Gioachino Rossini, Ricciardo e Zoraide
direzione di Riccardo Chailly
regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti
3 agosto 1990, Pesaro
La meno rappresentata e conosciuta del catalogo rossiniano, Ricciardo e Zoraide, su libretto di Francesco Berio di Salsa, debutta nel 1818 a Napoli con buon successo, ma poi cade in oblio per quasi un secolo e mezzo e viene ripresa solo ora al Rossini Opera Festival in questo allestimento di Ronconi. Esiste un’edizione in CD dell’Opera Rara con due degli stessi cantanti che troviamo qui a Pesaro, Matteuzzi e Ford.
Antefatto All’epoca delle crociate, il principe Ircano ha fondato un regno ai confini della Nubia; Agorante, re della regione, gli ha mosso guerra e lo ha cacciato, avendo Ircano rifiutato di concedergli la mano della figlia Zoraide. Nella fuga Zoraide incontra il prode paladino Ricciardo, se ne innamora, e abbandona il padre per vivere nel campo dei crociati. Ircano, disperato, vaga alla ricerca della figlia scomparsa, travestito da cavaliere nero. Agorante, venuto a conoscenza del nascondiglio di Zoraide, l’ha fatta rapire e condurre nella sua reggia, dove egli vive con la moglie Zomira.
Atto primo. La scena si apre su una piazza fuori del recinto della città di Duncala, capitale della Nubia. Agorante, acclamato per la sua vittoria su Ircano, afferma di non temere la vendetta di Ricciardo né degli eserciti dei crociati. Zoraide, che sente le grida di trionfo, si dispera con la confidente Fatima per il proprio destino; teme infatti la doppia vendetta del padre Ircano e della moglie di Agorante, Zomira, oltre a essere affranta per la separazione da Ricciardo. Giunge Zomira, che cerca di farle confessare il suo amore per il paladino: amore che Zoraide dissimula per non irritare Agorante, il quale arriva dichiarando di voler sposare la prigioniera. Zoraide rifiuta l’offerta, ma nonostante questo Agorante promette di unire la sua anima a quella di lei, mentre Zomira giura vendetta. Nella pianura nei pressi di Duncala. Ricciardo approda con Ernesto, ambasciatore del campo cristiano, sulla riva del fiume Nubio. Travestito da guida africana, è giunto per liberare Zoraide, per il cui amore è disposto a sacrificare la sua vita. Intanto, nella reggia di Agorante, Zomira invita la confidente Elmira a spiare ogni mossa della rivale Zoraide. Giunge Ernesto, accompagnato da Ricciardo, per chiedere ad Agorante spiegazione del rapimento di Zoraide e di alcuni guerrieri franchi. Egli è disposto a liberare i guerrieri, ma non Zoraide e quando Ernesto lo avverte che questo potrebbe provocare una ripresa delle ostilità, Agorante dichiara a Zoraide il suo amore davanti a tutti. Ella si schermisce, chiamando in causa il suo dolore per la lontananza del padre, ma Agorante, determinato nel suo intento, chiama le proprie truppe a raccolta, affermando orgogliosamente di essere in grado di difendere la patria.
Atto secondo. Zamorre, dignitario di corte, riferisce ad Agorante che la guida dell’ambasciatore franco – in realtà Ricciardo sotto mentite spoglie – desidera parlargli. La finta guida simula di odiare Ricciardo e tutti i paladini, affermando che proprio Ricciardo gli avrebbe rapito la moglie e che lo stesso Ricciardo attenderebbe il ritorno di Zoraide per vendicarsi, ritenendola l’amante di Agorante. Il re non vede di meglio che invitare la finta guida a svelare a Zoraide il tradimento dell’amato, sperando che questo la induca ad accettare il suo amore. Ricciardo può così incontrare Zoraide, alla quale promette una pronta liberazione. Ma Elmira ha spiato non vista l’incontro e corre a riferirne a Zomira. Agorante, frattanto, ha deciso di mostrarsi generoso e risolve di liberare Zoraide, salvo poi cambiare idea al pensiero di restituirla al suo nemico Ircano. Le sorti di Zoraide saranno decise dallo scontro di un paladino con un campione africano. Si fa avanti un cavaliere misterioso, Ircano, con indosso un’armatura nera, e si proclama difensore di Zoraide. Agorante sceglie come proprio campione la finta guida, mentre Zoraide è condotta al carcere. Zomira, alla quale Elmira ha rivelato la vera identità della finta guida, va intanto a trovare Zoraide prigioniera, avvertendola che la guida ha vinto il duello e affermando di conoscerne l’identità. Fingendosi complice, indica a Zoraide una via attraverso la quale fuggire con Ricciardo; ma si tratta di una trappola e i due amanti vengono catturati dalle guardie della regina. Agorante ha intanto scoperto che il cavaliere misterioso è Ircano e promette di fare giustizia. Nella piazza di Duncala Ricciardo e Zoraide, condannati a morte, avanzano tra la folla, quando giunge Ircano, anch’egli condannato e ferito durante il duello. Ircano ripudia Zoraide, accusandola di averlo abbandonato per un amore foriero di interminabili disgrazie. Zoraide, in preda al rimorso, chiede ad Agorante di salvare almeno il padre: di fronte a questa richiesta il re chiede un’ultima volta a Zoraide di sposarlo. Divisa tra l’amore per il padre e quello per Ricciardo, Zoraide cede pur di salvare Ircano. Ma improvvisamente entra Ernesto, che dichiara di aver sconfitto gli eserciti della Nubia. Ricciardo, con magnanimità, risparmia la vita ad Agorante e Zomira mentre Ircano, commosso per il sacrificio della figlia, la perdona acconsentendo alla sua unione con Ricciardo.
«Ricciardo, ci si dice, è un paladino; ma nulla di quel che fa sotto i nostri occhi ha a che vedere con le imprese di un paladino: questo signore parla solo d’amore e si nasconde dietro una veletta ogni volta che vede un nemico. Possiede comunque una qualità speciale: egli è tenore, e di quell’arma abusa moltissimo, in guerra e in amore: si può capire quindi come le cose gli vadano abbastanza male. Il fatto è che anche l’avversario, Agorante, è tenore, e perfettamente alla pari: donde una serie di scontri all’ultimo coccodè. I due incontrano in qualche angolo della Nubia personaggi dai nomi leggendari: Zoraide, l’amata (da entrambi, si capisce), Ircano, Zomira, Elmira, Zamorre e intrecciano rapporti d’odio con tutti. Ma si capisce che andrà tutto bene, che i crociati vinceranno i mori, che Ricciardo e Zoraide saranno finalmente sposi, che i crudeli saranno risparmiati e che a morire sarà solo una manciata di mori. […] Perché diciamo che Ricciardo e Zoraide è un’opera minore? Perché il mestiere prevale sull’idea, e qualche volta non c’è neppure quello: due intere scene consecutive realizzate con recitativo secco (orchestrale, ma secco) saranno giustificabili dalle consuetudini ma sono francamente insopportabili. E se prendiamo il quartetto del primo atto, che si avvia benissimo, dobbiamo constatare che vi funziona, appunto, solo l’inizio e che subito dopo Rossini si perde. Peccato, perché il libretto (di Francesco Berio di Salsa) è fatto bene e la partitura sfoggia in apertura una pagina sinfonica molto insolita, trattata cameristicamente con una serie di variazioni per strumenti soli (corno, clarinetto, flauto) e in assoluta rinuncia ai celebri e celebrati crescendo. C’è poi un continuo passaggio dall’orchestra in buca alla banda fuori scena, dal coro in scena al coro fuori scena, sì da movimentare e connotare in maniera originale l’impianto dell’opera. Ma in lavori come questi in cui la bellezza complessiva deriva dalla bellezza dei singoli pezzi, dobbiamo rimarcare la scarsissima presenza di numeri belli. […] L’allestimento, comunque, è di gran pregio: Gae Aulenti disegna per Luca Ronconi un palcoscenico deserto completamente chiuso dal cielo. L’apparizione di personaggi, cori, elementi scenici avviene verticalmente attraverso botole con saliscendi. Gli oggetti sono ridotti al minimo, ma sono belli e costruiti ingegnosamente: così quella barchetta che va per dune desertiche, le attraversa, si gira e scompare come un giocattolo di alta tecnologia teatrale. Ronconi ha buon agio, sul palcoscenico scavato come una groviera, nel disseminare coristi e comparse, quasi tutti neri come l’ebano e bellissimi negli splendidi costumi di Giovanna Buzzi. Ha anche occasione per esercitare l’ironia da figurine Liebig: quella guerra a suon di fionde tra mori e crociati, le pose di Agorante, la svenevolezza di Zoraide svelano il divertimento che c’è sotto. Pure, c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di fischiare. Magari dopo aver applaudito l’esecuzione musicale. La quale appariva, tanto per cominciare, pesantissima. In opere così fragili dovrebbe essere individuata, almeno, una linea esecutiva impeccabile per leggerezza e precisione. Né Riccardo Chailly né l’orchestra del Comunale di Bologna hanno saputo o voluto trovarla. E anche il Coro Filarmonico di Praga non può essere lodato come altre volte se non per la disinvoltura con la quale si è lasciato dipingere di nero e spogliare di molti panni. Naturalmente, in un’opera di tenori, dovrebbero essere questi gli artefici della serata. Ma mentre Bruce Ford ha qualche qualità da esibire, William Matteuzzi ne ha ben poche: svettano entrambi, si sbizzarriscono in fioriture continue ed estenuanti ma con scarsa capacità di coinvolgimento. Molto al di sotto del suo standard la Zoraide di June Anderson. L’onore della serata è andato così a Gloria Scalchi, una buona Zomira. Qualche annotazione, per finire. Il Festival rossiniano è entrato da qualche anno nella rosa dei festival più seri e accreditati d’Europa. Non sarà arrivata l’ora di cercare un’orchestra degna di un festival internazionale? E non bisognerà provvedere a refrigerare decentemente il Teatro Rossini anziché far liquefare gli spettatori? Dicono che l’ordine di spegnere i condizionatori sia venuto dai cantanti. Cosa faranno questi quando sono in aereo o in treno o al supermercato?» (Michelangelo Zurletti)
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- Ricciardo e Zoraide, Pesaro, 11 agosto 2018
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