alla fine del 1791 e potrebbe anche aver assistito a una rappresentazione del lavoro di Mozart. Ma diciamo subito che il lavoro di Bertati/Cimarosa è ben lontano dall’irraggiungibile modello di Da Ponte/Mozart.

Cimarosa si trattenne a Vienna un anno e mezzo circa, componendovi due opere: Il matrimonio segreto e Amor rende sagace. L’autore di entrambi i libretti era Giovanni Bertati, nominato proprio nel ’91 poeta dei teatri imperiali dopo una lunga milizia veneziana in campo librettistico. Le fonti inglesi e francesi che stanno alla base del libretto di Bertati sono varie. All’origine vi è il pittore inglese William Hogarth con il ciclo di tele intitolato Le mariage a-la-mode , realizzato a Londra intorno al 1745 e ampiamente divulgato sotto forma di incisioni. Si tratta del ciclo parallelo a quello che avrebbe poi ispirato Auden e Kallman per il Rake’s Progress di Stravinskij. A Hogarth si ispirarono George Colman e David Garrick per la commedia The clandestine marriage, data a Londra nel 1766. Dal precedente pittorico i due commediografi trassero, oltre all’ispirazione satirica, lo spunto del matrimonio d’interesse tra un nobile e la figlia di un ricco borghese, con la differenza che nella commedia il matrimonio è solo progettato poiché la ragazza ha già sposato segretamente un innamorato di scarsi mezzi finanziari. Molti tra i personaggi della commedia inglese lasciano già intravedere in controluce quelli dell’opera di Bertati-Cimarosa. L’elemento sentimentale introdotto da Garrick e Colmann viene raccolto e rielaborato in senso apertamente larmoyant da Madame Riccoboni in Sophie ou le mariage caché , un opéra-comique musicato da Joseph Kohaut nel 1768. Ultimo anello della catena, probabilmete quello cui si riferì direttamente Bertati, è un altro opéra-comique, Le Mariage clandestin del visconte de Ségur e Francois Devienne, andato in scena a Parigi nel 1790.

Il matrimonio segreto andò in scena il 7 febbraio 1792 al Burgtheater di Vienna con un successo che fu subito strepitoso, tant’è che avvenne un fatto mai accaduto nella storia della musica sino a quel momento e che non si ripeterà neanche in futuro: il bis dell’opera intera. Infatti a Leopoldo II (sovrano che non aveva grandi gusti musicali) il lavoro piacque così tanto che decise di farlo ricominciar da capo subito dopo una cena alla quale invitò l’intera compagnia.

Questo non fu solo un trionfo momentaneo e locale: l’opera suscitò infatti grandissimi applausi ovunque e in ogni periodo, rimanendo fino ai giorni nostri nei programmi dei maggiori teatri lirici di tutto il mondo. Tuttora viene considerata un’opera viva, carica di freschezza e una delle opere buffe per eccellenza. Fino al 1800 ebbe 70 repliche a Vienna e nei primi due anni fu rappresentata a Lipsia, Dresda, Berlino, Milano, Firenze, Napoli, Torino, Madrid e Lisbona. Nel corso dell’Ottocento è stata poi rappresentata in tutta Europa con il testo tradotto in tedesco, francese, spagnolo, danese, svedese, polacco, olandese, russo, inglese e ceco.

Il libretto di Giovanni Bertati si rifà alla commedia The Clandestine Marriage (1766) di George Colman e David Garrick, a sua volta suggerita dal ciclo pittorico di Hogarth The Marriage A-la-mode,

Atto I. A Bologna, in casa del ricco mercante Geronimo. L’amore fra Carolina e Paolino, dipendente del suocero Geronimo, è coronato da un matrimonio segreto; Geronimo confida di sposare le figlie, Elisetta e, appunto, Carolina, con un nobile. Con una lettera, il Conte Robinson annuncia a Geronimo che a breve sposerà Elisetta, attribuendole così il titolo di contessa. Trionfante per la notizia, il ricco mercante chiama tutti a raccolta, scambiando tuttavia lo sguardo accigliato di Carolina per invidia nei confronti di Elisetta che, a sua volta, fraintende il comportamento della sorella, provocando un bisticcio nel quale interviene, a favore di Elisetta, anche la zia Fidalma. Allontanatasi Carolina, Fidalma confida ad Elisetta un proprio progetto matrimoniale, senza svelare che la sua improbabile metà è proprio Paolino. Giunge il Conte Robinson che, dopo un pomposo ingresso, scambia l’avvenente Carolina per la propria promessa sposa e, una volta avvertito del fatto che gli spetti Elisetta, non riesce a trattenere la delusione. Paolino vuol rompere gli indugi con Geronimo: per far ciò egli confida nell’appoggio del Conte Robinson o, semmai, in quello di Fidalma, della quale elogia la dolcezza. Paolino non fa in tempo a chiedere aiuto al Conte, perché del tutto analoga è la richiesta anticipatamente rivoltagli dal Conte stesso, che di sposare Elisetta proprio non vuol saperne, dichiarando di preferirle Carolina. Subito dopo è Carolina ad incontrare il Conte. Questi, credendosi incoraggiato dal desiderio che la ragazza gli manifesta di confidarsi a lui, inizia a corteggiarla. Ben presto tuttavia l’equivoco diviene manifesto e Carolina gli si nega, senza tuttavia svelargli l’esistenza del matrimonio segreto. Nondimeno, rimasto solo a meditare, il Conte ha buon gioco a comprendere che la ritrosia della ragazza cela l’esistenza d’un qualche innamorato. Assecondata da Fidalma, Elisetta si sta lamentando col padre del comportamento per nulla amoroso del Conte, quando Paolino viene ad annunciare che la tavola è imbandita; sopraggiunge allora Carolina, inseguita dal Conte, che cerca di carpirle la verità sul suo cuore e, così facendo, protesta la propria indifferenza verso Elisetta. Quest’ultima, nascosta, ha sentito tutto e prorompe accusando la sorella, che invano cerca di spiegarsi. Lo strepito attira Fidalma, che aggiunge confusione a confusione, ed è l’arrivo di Geronimo, seguito a breve da Paolino, che porta tutti ad un momento di pensierosa riflessione. La baraonda riprende però subito dopo la richiesta di spiegazioni da parte del padrone di casa.
Atto II. Nel proprio Gabinetto, Geronimo chiede ragione dell’accaduto al Conte Robinson. Da parte sua questi trova non senza fatica il modo di spiegarsi: non intende sposare Elisetta bensì Carolina, e per questo accetterà una dote di cinquantamila scudi al posto dei centomila pattuiti. Di punto in bianco l’argomento economico fa breccia sul già ir- removibile Geronimo, che accetta, ma col vincolo della condiscendenza di Elisetta. Paolino arriva giusto in tempo per sentirsi informare del nuovo accordo dal Conte, e il giovane decide di tentare un’ultima carta con la mediazione di Fidalma, proprio in quel momento in arrivo: facile è, sulle prime, che si verifichi fra i due un equivoco, ma quando Fidalma rende finalmente chiari i propri progetti nuziali, Paolino si sente man- care. L’arrivo di Carolina, sdegnata, non fa che rendere la situazione ancor più ingar- bugliata. Quando il giovane, finalmente, riesce a spiegarsi, non gli resta che proporre all’amata l’unica, soluzione: fuggire insieme. Negli appartamenti il Conte s’imbatte nell’impaziente Elisetta e cerca di farla desistere dal progetto matrimoniale, enumerandole i propri difetti. Elisetta ne resta turbata e dichiara a Fidalma d’aver intuito un certo trasporto di Carolina per Paolino; insieme, le due donne identificano in Carolina la causa delle rispettive vicissitudini. Di fronte a Geronimo, che cerca di convincere Elisetta a rinunciare al matrimonio col Conte, Fidalma oppone il nuovo progetto: mandar via Carolina. Ben conoscendo i lati deboli del fratello, Fidalma aggiunge di volersene altrimenti andare, portando con sé tutti i propri beni… Geronimo è subito convinto e comunica la decisione a Carolina, che lo raggiunge animata da tutt’altro scopo, quindi prende la porta senza lasciarle il tempo di parlare. Carolina è disperata. La raggiunge il Conte. Nel nome dell’amore che lo ispira, quest’ultimo si dice pronto ad esaudire qualsiasi desiderio della ragazza e, giurando, le bacia la mano. Viene sorpreso proprio in quel gesto da Fidalma, Elisetta e Geronimo; la concitazione è tanta e il chiarimento non ha luogo. Prima d’allontanarsi anche Fidalma ed Elisetta trovano modo di sparger del veleno sull’immagine della povera Carolina. In una sala Geronimo affida a Paolino una lettera per la Madama Intendente del ritiro e lo incarica di far predisporre quattro cavalli per l’alba. Quindi va a dormire. Paolino comprende che è l’ultimo momento per agire e si dirige verso la stanza di Carolina. Sospettosi, per le stanze della casa si aggirano anche il Conte ed Elisetta. Paolino accompagna Carolina fuori dalla propria stanza; i due sono in procinto di darsi alla fuga, ma l’uscita di Elisetta li spinge ad una veloce ritirata. La sospettosa sorella è convinta che Carolina sia in compagnia del Conte e chiama dapprima Fidalma, quindi Geronimo. Elisetta accusa i due presunti amanti, ma, irritato, il Conte esce dalla propria stanza. Qualcun altro, comunque, dev’essere in compagnia di Carolina, che viene chiamata a gran voce. La porta si apre e la giovane s’inginocchia, insieme a Paolino, davanti al padre, implorando pietà e finalmente svelando il matrimonio segreto, celebrato già da due mesi. Lo stupore e lo sdegno sono particolarmente intensi, ma, grazie all’intercessione del Conte Robinson – che, per amore di Carolina, si dichiara pronto a sposare Elisetta – Geronimo perdona i due giovani e tutti celebrano l’armonia ritrovata.

Gli elementi di satira sociale vengono ampiamente smorzati dal Bertati a presa in giro del borghese smanioso di nobilitarsi. Un testo rassicurante per il pubblico viennese, ben diversamente da quello che era successo per il Beaumarchais riletto da Da Ponte.

Al Palazzo dei Congressi di Lugano nel 1986 viene messo in scena un Matrimonio segreto con l’orchestra della Svizzera Italiana diretta da Francis Travis, la regia di Filippo Crivelli e le scenografie e i costumi di Emanuele Luzzati.

La regia di Crivelli è priva di idee e convenzionale. Basta fare il confronto con la produzione di Michael Hampe dello stesso anno al Rokokotheater di Schwetzingen in cui la prima scena, con i segreti sposi che escono da una camera da letto in abbigliamento discinto abbracciandosi e baciandosi al chiarore di una luce lattiginosa che si insinua tra le persiane, dà subito lo spirito della vicenda messo in evidenza, pur con mezzi estremamente tradizionali, dal regista tedesco. Qui invece, proprio come le solite scene dipinte di Luzzati, le figure sono bidimensionali e stucchevoli.

Si aggiudicano i ruoli buffi di Geronimo e di Fidalma due vecchie volpi dello spettacolo lirico quali Enrico Fissore e Carmen Gonzalez in fine carriera. Molto modesto il resto del cast: stridule e sguaiate le due giovani, vocalmente scarso Paolino, legnoso il conte. Direzione adeguata quella di Francis Travis.

Che una produzione della Televisione Svizzera Italiana abbia i sottotitoli solo in inglese lascia senza parole, ma così è. Immagini in 4:3 di scarsa qualità e una sola traccia stereo per le due ore e tre quarti di musica.

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Staatsoper

Stoccarda (1912)

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È dal XVII secolo che l’opera a Stoccarda ha le sue sedi preposte. Una delle ultime è stato il Teatro di Corte distrutto da un incendio nel 1902. La costruzione è iniziata nel settembre 1909 per il completamento nell’estate del 1912, il 14 e il 15 settembre è stata seguita dalla cerimonia di apertura. L’architetto Max Littmann di Monaco di Baviera ha progettato un edificio con una doppia sala, una grande per l’opera e una più piccola per la musica da camera.

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Dopo la caduta della monarchia il teatro è stato rinominato Teatro di Stato del Wurttemberg e dal 1924 l’edificio è monumento nazionale. La grande sala è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale in gran parte intatta, mentre quella piccola è stata completamente distrutta da una bomba nell’autunno del 1944.

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Nel 1984, la sala grande è stato ampiamente ristrutturata e riportata al progetto originale stravolto nel rifacimento del 1950 in cui erano stati modificati anche i colori dell’interno.

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Anna Nicole

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★★★★☆

«Nothing matters but the size». Una storia terribilmente moderna.

Negli extra che accompagnano il DVD, Antonio Pappano dichiara che ogni opera nuova è un’esperienza emozionante e questa stessa emozione dovrebbero provarla gli spettatori, che finalmente hanno qualcosa di nuovo a cui assistere. Ma si sa che invece il pubblico melomane preferisce rivedere per l’ennesima volta lo stesso lavoro piuttosto che confrontarsi con una novità, dimenticando che ai tempi di Rossini o di Verdi chi andava a teatro affrontava invece ogni sera un’opera allora ‘contemporanea’ e nuova.

Sembra però che al di là delle Alpi il pubblico ami maggiormente “rischiare” e riempire le sale anche con titoli inusuali. Come qui il, 17 febbraio 2011 alla Royal Opera House di Londra, dove invece del solito sipario di velluto cremisi monogrammato E II R c’è un sipario rosa shocking con le iniziali AnR (Anna Nicole Regina)… Gli stucchi, i putti dorati e i velluti vengono per una sera invasi dai ritratti fotografici di una bionda prosperosa mentre la musica pulsante e dalla tinta jazzistica che esce dalla buca dell’orchestra accompagna le patinate ma crude immagini della vicenda di Anna Nicole Smith (1967-2007), modella e socialite, come direbbero gli americani, persona nota nella società alla moda e amante della mondanità e del mondo dello spettacolo.

Personaggio della real tv americana e originaria di Mexia, Tex. (cittadina dalla pronuncia imprevedibile: mu-hay-uh, «A great place, no matter how you pronounce it» il suo motto) e uscita da una famiglia terrificante e dal turpiloquio facile che sopravvive di sussidi, dopo un primo disastroso matrimonio e un figlio si reca a Houston, «city of low wage». Qui lavora, sottopagata appunto, prima in un grande magazzino e poi in un club di lap dancers, ma non riesce a guadagnare quanto le sue colleghe visibilmente più sviluppate nella misura toracica. Ecco quindi che un impianto siliconico ridà nuovo impulso alla vita della donna che trova presto lo spasimante giusto in un decrepito ma ricchissimo ultra ottuagenario. Alla morte di questi inizia l’estenuante iter per impossessarsi dell’eredità, aiutata da un avvocato che nel frattempo ha sposato. Con la dipendenza dai farmaci e i soldi che non arrivano mai, per racimolare qualcosa il nuovo marito vende i diritti alla ripresa televisiva delle doglie e del parto della moglie che dà alla luce una bambina. Danny, il primo figlio, muore intanto di overdose da farmaci e di lì a poco anche Anna Nicole si spegne sotto lo sguardo delle sempre presenti macchine da presa.

I versi in rima baciata del libretto di Richard Thomas sarebbero tutti da citare per le allitterazioni, l’arguzia e l’umorismo spinto (lo spettacolo è vietato ai minori) che strappano parecchie risate al folto pubblico. Spassose sono le litanie con i nomi dei farmaci o l’elenco delle droghe.

Vari sono i temi affrontati dall’opera: innanzitutto la sottomissione e lo sfruttamento della donna che, secondo il libretto, è lo stesso a est come a ovest: là il burka, qui il tanga; il ruolo della chirurgia plastica; l’invasione dei media nella vita privata; la dipendenza da droghe e farmaci; il lato sordido e volgare della cultura americana.

Il lavoro tocca poi tutte le corde possibili: è ispirato, avvincente, scandaloso, divertente, patetico e commovente. È una commedia che finisce in tragedia sulla linea di Carmen, Lulu, Marilyn anche se Anna Nicole apparentemente sembra la più ingenua di tutte. Lo si capisce subito dal primo verso in cui intona: «I want to blow you all… a kiss».

Dal punto di vista musicale il lavoro commissionato a Mark-Anthony Turnage, classe 1960, dal teatro londinese è un’opera a tutti gli effetti: cori, pezzi chiusi con la ripresa, duetti (delizioso «The sound of a Jimmy Choo on a red carpet»!), concertati. Lo stile è prevalentemente jazzistico o ha talora qualche sprazzo sinfonico come nell’intenso preludio al secondo atto.

Il regista Richard Jones sguazza a meraviglia in questa ricostruzione degli anni ’90 mentre Pappano con l’orchestra ci mette di suo la bravura e l’entusiasmo. In definitiva non un capolavoro assoluto, ma uno spettacolo molto divertente e non superficiale.

Cast di eccellente livello per questa novità: di Eva-Maria Westbroek ci si può solo lamentare che non abbia l’accento del sud che manda in solluchero il vecchio rimbambito, ma forse è troppo pretenderlo da una cantante olandese… Il glorioso Alan Oke è appunto il rincitrullito quasi nonagenario e come terzo marito abbiamo nientemeno che Gerald Finley. Ottimi anche gli altri interpreti.

Due ore di musica, sottotitoli in inglese, francese, tedesco e spagnolo e una confezione tutta rosa contenente oltre all’opuscolo “sei cartoline originali con le foto dello spettacolo”.

Norma

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★★★☆☆

Bellini australiano

In questa ripresa video durante le prime note dell’ouverture scorrono le immagine da un elicottero delle candide vele del complesso dell’Opera di Sydney, inaugurato cinque anni prima. Siamo infatti nel 1978 e Dame Joan Sutherland affronta per l’ennesima volta il ruolo di Norma. Nel 1952 aveva cantato Clotilde a Londra di fianco alla Stignani e alla Callas, ma nel 1963 a Vancouver aveva portato in scena il ruolo titolare che avrebbe poi ripreso per oltre un quarto di secolo in tutti i teatri del mondo. Qui siamo a casa sua, nel teatro che verrà poi intitolato al suo nome e in buca c’è il marito Richard Bonynge in una registrazione che nel frattempo è stata restaurata e rimasterizzata dalla stessa Australian Opera.

Il libretto di Felice Romani è tratto dalla tragedia Norma ou L’infanticide di Louis-Antoine-Alexandre Soumet che aveva trionfato all’Odéon di Parigi nel 1831. Bellini mette in musica il testo in meno di tre mesi e il 26 dicembre dello stesso anno dirige l’opera che inaugura la stagione del Teatro alla Scala con Giuditta Pasta come Norma e Giulia Grisi come Adalgisa. Fu un fiasco clamoroso dovuto all’indisposizione della Pasta, ad una parte del pubblico a lei avversa e anche alle novità drammaturgiche che avevano spiazzato il pubblico milanese. La Pasta riprese poi il ruolo, abbassato di mezzo tono, con grande successo a Bergamo e Venezia negli anni seguenti. La vocalità di Norma, che va dal lirismo più trascendentale, alle agilità, alla estrema drammaticità, hanno limitato l’approccio al personaggio che nel passato fu appannaggio solo di grandissime interpreti: Gina Cigna, Maria Callas, Montserrat Caballé e Joan Sutherland, appunto.

Atto I. In una foresta delle Gallie, al tempo della conquista romana, il capo dei druidi, Oroveso, annuncia al suo popolo che la sacerdotessa Norma, sua figlia, sta per svelare la volontà del dio Irminsul: tutti sperano che sia giunto il momento della rivolta contro gli oppressori. Intanto il proconsole romano Pollione confida all’amico Flavio di non amare più Norma, malgrado i due figli che ne ha avuto e che vivono nascosti e ignorati da tutti nella casa di Norma, ma di amare Adalgisa, una giovane ministra del tempio d’Irminsul. Pollione teme l’ira di Norma, e racconta di un sogno in cui lei faceva scempio dei figli. Ma si ode il suono del sacro bronzo che annuncia l’arrivo di Norma, e i due romani si dileguano nella foresta. Ora tutti i Galli sono riuniti, ansiosi di ascoltare il segnale della rivolta; ma Norma rivela che non è ancora giunto il tempo della guerra, e mentre la luna splende, compie la sacra cerimonia del taglio del vischio, invocando la pace, una pace a lei necessaria per rinsaldare il segreto legame d’amore con Pollione. Adalgisa è rimasta sola, con il tormento del suo amore proibito, e la raggiunge Pollione, che a fatica riesce a convincerla di seguirlo a Roma. Norma, nella sua abitazione, guarda con ansia i figli: ella sa che Pollione deve partire, ma non ha ricevuto alcun messaggio da lui, e teme che il suo amore non sia più quello di un tempo. Giunge Adalgisa, che non può più tenerle nascosto di avere tradito la fede di ministra, e di aver ceduto all’amore. La sacerdotessa la comprende e la rassicura, e liberandola dai voti la invita a seguire l’uomo che ama. Ma qual è il suo nome? Adalgisa lo addita a Norma, è Pollione che sta avvicinandosi. Alla tragica rivelazione, Norma minaccia vendetta e Pollione se le sente dire da entrambe le donne. Adalgisa, che nulla sapeva del precedente legame di Pollione, è profondamente turbata, e con generose parole rassicura Norma che troncherà ogni rapporto con l’infido romano.
Atto II. Norma, nella sua disperazione, come Mdea vorrebbe uccidere i figli che teme che siano fatti schiavi a Roma, e poi desidera far soffrire più atrocemente Pollione. Ma non riesce a compiere il folle gesto. Chiama Adalgisa, e la prega di accettare le nozze con Pollione e di tenere con sé i due fanciulli; ma Adalgisa non ama più il romano, e si impegna invece a far rinascere in lui lo spento amore per Norma. Nella foresta i guerrieri sono pronti ad assalire i romani e ad uccidere il proconsole, ma Oroveso deve fermarli: Norma continua a tacere le decisioni del dio Irminsul. Nel tempio d’Irminsul Norma apprende dall’amica Clotilde che il tentativo di Adalgisa è stato vano, e che Pollione ha maturato il folle progetto di rapire la fanciulla. In Norma affiora prepotente il desiderio di vendetta, e chiama a raccolta tutto il suo popolo: è il segnale della guerra. Subito Pollione è fatto prigioniero, reo di aver forzato il recinto delle giovani sacerdotesse. Sarà Norma che dovrà sacrificarlo, ma prima lo deve interrogare, e invita tutti a lasciarla sola con il colpevole. Norma promette salva la vita a Pollione se egli rinuncerà a Adalgisa, ma Pollione rifiuta, invita Norma ad ucciderlo, invocando pietà per Adalgisa. Furente Norma vuole vendetta, e a tutto il popolo nuovamente riunito annuncia un nuovo colpevole, una sacerdotessa che ha infranto i voti: e dopo un attimo di esitazione, non dice il nome di Adalgisa, ma il proprio. Solo ora Pollione si rende conto della nobiltà della donna che ha tradito, e sente di amarla nuovamente. Norma affida i figli al padre Oroveso che, piangente, la perdona, e sale serenamente al rogo insieme a Pollione.

Elmi cornuti, barbe finte, armi di latta, rocce di cartapesta, costumi fantasy: nel 1978 in Australia non c’era idea di Konzeptregie o di attualizzazione e Sandro Sequi, regista italiano colà in trasferta, mette in scena una Norma che non turba le coscienze di allora.

L’interpretazione della Sutherland concretizza la definizione di «tragico-sublime» coniata da Bellini per definire la vocalità del personaggio. Dopo il «drammatico d’agilità» della Callas, il soprano australiano e il marito sul podio partono dal barocco per ricreare un’opera che nasce dal neoclassicismo per approdare al romanticismo. Sul canto di Dame Joan si vedano, tra le tante, le pagine a lei dedicate dal Giudici nella sua mastodontica guida all’Opera in CD e video. Non memorabili gli altri interpreti.

Ripresa molto cinematografica: carrellate, immagine nell’immagine, dissolvenze e alla fine invece degli applausi davanti al sipario le fiamme e il crepitio del rogo…

  • Norma, Pappano/Ollé, Londra, 26 settembre 2016
  • Norma, Carminati/Livermore, Catania, 23 settembre 2021
  • Norma, Lanzillotta/Amato, Torino, 26 marzo 2022
  • Norma, Bonato/Barbalich, Brescia, 30 settembre 2022

Catone in Utica

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Giovanni Battista Piranesi, Via Appia e via Ardeatina, 1756

Leonardo Vinci, Catone in Utica

★★★★★

Versailles, Théâtre Royal, 19 giugno 2015

«Veni, vidi, vici»: in Vinci Franco Fagioli rinverdisce i fasti dell’opera barocca

Dopo il trionfo dell’Artaserse si fa il bis con il Catone in Utica, sempre di Leonardo Vinci. Ossequenti al decreto del 1588 di papa Sisto VI, anche sulle tavole de l’Opéra Royal di Versailles sono bandite le donne ed ecco che dei cinque controtenori di Artaserse due si ripropongono anche in questa nuova produzione (Franco Fagioli e Max Emanuel Cenčić) assieme alle new entry Ray Chenez e Vince Yi e ai tenori Martin Mitterrutzner e Juan Sancho, quest’ultimo nel ruolo del titolo.

L’allestimento ha debuttato a Wiesbaden a fine maggio e dopo Versailles si trasferirà a Bergen, Bucarest e a Vienna. Come nel caso dell’altro spettacolo, non c’è pericolo che valichi le Alpi a turbare le italiche platee.

Catone in Utica di Vinci è una rarità sulle scene: l’ultima volta era stata diretta da Rinaldo Alessandrini a Lugo di Romagna nel 1987, ma è la prima volta che viene data in terra di Francia e con un cast tutto al maschile.

La prima delle innumerevoli intonazioni del testo metastasiano (la più nota è quella di Vivaldi del 1737), questa del Vinci viene presentata il 19 gennaio 1728 al romano Teatro delle Dame di cui il futuro Poeta Cesareo era gestore artistico. Il libretto recupera l’elegia La morte di Catone scritta dal Metastasio in giovane età, ma l’inusuale quartetto del terzo atto e il finale con svolgimento tragico, la morte, appunto, di Catone, non piacquero al pubblico che si sfogò con motti irriverenti e pasquinate. Neanche l’Algarotti, amico e ammiratore del poeta, risparmiò la sua ironia: «Dover di Vinci in sui bemolle or ora | con lunghi trilli e florida cadenza | sua morte gorgheggiar Porzio Catone».

Atto primo. A Utica, ultimo baluardo della libertà repubblicana, Catone si è raccolto con i pochi uomini che gli sono rimasti. Benché Cesare voglia parlargli, dispera che possa abbandonare la sua posizione ormai prodromica alla nascita di un impero. Manifesta le sue preoccupazioni all’amico principe numida Arbace e alla figlia Marzia; in questo contesto Arbace chiede con successo a Catone la mano di Marzia, così da condividere più da vicino la causa romana di Catone e sposare la donna amata. Rimasta sola con Arbace, Marzia gli chiede di ritardare il matrimonio di un giorno. È infatti segretamente innamorata di Cesare, il quale nel frattempo incontra Catone, impetrando un’amicizia che questi reputa inaccettabile. Emilia, vedova di Pompeo, domanda a Fulvio, suo spasimante e vecchio compagno di Pompeo – ora divenuto fido alleato di Cesare -, di uccidere il dittatore, ritenuto responsabile della morte del marito. Dopo un breve incontro tra Cesare e Marzia, in cui il condottiero si dimostra pronto ad anteporre l’ammirazione per Catone al loro amore, l’Uticense preme affinché si celebrino le nozze. Arbace riesce a differirle adducendo improbabili pretesti.
Atto secondo. Fulvio reca a Catone un foglio in cui il senato, a nome anche del popolo romano, gli intima di accettare la pace con Cesare; Catone però rifiuta sdegnosamente. Convinto infine dagli Uticensi a parlare con il nemico, stabilisce che la pace si farà solo se Cesare rinuncerà al potere e si farà incarcerare. Il condottiero abbandona allora i propositi di pace mentre Marzia, ormai messa alle strette da Arbace ed Emilia – la quale ha intuito la verità -, confessa verso chi si rivolge il proprio amore. Catone intende ripudiarla, Arbace è combattuto tra rabbia e amore, Emilia preme affinché l’affronto sia punito.
Atto terzo. Cesare si dirige verso il campo di battaglia, ma Fulvio lo avverte di un agguato che Emilia prepara nei suoi confronti e lo convince a percorrere una via segreta. In seguito Cesare incontra Marzia, la quale lo prega di non seguirla e pensare a sé, mentre lei raggiungerà il fratello al porto per fuggire. Subito dopo manda Arbace da lei affinché ne assicuri la salvezza. Quando però intraprende il cammino suggerito, Cesare non trova via d’uscita; in compenso si palesa Emilia con un seguito di uomini armati. Ingannato Fulvio con false rivelazioni, l’ha indotto a condurre Cesare in trappola. Anche Marzia esce allo scoperto, poi arriva Catone. La trama di Emilia viene così vanificata e Fulvio, giunto con altri uomini, annuncia che l’esercito di Cesare si è impadronito di Utica. Conscio che non si sono più speranze, Catone si trafigge con la spada. La figlia implora il suo perdono, accordato solo dopo che la fanciulla ha giurato eterna fede ad Arbace ed eterno sdegno a Cesare. Morente, Catone predice a Cesare la sua morte violenta, mentre questi si dispera della morte di un eroe verso il quale nutre ammirazione, e getta il lauro.

In effetti se la vicenda può essere desunta storicamente da Plutarco, non mancano le fantasiose elaborazioni nel caso dei personaggi inventati allo scopo di vivacizzare l’intreccio. Oltre a Catone e a Cesare, abbiamo dunque Marzia (figlia di Catone e amante occulta di Cesare), Arbace (principe di Numidia, amico di Catone e amante di Marzia), Emilia (vedova di Pompeo) e Fulvio (legato del Senato Romano del partito di Cesare e amante di Emilia).

Lo stesso tema della contrapposizione tra la Roma repubblicana e quella imperiale Vinci l’aveva già messo in musica nel suo Silla Dittatore cinque anni prima: là era Domizio contro Silla, qui Catone contro Cesare. E anche là la vicenda era complicata dall’amore della figlia del paladino della repubblica per il suo avversario. Una lettura allegorica della vicenda vede il vecchio repubblicano come rappresentante dell’Italia delle città stato (Venezia e Genova) contro l’imperialismo asburgico (Milano e Napoli) con Marzia rappresentante il papato che cerca di mediare tra le due fazioni.

La distribuzione della prima rappresentazione riuniva il tenore fiorentino Giovanni Battista Pinacci «virtuoso di sua altezza serenissima il signor principe d’Armstat» (Catone), il castrato Giovanni Carestini detto il Cusanino «virtuoso di sua altezza serenissima il signor duca di Parma» (Cesare), il castrato Giacinto Fontana detto il Farfallino (Marzia), Giovanni Battista Minelli castrato contralto bolognese «virtuoso di sua altezza serenissima il signor principe d’Armstat» (Arbace), il castrato Giovanni Ossi «virtuoso di sua eccellenza il signor principe Borghese» (Emilia) e Filippo Giorgi (Fulvio).

Le venticinque arie e il quartetto si alternano a lunghi recitativi che vengono ridotti nella messa in scena (mancano quasi 50 minuti rispetto alla registrazione in studio appena uscita in CD). Cionondimeno con gli intervalli lo spettacolo supera abbondantemente le quattro ore. La lunghezza e complessità dei recitativi ha un indubbio vantaggio: rende ancora più preziosi i momenti melodici delle arie, qui magnificamente varie nei colori e negli affetti.

Nonostante il titolo, il mattatore della serata è Cesare, il cui ruolo infatti era stato assegnato al Cusanino: sue sono le arie più ricche di colorature e Franco Fagioli è perfettamente a suo agio nelle “invenzioni” delle riprese, con variazioni sempre magnificamente in stile e ogni volta diverse e una voce che passa con continuità attraverso tutte le tre ottave in cui sviluppa la sua prodigiosa vocalità. Il pubblico non si stanca di acclamarlo rinnovando, trecento anni dopo, gli entusiasmi per i castrati.

Per la seconda volta in poco tempo vediamo i disegni del Piranesi utilizzati in uno spettacolo lirico: era stato il caso delle sue prigioni per il sulfureo Benvenuto Cellini visto ad Amsterdam, sono ora le sue vedute con rovine romane qui a Versailles per la scenografia di Markus Meyer il quale disegna anche i costumi: in elegantissimo nero e argento quelli di Catone e della figlia Marzia, in rosso e oro quelli di Cesare e Fulvio. Un caso a parte è quello di Emilia, la vedova impegnata a vendicare l’uccisone del marito Pompeo. Il sopranista coreano Vince Yi non aveva fatto una buona impressione su CD con quella sua voce da bambina, ma sulla scena invece, e qualche mese dopo l’incisione discografica, la vocalità è migliorata, il timbro meno esile e quella sua insolita presenza dà un tocco quasi surreale al personaggio che esprime con la stessa intensità la sua sete di vendetta e le sue pulsioni erotiche verso il messo romano. Il collare di piume nere scelto dal costumista dà alla sua Emilia un’aria da pennuto impazzito perfettamente in linea con le agilità e gli acuti richiesti dalle sue arie che hanno sì l’andamento dolcemente cullante della scuola napoletana, ma che prefigurano serve padrone pergolesiane altrettanto determinate.

Cenčić, l’inesausto impresario di queste avventure barocche, nonostante un’indisposizione ha generosamente accettato di andare in scena e anche se sono mancate l’altra sera i momenti di maggiore agilità, si è potuto apprezzare però ancora meglio il colore caldo della sua voce da mezzosopranista nel ruolo un po’ masochista di Arbace perso d’amore per Marzia. La quale Marzia non ha il contributo di Valer Sabadus del disco, ma si avvale invece del giovane americano Ray Chenez dalla dizione perfettibile e dalla personalità ancora un po’ acerba. Lo stesso si può dire per l’austriaco Martin Mitternutzer, tenore lirico e liederista. Di Juan Sancho non si può che ripetere quanto detto per altre sue interpretazioni: eccesso di temperamento e vocalità non esente da difetti di musicalità.

L’altro trionfatore della serata è stato Riccardo Minasi. Il suo “Pomo d’oro” ha dimostrato le magnifiche possibilità dell’orchestra di strumenti d’epoca. Con il violino il direttore romano conduce infaticabile l’impresa di equilibrare sempre perfettamente le voci in scena e la gloriosa partitura, fatta rinascere con eleganza e verve. Il vigore con cui Minasi e la sua orchestra accompagnano la battaglia del terzo atto lascia poi in ansia per la sorte dei loro delicati strumenti messi a così dura prova.

La regia di Jakob Peters-Messer accompagna con efficacia ed eleganza le entrate e le uscite dei personaggi e porta in scena sei barbuti e scalzi figuranti che interpretano di volta in volta personaggi di contorno (i divertenti portatori del velo da sposa per il continuamente procrastinato matrimonio di Marzia e Arbace), animali (tra cui il pappagallo a cui Cenčić sembra aver rubato le penne per il suo scapolare arcobaleno) oppure oggetti (velieri portati come copricapi, maschere e teschi d’oro).

Vinci si dimostra un grande compositore del Settecento italiano e una figura essenziale per comprendere il bel canto, peccato che nel suo paese continui a essere pressoché sconosciuto.

La presenza di macchine da ripresa in sala fa sperare in un futuro riversamento in DVD.

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