Pietro Metastasio

Catone in Utica

Antonio Vivaldi, Catone in Utica

Ferrara, Teatro Comunale, 17 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Finalmente a Ferrara il Catone di Vivaldi, ma solo dal secondo atto

Allo stato attuale degli studi vivaldiani sono 49 i titoli operistici del prete rosso: di ventidue abbiamo le partiture autografe, ma solo sedici sono integre, le altre sei sono frammentate o incomplete, come è il caso del Catone in Utica di cui conosciamo solo i due ultimi atti, ossia gli estesi recitativi e le sette arie del secondo atto e le tre arie, il recitativo accompagnato, il duetto e il coro finale del terzo, mentre il libretto al primo atto prevede sette arie, di cui però non abbiamo la musica. (1)

Una delle tante intonazioni del testo metastasiano – da Leonardo Leo (1727) a Giovanni Paisiello (1789) ce ne sono circa due dozzine – quella di Vivaldi fu presentata la prima volta al Filarmonico di Verona il 26 marzo 1737 con grande successo dopo che la prevista presentazione a Ferrara non fu possibile. Il compositore modificò radicalmente il libretto cambiando quasi tutte le arie e il finale con l’eliminazione dello storico suicidio di Catone.

Atto primo. La città nordafricana di Utica è minacciata dalle truppe di Giulio Cesare che, dopo la vittoria su Pompeo, sta per trasformare la Repubblica romana in una dittatura. Solo il senatore romano Catone, che ha stretto un’alleanza con il principe numida Arbace, lo ostacola. Arbace ama la figlia di Catone, Marzia, e vuole sposarla. Anche Catone approva questa unione. Marzia, però, ha una relazione segreta con il suo avversario Cesare. La donna ostacola Arbace e lo convince a rimandare il matrimonio. Quando Cesare arriva in città per le trattative di pace, la vedova di Pompeo, Emilia, gli manifesta il suo odio. L’inviato romano Fulvio, confidente di Cesare, si innamora di lei e cerca di convincerlo ad assassinare Cesare. Fulvio, però, antepone l’onore all’amore e rivela tutto a Cesare. Marzia vuole separarsi da lui a causa delle macchinazioni politiche di Cesare, ma cede quando lui le rivela il suo desiderio di pace.
Atto secondo. Fulvio dice a Catone che Cesare vuole negoziare la pace. Gli consegna anche una lettera del Senato che chiede la riconciliazione. Catone inizialmente rifiuta, ma poi accetta di ricevere l’avversario. Mentre Marzia ne è felice, Emilia continua a desiderare la vendetta, per la quale vuole ancora arruolare Fulvio. Catone è irremovibile nelle trattative. Chiede che Cesare abbandoni le sue ambizioni e si rivolga al popolo. Rifiuta categoricamente l’offerta di Cesare di assicurarsi la pace sposando Marzia. Nonostante le suppliche di Marzia, la guerra non può più essere evitata. Catone esorta lei ed Emilia a recarsi alle navi per sicurezza. La donna deve utilizzare un sentiero nascosto vicino alla fonte di Iside. Marzia rifiuta il rinnovato desiderio di Arbace di sposarsi e rivela a tutti la sua relazione con Cesare. Il padre la ripudia indignato.
Atto terzo. Per compiere la sua vendetta, Emilia prepara una trappola per Cesare alla Fonte Iside. Marzia la prega di risparmiare il padre in caso di vittoria. Mentre Fulvio assalta le mura della città, Cesare si reca alla fonte e viene attaccato dagli uomini di Emilia. Catone interrompe il combattimento, ritenendo esecrabile un simile agguato. Ora sfida Cesare stesso. Emilia riferisce che le truppe di Fulvio stanno entrando in città. Catone e Cesare si precipitano a raggiungere i loro uomini. Dopo la vittoria di Cesare, Catone vuole suicidarsi per la disperazione della libertà perduta da Roma. Marzia e Arbace riescono a impedirlo, ma Catone non è ancora disposto a perdonare la figlia. Cesare esorta i suoi a trattare con clemenza gli sconfitti. Vuole l’amicizia di Catone ed è disposto a cedere la sua corona d’alloro in cambio. Tutti, tranne la vendicativa Emilia, festeggiano la nuova pace.

Nel 2001 per la ripresa in tempi moderni dell’opera, Jean-Claude Malgoire aveva adattato alle arie mancanti pezzi musicali presi da altri lavori vivaldiani, una sorta di auto-imprestito esterno. Sappiamo quanto Federico Maria Sardelli sia contrario a qualunque operazione non filologica e nella produzione ora al Teatro Comunale di Ferrara il direttore-musicologo utilizza solo quello che è rigorosamente autografo e dopo la sinfonia tripartita, anch’essa mancante ma rimpiazzata da Sardelli con altra di Vivaldi con numero di catalogo RV 131 – la sinfonia sì, ma le arie no? mah… – l’opera inizia col secondo atto. Si comincia dunque con l’azione che entra subito nel vivo della vicenda, ossia il contraddittorio tra Catone e Cesare, che si svolge su un terreno di gioco lontano dalle battaglie sanguinose di Farsalo e Tapso, in cui emerge invece sempre più la vita privata e la debolezza di un uomo, l’Uticense, che non riesce a gestire il proprio declino.

I lunghissimi recitativi avrebbero bisogno di interpreti anche buoni attori, cosa che qui manca, e sono accompagnati da una gesticolazione di maniera. Al di fuori del tenore, le voci sono tutte femminili e il timbro omogeneo caratterizza a fatica i personaggi e porta a un senso di noia. Cesare, che in origine fu il castrato Lorenzo Girardi, qui è affidato ad Arianna Vendittelli, soprano di sicura tecnica e buone doti vocali dispiegate nelle tre arie rimaste. Per Marzia, scritta per la protetta Anna Girò, le due arie presenti più che sfoggio di difficoltà tecniche danno la possibilità di far risuonare le corde della sensibilità bene espressa dal mezzosoprano Valeria Girardello. Un altro castrato, Giacomo Zaghini, aveva creato la parte di Arbace qui affidata a Valeria La Grotta, soprano dal timbro poco piacevole ma stile appropriato. Emilia è il personaggio vendicativo della vicenda, quella che rimane esclusa dal lieto fine imposto dal compositore. In origine Giovanna Gasparini, qui è il mezzosoprano Miriam Albano che dipana un po’ meccanicamente le agilità della sua aria «Come invano il mare irato» con cui si conclude il secondo atto. Come a Verona nel 1737, anche Fulvio, a cui rimane una sola aria in questa versione, è un contralto en travesti: là fu Elisabetta Moro, qui è una efficace Chiara Brunello. E poi c’è il personaggio eponimo, qui l’unico maschio del cast a cui dà voce il tenore Valentino Buzza che, a parte l’affettato modo di porgere i recitativi, dà il meglio di sé nell’unico numero solistico rimastogli, l’aria di furore «Dovea svenarti allora» rivolta alla figlia che ha confessato di amare il nemico Cesare, eseguita con temperamento.

Alla guida dell’Orchestra Barocca Accademia dello Spirito Santo, dall’intonazione impeccabile anche nei fiati che sono in genere il punto debole delle esecuzioni storicamente informate, Federico Maria Sardelli imprime slancio ritmico e varietà di colori a questa partitura monca con accompagnamenti dei recitativi particolarmente curati, ma sempre con un approccio molto misurato, com’è il suo solito.

Nell’allestimento del regista Marco Bellussi il freddo ambiente tutto bianco inscatolato disegnato da Matteo Paoletti Franzato suggerisce una stanza in stile romano con coppe, busti, statue, un tavolo, un triclinio, dei sedili, il tutto lumeggiato da tocchi d’oro e senza particolari cure filologiche, con anacronistici bicchieri di cristallo molato, fogli di carta e abiti (di Elisa Cobello) che sembrano disegnati per un elegante ballo in costume o un film peplum. Al proscenio delle rocce grigie suggeriscono l’esterno in cui si ambienta il terzo atto. La recitazione, come già detto, rimanda un po’ a quella di un film muto, anche per la mancanza di profondità della scenografia che ricrea l’immagine bidimensionale di uno schermo cinematografico, e non costituisce certo l’elemento più interessante di questo mutilata riproposta della terz’ultima opera del compositore veneziano. 

(1) Ecco la struttura dell’opera:
Ouverture. Atto I. Scena 1. Recitativo – Perché sì mesto, Aria – Con sì bel nome in fronte (Catone). Scena 2. Recitativo – Poveri affetti miei, Aria – È follia se nascondete (Marzia). Scena 3. Recitativo – Dunque Cesare venga. Scena 4. Recitativo – Che veggio. Scena 5. Recitativo – Tu taci, Emilia, Aria – Vaga sei ne’ sdegni tuoi (Cesare). Scena 6. Recitativo – Quanto da te diverso, Aria – L’ira mia, bella sdegnata (Fulvio). Scena 7. Recitativo – Se gli altrui folli amori, Aria – O nel sen di qualche stella (Emilia). Scena 8. Recitativo – Giunse dunque a tentarti. Scena 9. Recitativo – Pur ti riveggo, Aria – Apri le luci e mira (Cesare). Scena 10. Recitativo – Mie perdute speranze. Scena 11. Recitativo – Deh t’arresta signor. Scena 12. Recitativo – Che giurai, che promisi, Aria – Che legge spietata (Arbace)
Atto II. Scena 1. Recitativo – Marzia t’accheta. Scena 2. Recitativo – A tanto eccesso arriva, Aria – S’andrà senza pastore (Arbace). Scena 3. Recitativo – Che gran sorte è la mia. Scena 4. Aria – Se mai senti spirarti sul volto (Cesare). Scene 5, 6 e 7. Recitativo – Lode agli dèi, Aria – Degl’Elisi dal soggiorno (Fulvio). Introduzione di timpani. Scena 8. Recitativo – Si vuole ad onta mia. Scena 9. Recitativo – Cesare e dove, Aria – Se in campo armato (Cesare). Scena 10. Recitativo – Ah Signor, che facesti. Scena 11. Aria – Dovea svenarti allora (Catone). Scena 12. Recitativo – Sarete paghi alfin, Aria – Il povero mio core (Marzia). Scena 13. Recitativo – Udisti, Arbace. Scena 14. Aria – Come invano il mare irato (Emilia)
Atto III. Sinfonia – Andante. Scene 1 e 2. Recitativo – Tutto, amico, ho tentato, Aria – Se parto, se resto (Marzia). Scena 3. Recitativo – Me infelice, Aria – Sarebbe un bel diletto (Cesare). Scene 4/8. Recitativo – È questo amici il luogo. Scena 9. Aria – Nella foresta (Emilia). Scena 10. Recitativo – Vinceste, inique stelle. Scena 11. Duetto – Fuggi dal guardo mio (Catone, Marzia). Scena 12. Recitativo – Il vincer, o compagni. Scena ultima. Coro – D’amor la face (tutti).

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Achille in Sciro

Francesco Corselli, Achille in Sciro

Madrid, Teatro Real, 25 febbraio 2023

★★★☆☆

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Non un tesoro ritrovato

Prolifico autore di musica sacra – 447 tra messe, salmi, mottetti, litanie, cantate – Francesco Corselli (1705-1778) nacque a Piacenza come Francisco Courcelle, dal padre Charles Courcelle, maestro di danza della futura regina di Spagna Elisabetta Farnese, e da Juana Medard. A ventotto anni si trasferì in Spagna quale insegnante di musica per le Infante María Teresa e María Antonia di Borbone-Spagna. Con l’incendio dell’Alcázar del 1734, che causò la distruzione degli archivi musicali, il musicista si trovò a dover fornire alla Cappella Reale gran copia di composizioni religiose sia di propria mano sia di altri: spagnoli, come Torres e Terradellas, o italiani, come Porpora, Scarlatti e Durante.

Il fallimento della compagnia italiana che si esibiva al Teatro de los Caños del Perral fu l’occasione per la formazione di una compagnia spagnola per l’esecuzione di opere italiane tradotte. Nacquero così le prime opere teatrali del Corselli, che ebbero il massimo successo. Come Farnace (1739) scritto in occasione del matrimonio dell’Infante Filippo I di Parma con Luisa Elisabetta di Borbone-Spagna, o la successiva Achille in Sciro, su libretto del Metastasio, che andò in scena al Real Coliseo del Buen Retiro di Madrid l’8 dicembre 1744. Anche questa fu composta per un matrimonio reale, quello dell’Infanta María Teresa Rafaela, figlia di Filippo V, con il Delfino di Francia, il figlio di Luigi XV. Il testo era stato intonato precedentemente da Caldara nel 1736 e lo sarà ancora nel 1737 da Sarro per l’inaugurazione del Teatro San Carlo di Napoli. Anche Jommelli nel 1749 ritornerà sullo stesso testo. Un libretto di Ippolito Bentivoglio intitolato  L’Achille in Sciro  era poi stato musicato nel 1663 da Giovanni Legrenzi.

Antefatto. Teti scopre grazie a un oracolo che i Greci non potranno conquistare Troia se suo figlio Achille non parteciperà alla guerra, ma che così facendo morirà sul campo di battaglia. Nel tentativo di aggirare il suo tragico destino, decide di nasconderlo alla corte del re Licomede sull’isola di Skyros, travestito da fanciulla chiamata Pirra in mezzo ad altre donne tra cui Deidamia, la figlia del monarca. Achille e Deidamia si innamorano perdutamente.
Atto I. Tempio di Bacco. Achille (vestito da Pirra) e Deidamia partecipano ai riti in onore di Bacco mentre alcune navi si avvicinano all’isola suonando musica militare. Deidamia cerca di fuggire spaventata, ma Achille è attratto dal clamore della battaglia e la sua innamorata gli rimprovera con rabbia di preferire la guerra al suo amore. Uno dei marinai è Ulisse, giunto sull’isola in missione segreta per trovare Achille e portarlo a Troia e intuisce subito la farsa. Nearco, il precettore di Achille, informa i giovani che il re vuole presentare loro il promesso sposo di Deidamia, il principe Teagene, suscitando la gelosia di Achille. Gli appartamenti di Deidamia. Deidamia discute con il padre, rifiutando il fidanzamento. Achille rimprovera la sua innamorata di non avergliene parlato e lei promette di essergli fedele finché Achille rimarrà nascosto nel suo travestimento. Improvvisamente, appare l’astuto Ulisse che afferma di vedere una somiglianza tra la finta amica della principessa e Peleo, il padre di Achille. Sala di ricreazione del palazzo di Licomede. Licomede presenta i promessi sposi l’uno all’altro e Teagene corteggia benevolmente Deidamia, suscitando la gelosia di Achille, che rimane nascosto. Con ironia, Licomede spiega al principe che Achille – che lui crede essere Pirra – è il suo vero rivale, rivelando il profondo affetto che esiste tra le due ragazze e facendo arrossire la figlia, che viene interpretata come modestia e umiltà filiale. I promessi sposi rimangono soli mentre Achille rimane nascosto e Deidamia rifiuta ancora una volta le parole d’amore di Teagene. Quando lei se ne va, il principe cerca di seguirla, ma viene ferocemente fermato da Achille, scatenando l’attrazione di Teagene per questa “fanciulla”.
Atto II. Galleria con le statue delle Fatiche di Ercole. Con inganni e stratagemmi, Ulisse incita Achille, che ascolta con discrezione mentre Ulisse usa la retorica per elogiare le qualità eroiche di Ercole, mettendo il suo amico mascherato alla prova. Licomede accoglie i marinai e promette di contribuire con navi e guerrieri alla guerra contro Troia. Chiede poi ad Achille di intercedere per convincere la figlia ad accettare il matrimonio, provocando nuovamente l’ira del figlio di Peleo, che viene opportunamente interrotto da Nearco. Achille confessa al suo precettore di non poter continuare a vestire i panni di una donna e Nearco finge di sostenerlo, insistendo sul fatto che il dolore dell’amata non è rilevante, cosicché Achille alla fine si calma. Sala grande illuminata. Per festeggiare l’arrivo dei Greci, Licomede chiede ad Achille di cantare per gli ospiti. Egli accetta con riluttanza, cantando dolcemente e suonando la cetra. I servi portano i doni di Ulisse, che coglie l’occasione per continuare il suo tentativo di conquistare l’ignaro giovane. Tra i regali ci sono gioielli, vestiti e oggetti di lusso – che attirano l’attenzione delle donne –, ma anche armi e armature scintillanti da cui Achille rimane subito affascinato. All’improvviso, suona un allarme come se l’isola fosse sotto attacco, ma in realtà fa parte di una farsa che Ulisse ha orchestrato con l’aiuto del suo confidente Arcade. Tutti si precipitano fuori dalla stanza tranne Achille, mentre Ulisse e Arcade rimangono nascosti. Eccitato dalla fanfara, Achille getta la cetra, prende spada e scudo e si appresta a difendere l’isola, rivelando il suo vero io. In quel momento, Ulisse fa la sua comparsa, lodando l’eroe ormai svelato, mostrandogli il suo riflesso nello scudo e facendogli notare la contraddizione di vestirsi da donna. Achille torna finalmente alla sua vera identità di uomo e guerriero, rimproverato da Nearco, che gli ricorda il dolore che causerà alla sua amata. Achille gli chiede di consolare Deidamia. Ancora una volta invano, Teagene coglie l’occasione per corteggiare Deidamia, di cui non riesce a comprendere la disperazione.
Atto III. Facciata del palazzo, vista sul mare. Achille e Ulisse stanno per imbarcarsi per Troia quando arriva la notizia che Licomede vuole impedire la loro partenza. I Greci fuggono, ma Achille rifiuta di essere considerato un vigliacco. Nel frattempo arriva Deidamia, che lo rimprovera di averla abbandonata al suo destino, per cui Achille decide di rimanere sull’isola. Palazzo. Davanti alla corte, Achille chiede a Licomede la mano della figlia e, di fronte a un simile avversario, Teagene rinuncia alla sua causa. Soddisfatto del risultato, Licomede perdona ad Achille il suo precedente inganno e acconsente al matrimonio dell’eroe con Deidamia, dopo il quale permetterà ad Achille di partire per la guerra di Troia.

Previsto tre anni fa, Achille in Sciro fu annullato all’ultimo momento a causa della pandemia. Ora lo stesso spettacolo, prodotto con il Theater an der Wien, rappresenta il ritorno alla normalità nei teatri spagnoli e viene dedicato alle vittime della pandemia. La scelta di un compositore così legato alla Spagna era quasi inevitabile, ma diciamo subito che se questo ha una sua logica, per quanto riguarda la qualità dell’opera non si può dire che si tratti della riscoperta di un tesoro nascosto: il titolo di Corselli ha una sua piacevolezza, ma non molto di più, le arie sono ben costruite ma senza troppa differenziazione tra una e l’altra, l’evoluzione dei personaggi è limitata e neanche Ivor Bolton – che ha portato in scena durante il suo impegno come Direttore Musicale molti titoli del repertorio barocco, qui alla guida dell’Orchestra Barocca di Siviglia, con ottoni dall’intonazione un po’ perigliosa – riesce a dare un particolare carattere agli sfoghi di personaggi non di grande spessore psicologico. L’accompagnamento delle voci è corretto ma un po’ prevedibile, i colori strumentali non particolarmente brillanti. La sua in conclusione è una concertazione corretta ma che manca di fantasia interpretativa e non sfrutta i contrasti dinamici che l’ensemble di Siviglia avrebbe potuto offrire.

Nella parte del protagonista il previsto Franco Fagioli, il cui nome campeggia sui cartelloni e sul programma stampato,  ha dovuto ritirarsi a causa di un’indisposizione ed è stato sostituito all’ultimo momento dal giovane controtenore Gabriel Díaz, a cui si deve essere grati per aver salvato la produzione ma che che ha affrontato un compito maggiore delle sue capacità. Più navigati gli altri interpreti, che infatti si sono dimostrati all’altezza dell’impegno. Così è per Francesca Aspromonte, che dopo un inizio non esaltante ha poi delineato una sensibile Deidamia dal timbro corposo e dalla espressione intensa nelle pagine drammatiche. Affidabile come ci si poteva aspettare si è rivelato l’Ulisse sornione di Tim Mead, mentre il Licomede di Mirco Palazzi ha rivelato qualche stanchezza vocale e un range sonoro limitato. Vivacemente caratterizzati sono stati i personaggi di Arcade da parte di Krystian Adam e del Nearco di Juan Sancho. Una felice sorpresa Sabina Puértolas, soprano di temperamento, vivace presenza scenica e dalle strepitose agilità nelle tre arie che Corselli affida al Principe Teagene. È l’interprete che riceve i più intensi applausi dal pubblico del Real.

La regista Mariame Clément inserisce la vicenda alla corte di Spagna: prima ancora che inizi l’opera,  vediamo l’Infanta, a cui è dedicata l’opera e promessa sposa al delfino di Francia, passeggiare sul palcoscenico e leggere un libro che le verrà però confiscato dai severi genitori. In abiti settecenteschi osserva le dinamiche amorose aggirandosi tra i personaggi dell’antica Grecia e interagendo con discrezione, come quando scopre, in un curioso avvitarsi dei tempi e delle epoche, di star leggendo sul suo libro quello che Nearco sta invece scrivendo in quel preciso momento, come se si fosse in Ritorno al futuro, il film di Zemeckis… La stessa Infanta è coinvolta in una scenetta con Teagene in cui si evidenzia la volontà registica di accentuare le ambiguità e libertà nell’opera settecentesca, dove lo scambio di genere e i travestimenti erano caratteristiche essenziali delle trame delle opere. Partendo da quello di Achille e dalla presenza di una cantante en travesti, la Clément si diverte a scombinare ruoli e generi facendo maliziosamente interagire un uomo vestito da donna con una donna vestita da uomo, poi una donna con la stessa donna in abiti maschili e così via. Sempre molto attenta è la cura attoriale e fluida la recitazione.

Ambientata in una grotta con stalagmiti, rocce e passaggi verso il mare, la scenografia di Julia Hansen, che firma anche i fantasiosi costumi, bianchi per gli abitanti dell’isola, neri per i Greci della terraferma, si popola nel secondo atto di statue classiche con le imprese di Ercole, immagini che rendono Achille/Pirra sempre più impaziente di togliersi i suoi abiti femminili.

Alessandro nell’Indie

Leonardo Vinci, Alessandro nell’Indie

★★★★★

Bayreuth, Markgräfisches Opernhaus, 7 settembre 2022

(live streaming)

Barocca stravaganza e spasso irriverente nell’opera “seria” di Bayreuth

A parte la direttrice d’orchestra, è tutta al maschile la produzione dell’opera di Leonardo Vinci che quest’anno rappresenta il piatto forte del Festival Barocco di Bayreuth: Alessandro nell’Indie vide la luce il 2 gennaio 1730 al Teatro delle Dame di Roma dove vigeva il divieto papale di far calcare le scene alle donne.

Il libretto di Metastasio racconta la campagna indiana di Alessandro Magno e la sconfitta del re Poro nel 326 a.C. nella battaglia dell’Idaspe, che si conclude con una riconciliazione dei due re quando Alessandro lascia Poro come sovrano del suo regno. L’azione si svolge sulle rive del fiume con l’accampamento di Alessandro su una sponda e la residenza di Cleofide, regina e amante di Poro, sull’altra (1).

Atto I. L’accampamento indiano dopo la sconfitta di Poro. Alla fine dell’ouverture si sente una musica bellicosa e il rumore delle armi. All’apertura del sipario si vedono i soldati indiani che fuggono dalle truppe di Alessandro. Il re indiano Poro cerca di fermare la loro fuga, ma non riuscendoci tenta di uccidersi. Viene però fermato dal generale Gandarte che gli ricorda la sua amata Cleofide. Tuttavia, Poro crede che la donna abbia intrapreso una relazione con Alessandro. Per proteggere il suo re, Gandarte si offre di scambiare i vestiti e da quel momento Poro appare come Asbite e Gandarte come Poro. Poco dopo Asbite/Poro viene arrestato da Timagene dopo una breve lotta. Alessandro interviene e ordina di non versare sangue inutile. Timagene si allontana per trasmettere l’ordine ai soldati. Dopo che Asbite/Poro viene presentato ad Alessandro come amico di Poro, Alessandro lo rilascia e gli chiede di dire a Poro che tutto ciò che doveva fare era sottomettersi per ottenere la pace. Gli regala anche la sua spada. Poro accetta, ma giura ad Alessandro di usarla contro sé stesso. Timagene arriva con la prigioniera Erissena, sorella di Poro, che gli è stata consegnata da due indiani. Alessandro è inorridito da questo atto. Ordina che i due traditori siano legati e consegnati a Poro. Nonostante il consiglio di Timagene, Erissena viene rilasciata immediatamente. Dopo la partenza di Alessandro, Erissena dice a Timagene quanto sia rimasta colpita da Alessandro. Timagene, che ha messo gli occhi su Erissena, si ingelosisce. Un luogo circondato da alberi ombrosi. Poro racconta la vittoria di Alessandro a Cleofide, che considera l’amante di Alessandro. Cleofide, tuttavia, gli assicura il suo continuo amore e gli chiede di fidarsi di lei. Egli giura di non essere mai più geloso. Tuttavia, quando Cleofide chiede a Erissena, appena arrivata, se Alessandro ha parlato di lei, la sua gelosia si riaccende immediatamente. Cleofide parte per l’accampamento di Alessandro. Nonostante Erissena consigli a Poro di fidarsi di Cleofide, lui vuole seguirla. Arriva Gandarte che ha notato che Timagene è nemico di Alessandro e quindi spera ancora in una vittoria. Sconsiglia anche Poro di seguire Cleofide, ma Poro va comunque. Quando Erissena si entusiasma con Gandarte per Alessandro, questi le fa notare che Poro l’ha già promessa a lui. Grande tenda aperta con vista sull’accampamento di Alessandro e sulla residenza di Cleofide sull’altra sponda dell’Idaspe. Cleofide attraversa l’Idumea per consegnare dei doni ad Alessandro. Questi li rifiuta perché non accetta doni dagli amici e pretende fedeltà solo dai vassalli. Timagene annuncia l’arrivo di Asbite/Poro, che vuole parlargli alla presenza di Cleofide. Asbite/Poro spiega che Poro non si considera sconfitto e rifiuta la proposta di pace. Cleofide cerca di tranquillizzare Alessandro e lo invita nella sua residenza per scoprire le reali intenzioni di Poro: è sicura che Asbite abbia frainteso Poro. Tuttavia, Asbite le assicura di conoscere molto bene le intenzioni di Poro e mette in guardia Alessandro da Cleofide, che un tempo amava Poro e ora gli è diventata infedele. Per punire Poro per la sua rinnovata gelosia, Cleofide dichiara ora il suo amore per Alessandro. Alessandro le promette amicizia, ma non il suo cuore. Se ne va e Poro si riconcilia con Cleofide.
Atto II. Camera del palazzo di Cleofide. Poro e Gandarte progettano di impadronirsi del ponte sulle Idaspe, contando sull’appoggio di Timagene. Quando Erissena riferisce dell’arrivo di Alessandro, Poro ripensa alla presunta infedeltà di Cleofide. Gandarte gli consiglia di dimenticarla e se ne va. Anche se Erissena vorrebbe rivedere Alessandro, Poro la manda via. Intende evitare Cleofide e pregusta la vittoria su Alessandro. Presso il ponte sull’Idaspe, con l’accampamento greco sulla sponda opposta. Accompagnati da una musica guerresca, Alessandro e Timagene attraversano il ponte con parte del loro esercito. Cleofide viene loro incontro con il suo seguito e lo saluta amichevolmente. Il saluto è interrotto dal rumore delle armi quando Poro attacca. Alessandro e Timagene si precipitano sul ponte. L’attacco è respinto da Alessandro. Cleofide implora Poro in fuga di non lasciarla, ma solo quando lei minaccia di gettarsi nel fiume e alla fine gli promette il matrimonio, lui cede. Con il nemico in avvicinamento, Poro estrae il pugnale per uccidere Cleofide e sé stesso, ma Alessandro glielo strappa. Per giustificare la sua azione Asbite/Poro vuole rivelare la sua vera identità, ma viene interrotto dall’arrivo di Timagene il quale riferisce che i soldati incolpano Cleofide dell’agguato e chiedono il suo sangue. Tuttavia, poiché Asbite/Poro si assume la colpa in prima persona, Alessandro lo arresta e lo consegna a Timagene. Cleofide implora invano Alessandro di liberarlo. Timagene invia Cleofide al suo palazzo e gli chiede di dire a Poro di rimanere saldo. Timagene consegna ad Asbite/Poro una lettera in cui gli assicura di non essere responsabile del fallimento dell’assalto. Poro se ne va. Timagene spera che i suoi intrighi contro Alessandro abbiano successo. Camera del palazzo di Cleofide. Cleofide dice a Gandarte che Poro intendeva ucciderla per amore. Alessandro arriva e Gandarte si nasconde. Alessandro dice a Cleofide che non è riuscito a calmare la rabbia dei suoi soldati e Cleofide è pronta a morire come martire. Per salvarla, Alessandro si offre di sposarla. Poiché Cleofide non vuole, Gandarte, ancora vestito da Poro, esce dal suo nascondiglio e si offre in sacrificio per salvare Cleofide. Alessandro è così colpito da questa nobiltà che gli consegna Cleofide e promette di liberare anche Asbite e se ne va. Erissena viene a riferire che Poro si è gettato nel fiume e che è morto. Erissena consiglia alla disperata Cleofide di fuggire.
Atto III. Colonnato coperto nel giardino del palazzo. Erissena incontra Poro, che si crede morto, ma la notizia della sua morte è stata diffusa da Timagene solo per proteggersi dopo averlo liberato. Poro ha ora intenzione di tendere un’imboscata ad Alessandro nel giardino e vuole che Timagene lo attiri lì. Per dimostrare che Timagene è dalla sua parte, Poro consegna a Erissena la sua lettera. Dopo la partenza di Poro, arrivano prima Cleofide e poi Alessandro. Alessandro cerca di convincere Cleofide a fuggire, lei, però, vuole accettare la sua proposta di matrimonio. Alessandro le chiede di incontrarlo al tempio e se ne va. Alessandro torna con due guardie e riferisce a Erissena che Timagene ha scoperto un’imboscata pianificata. Erissena crede che Timagene l’abbia tradita e consegna ad Alessandro la lettera di Timagene come prova della propria innocenza. Con il tradimento di Timagene ormai scoperto, Alessandro manda via Erissena per poter pensare. Alessandro chiede a Timagene cosa farebbe se fosse tradito da un amico. Quando Timagene risponde che in questo caso la pietà sarebbe fuori discussione, Alessandro gli mostra la lettera incriminata. Timagene chiede pietà. Alessandro è pronto a perdonarlo se sarà fedele in futuro. Se ne va. Asbite/Poro viene a parlare con Timagene dell’imboscata progettata, ma Timagene non vuole più averci a che fare. Se ne va e Gandarte ed Erissena si recano da Poro. Erissena gli parla delle imminenti nozze di Cleofide con Alessandro. Poro se ne va. Erissena chiede a Gandarte di aiutare Poro. Tempio di Bacco con pira funeraria in fiamme. Alessandro e Cleofide entrano con il loro seguito. Alcune baccanti camminano davanti a loro e al sacerdote del tempio con torce accese. Poro osserva la scena da lontano. Quando Alessandro prende la mano di Cleofide, lei spiega che questa è l’ora della sua morte, non del suo matrimonio. Secondo l’usanza locale, una vedova deve seguire il marito nella morte. Vuole affrettarsi verso la pira ardente, ma viene trattenuta da Alessandro. Timagene porta con sé Gandarte, che crede ancora essere Poro, come prigioniero. Cleofide fa un altro tentativo di gettarsi tra le fiamme. Poro, incapace di sopportare la sua sofferenza, esce, si rivela e le chiede perdono. È pronto ad accettare qualsiasi punizione di Alessandro. Alessandro, però, perdona tutti e restituisce a Poro il suo regno, insieme alla moglie e alla libertà. In cambio, Poro ricompensa la fermezza di Gandarte con la mano di sua sorella Erissena e Alessandro gli regala la terra oltre il Gange. L’opera si conclude con un coro di lodi alla fama di Alessandro.

Alessandro nell’Indie si è rivelata l’opera più popolare del Metastasio dopo Artaserse. Entrambe hanno avuto luogo nell’intonazione di Leonardo Vinci durante la stagione del Carnevale 1730 a Roma. Tra le quasi novanta versioni ricordiamo quelle di Johann Adolph Hasse (eseguita con il nome di Cleofide a Dresda nel 1731), Luigi Gatti (Milano, 1768) e Giovanni Pacini (Napoli, 1824). Fu particolarmente ammirata la versione di Georg Friedrich Händel pubblicata a Londra nel 1731 con il titolo Poro, dove il castrato Senesino cantò il ruolo principale (2). In seguito fu rappresentata almeno 27 volte all’Opera Gänsemarkt di Amburgo con il titolo Triumph der Grossmuth und Treue, oder Cleofida, Königin von Indien (Trionfo della magnanimità e della fedeltà, ossia Cleofide regina delle Indie) come Singspiel con i recitativi tradotti in tedesco da Christoph Gottlieb Wend. Nel 1753 Metastasio ne creò una nuova versione abbreviata per il suo amico Farinelli.

Il libretto offre un tipico esempio della gerarchia dei ruoli in un’opera di quest’epoca: al vertice c’è il sovrano, qui il conquistatore Alessandro, poi la prima coppia di amanti, Cleofide e Poro. Una seconda coppia di amanti, Erissena e Gandarte, e il traditore Timagene sono secondari rispetto a queste figure. Ogni persona incarna un tratto caratteriale diverso: il magnanimo Alessandro si contrappone all’infido Timagene mentre le coppie si completano anche attraverso le loro caratteristiche contraddittorie, con il geloso Poro che si unisce alla fedele Cleofide e l’affidabile Gandarte alla volubile Erissena.

Mai più rappresentato dal 1740, al Bayreuth Baroque Opera Festival per questo italianissimo lavoro sono impegnati artisti di varia nazionalità mentre gli italiani li troviamo soltanto come autori delle scenografie e dei costumi. Questa produzione vede in scena cinque controtenori (Nicholas Tamagna, USA: Maayan Licht, Olanda; Franco Fagioli, Argentina; Jake Arditti, UK; Bruno de Sá, Brasile) e un tenore (Stefan Sbonnik, Germania) diretti da un sesto controtenore passato alla regia, il croato Max Emanuel Cenčić che, non potendo contare sulla drammaturgia, praticamente assente, di questo lavoro settecentesco, ne propone una affettuosa parodia. Con le scenografie di Domenico Franchi, che mescola gli interni del Brighton Pavilion con quelli da Mille e una notte, i meravigliosi costumi di Giuseppe Palella (anch’essi declinati sul Regency e le miniature Moghul) e le irresistibili coreografie di Sumon Rudra tra Bollywood e balletto classico con il suo all male cast, il risultato è uno spettacolo esilarante che manda in visibilio il pubblico che riempie il teatro margraviale.

Il primo atto porta all’estremo l’intento parodico: ogni aria è accompagnata da un balletto rappresentato su un piccolo palcoscenico per allietare il vincitore e il duetto che conclude il primo atto, già di per sé particolare in quanto riprende sarcasticamente il “giuramento” precedente degli amanti Poro e Cleofide, mette ancora più a nudo il gioco del teatro nel teatro diventando un duello vocale tra i cantanti, che nelle variazioni dei da capo inglobano i vocalizzi della Traviata e della Regina della notte per l’Erissena di Bruno de Sá da una parte e dall’altra le frasi del Duca di Rigoletto per l’Asbite/Poro di Fagioli. Il regista mette in scena un esilarante finale con un allegro bailamme in scena, compreso un enorme fallo dorato – il tempio di Khajuraho non è poi così distante… – e parrucche che volano. Due stralunati attori fungono sia da “didascalie” che da servi di scena mentre le numerose scene di battaglia vengono ironicamente coreografate. Nei tre atti si possono ammirare le invenzioni musicali del Vinci in una trentina di numeri musicali, arie solistiche soprattutto, ma anche due duetti e due cori. Nessuno dei cantanti principali viene privato dei suoi interventi solistici, solo Gandarte, Erissena e Timagene vedono una loro aria tagliata nell’ultimo atto. Opportunamente sforbiciati sono i recitativi, ciononostante la lunghezza dello spettacolo, con i due intervalli, supera abbondantemente le quattro ore, che però passano velocemente.

Alessandro ha a sua disposizione cinque arie create nell’originale del 1730 per il castrato Raffaele Signorini. Qui la voce è quella del sopranista Maayan Licht che sfoggia un timbro chiaro e luminoso, un ammirevole stile nelle agilità e grande senso ironico in un personaggio che il regista delinea in tutta la sua nonchalante regale superficialità. Cinque arie e due duetti per Cleofide, sulle tavole romane Giacinto Fontana detto il “Farfallino”, qui appannaggio di Bruno de Sá, soprano naturale, che oltre alle acrobazie sa però trovare anche il giusto tono patetico per il suo personaggio nella intensa «Digli ch’io son fedele | digli ch’è il mio tesoro» dalle note tenute realizzate in maniera esemplare, o il carattere tutto fuoco nell’aria di furore «Se il ciel mi divide | dal caro mio sposo».

Con le sue sette arie e due duetti è però Poro il personaggio principale di quest’opera, e il fatto che il destinatario della parte sia stato il mitico Carestini la dice tutta. Franco Fagioli qui ricrea l’entusiasmo suscitato nell’Artaserse, con l’aria «Senza procelle ancora | si perde quel nocchiero», mentre prima in «Se possono tanto | due luci vezzose» con violino obbligato aveva dimostrato le sue fenomenali capacità vocali, tanto che si crede che di più non si possa fare, ma poi arriva «Risveglia lo sdegno, | rammenta l’offesa» all’inizio del terzo atto e Fagioli supera sé stesso con note ribattute, escursioni nel registro basso e un tempo impetuoso. Ma non è finita: con la famosissima «Destrier, che all’armi usato | fuggì dal chiuso albergo» le acrobazie sono punteggiate da uno strumentale orchestrale che utilizza anche le nacchere per evidenziare il ritmo trascinante della danza.

Più lirica, ma non meno ricca di agilità vocali, la parte di Erissena, a suo tempo creata per Giuseppe Appiani, allievo di Porpora e giovanissimo contraltista allora debuttante in quest’opera. Con «Di rendermi la calma | prometti o speme infida» Jake Arditti delinea con efficacia il personaggio sfoggiando il suo particolare timbro vocale e una sicura tecnica. Quinto controtenore in scena è Nicholas Tamagna (Timagene), convincente anche se travestito da vecchio gibboso e libidinoso. Non ci si annoia certo con queste cinque vocalità in cui ognuno apporta la sua differente personalità. L’unica voce bassa è quella tenorile di Stefan Sbonnik (Gandarte) che non inizia al meglio, ma poi si siprende fino all’impeccabile resa di «Se viver non poss’io | lungi da te mio bene» che conquista il pubblico. Il tutto è reso possibile dalla direzione precisa e brillante di Martyna Pastuszka alla guida della {OH!} Orkiestra Historyczna, compagine che si dedica con entusiasmo e competenza al repertorio sei-settecentesco.

Con questo Alessandro nell’Indie Max Emanuel Cenčić, direttore artistico e produttore, replica quel miracolo di teatralità che fu l’Artaserse messo in scena dieci anni fa da Silviu Purcărete all’Opéra National de Lorraine e fa del Bayreuth Baroque Opera Festival uno degli appuntamenti più attesi dell’estate. Al festival sulla “collina sacra” la cittadina bavarese ha saputo affiancare anche questo particolare avvenimento, complementare e altrettanto prestigioso, sfruttando quel gioiello architettonico che tanto aveva ammirato Wagner stesso prima di farsi costruire il Festspielhaus.

Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta da Arte che lo ha reso ora disponibile alla visione in streaming.

(1) La storia dell’incontro di Alessandro Magno con il re indiano Poro e della battaglia dell’Idaspe è stata tramandata da diverse fonti storiche. Tra queste il quinto libro dell’Anabasi dello storico Alessandro Arriano; l’estratto di Giustino dal dodicesimo libro delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo e il capitolo su Alessandro delle Vitae parallelae di Plutarco. Metastasio ha potuto attingere anche ad alcune fonti a lui più recenti come la commedia Porus ou La générosité d’Alexandre di Claude Boyer, pubblicata nel 1648, o la tragicommedia Alexandre le grand di Jean Racine del 1665. In entrambi i casi, e come in quello di Metastasio, alla trama vera e propria si sovrappongono le solite vicende amorose. Ancora maggiori sono le analogie con L’amante eroe di Domenico David del 1691, rappresentato a Venezia con musica di Marc’Antonio Ziani. David aveva già fornito il modello per il primo libretto di Metastasio, Siface re di Numidia del 1723.

(2) Prima ancora Händel aveva scritto nel 1726 un Alessandro, lepida vicenda di amori e gelosie ambientati anch’essi in India, nella cui produzione all’Opéra Royal di Versailles era stato protagonista lo stesso Cenčić.

   

Davide e Gionata

Julius Kronberg, David and Saul, 1885

Marco Emanuele, Davide e Gionata

Torino, Polo del Novecento, 28 giugno 2022

La prima opera gay in italiano

Le forti amicizie virili non sono mai mancate nei melodrammi: pensiamo ad Achille e Patroclo nell’Iphigénie en Aulide, o ancor di più Oreste e Pilade nell’Iphigénie en Tauride di Gluck; Zurga e Nadir ne Les pêcheurs de perles di Bizet; Dalibor e Zdenek nel Dalibor di Smetana; Carlo e Rodrigo nel Don Carlos di Verdi… Sul tema dell’amore omosessuale quale soggetto principale della vicenda ricordiamo invece il recente Lessons in Love and Violence (2019) di George Benjamin tratto dall’Edward II di Christopher Marlowe. E proprio col titolo Edward II ci sono anche il lavoro di Francesco Cilluffo del 2006 e quello di Andrea Lorenzo Scartazzini, Deutsche Oper 2017. Un caso a sé sarebbe poi quello delle opere di Benjamin Britten.

Nel lontano 1688 fu rappresentata a Parigi la “tragédie biblique” David et Jonathas di Marc-Antoine Charpentier. Ora, sullo stesso soggetto Marco Emanuele presenta la sua ultima opera, Davide e Gionata, che può essere considerata la prima opera a soggetto GLBTQ scritta in italiano. L’occasione è la giornata di approfondimento al Polo del Novecento sul movimento omosessuali credenti a cinquant’anni dalla nascita a Torino del F.U.O.R.I.

Su libretto dello stesso compositore, che vi ha inserito versi di altri autori (1), quest’ultimo lavoro di Emanuele ha a modello, così come era successo con la sua precedente Mirra, l’opera belcantistica di primo Ottocento con recitativi, pezzi chiusi, cabalette, strette e concertati, qui con in più qualche incursione nel Settecento di Vivaldi e nel Novecento di Piazzolla.

Due giovani si amano, ma il loro amore è osteggiato dal padre. Quante storie come questa si incontrano nel melodramma, ma qui i due giovani sono dello stesso sesso e per la prima volta i versi sono del tutto espliciti: «Amo te solo | te solo amai; | tu fosti il primo | tu pur sarai | l’ultimo oggetto | che adorerò». La vicenda è liberamente tratta dagli episodi biblici del Primo libro di Samuele.

Atto I. Il re Saul, un tempo amato, ha perso la fiducia del popolo. Ha esiliato Davide, intimo di suo figlio Gionata. Costretto a sposarsi, questi vive sotto il controllo del padre, che nella prima scena si consulta con il capo delle guardie, preoccupato dalla tristezza del figlio: teme che non possa essere lui il suo successore. Su indicazione di Abner vuole presentargli un’indovina, che farà rinascere virilità e coraggio in lui. Gionata accetta, per non deluderlo, ma pensa ancora a Davide. Davide torna di nascosto nei pressi del palazzo. Sente che è arrivato il momento di non nascondere l’amore per Gionata. Sorpreso da Abner, lo informa del fatto che i Filistei stanno per attaccare. Nonostante il servizio reso alla comunità, Abner lo tratta con sarcasmo e gli dice che ormai Gionata si dedica a moglie e figli. Davide pensa di essere stato dimenticato. Abner informa Saul del ritorno di Davide. In preda a follia, Saul minaccia di uccidere il pastore, possibile rivale politico. Gionata lascia il palazzo, attirato da una forza a cui non può resistere, e va nel deserto. Davide ha raggiunto l’accampamento d’Israele e all’alba intona un saluto alla natura. Ha sognato di riavvicinarsi a Gionata e gli sembra di sentire la sua voce: ma è proprio lui! È il momento di dichiararsi amore reciproco. Nulla potrà separare i due amanti.
Atto II. Per evitare la vergogna ed eliminare un rivale politico, Saul vuole uccidere Davide. Chiede ad Abner di occuparsene. Meglio affidargli la guida dell’esercito e farlo uccidere da mano amica, gli consiglia il militare, promettendo una risoluzione felice della vicenda. Abner raggiunge l’accampamento per comunicare a Davide che è stato nominato capo dell’esercito. Gionata non si fida del tutto, ma spera che suo padre possa essere davvero cambiato. Nella tenda Saul sogna di rivolgersi a Davide, accusandolo di rubargli il figlio. Gionata lo ascolta e ha un gesto di tenerezza nei confronti del padre fragile e invecchiato. Ma Saul si risveglia e lo caccia con parole violente. All’accampamento, Gionata mette in guardia Davide, che non lo ascolta e vuole combattere. Allora Gionata gli chiede di scambiarsi le armature prima di andare in battaglia. Durante lo scontro Gionata muore, colpito dallo stesso Saul, convinto di uccidere Davide. Quando si rende conto di quello che è successo, il re è disperato: tutto è finito.

Particolare la scelta delle voci, come spiega lo stesso Emanuele: «Per i due protagonisti ho pensato a voci dal timbro chiaro, diverse per estensione: due controtenori, dei quali uno canta più in registro sopranile (il più giovane, Davide) e uno in registro da contralto (Gionata). Questo per richiamare l’opera barocca, in cui gli eroi sono interpretati dai castrati, e per richiamare il belcanto italiano e l’opera seria di Rossini, in cui gli innamorati sono spesso una coppia di voci femminili (soprano/contralto). Se Abner è il tradizionale cattivo, il basso vilain, come Assur nella Semiramide di Rossini, per il re Saul […] ho pensato a una cantante donna che canta e recita en travesti». La scelta dei registri ha anche altre più profonde implicazioni: «I miei modelli non sono tanto i giovani eroi del melodramma rossiniano, ma alcune grandi attrici del teatro di prosa, come Sarah Bernhardt, che hanno interpretato parti maschili come Amleto, Werther o Lorenzaccio. Ma soprattutto vorrei rompere con la tradizione di voci maschili che interpretano personaggi di potere e anziani, cioè vorrei decostruire la figura del Padre tipica delle opere di Giuseppe Verdi. Il registro acuto del personaggio maschile del padre di Gionata, il re Saul, permetterebbe di assegnare il personaggio allo stesso cantante – o alla stessa cantante – che interpreta il personaggio di Davide, o comunque di creare una specie di rispecchiamento: tra l’altro i due personaggi non si incontrano mai in scena. L’idea è quella di creare un cortocircuito: sono in un certo senso due rivali, uno ombra dell’altro. La sovrapposizione delle figure dell’amante e del Padre allude al triangolo delle relazioni affettive: Gionata è innamorato del Padre, oltre che di Davide; e “muore”, in senso reale e simbolico, per dimostrare a entrambi e a sé stesso di essere all’altezza della mascolinità normativa».

Quattro le voci e otto gli strumenti: flauto, clarinetto, due violini, violoncello, clavicembalo e fisarmonica,  diretti con precisione e senso della musica dal maestro Simone Lattes. Ed è la fisarmonica a farsi sentire per prima nella Sinfonia con un mi grave tenuto per ben ventidue battute sotto gli svolazzi del violoncello, poi dei violini e dei legni in un Presto che introduce alla prima scena dove in un recitativo il personaggio di Abner commenta fra sé il comportamento del re Saul in preghiera nella grotta della Pitonessa. Nel duetto che segue abbiamo le voci estreme del basso Giuseppe Gerardi, voce di grande proiezione che avrebbe però  bisogno di un maggior controllo per essere più efficace, e del soprano Marina Degrassi, nell’impegnativo ruolo del re disorientato dalle inclinazioni amorose del figlio inutilmente accasato e con prole. I venti numeri musicali dei due atti in cui è diviso il lavoro, anche se non costruiscono una vera e drammatica tensione narrativa, costituiscono una varietà di momenti musicali ognuno caratterizzato da uno stile musicale suo proprio. È il caso ad esempio della cavatina rossiniana di Davide, il giovane controtenore Luca Parolin («No, non vedrete mai | cambiar gli affetti miei») o della “canzone” con cui Davide «esce dalla tenda e saluta il risveglio della natura cantando e accompagnandosi con il salterio» («Cantate al mio gioir, onde correnti»).

In un’opera da camera come questa, che fa l’occhiolino alla grande opera seria settecentesca, non poteva mancare la classica aria “di tempesta” «Fra l’orror della tempesta | che alle stelle il volto imbruna» (il cui testo ricorda l’aria di Arbace nell’Artaserse di Vinci «Vo solcando un mar crudele | senza vele e senza sarte | freme l’onda, il ciel s’imbruna»), ma qui inopinatamente la musica è quella di un tango con tanto di fisarmonica che rifà il bandoneón di Piazzolla!

La scena quinta del secondo atto è la più toccante: il vecchio re Saul nel dormiveglia e in preda a visioni è osservato con tenerezza dal figlio Gionata, che non riesce a cancellare l’amore per il padre nonostante che egli voglia ostacolare il suo per Davide. E qui ascoltiamo il controtenore Angelo Galeano, già ammirato nella Mirra, intonare con grande sensibilità, ottimo fraseggio e varietà di colori l’aria “del sonno” «Mentre dormi, Amor fomenti | il piacer de’ sonni tuoi» su versi del Metastasio e già intonata da Licida nell’Olimpiade di Vivaldi e poi di Pergolesi. Affidati a Saul sono i due ultimi numeri di Davide e Gionata: l’aria “di follia” «Ah! L’aria d’intorno | lampeggia, sfavilla: | ondeggia, vacilla | l’infido terren» che echeggia gli esametri dell’analoga aria del Saul di Felice Romani («Il fato è compiuto… | ho tutto perduto… | squallor mi circonda | spavento, terror») e il lamento finale «Ah che nel dirti addio | mi sento il cor dividere, | parte del sangue mio, | viscere del mio sen», quando Saul riconosce nel cadavere il figlio ucciso nella convinzione si trattasse di Davide.

Così si conclude l’opera di Marco Emanuele che auspico possa trovare prima o poi una realizzazione scenica dopo quest’esecuzione in forma di concerto. La cura e la passione messe in questa partitura, l’attenta strumentazione, il gusto del pastiche e il piacere all’ascolto che ne deriva lo meriterebbero. E così credo l’abbia pensato anche il folto pubblico che ha applaudito con molto calore gli artefici dell’esecuzione e l’autore.

(1) Metastasio (vari libretti); Felice Romani (Saul); Stefano Landi (La morte di Orfeo) per l’aria di Davide (I, 5); Carlo Goldoni (Il quartiere fortunato, che Marco Emanuele ha messo in musica come opera da camera in un atto) per l’aria di Abner (II, 1); Luis Cernuda (Placeres Prohibidos) per l’aria di Gionata (II, 8); Giovanni Testori (Quanto è giusta la morte) per la scena finale.

L’isola disabitata

Franz Joseph Haydn, L’isola disabitata

★★★☆☆

Ravenna, Teatro Alighieri, 23 ottobre 2021

(diretta streaming)

L’Isola di Haydn a Ravenna

L’isola disabitata viene rappresentata a Esterháza il 6 dicembre 1779. Il libretto di questa «azione teatrale in due parti» – l’unico testo di Metastasio musicato da Haydn e basato su L’infedeltà fedele di Giambattista Lorenzi – era stato precedentemente intonato da Giuseppe Bonno nel 1754 e sarà in seguito utilizzato da Manuel García nel 1820 e da Nino Rota nel 1931. Con lo stesso titolo è il dramma giocoso per musica di Polisseno Fegeio (nome àrcade di Carlo Goldoni) presentato al Teatro Grimani di Venezia nell’autunno 1757 con musica di Giuseppe Scarlatti. Lì i personaggi erano una «giovane chinese» e un ammiraglio olandese «in un’isola del mare di Kamtkatkà nella China».

Antefatto. «Navigava il giovane Gernando co’ la sua giovanetta sposa Costanza e con la piccola Silvia ancora infante, di lei sorella, per raggiungere nell’Indie Occidentali il suo genitore, a cui era commesso il governo di una parte di quelle; quando da una lunga e pericolosa tempesta fu costretto a discendere in un’isola disabitata per dar agio alla bambina ed alla sposa di ristorarsi in terra delle agitazioni del mare. Mentre queste placidamente riposavano in una nascosta grotta, che loro offerse comodo ed opportuno ricetto, l’infelice Gernando con alcuni de’ suoi seguaci fu sorpreso, rapito e fatto schiavo da una numerosa schiera di pirati barbari, che ivi sventuratamente capitarono. I suoi compagni, che videro dalla nave confusamente il tumulto, e crederono rapite con Gernando la bambina e la sposa, si diedero ad inseguire i predatori; ma, perduta in poco tempo la traccia, ripresero il loro interrotto cammino. Desta la sventurata Costanza, dopo aver cercato lungamente invano lo sposo e la nave che l’avea colà condotta, si credé, come Arianna, tradita ed abbandonata dal suo Gernando. Quando i primi impeti del suo disperato dolore cominciarono a dar luogo al naturale amor della vita, si rivolse ella, come saggia, a cercar le vie di conservarsi in quell’abbandonata segregazion de’ viventi; ed ivi dell’erbe e delle frutte, onde abbondava il terreno, si andò lunghissimo tempo sostenendo con la picciola Silvia, ed inspirando l’odio e l’orrore da lei concepito contro tutti gli uomini all’innocente che non li conosceva. Dopo tredici anni di schiavitù, riuscì a Gernando di liberarsi. La prima sua cura fu di tornare a quell’isola, dove aveva involontariamente abbandonata Costanza, benché senz’alcuna speranza di ritrovarla in vita».
Parte prima. Costanza e la sorella minore, Silvia, si trovano in un’isola disabitata, convinte di essere state abbandonate da Gernando, marito della maggiore. Costanza, che ha allevato Silvia mettendola in guardia contro gli uomini, sta incidendo su una roccia un’iscrizione nella quale chiede vendetta al viandante nei confronti di Gernando. Dopo aver ritrovato la sua fedele cerva che si era allontanata, Silvia, piena di entusiasmo, raggiunge la sorella e Costanza, nell’ammirare le semplici gioie della giovane, rinnova il proprio dolore per il presunto tradimento subìto ed esprime nostalgia per il mondo da lei abbandonato e che Silvia non ha mai potuto conoscere. Rimasta sola, Silvia vede arrivare dal mare una nave. Mentre si chiede se sia un mostro marino, vede delle figure sulla spiaggia. Sono Gernando ed Enrico, giunti sull’isola per cercare Costanza e Silvia, dopo che Gernando ha scontato una prigionia di tredici anni. Silvia si domanda se siano uomini quei due viventi che non sembrano avere l’aspetto feroce da cui Costanza l’ha sempre messa in guardia. Si propone di andare ad avvisare la sorella, ma viene trattenuta da uno sconosciuto sentimento verso uno dei due uomini.
Parte seconda. Gernando si accorge dell’iscrizione che Costanza aveva iniziato ad incidere e teme che la sua sposa sia morta. Chiede a Enrico di lasciarlo morire sull’isola e di andare ad avvisare suo padre dell’accaduto. Enrico non gli ubbidisce, ma ordina ai marinai di rapire lo sposo infelice per riportarlo a casa. Subito dopo incontra Silvia e, nonostante lo spavento della ragazza, Enrico le conferma di essere un uomo e di aver accompagnato Gernando in cerca delle due donne. Le spiega che Gernando non ha abbandonato la sposa, ma è stato rapito dai pirati mentre Costanza e Silvia riposavano in una grotta. Una volta confidato il sentimento di attrazione reciproca che li lega, i due si lasciano con l’intento di rivedersi, non prima di aver avvisato Gernando e Costanza l’uno del fatto che la sua sposa non
è morta e l’altra del ritorno dello sposo rimastole fedele. Costanza torna alla roccia, vi trova Gernando e sviene. Gernando va in cerca di acqua e viene rapito dai marinai. Anche Enrico giunge alla roccia e trova Costanza che a poco a poco rinviene. Enrico le spiega l’accaduto e la donna si mette in cerca dello sposo. Silvia la avverte del rapimento, ma Enrico interviene ricordando che è stato lui a ordinare ai marinai di portarlo sulla nave per distoglierlo dalla sua intenzione di lasciarsi morire. Gernando in realtà è sfuggito ai marinai, raggiunge Enrico e le due donne e abbraccia Costanza. Riuniti i due sposi, Enrico chiede a Silvia di convolare a nozze e le due coppie festeggiano la loro felicità.

L’opera di Haydn risente dell’influenza di quelle di Gluck – l’Orfeo e l’Alceste sono del 1762 e 1767 ripettivamente – nel trattamento del continuo musicale, che lega l’ouverture senza soluzione di continuità all’inizio dell’opera, e per i recitativi accompagnati utilizzati per tutto il lavoro. La partitura risente della destinazione dell’opera: una ristretta corte aristocratica alloggiata in un palazzo sperduto tra Austria e Ungheria a cui erano destinati intrattenimenti raffinati ma dall’orizzonte ristretto. La musica di Haydn rispondeva pienamente a queste richieste con opere spensierate ed elegantemente costruite. L’orchestra qui è sempre in primo piano sia che si tratti dell’ouverture agitata da un impulso Sturm und Drang, sia dei recitativi accompagnati. Nelle arie, che sono senza particolari abbellimenti le voci hanno un carattere quasi strumentale e non richiedono particolari agilità. I due personaggi femminili hanno due arie ciscuna a disposizione, quelli maschili solo una e tutte le voci si uniscono nel festoso quartetto finale.

Coprodotta con l’opera di Digione, l’operina di Haydn – la durata è poco più di un’ora – è sulla scena del teatro ravennate diretta da Nicola Valentini alla testa del Dolce Concento Ensemble. Il giovane direttore riesce a ben maneggiare i contrasti dinamici e sonori dell’ouverture anche se la compagine orchestrale non brilla per una particolare bellezza del suono e accusa qualche incertezza nelle parti solistiche, ma nel complesso evita il naufragio sull’Isola disabitata. Delle quattro voci in scena si stacca decisamente quella di Giuseppina Bridelli che per intensità espressiva riesce a fare di Costanza un personaggio tutt’altro che lagnoso, ma composto e austero. Particolarmente belli gli acuti con cui dà sfogo a un dolore pieno di dignità. La sorellina Silvia ha in Anna Maria Sarra un’interprete non esaltante per timbro e tecnica vocale. Il tenore Krystian Adam e il basso Christian Senn delineano con efficacia i due amici Gernando ed Enrico.

La semplice messa in scena è affidata alla coppia di artisti che hanno creato la compagnia Fanny & Alexander, ossia Luigi de Angelis che si occupa di regia, scene, luci, video e Chiara Lagani per drammaturgia e costumi. Una specia di tenda a lamelle forma il mosso fondale e fa da schermo alle proiezioni alle vedute di Ravenna e dell’isola di Marettimo. L’isola più occidentale delle Egadi è stata scelta per la sua natura selvaggia che manca totalmente in scena dove vediamo solo un divano moderno e un sasso. L’astrazione della scena contrasta con i costumi delle interpreti femminili che sembrano pronte per una serata in discoteca – lustrini, minigonne – più che per uno scampato naufragio. Il libretto le vorrebbe «vestite a capriccio di pelli, di fronde e di fiori», qui i tessuti hanno motivi animalier e le scarpe col tacco a spillo sono coperte di pelliccia. Più convincenti le tele cerate da balenieri che vestono i due maschi invece dell’«abito indiano» delle didascalie.

Per il finale i quattro cantanti scendono in platea vestiti da sera per intonare il trionfale quartetto che conclude degnamente la composta esecuzione.


Artaserse

Johann Adolph Hasse, Artaserse

Sydney, City Recital Hall, 7 dicembre 2018

(registrazione audio)

Teatro barocco in Australia

Che si debba andare agli antipodi per assistere a spettacoli di teatro musicale italiano del Seicento e Settecento è una delle tante stranezze del mondo dell’opera.

A Sydney la Pinchgut Opera, compagnia d’opera da camera nata nel 2002, presenta ogni anno titoli barocchi con un’orchestra di strumenti d’epoca, opportunamente chiamata Orchestra of the Antipodes, e un cast di interpreti specializzati in questo repertorio. Ci sono stati quindi Monteverdi (L’Orfeo, 2004; L’incoronazione di Poppea, 2017; Il ritorno di Ulisse in patria, 2019), Cavalli (Ormindo, 2009; Giasone, 2013), Purcell (The Fairy Queen, 2003), ma anche Charpentier (David et Jonathan, 2008), Rameau (Dardanus, 2005; Castor et Pollux, 2012; Anacréon et Pigmalion, 2017), Grétry (L’amant jaloux, 2015) e ovviamente Händel (Semele, 2002; Theodora, 2016; Athalia, 2018), Vivaldi (Juditha triumphans, 2007; Griselda, 2011; Bajazet, 2015; Farnace, 2019), il giovane Mozart (Idomeneo, 2006), Haydn (L’anima del filosofo, 2010; Armida, 2016), Salieri (Lo spazzacamino, 2014) e Gluck (Iphigénie en Tauride, 2014).

Nel 2018 è la volta di Hasse con il suo Artaserse (1730, Venezia), uno dei lavori più conosciuti del compositore italo-tedesco, nella versione di Dresda di dieci anni dopo ma con molti tagli. La drastica riduzione dei recitativi può essere dettata dal fatto che la lingua è sconosciuta in quelle lande, ma così si perdono elementi essenziali del lavoro di Metastasio, come il quasi svelamento dell’assassinio di Serse nel primo atto, un momento culminante della vicenda:

Artabano – Ma il nome?
Semira – Ogn’un lo tace, | abbassa ogn’uno a mie richieste il ciglio.
Mandane – (Ah fosse Arbace!)
Artabano – (È prigioniero il figlio?)
Artaserse – Dunque un empio son io! Dunque Artaserse | salir dovrà sul trono d’un innocente sangue ancora immondo, | orribile alla Persia, in odio al mondo.
Semira – Forse Dario morì?
Artaserse – Morì Semira. | Lo scellerato cenno uscì da i labbri miei. Fin ch’io respiri | più pace non avrò. Del mio rimorso | la voce ogn’or mi suonerà nel core.
Mandane – Troppo eccede, Artaserse, il tuo dolore. | L’involontario errore | o non è colpa o è lieve.
Semira – Abbia il tuo sdegno | un oggetto più giusto. In faccia al mondo | giustifica te stesso | colla strage del reo.

Qui è tutto tagliato! Come poco dopo nella scena undicesima il breve e attonito istante:

Artaserse – L’amico!
Artabano – Il figlio!
Semira – Il mio german!
Mandane – L’amante!

Ancora meno comprensibile l’omissione delle arie di Artabano («Su le sponde del torbido Lete»), Arbace («Lascia cadermi in volto»), Mandane («Mi credi spietata”), Semira («Non è ver, che sia contento»). Altre sono prive del da capo e intere scene tagliate. Nella direzione senza particolari raffinatezze, a tratti furiosa, di Erin Helyard è il ritmo più che il colore strumentale o l’eleganza melodica a dominare: le selvagge strappate degli archi e i pesanti accompagnamenti lasciano poco spazio alle sottigliezze e alla cantabilità “italiana” della partitura.

Nel ruolo eponimo il tenore Andrew Goodwin ha una vocalità con asprezze soprattutto negli acuti, per non dire della dizione. Perfetta stilista, Vivica Genaux (Mandane) compensa il timbro un po’ metallico con una tecnica superlativa. Nell’impervia aria che conclude il primo atto («Che pena al mio core») dimostra un agio prodigioso, ma è dopo che lascia stupefatti in «Se d’un amor tiranno», undici minuti di espressive colorature in cui il personaggio estrinseca tutti i suoi dubbi e tormenti: «lasciami nell’inganno, | lasciami lusingar, | che più non amo». Carlo Vistoli è Artabano, uno dei caratteri più complessi: in «Non ti son padre» i salti di registro e le raffinate variazioni rivelano la grande maturità dell’interprete che rifulge ancora in «Pallido il sole», finale atto II. Tutto il pubblico è però per l’eroe di casa, David Hansen (Arbace) e gli perdona i suoni artificiali e intubati, l’intonazione talora fantasiosa. Ma in «Parto qual pastorello» il controtenore australiano fa sfoggio di una esibizione di agilità che fa ricordare quanto originariamente la parte fosse stata scritta per il Farinelli. Sgradevole voce chioccia è quella di Emily Edmons (Semira), efficace Russell Harcourt (Megabise), il terzo controtenore.

Ambientato in epoca edoardiana con le belle scene di Charles Davis, la regia di Chas Rader-Shieber non ha entusiasmato la critica. Scrive Justine Nguyen di “Limelight”: «I valori musicali sono alti, quindi è un peccato che elementi così promettenti vengano delusi da una produzione poco convinta che fa poco per approfondire il dramma. Artaserse è un’opera innegabilmente statica ricca di arie con da capo che il regista deve trovare il modo di animare al meglio in modo organico. In questo caso Chas Rader-Shieber e ha adottato un approccio sconcertante. Ci sono registi che sanno come rendere convincenti anche i cantanti più inerti sul palco, ma Rader-Shieber non sembra essere un tipo così raro. L’impressione costante è che troppo poco tempo sia stato speso sui personaggi e sulla scenografia, il che significa che la maggior parte di loro si impegna a fare gesti di maniera: irrompere attraverso le porte, crollare sulle sedie e picchiare sui muri invece di muoversi con un intendimento drammaturgico. […]. Una mano registica più ferma sarebbe stata di grande beneficio».

Didone abbandonata

Saverio Mercadante, Didone abbandonata

★★★☆☆

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 10 agosto 2018

(registrazione video)

L’ultima Didone

Ci si chiede quando finisca il barocco in musica se un festival che fa di quel repertorio la sua ragion d’essere mette in scena un’opera del 1823?

Il fatto è che in quello stesso anno in cui al Teatro Regio di Torino il 18 gennaio veniva presentata la Didone abbandonata di Saverio Mercadante, due settimane dopo alla Fenice di Venezia con la sua Semiramide Rossini metteva il sigillo alla gloriosa stagione dell’opera seria settecentesca.

Ecco allora la motivazione per cui alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik c’è posto anche per quel compositore che si colloca all’interno di un’estetica neoclassica, propiziata dalla restaurazione (borbonica nel caso della sua città, Napoli), cui in parte si può collegare anche la Didone abbandonata, il cui libretto è la revisione di Andrea Leone Tottola del testo del poeta cesareo per eccellenza, quel Pietro Metastasio a cui sono ricorsi massicciamente tutti i compositori del XVIII secolo. E non sarà l’ultima volta: Mercadante intonerà anche il suo Ezio (Torino, 1827) e l’Adriano in Siria (Lisbona, 1828), mentre per Ipermestra userà l’adattamento del Ricciuti (Napoli, 1825).

«Non era questa una stravaganza, nel primo Ottocento: i testi metastasiani non hanno mai cessato di ispirare i musicisti, e in particolare nel decennio 1820-30 assistiamo a un rifiorire di Semiramidi, Didoni, Ruggieri, specialmente nei teatri controllati da regnanti attenti a una politica culturale reazionaria (Torino, Modena, Napoli). Metastasio scrisse Didone un secolo prima che Mercadante accettasse di intonarne nuovamente i versi, sulle orme di decine di musicisti (gli ultimi, già all’alba dell’Ottocento, erano stati Fioravanti e Paër): un po’ come se oggi Luciano Berio componesse una Fedora o un’Adriana Lecouvreur cercando di rispettare il più possibile il libretto originale. Infatti i libretti metastasiani musicati nell’Ottocento sono sì rielaborati, nel senso che presentano duetti, concertati, arie pluripartite, ma i versi di Metastasio sono sempre mantenuti, laddove è possibile. La Didone musicata da Mercadante ha quindi la forma di un’opera rossiniana, con l’introduzione (solisti e coro), le cavatine e cabalette di sortita per ognuno dei tre personaggi principali (Didone, Enea, Iarba), i duetti, un concertato interno (il terzetto dell’atto terzo), il finale primo come momento culminante della tensione drammatica, la quale poi si stempera nei tre ‘rondò di bravura’ assegnati ai protagonisti nel secondo atto. Però l’intreccio originale è conservato (gli atti da tre divengono due), i recitativi (quasi sempre semplici) anche, sebbene siano un po’ tagliati. Il testo del finale primo cerca di inanellare il massimo possibile di citazioni testuali metastasiane e i personaggi declamano, un po’ alla rinfusa, i versi più celebri dell’originale. […] Insomma, un Metastasio letto al ritmo indiavolato del finale primo dell’Italiana in Algeri .[…] La sua Didone assomiglia a un’opera non napoletana di Rossini; lo stile è quello belcantistico di Semiramide, la parte di Enea è scritta per un contralto en travesti, quasi tutti i pezzi sono in tre o quattro sezioni. Nella lunga scena finale della primadonna, un vero tour de force, le colorature vertiginose dipingono la disperazione della regina come in una scena di pazzia. È una scelta musicale e drammaturgica diversa dallo scabro finale metastasiano (che prevedeva un semplice recitativo), ma non meno coerente. Il coro che segue riprende implacabile la melodia che aveva aperto l’opera, segno del compiersi di una tragedia annunciata». (Marco Emanuele)

Ecco nelle parole del librettista il noto argomento. Didone, vedova di Sicheo, dopo esserle stato ucciso il marito da Pigmalione suo fratello, Re di Tiro, fuggì con immense ricchezze in Africa, dove, comperato sufficiente terreno, edificò Cartagine. Fu ivi richiesta in moglie da molti, e particolarmente da Jarba, Re de’ Mori, e sempre ricusò, dicendo, voler serbar fede alle ceneri dell’estinto consorte. Intanto Enea, trojano, essendo distrutta la sua patria dai Greci, mentre andava in Italia, fu portato da una tempesta sulle sponde dell’Africa, e ricevuto da Didone, la quale ardentemente se ne invaghì. Ma mentre egli, compiacendosi dell’affetto della medesima, si tratteneva in Cartagine, gli fu dagli Dei comandato, che abbandonasse quel cielo, e che proseguisse il suo cammino verso l’Italia, dove gli promettevano, che doveva risorgere una nuova Troja. Egli partì, e Didone disperatamente, dopo avere invano tentato di trattenerlo, si uccise. Tutto ciò si ha da Virgilio, il quale, con un felice anacronismo, unisce il tempo della fondazione di Cartagine agli errori di Enea. Da Ovidio, nel terzo Libro de’ Fasti, si raccoglie che Jarba s’impadronì di Cartagine dopo la morte di Didone, e che Anna , sorella della medesima (la quale sarà nel Dramma chiamata Selene) fosse occultamente anch’essa invaghita di Enea: per comodità della rappresentazione si finge che Jarba, curioso di vedere Didone, s’introduca in Cartagine, come ambasciatore di sé stesso, sotto nome d’Arbace.

Fin dalla sinfonia si sente l’influsso innegabile di Rossini, compreso il tipico crescendo con le note saltellanti dei legni, che qui sono veramente di legno nell’orchestra storicamente informata dell’Academia Montis Regalis. IL suo direttore Alessandro De Marchi adotta un diapason a 430 Hz per concertare come sempre con felice stile e verve questo dimenticato lavoro nella revisione critica di Paolo Cascio. A parte qualche imperfezione degli ottoni, il colore e la trasparenza dello strumentale sono l’ideale per accompagnare le voci dei cantanti, se non che qui  abbiamo un cast non sempre adeguato, a partire da Viktorija Miškūnaité, una Didone dalla voce estremamente leggera e sottile e dall’incerta intonazione soprattutto negli acuti. Katrin Wundsam è Enea, timbro non gradevole che non sprizza molta empatia. Carlo Vincenzo Allemano è uno Jarba grossolano e  omette le note acute: non è una parte per lui. Pietro Di Bianco è un Osmida dal particolare timbro scuro e dalle agilità un po’ difficoltose. Parte superiore alle sue forze anche quella di Araspe per Diego Godoy. Meglio Emilie Renard, una Selene espressiva e precisa. Coro tutto al maschile il Maghini istruito da Claudio Chiavazza.

Messa in scena sgangherata quella di Jürgen Flimm, che sembra voglia trattare con ironia la vicenda, ma le sue intenzioni non sono chiare e ogni interprete si costruisce un modo recitativo tutto suo senza pensare all’insieme. La scenografia di Magdalena Gut consiste della solita piattaforma rotante, qui sollevata, con sopra una quantità eterogenea di oggetti: un frigorifero, una scrivania impero, un ventilatore, un salotto in cuoio, valigie, delle barche, una betoniera rossa, mattoni di plastica trasparente, strutture di ferro tubolare per piloni di calcestruzzo (Cartagine in costruzione?), una specie di torre. I costumi, raffazzonati anch’essi, di Kristina Bell suggeriscono un passato coloniale tra le due guerre.

Nel finale Jarba stupra Selene e compie varie altre nefandezze che terminano in un massacro di tutti i presenti, nessuno escluso, tra i fumi della città in rovina: «Si distrugga Cartago, e non vi resti | orma d’abitator che la calpesti […] e ignota al passaggiero | Cartagine sarà». L’aveva cantato poco prima, d’altronde.

Siroe

foto © Alciro Theodoro da Silva

Georg Friedrich Händel, Siroe

★★★

Göttingen, Deutsches Theater, 10 maggio 2013

(registrazione video)

Tragedia in interno borghese

Siroe, re di Persia (HWV 24) di Händel è una delle intonazioni più famose del libretto di Metastasio. La sera del 17 febbraio 1728 fu la prima di 18 rappresentazioni nella stagione. Nel cast svettavano stelle di prima grandezza dell’epoca: il Senesino (Siroe), il basso Giuseppe Maria Boschi (Cosroe), il castrato contralto Antonio Baldi (Medarse), le primedonne Faustina Bordoni e Francesca Cuzzoni (Emira e Laodice) e il basso Giovanni Battista Palmerini (Arasse). Siroe è il primo dei tre drammi metastasiani intonati dal compositore di Halle, gli altri due essendo Poro ed Ezio, oltre a quattro pasticci. Händel non era particolarmente attratto dai testi del poeta cesareo troppo letterari e rigidi per un compositore che si voleva riservare la possibilità di piegare i versi alle sue esigenze musicali, ma Metastasio era molto rinomato anche a Londra ed era opportuno non perdersi l’occasione di presentare alla Royal Academy un suo lavoro. Che poi il libretto fosse già stato messo in musica da Vinci, Porta, Porpora, Sarro e Vivaldi non costituiva un problema per le consuetudini del tempo, anzi era una garanzia di successo.

Atto I. In combattimento il Re di Persia Cosroe ha ucciso Asbite, Re di Cambaya. La figlia di quest’ultimo, Emira, volendo vendicare il padre, si insinua nella corte di Cosroe in vesti maschili col nome di Idaspe. Solo Siroe, primogenito di Cosroe ed innamorato di Emira/Idaspe, sa dell’inganno. Il re di Persia intanto deve scegliere, tra Siroe ed il secondogenito Medarse, chi salirà al trono: tra i due sembra prevalere il furbo Medarse a discapito del buon Siroe, che si ritiene offeso dalla decisione paterna. Emira/Idaspe vuol coinvolgere Siroe nei suoi piani di vendetta, lui però rifiuta. Emira allora respinge l’amore del giovane persiano e fa credere a Laodice, amata da Cosroe, e figlia del suo generale Arasse, ma a sua volta innamorata di Siroe, che anche quest’ultimo sia innamorato di lei. Quando poi Siroe smentisce, Laodice si rivolge a Cosroe capovolgendo i fatti: racconta infatti al Re che Siroe gli è rivale ed ha cercato di sedurla. Casualmente Siroe, mentre è nascosto nelle stanze di Cosroe perché nel frattempo vi si era introdotto per lasciare un messaggio anonimo che mettesse in guardia il Re del pericolo di morte che stava correndo, sente le parole di Laodice e quelle di Medarse che lo accusano di tradimento: esce quindi allo scoperto, facendo cadere le accuse contro di lui.
Atto II. Siroe è indeciso: da un lato perdona Laodice, ma vorrebbe che lei dimenticasse il suo amore per lui, dall’altro è dilaniato fra il ruolo di amante di Emira/Idaspe e di figlio del Re. In un momento di sconforto estrae la spada per uccidersi: in quel mentre entra Cosroe che interpreta il gesto come un attentato alla vita di Idaspe. Siroe, che ricerca la morte, approfitta della situazione per dichiararsi colpevole e viene condotto in carcere, dove invano Re Cosroe gli offre il perdono in cambio del nome del vero traditore che tenta di eliminarlo.
Atto III. Cosroe ordina di giustiziare Siroe, che viene però difeso dalla folla. Laodice, venuta a conoscenza della condanna di Siroe, per salvargli la vita, ne dichiara l’innocenza e si proclama lei stessa colpevole; Emira/Idaspe, confusa dagli accadimenti, persuade il Re a revocare la condanna. Ma quando Arasse, generale dell’esercito persiano, sottolinea che la revoca è giunta troppo tardi, Emira/Idaspe, scagliandosi contro il Re, svela la sua vera identità. Solo dopo Emira viene a conoscenza che, in realtà, Siroe è ancora vivo; così con una scorta penetra all’interno delle carceri per impedire a Medarse di uccidere il fratello Siroe. Uscito dal carcere, Siroe con Emira, Arasse ed altri seguaci salvano Cosroe dalla turma di ribelli. Siroe, proclamato quindi Re, perdona il fratello Medarse e Laodice, mentre Emira risolve di fermare i suoi propositi di vendetta per sempre.

«Händel con l’aiuto del librettista Nicola Haym sfronda alla brava il libretto di partenza (i versi sono ridotti da 1500 a 900, con un drastico ridimensionamento del logocentrismo metastasiano e una corrispondente enfatizzazione del ruolo svolto dalle arie nell’economia generale del dramma) (1). Il Siroe londinese soggiace anche alla ferrea logica che governa i drammi dati alla Royal Academy of Music a partire dal 1726, ossia da quando era stata scritturata una seconda primadonna, Faustina Bordoni, da contrapporre alla primadonna “storica” Francesca Cuzzoni. Fintanto che dura l’aspra diarchia – non mancarono tra le due dive i contrasti anche violenti, anche a scena aperta – le opere londinesi devono tutte, obbligatoriamente, avere due ruoli di protagoniste femminili perfettamente equilibrati; guai al mondo se la Cuzzoni avesse avuto mezz’aria in più o in meno della Faustina. Simili per agilità e tessitura (Mib3-La4 nel Siroe), le due attrici differiscono nell’indole canora e nella prestanza scenica (più imperiosa e pimpante la Cuzzoni, più insinuante e spiritosa la Faustina), non però nell’eccellenza. Il virtuosismo della Cuzzoni è smagliante, acrobatico, mentre nella Faustina si piega al ghirigoro vezzoso, alla bizzarria volage; il patetismo della Cuzzoni dilaga nel languore sconfinato del Siciliano händeliano – in Siroe le spetta, deliziosa nelle parole come nel melos, l’aria che fu poi il tormentone del vecchio Rossini, “Mi lagnerò tacendo” – mentre quello della Faustina si diffonde in traboccante tenerezza: si senta come nell’attimo della più desolata commozione – periclitano i complotti, e l’intrigante Emira è per la prima ed unica volta sola in scena – ronfano le zampogne, belano le agnelle, sibilano gli zefiri dell’aria “Non vi piacque, ingiusti dèi”. Ora, il Siroe händeliano è, molto marcatamente, il dramma d’una rivalità amorosa – Laodice ed Emira si contendono lo stesso uomo – intrecciata e incastonata in un conflitto dinastico. Il musicista ha diminuito i ruoli di Cosroe (tre arie anziché cinque per il basso Boschi), Medarse (tre anziché quattro per il contralto Baldi), Arasse (zero anziché tre per il basso Palmerini), ed ha invece aumentato da cinque a sei le arie di Emira e di Laodice: addirittura, il protagonista – il castrato Senesino, un cappone all’aspetto ma un cannone nei ruoli dell’eroe sofferente strappalacrime – si vide incrementata la parte con l’aggiunta di ben due arie patetiche in scene assolo, la seconda collocata proprio nella sequenza del carcere che, prima della fausta peripezia, immancabilmente segna l’azimut della sua vicenda sentimentale. La vera partita musicalmente combattuta sulle scene di Haymarket è insomma quella che i due soprani, le due primedonne innamorate, ingaggiano per il possesso del primouomo. Prova ne sia che, in tutto il dramma, una sola scena non subì neanche il taglio d’una virgola rispetto al dramma del Metastasio, ed è proprio la scena a due tra Emira e Laodice, il simulato tentativo di seduzione tra le due donne [del secondo atto]. Non sono cose che capitano a caso, in mano ad un drammaturgo navigato come Händel, còlto qui nel suo primo incontro col teatro del Metastasio: una ‘scoperta’ che anche a lui – e ai suoi spettatori, e a tutti noi, allora ed ora e sempre – non avrà mancato di procurare un attimo dì beato trasalimento, un tuffo d’impagabile ebbrezza estetica». (Lorenzo Bianconi)

La vicenda dinastica è ancora più borghesizzata nell’intrigante lettura di Immo Karaman qui alle Händel Festspiele di Göttingen. Uno spaccato (letteralmente!) di un’abitazione borghese inglese anni ’40 costituisce la scenografia predisposta la sua messa in scena. Una piattaforma girevole mostra i vari tristi ambienti, una casa di bambole, una gabbia in cui si consuma la geometria delle relazioni tra i sei personaggi. Sei ruoli: due soprani, due controtenori, due bassi, e una domestica muta che cela chissà quali segreti. All’inizio i personaggi sono in abito da sera e aspettano nervosamente la decisione funesta del re Cosroe, che come Lear, priva del regno il fedele figlio Siroe a favore del subdolo Medarse. Poi vestono abiti sempre più dimessi mentre la scenografia diventa sempre più spoglia, con la casa che perde anche quelle poche suppellettili. Solo nel finale vestono di nuovo abiti eleganti. La sua regia è piena di momenti arguti, come quando Idaspe/Emira si imbratta col rossetto trovato nella borsetta di Laodice perché sente la nostalgia di essere donna dopo tanti travestimenti da uomo, o con il re Cosroe che invecchia sempre più o quando il figlio Medarse gli butta via la medicina salva vita. E anche il lieto fine non è proprio tale.

Nel cast si distinguono il soprano Anna Dennis (Emira) e il basso Lisandro Abadie (Cosroe). Aleksandra Zamojska (Laodice) assomiglia a Patrizia Ciofi, nel bene e nel male mentre dei due controtenori meglio il Siroe di Yosemeh Adjei, mentre Antonio Giovannini (Medarse) rivela problemi di tecnica e una scarsa proiezione della voce. La concertazione, completa e brillante, si deve a Laurence Cummings. Viene tagliata soltanto l’ultima aria di Siroe.

(1) Il programma di sala del Teatro La Fenice, che presentò il Siroe di Händel nel dicembre 2000, contiene entrambi i libretti per un valido confronto. Il programma è reperibile in rete.

Ezio

Georg Friedrich Händel, Ezio

★★☆☆☆

Schwetzingen, Schlosstheater, 23 maggio 2009

(registrazione video)

C’è del marcio nella Roma imperiale

Terzo e ultimo lavoro su testo metastasiano questo di Händel, cupo melodramma tratto dalla tragedia Britannicus di Racine. Il libretto fu intonato anche da Porpora (Venezia 1728), Hasse (Napoli 1730; nuova versione: Dresda 1755), Jommelli (Bologna 1741), Traetta (Roma 1757), Sacchini (Napoli 1771). Composto tra novembre 1731 e l’inizio del 1732, Ezio debuttò il 15 gennaio di quell’anno al King’s Theatre di Haymarket. Solo quattro furono le repliche vivente Händel e l’opera non raggiunse mai una grande popolarità.

Atto primo. L’imperatore romano Valentiniano accoglie a Roma il generale Ezio, trionfatore sugli Unni di Attila. Massimo, padre di Fulvia, amata di Ezio, cerca di provocare la rovina del generale, accusandolo di tradimento. Valentiniano vorrebbe poter controllare Ezio dandogli in sposa la sorella Onoria, ma il generale confessa il suo amore per Fulvia, suscitando nei presenti ire e gelosie.
Atto secondo. Fallisce un attentato di Massimo contro Valentiniano; l’imperatore sospetta che sia Ezio il mandante. Fulvia conosce la verità, ma non ha il coraggio di denunciare il padre per scagionare l’amato. Varo consiglia a Fulvia di offrirsi in moglie a Valentiniano, unico modo per salvare la vita a Ezio. La ragazza però dichiara sdegnosamente l’immutato suo amore per il generale: l’imperatore, furibondo, getta quest’ultimo in carcere.
Atto terzo. Mentre Onoria tenta invano di intercedere per Ezio, Valentiniano finge di perdonare il traditore, ma ordina intanto a Varo di ucciderlo. Ad assassinio avvenuto, l’imperatore scopre sconcertato la verità sulla fallita congiura. Quando Massimo attacca con le sue truppe il Campidoglio, le sorti dell’impero e la vita di Valentiniano vengono salvate proprio da Ezio, che era stato risparmiato da Varo. Il perdono e l’amore trionfano infine sugli intrighi di palazzo.

Rispetto alla coeva edizione discografica di Alan Curtis, questa produzione degli Schwetzinger Festspiele 2009 con vari tagli dura quasi un’ora di meno. Meno male. Il livello è molto modesto sia in buca (con la Kammerorchester Basel diretta metronomicamente da Attilio Cremonesi) sia sulla scena, dove i cantanti, già di per sé inadeguati, devono soddisfare le richieste di un regista, Günter Krämer, che li costringe a ballare il tango, correre su e giù per una ripida scala, fare le capriole e cantare in scomodissime posizioni secondo una drammaturgia che non propone nulla di nuovo se non il solito cliché potere-sesso-violenza condito da balletti (coreografie di Otto Pichler) in forte contrasto con la musica. Ad esempio, durante la drammatica aria di Fulvia «Quel finger affetto» i soldati, sempre sporchi di sangue, fanno esercizi alla sbarra. Non sono le uniche gratuità: Varo canta la sua aria «Nasce al bosco in rozza cuna» distribuendo garofani rossi in platea. Inutile aggiungere che, fedele alla tradizione del più corrivo Regietheater, lo scenografo Jürgen Bäckmann non si fa mancare il carro armato in bilico sulla scalinata – e siamo in un teatrino rococo!

La parte che fu del Senesino è affidata a Yosemeh Adjei, un controtenore volenteroso e nient’altro, ma le cose non vanno meglio con gli altri interpreti e peggio con il Valentiniano di Rosa Bove e il Massimo di Donát Havár, entrambi ahimè sfiatati. Si salva giusto l’Onoria di Hilke Andersen. Gli scarsi applausi del pubblico si concentrano sulla Fulvia di Netta Or dopo la sua aria «La mia costanza non si sgomenta», ma solo per la bellezza dell’aria, non certo per il timbro della cantante.

Poro

Georg Friedrich Händel, Poro, Re dell’Indie

★★★☆☆

Berlino, Komische Oper, 25 giugno 2019

I misfatti del colonialismo

Come nel Giulio Cesare di Sir David McVicar, anche Harry Kupfer ambienta il suo Händel nel Raj, ma qui l’India è veramente prevista dal libretto, trattandosi del Poro, re dell’Indie di Metastasio. Se a Glyndebourne gli inglesi in kaki prendevano il posto dei romani, qui alla Komische Oper prendono quello dei greci capitanati da Alessandro.

Atto I. Alessandro ha conquistato la Valle dell’Indo e il suo Re, Poro. Questi nella disperazione vuole togliersi la vita, ma è trattenuto dal suo amico Gandarte che ricorda al re della sua amorevole moglie Cleofide e quanto sarebbe sconvolta alla sua morte. Per impedire la cattura del Re da parte delle truppe in avanzata, lui e Gandarte si cambiano i vestiti in modo che Gandarte ora sembri essere il re e il re un semplice guerriero, Asbite. In questo travestimento Poro viene catturato e portato da Alessandro. Anche la sorella di Poro, Erissena, è portata ad Alessandro e affascina sia il comandante che il suo generale, Timagene. Poro travestito si fa strada nel palazzo dove incontra la moglie Cleofide, ma è sconvolto quando lei invia un saluto amichevole al vittorioso Alessandro e si mette in viaggio per fargli visita, temendo che sua moglie lo tradisca con il conquistatore. Gandarte è innamorato di Erissena e anche lui è geloso che lei lodi le molte qualità di Alessandro. Cleofide si rivolge ad Alessandro per chiedere pietà per il marito sconfitto. Alessandro è affascinato dalla persona di Cleofide, che Poro osservando nel suo travestimento da “Asbite” ritiene sia la prova che sua moglie ha intenzione di tradirlo. Cleofide accusa in seguito il marito di averla sospettata ingiustamente
Atto II. Alessandro fa visita a Cleofide, infiammando ulteriormente la gelosia di Poro, che decide di lanciare un attacco contro Alessandro con il suo esercito, ma viene nuovamente sconfitto. Nella disperazione, decide che l’unica via d’uscita è la morte sia per sé stesso che per sua moglie e sta per uccidere prima lei ma viene scoperto da Alessandro proprio mentre sta per pugnalare Cleofide e Alessandro fa arrestare il presunto Asbite. Timagene sa che le truppe di Alessandro stanno pensando di ammutinarsi e pensa che Asbite potrebbe essere in grado di aiutarli. Alessandro propone a Cleofide di diventare la sua regina, ma lei rifiuta. Erissena porta terribili notizie: Poro nel tentativo di fuggire è annegato tentando di attraversare un fiume. Cleofide è devastata dal dolore.
Atto III. Erissena incontra Poro travestito nei giardini reali stupita di trovarlo vivo. Poro è determinato a vendicarsi di Alessandro e cospira con Timagene per ucciderlo. Cleofide dice ad Alessandro che lo sposerà, ma in realtà sta pianificando di immolarsi su una pira subito dopo il matrimonio. Nel tempio preparato per il matrimonio con un fuoco sacrificale sul quale intende gettarsi, Cleofide sta per sposare Alessandro quando Poro appare e sprofonda in ginocchio davanti a sua moglie, implorandola di cambiare idea. Per la prima volta Alessandro capisce che Asbite è davvero Poro ed è profondamente commosso da tale devozione coniugale. Alessandro perdona la cospirazione di Timagene contro di lui, permette a Poro e Cleofide di vivere insieme indisturbati e chiede la mano di Poro in amicizia. Tutti celebrano il fortunato esito degli eventi.

Nel 1731 due furono le intonazioni del libretto metastasiano, una di Johann Adolf Hasse e l’altra di Georg Friedrich Händel. Quest’ultimo presentava la sua versione il 2 febbraio al King’s Theatre di Londra con interpreti quali il Senesino (Poro),  la Strada (Cleofide, la moglie di Poro) e la Merighi (Erissena, sorella di Poro). Sarebbe seguita una seconda versione nel dicembre dello stesso anno e una terza nel 1736.

Quella ora in scena a Berlino è una versione ancora diversa, dove il testo è stato tradotto in un piatto tedesco moderno da Susanne Felicita Wolf, i nomi dei personaggi femminili sono modificati (Cleofide è Mahamaya, Erissena diventa Nimbavati) e soprattutto Poro qui è un baritono e Alessandro un controtenore.

Nel ruolo dell’impulsivo e geloso personaggio per titolo Dominik Köninger ha una nobile linea di canto e vivace presenza scenica, ma le agilità sono imprecise e i fiati faticosi. Le agilità non sono un problema invece per il controtenore Eric Jurenas, il nobile e generoso Alessandro. Ruzan Mantashyan è una affascinante Mahamaya dalla sontuosa vocalità. Così Idunnu Münch, Nimbavati dal timbro caldo. Il basso Philipp Mejerhöfer incarna il fidato Gandharta. Jörg Halubek a capo dell’orchestra del teatro dà una lettura precisa senza esagerazioni agogiche della partitura che come sempre in Händel riserva preziosità sorprendenti come l’estatico duetto che precede il previsto doppio suicidio dei coniugi reali. Ma molti sono i momenti di intensa espressività in questo lavoro in cui Händel non fa uso di particolari pirotecnie vocali e non ci sono pagine dal colore esotiche, anzi alcuni temi ricordano la musica popolare inglese. Non ultimi sono gli autoimprestiti, come il coro finale. La maggior parte dei da capo sono tagliati.

Efficace la realizzazione scenica di Hans Schavernoch con proiezioni di una fitta giungla o di un tempio hindù dove il lieto fine è venato di amarezza: tra i regali degli invasori “amici” ci sono armi e alcol, mentre l’Union Jack scende dall’alto a coprire l’India.

Harry Kupfer ottiene di mettere in scena questo raro titolo essendo stato assistente alla regia della produzione a Halle nel lontano 1956. A 83 anni esaudisce questo suo desiderio.