Carlo Goldoni

Davide e Gionata

Julius Kronberg, David and Saul, 1885

Marco Emanuele, Davide e Gionata

Torino, Polo del Novecento, 28 giugno 2022

La prima opera gay in italiano

Le forti amicizie virili non sono mai mancate nei melodrammi: pensiamo ad Achille e Patroclo nell’Iphigénie en Aulide, o ancor di più Oreste e Pilade nell’Iphigénie en Tauride di Gluck; Zurga e Nadir ne Les pêcheurs de perles di Bizet; Dalibor e Zdenek nel Dalibor di Smetana; Carlo e Rodrigo nel Don Carlos di Verdi… Sul tema dell’amore omosessuale quale soggetto principale della vicenda ricordiamo invece il recente Lessons in Love and Violence (2019) di George Benjamin tratto dall’Edward II di Christopher Marlowe. E proprio col titolo Edward II ci sono anche il lavoro di Francesco Cilluffo del 2006 e quello di Andrea Lorenzo Scartazzini, Deutsche Oper 2017. Un caso a sé sarebbe poi quello delle opere di Benjamin Britten.

Nel lontano 1688 fu rappresentata a Parigi la “tragédie biblique” David et Jonathas di Marc-Antoine Charpentier. Ora, sullo stesso soggetto Marco Emanuele presenta la sua ultima opera, Davide e Gionata, che può essere considerata la prima opera a soggetto GLBTQ scritta in italiano. L’occasione è la giornata di approfondimento al Polo del Novecento sul movimento omosessuali credenti a cinquant’anni dalla nascita a Torino del F.U.O.R.I.

Su libretto dello stesso compositore, che vi ha inserito versi di altri autori (1), quest’ultimo lavoro di Emanuele ha a modello, così come era successo con la sua precedente Mirra, l’opera belcantistica di primo Ottocento con recitativi, pezzi chiusi, cabalette, strette e concertati, qui con in più qualche incursione nel Settecento di Vivaldi e nel Novecento di Piazzolla.

Due giovani si amano, ma il loro amore è osteggiato dal padre. Quante storie come questa si incontrano nel melodramma, ma qui i due giovani sono dello stesso sesso e per la prima volta i versi sono del tutto espliciti: «Amo te solo | te solo amai; | tu fosti il primo | tu pur sarai | l’ultimo oggetto | che adorerò». La vicenda è liberamente tratta dagli episodi biblici del Primo libro di Samuele.

Atto I. Il re Saul, un tempo amato, ha perso la fiducia del popolo. Ha esiliato Davide, intimo di suo figlio Gionata. Costretto a sposarsi, questi vive sotto il controllo del padre, che nella prima scena si consulta con il capo delle guardie, preoccupato dalla tristezza del figlio: teme che non possa essere lui il suo successore. Su indicazione di Abner vuole presentargli un’indovina, che farà rinascere virilità e coraggio in lui. Gionata accetta, per non deluderlo, ma pensa ancora a Davide. Davide torna di nascosto nei pressi del palazzo. Sente che è arrivato il momento di non nascondere l’amore per Gionata. Sorpreso da Abner, lo informa del fatto che i Filistei stanno per attaccare. Nonostante il servizio reso alla comunità, Abner lo tratta con sarcasmo e gli dice che ormai Gionata si dedica a moglie e figli. Davide pensa di essere stato dimenticato. Abner informa Saul del ritorno di Davide. In preda a follia, Saul minaccia di uccidere il pastore, possibile rivale politico. Gionata lascia il palazzo, attirato da una forza a cui non può resistere, e va nel deserto. Davide ha raggiunto l’accampamento d’Israele e all’alba intona un saluto alla natura. Ha sognato di riavvicinarsi a Gionata e gli sembra di sentire la sua voce: ma è proprio lui! È il momento di dichiararsi amore reciproco. Nulla potrà separare i due amanti.
Atto II. Per evitare la vergogna ed eliminare un rivale politico, Saul vuole uccidere Davide. Chiede ad Abner di occuparsene. Meglio affidargli la guida dell’esercito e farlo uccidere da mano amica, gli consiglia il militare, promettendo una risoluzione felice della vicenda. Abner raggiunge l’accampamento per comunicare a Davide che è stato nominato capo dell’esercito. Gionata non si fida del tutto, ma spera che suo padre possa essere davvero cambiato. Nella tenda Saul sogna di rivolgersi a Davide, accusandolo di rubargli il figlio. Gionata lo ascolta e ha un gesto di tenerezza nei confronti del padre fragile e invecchiato. Ma Saul si risveglia e lo caccia con parole violente. All’accampamento, Gionata mette in guardia Davide, che non lo ascolta e vuole combattere. Allora Gionata gli chiede di scambiarsi le armature prima di andare in battaglia. Durante lo scontro Gionata muore, colpito dallo stesso Saul, convinto di uccidere Davide. Quando si rende conto di quello che è successo, il re è disperato: tutto è finito.

Particolare la scelta delle voci, come spiega lo stesso Emanuele: «Per i due protagonisti ho pensato a voci dal timbro chiaro, diverse per estensione: due controtenori, dei quali uno canta più in registro sopranile (il più giovane, Davide) e uno in registro da contralto (Gionata). Questo per richiamare l’opera barocca, in cui gli eroi sono interpretati dai castrati, e per richiamare il belcanto italiano e l’opera seria di Rossini, in cui gli innamorati sono spesso una coppia di voci femminili (soprano/contralto). Se Abner è il tradizionale cattivo, il basso vilain, come Assur nella Semiramide di Rossini, per il re Saul […] ho pensato a una cantante donna che canta e recita en travesti». La scelta dei registri ha anche altre più profonde implicazioni: «I miei modelli non sono tanto i giovani eroi del melodramma rossiniano, ma alcune grandi attrici del teatro di prosa, come Sarah Bernhardt, che hanno interpretato parti maschili come Amleto, Werther o Lorenzaccio. Ma soprattutto vorrei rompere con la tradizione di voci maschili che interpretano personaggi di potere e anziani, cioè vorrei decostruire la figura del Padre tipica delle opere di Giuseppe Verdi. Il registro acuto del personaggio maschile del padre di Gionata, il re Saul, permetterebbe di assegnare il personaggio allo stesso cantante – o alla stessa cantante – che interpreta il personaggio di Davide, o comunque di creare una specie di rispecchiamento: tra l’altro i due personaggi non si incontrano mai in scena. L’idea è quella di creare un cortocircuito: sono in un certo senso due rivali, uno ombra dell’altro. La sovrapposizione delle figure dell’amante e del Padre allude al triangolo delle relazioni affettive: Gionata è innamorato del Padre, oltre che di Davide; e “muore”, in senso reale e simbolico, per dimostrare a entrambi e a sé stesso di essere all’altezza della mascolinità normativa».

Quattro le voci e otto gli strumenti: flauto, clarinetto, due violini, violoncello, clavicembalo e fisarmonica,  diretti con precisione e senso della musica dal maestro Simone Lattes. Ed è la fisarmonica a farsi sentire per prima nella Sinfonia con un mi grave tenuto per ben ventidue battute sotto gli svolazzi del violoncello, poi dei violini e dei legni in un Presto che introduce alla prima scena dove in un recitativo il personaggio di Abner commenta fra sé il comportamento del re Saul in preghiera nella grotta della Pitonessa. Nel duetto che segue abbiamo le voci estreme del basso Giuseppe Gerardi, voce di grande proiezione che avrebbe però  bisogno di un maggior controllo per essere più efficace, e del soprano Marina Degrassi, nell’impegnativo ruolo del re disorientato dalle inclinazioni amorose del figlio inutilmente accasato e con prole. I venti numeri musicali dei due atti in cui è diviso il lavoro, anche se non costruiscono una vera e drammatica tensione narrativa, costituiscono una varietà di momenti musicali ognuno caratterizzato da uno stile musicale suo proprio. È il caso ad esempio della cavatina rossiniana di Davide, il giovane controtenore Luca Parolin («No, non vedrete mai | cambiar gli affetti miei») o della “canzone” con cui Davide «esce dalla tenda e saluta il risveglio della natura cantando e accompagnandosi con il salterio» («Cantate al mio gioir, onde correnti»).

In un’opera da camera come questa, che fa l’occhiolino alla grande opera seria settecentesca, non poteva mancare la classica aria “di tempesta” «Fra l’orror della tempesta | che alle stelle il volto imbruna» (il cui testo ricorda l’aria di Arbace nell’Artaserse di Vinci «Vo solcando un mar crudele | senza vele e senza sarte | freme l’onda, il ciel s’imbruna»), ma qui inopinatamente la musica è quella di un tango con tanto di fisarmonica che rifà il bandoneón di Piazzolla!

La scena quinta del secondo atto è la più toccante: il vecchio re Saul nel dormiveglia e in preda a visioni è osservato con tenerezza dal figlio Gionata, che non riesce a cancellare l’amore per il padre nonostante che egli voglia ostacolare il suo per Davide. E qui ascoltiamo il controtenore Angelo Galeano, già ammirato nella Mirra, intonare con grande sensibilità, ottimo fraseggio e varietà di colori l’aria “del sonno” «Mentre dormi, Amor fomenti | il piacer de’ sonni tuoi» su versi del Metastasio e già intonata da Licida nell’Olimpiade di Vivaldi e poi di Pergolesi. Affidati a Saul sono i due ultimi numeri di Davide e Gionata: l’aria “di follia” «Ah! L’aria d’intorno | lampeggia, sfavilla: | ondeggia, vacilla | l’infido terren» che echeggia gli esametri dell’analoga aria del Saul di Felice Romani («Il fato è compiuto… | ho tutto perduto… | squallor mi circonda | spavento, terror») e il lamento finale «Ah che nel dirti addio | mi sento il cor dividere, | parte del sangue mio, | viscere del mio sen», quando Saul riconosce nel cadavere il figlio ucciso nella convinzione si trattasse di Davide.

Così si conclude l’opera di Marco Emanuele che auspico possa trovare prima o poi una realizzazione scenica dopo quest’esecuzione in forma di concerto. La cura e la passione messe in questa partitura, l’attenta strumentazione, il gusto del pastiche e il piacere all’ascolto che ne deriva lo meriterebbero. E così credo l’abbia pensato anche il folto pubblico che ha applaudito con molto calore gli artefici dell’esecuzione e l’autore.

(1) Metastasio (vari libretti); Felice Romani (Saul); Stefano Landi (La morte di Orfeo) per l’aria di Davide (I, 5); Carlo Goldoni (Il quartiere fortunato, che Marco Emanuele ha messo in musica come opera da camera in un atto) per l’aria di Abner (II, 1); Luis Cernuda (Placeres Prohibidos) per l’aria di Gionata (II, 8); Giovanni Testori (Quanto è giusta la morte) per la scena finale.

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Griselda

La locandina dello spettacolo

Antonio Vivaldi, Griselda

★★★★☆

Venise, Teatro Malibran, 29 avril 2022

 Qui la versione italiana

Griselda, conte cruel de Vivaldi

Grâce au Teatro la Fenice, Antonio Vivaldi est un auteur fréquemment présent dans les programmations d’opéras de sa ville : Bajazet (2007), Juditha triumphans (2015), Orlando Furioso (2018), Dorilla in Tempe (2019), Ottone in villa (2020) et Farnace (2021) ne sont que quelques-unes des productions récentes du théâtre vénitien, présentées pour la plupart dans la salle plus appropriée du Malibran, comme cette Griselda qui fut créée le 18 mai 1735 à Venise. Le livret d’Apostolo Zeno (1701), tiré de la dernière nouvelle (X, 10) du Décaméron de Boccace, avait été mise en musique la même année par Antonio Pollarolo, puis par (entre autres) Tomaso Albinoni (1703), Luca Antonio Predieri (1711), Giuseppe Maria Orlandini (1717), Antonio Bononcini (1718) et Alessandro Scarlatti (1721)…

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Griselda

La locandina dello spettacolo

Antonio Vivaldi, Griselda

Venezia, Teatro Malibran, 29 aprile 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Griselda, una favola crudele

Grazie al Teatro la Fenice, Antonio Vivaldi è autore di frequente presenza nei programmi teatrali della sua città: Bajazet (2007), Juditha triumphans (2015), Orlando Furioso (2018), Dorilla in Tempe (2019), Ottone in villa (2020) e Farnace (2021) sono solo alcuni dei recenti allestimenti del teatro veneziano, per lo più presentati nella maggiormente idonea sede del Malibran. Come questa Griselda, «Drama per musica da rappresentarsi nel teatro Grimani di S. Samuel nella Fiera dell’Ascenssione [sic] l’Anno 1735», ossia il 18 maggio. Il libretto del 1701 di Apostolo Zeno, tratto dall’ultima novella (X, 10) del Decameron di Boccaccio, era stato intonato quello stesso anno da Antonio Pollarolo. Poi fu la volta, tra i tanti, di Tomaso Albinoni (1703), Luca Antonio Predieri (1711), Giuseppe Maria Orlandini (1717, con il titolo La virtù in cimento), Antonio Bononcini (1718) e Alessandro Scarlatti (1721).

Opera della maturità stilistica di Vivaldi, la Griselda è l’unica presenza del compositore veneziano al Teatro di San Samuele dopo i 25 anni di impegno col Teatro Sant’Angelo, ed è anche il primo incontro di Vivaldi con un giovane Carlo Goldoni a cui l’impresario Michele Grimani aveva affidato il compito di aggiornare il vecchio libretto di Zeno. Come è narrato con grande vivacità nel capitolo 36° dei suoi Mémoires, il drammaturgo si era presentato al Prete Rosso – «eccellente suonatore di violino e compositore assai mediocre» nella sua maliziosa definizione a posteriori – e l’aveva stupito con la rapidità con cui aveva riscritto, sotto le indicazioni di Vivaldi stesso, un’intera aria in soli quindici minuti. «Premeva estremamente al Vivaldi un poeta per accomodare e impasticciare il dramma a suo gusto, per mettervi bene o male le arie che aveva altre volte cantate la sua scolara [Anna Girò]», scrive Goldoni, per assecondare la personalità della sua protetta, la Girò non amava infatti esprimersi con la vocalità larga e patetica richiesta dal libretto di Zeno. Per l’interpretazione musicale del personaggio di Griselda, possibile allegoria del paziente Giobbe biblico che avrebbe avuto come consono modello quello dell’oratorio, erano state necessarie le numerose sostituzioni operate dall’abile drammaturgo al testo originale e la riduzione del libretto da 34 arie e cinque duetti a diciannove arie e un trio.

Il marchese di Saluzzo della novella boccaccesca, qui diventa il re Gualtiero di Tessaglia – la stessa regione in cui è ambientata l’Alceste, un altro esempio di fedeltà coniugale –  costretto dalla volontà del popolo a ripudiare la moglie Griselda a causa delle sue umili origini. Gualtiero decide quindi di dimostrare il valore di Griselda ai suoi ingrati sudditi attraverso una serie di prove crudeli, cominciando con il bandirla dal palazzo e preparandosi a mettere un’altra regina al suo posto, che si rivelerà la figlia creduta morta. Nel lieto fine Griselda riprende il suo ruolo e anche la seconda coppia di amanti può coronare felicemente il proprio sogno d’amore.

Atto I. Anni prima dell’inizio dell’azione, Gualtiero, re di Tessaglia, aveva sposato una povera pastorella, Griselda. Il matrimonio era profondamente impopolare con i sudditi del re e quando nacque una figlia, Costanza, il re dovette fingere di farla uccidere mentre segretamente la mandava ad essere allevata dal principe Corrado di Atene. Ora, dopo che la recente nascita di un figlio ha portato a un’altra ribellione dei Tessali contro Griselda come regina, Gualtiero è costretto a ripudiarla e promette di prendere una nuova moglie. La sposa proposta è infatti Costanza, ignara della sua vera parentela e sconosciuta a Griselda. Lei è innamorata del fratello minore di Corrado, Roberto, e il pensiero di essere costretta a sposare Gualtiero la porta alla disperazione.Mentre Griselda si congeda da suo figlio, il vendicativo Ottone rapisce il bambino e fugge dal palazzo. Corrado cerca di rassicurare Griselda e promette che salverà Everardo con ogni mezzo necessario.
Atto II. Negli appartamenti reali, Corrado incoraggia Costanza a ricordare la sua fedeltà al suo primo amore, Roberto. Lei capisce il suo dovere verso il re, tuttavia, e così quando Roberto appare adotta un atteggiamento regale e lo invita ad andarsene. Presso una capanna in campagna, Griselda viene di nuovo avvicinata da Ottone, che le dice che ucciderà suo figlio se non cede alle sue avances. Una guardia porta debitamente Everardo davanti a Griselda. Corrado, che è nascosto, assiste a tutto questo, e quando Griselda rifiuta ancora di cedere, si fa riconoscere. Ingannando Ottone e facendogli credere di appoggiare la sua causa, Corrado riceve il ragazzo, con il quale ritorna al sicuro nel palazzo. Costanza e Roberto camminano nelle vicinanze, la prima supplica il suo amante di lasciarla in pace pur ammettendo che lo adora ancora. Trovano Griselda addormentata nella sua capanna. Costanza sente un legame inspiegabile con lei, e al suo risveglio anche Griselda sembra riconoscere la figlia perduta da tempo, ma non dice nulla di tutto ciò. Gualtiero appare improvvisamente. Costanza chiede che Griselda sia la sua serva. Gualtiero, però, ancora sprezzante di Griselda, dice a Costanza che questa non è altro che l’ex regina. Corrado arriva con i soldati per avvertire il re dei piani di Ottone, ma Gualtiero decide, tra l’incredulità di tutti, di lasciare la sua ex regina al suo destino. Ottone arriva presto con i suoi uomini per portare via Griselda, ma Gualtiero torna con Costanza e fa arrestare Ottone.
Atto III. Griselda è tornata a palazzo come ancella di Costanza, ma sente la sua nuova amante e Roberto giurarsi amore eterno e si muove per dirlo al re. Gualtiero appare con Corrado, che ha sentito anche lui gli amanti e lo dice lui stesso al re. Sorprendentemente, Gualtiero dice a Griselda che non spetta a lei mettere in discussione le azioni della sua amante, e poi ordina ai due di essere fedeli l’uno all’altro. La prova finale del nobile cuore di Griselda ha luogo in una magnifica sala di ricevimento nel palazzo. Davanti ai suoi sudditi Gualtiero tenta di costringere Griselda a sposare Ottone, altrimenti la farà giustiziare. Ancora una volta Griselda rifiuta, per la gioia del re, che allora rivela il suo vero intento. Anche Ottone viene graziato e Costanza può sposare Roberto. Il popolo è ora convinto che Griselda sia degna di essere la sua regina e alla donna vengono restituiti la figlia, il figlio, il marito e il trono.

Dell’opera è conservato il manoscritto MS Foà 36, apparentemente autografo, nella Biblioteca Nazionale di Torino, la biblioteca che possiede copie uniche di quasi tutte le opere superstiti del compositore. Su questo prezioso documento si basano l’edizione critica e la lettura di Diego Fasolis che fin dalle prime note dell’Allegro della sinfonia impone un energico passo ritmico a una partitura che ha momenti di grande drammaticità accanto alle preziosità strumentali ai quali ci ha abituato il compositore. L’orchestra del Teatro la Fenice, arricchita di strumenti storicamente informati quali l’arciliuto, la chitarra barocca e il fagotto barocco, si dimostra duttile strumento sia nella realizzazione del basso nei recitativi, quasi  integralmente proposti, sia nei preziosi momenti delle 19 arie ripartite fra i sei personaggi, anche queste eseguite nella loro totalità.

Un cast di specialisti in questo genere è quello sul palcoscenico del Malibran, e come spesso succede, le interpreti femminili sono di livello superiore a quelli maschili, con l’eccezione del controtenore Kangmin Justin Kim che ha riscosso un notevole successo personale. Nella figura della infelice protagonista Ann Hallenberg offre la sua grande personalità in pagine di intensa drammaticità come la sua seconda aria «Ho il core già lacero» con cui si conclude l’atto primo o il breve ma toccante recitativo accompagnato della scena nona del secondo atto, una scena di sonno in cui avviene il commovente incontro tra madre e figlia, che fino a quel momento non si sono mai conosciute. Nelle sue quattro arie a disposizione il mezzosoprano svedese costruisce con grande sensibilità il personaggio vittima di tante prove crudeli, ma che rimane sempre fedele al consorte, espresso con grande nobiltà di accenti. Molto più virtuosistica è la parte di Costanza, qui affidata alle sicure doti interpretative di Michela Antenucci. In tre arie, una per atto, il soprano molisano riesce a dare spessore a un personaggio drammaturgicamente meno definito ma che riscatta pienamente nella bellissima «Ombre vane», resa con perfezione stilistica e commovente partecipazione. Ma è in «Agitata tra due venti», una delle arie più iconiche del Prete Rosso, che la Antenucci esprime la sua sua grande tecnica ed agilità in un numero che, inserito finalmente nell’opera completa, se perde un po’ del suo carattere virtuosistico esaltato tante volte nelle esecuzioni da concerto, qui acquista uno spessore drammatico quasi non previsto. Vero è che da un momento all’altro ci si aspetta che da dietro le quinte salti fuori Kangmin Justin Kim, qui Ottone, per riprendersi quello che anni fa, quando ancora era studente, lo aveva catapultato alla notorietà planetaria garantita da youtube, ossia la sua esilarante versione come Kimchilia, irriverente ma sentito omaggio alla diva Cecilia Bartoli da parte del giovane controtenore coreano-americano. Kim qui si riprende presto la scena con la sua pirotecnica versione di «Dopo un’orrida tempesta», eseguita senza risparmio di agilità e colorature in perfetto equilibrio tra scena e orchestra. Il primo e unico momento in cui ritroviamo il vero teatro vivaldiano con la voce che nelle variazioni delle riprese riprende gli strumenti ad arco in un gioco sbalorditivo di imitazioni.

Motore dell’azione è il re Gualtiero, che in tre arie ci deve convincere della sua scelta crudele. Il tenore spagnolo Jorge Navarro Colorado è uno specialista di questo repertorio e sfoggia uno stile impeccabile, ma il timbro un po’ sfibrato e una voce non sempre ben proiettata non rendono memorabile la sua performance. Lo stesso si può dire per il Roberto di Antonio Giovannini, controtenore dalla presenza un po’ ingessata e dal timbro luminoso ma poco espressivo. Sua è una delle arie più belle dell’opera, «Dal tribunal d’amore», che verrà infatti ripresa nel Farnace. Così come avverrà per «Alle minacce di fiera belva!», in cui il mezzosoprano Rosa Bove en travesti (Corrado), rivela alcuni problemi di intonazione assieme agli ottoni in quest’aria del primo atto.

Autore della messa in scena è Gianluca Falaschi che con il disegno luci di Alessandro Carletti e Fabio Barettin e la drammaturgia di Mattia Palma firma un allestimento in cui la vicenda, ambientata in epoca moderna, vuole essere occasione per l’ennesima denuncia della sottomissione femminile al potere maschile. Vediamo infatti ad apertura di sipario una fila di macchine da cucire (strumento primario del regista/costumista!) su cui lavorano chine Griselda e altre ragazze vittime poi delle gratuite violenze dei cortigiani di Gualtiero. La mascolinità tossica e l’accettazione dei soprusi presenti nella novella trecentesca, ripresa da un librettista di inizio Settecento, rielaborata da un drammaturgo “protofemminista” come Goldoni e riletta dalla nostra sensibilità, formano l’elemento di  base della lettura del regista. Totalmente condivisibile nell’idea, è la sua realizzazione che non convince pienamente. D’accordo che la foresta, elemento archetipico delle favole, «rappresenta lo spazio del pensiero di Griselda, dei suoi ricordi, lo spazio più profondo», ma qui vi si svolgerà un party e gli alberi traballeranno sotto i saltelli degli invitati ebbri, rivelando la loro provvisorietà e artificialità. La scelta registica poi è poco convincente nei confronti di alcuni personaggi, soprattutto quello di Roberto, e il pubblico infatti dimostra qualche dissenso nei confronti degli autori dell’allestimento. Applausi pienamente convinti invece per Hallenberg, Antenucci, Kim e Fasolis.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo non perfetto, ma la rara riproposta di un titolo desueto ma imprescindibile come questo di Vivaldi compensa largamente gli eventuali difetti della produzione.

Le baruffe

Esquisse de la scène de Paolo Fantin

Giorgio Battistelli, Le baruffe

★★★☆☆

Venise, Teatro La Fenice, 22 février 2022

 Qui la versione italiana

Le baruffe chiozzotte de Goldoni : une fresque vocale mise en musique par un compositeur d’aujourd’hui

Les comédies à décor vénitien que Goldoni écrit au début des années 1760 représentent l’apogée de la maturité artistique du dramaturge : le comique de caractère et de situation y trouve sa plus haute expression avec I rusteghi (Les rustres), La casa nova et, précisément, Le baruffe chiozzotte (1762), la dernière comédie écrite en Italie avant son départ pour Paris. Il s’agit d’une comédie « de conversation », où le mot, ici dans le dialecte de la ville de Chioggia, devient un extraordinaire instrument d’expression théâtrale. Dans Le baruffe, Goldoni renoue avec le monde populaire et pittoresque qu’il avait négligé au profit de cadres bourgeois et aristocratiques mis en scène dans ses œuvres précédentes ; il ne cherche pas cependant le pittoresque à tout prix dans sa peinture de personnages certes sanguins, mais également empreints de mélancolie…

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Le baruffe

Bozzetto della scena di Paolo Fantin

Giorgio Battistelli, Le baruffe

★★★☆☆

Venezia, Teatro La Fenice, 22 febbraio 2022

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Le baruffe chiozzotte di Goldoni: un affresco vocale messo in musica da un compositore d’oggi

Le commedie di ambientazione veneziana che Goldoni scrive nei primi anni 1760 costituiscono il punto d’arrivo della maturità artistica del commediografo: qui la commedia di carattere e di ambiente ha la sua più alta espressione con I rusteghi, La casa nova e, appunto, Le baruffe chiozzotte (1762), l’ultima commedia scritta in Italia prima del suo trasferimento a Parigi. È una commedia di conversazione, dove la parola, qui nel dialetto della città di Chioggia, si fa straordinario strumento di espressività teatrale. Ne Le baruffe Goldoni recupera un mondo popolare e pittoresco che aveva trascurato nelle ambientazioni borghesi e nobiliari messe in scena nelle sue opere precedenti, senza però scendere nel pittoresco a tutti i costi nella delineazione di personaggi sanguigni, ma nello stesso tempo intrisi di malinconia.

La commedia di Goldoni è già stata trasposta in musica, tra gli altri, da Gian Francesco Malipiero, un altro veneziano, come terza parte di una trilogia goldoniana comprendente La bottega del caffè e Sior Todero brontolon andata in scena a Darmstadt nel 1926. Ora ci riprova il compositore romano Giorgio Battistelli che, assieme a Damiano Michieletto, ha scritto il libretto tratto dal testo goldoniano, libretto che sul programma di sala è stampato con la traduzione in italiano a beneficio di chi non è del posto.

Quadro primo. A Chioggia. In strada, donna Pasqua, moglie di padron Toni, pescatore, e Lucietta, sorella di lui, ricamano merletti. Dall’altra parte della strada, intente allo stesso lavoro, ci sono Libera, moglie di Fortunato, altro pescatore, insieme alle due giovani sorelle Orsetta e Checca. Giungono Canocchia, venditore di zucca, e il battelliere Toffolo: quest’ultimo offre la zucca appena sfornata alle donne. Lucietta invita Toffolo a sedersi al suo fianco, mentre le altre commentano con riprovazione il loro conversare. Segue un bisticcio in cui tutti utilizzano con sprezzo i cognomi e i soprannomi degli altri: Ricotta, Marmottina, Meggiotto, Padella, Cialtrona… Checca dichiara che riferirà quanto accaduto a Titta-Nane, fidanzato di Lucietta. Don Vicenzo, pescatore rimasto a terra, annuncia che è arrivata la barca di padron Toni. Mandato via Toffolo, le donne si riappacificano e decidono di tacere sugli avvenimenti del mattino. Vicenzo si accorda con Toni per acquistare da lui del pesce. Toni saluta sua moglie, mentre Lucietta, parlando con suo fratello Beppo, gli confida maliziosamente che Toffolo ha conversato con Orsetta, con la quale lo stesso Beppo è fidanzato. Il giovane si sdegna, afferma di non volerla più sposare e di volerle restituire l’anello di fidanzamento che le aveva comprato. Fortunato e Titta-Nane scendono dalla barca: mentre il primo parla con la moglie Libera, il secondo conversa con Checca e Orsetta, le quali insinuano in lui il dubbio che Lucietta se la intenda con Toffolo. Titta-Nane, indignato, promette vendetta. Beppo incontra Toffolo: si insultano e vengono alle mani, il battelliere lancia sassi al pescatore che estrae un coltello. Un sasso colpisce padron Toni, accorso per calmare le acque. La lite si allarga, Titta-Nane, che nel frattempo è arrivato, minaccia Toffolo con uno spadone. Sopraggiungono le donne cercando di riportare la calma. Toffolo se ne va via minacciando di denunciare i suoi aggressori alle autorità.
Quadro secondo. Nella Cancelleria criminale, Toffolo denuncia al coadiutore del cancelliere, Isidoro, l’aggressione ricevuta da Titta-Nane, accusando Beppo, Toni e Titta-Nane e chiedendo per loro la galera. Nel frattempo, in strada, donna Pasqua cerca di riappacificare, senza risultato, Lucietta e Titta-Nane. Entrambi i giovani aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa e a chiedere scusa. Titta-Nane, al colmo dell’ira, annuncia a donna Pasqua l’intenzione di lasciare la sua promessa, la quale per tutta risposta gli restituisce i doni da lui ricevuti. In cancelleria, Vicenzo cerca di convincere Isidoro a lasciar perdere la causa legale, e il coadiutore accetta di tentare una mediazione, dopo aver sentito i protagonisti dello scontro. La prima a essere interrogata è Checca, che racconta la sua versione della controversia. Isidoro si informa sulla situazione sentimentale della giovane, che gli confessa di avere delle simpatie per Tata-Nane, ritornato libero dopo aver lasciato Lucietta. Isidoro promette che indagherà con il giovane per lei. Beppo ha un duro scontro con la sua innamorata Orsetta, in cui sfoga la sua gelosia nei confronti di Toffolo. Vicenzo, sopraggiunto, afferma che il battelliere non è disposto alla conciliazione. Segue un alterco che coinvolge tutte e cinque le donne: tra offese e insulti reciproci si giunge quasi alle mani. Il peggio é evitato dall’arrivo di Fortunato, che cerca di riportare la calma.
Quadro terzo. Nella Cancelleria, Isidoro sonda la propensione di Titta-Nane verso Checca, ma il pescatore afferma di essere ancora innamorato di Lucietta, pur se in collera con lei. Isidoro intanto continua nel suo lavoro di riappacificazione, e parla con Toffolo, condotto lì da Vicenzo. Il battelliere dice di temere per la propria vita, ma il funzionario fa promettere a Titta-Nane e a Beppo di lasciarlo stare. I due innamorati gelosi acconsentono a patto che Toffolo stia a distanza da Lucietta e Orsetta. Toffolo afferma di non pensare né all’una né all’altra, essendo interessato a Checca e desiderando sposarla. Giustifica inoltre i suoi atti dicendo di aver voluto fare un dispetto a tutti, ma di essere seriamente intenzionato nei confronti di Checca. Isidoro si compiace e organizza in fretta e furia il matrimonio tra i due, mentre la pace sembra tornare a regnare sovrana tra gli abbracci degli uomini. Sopraggiunge però padron Toni, raccontando che le donne si sono accapigliate, e che con ogni probabilità le ostilità non sono ancora terminate. La confusione dilaga nuovamente, e ciascuno vuole difendere la propria donna. Segue un acceso scambio verbale tra Lucietta e Orsetta, che si conclude con gli insulti usuali. Titta-Nane, infuriato perché padron Toni e Beppo, a causa del suo temperamento lo scacciano da casa loro e gli impediscono di imbarcarsi, dichiara di volersi vendicare con le armi, al che Toffolo e il coro di chioggiotti scappano via impauriti. Isidoro discute con Fortunato e Libera, perorando la causa di Toffolo nei confronti di Checca. La ragazza, interrogata dalla sorella e dal cognato, risponde che accetterebbe di buon grado di sposarlo. Isidoro si accinge a celebrare il matrimonio. Orsetta obietta però che, come sorella maggiore, spetterebbe a lei il diritto di convolare a nozze per prima. Isidoro allora persuade lei e Beppo a fare la pace, suggellandola con un altro matrimonio. Lucietta si adira con il fratello, accusandolo di sposare chi ha calunniato lei e donna Pasqua. Ancora una volta Isidoro cerca di appianare la baruffa, e manda a chiamare Titta-Nane, mentre mette pace tra Orsetta e Lucietta. Padron Toni, a sua volta, convince energicamente donna Pasqua a riappacificarsi con le altre donne. Titta-Nane, dapprima recalcitrante, vedendo Lucietta piangere scende a più miti consigli, e chiede la mano della sua innamorata. Isidoro, felice, invita tutti a ballare e a far festa, e il coro gli si affianca gioioso nel lieto finale.

La composizione di Battistelli vede la luce in prima mondiale al Teatro la Fenice in occasione del 60° anniversario della casa editrice veneziana Marsilio che cura l’edizione nazionale dei lavori di Goldoni. La sua 35esima composizione per il teatro conferma lo stile compositivo già espresso nelle precedenti ultime opere Richard III, Co2 e Julius Caesar, tutte contrassegnate da un raffinato disegno orchestrale e un uso della strumentazione evocativo e pregnante – qui è la fisarmonica che dà il tono locale e la preponderante percussione che sottolinea i baruffanti animi e la natura inclemente. Il colore è scuro e serpeggia una tensione che si scarica in fortissimi seguiti da oasi di pace. Per la vocalità invece non si va al di là di un generico declamato ritmico che non caratterizza i personaggi, che cantano quindi tutti alla stessa maniera, soprattutto quelli femminili.

L’opera inizia con un preludio formato da un tappeto di suoni brulicanti, un rumore bianco, un fondo indistinto dalla cui nebbia emergono i fonemi del coro che elenca le cose di questa povera gente che si gioca la sopravvivenza con quanto il mare offre loro avaramente («sfoggi, barboni | boseghe, rombi | granzi, bisatti»), le verdure, i sentimenti («spàsemi, bissabuova | travaggi, stramanio | tremazzo, batticuore»), i colorati improperi, i vari tipi di imbarcazioni e il sempre presente «sirocco de sottovento». Il coro, ovviamente assente nel lavoro originale di Goldoni, qui è trattato come un’inedita installazione sonora a cui segue il grido del venditore ambulante di zucca al forno, la causa di tanto trambusto. Da questo momento inizia un concertato che senza distendersi in una linea melodica forma una rete di voci sempre al limite, con salti di registro e una foga espressiva spesso esagerata – si tratta pur sempre di «zucca barucca», non di morti tragiche o ammazzamenti… È la performance vocale femminile quella che più soffre di questa impostazione, soprattutto nei tre caratteri di Lucietta, Orsetta e Checca affidati alle voci di Francesca Sorteni, Francesca Lombardi Mazzulli e Silvia Frigato rispettivamente alle quai è richiesto di esprimersi a ringhi, a parole spezzate, con i suoni onomatopeici del dialetto chiozzotto. Più efficaci, per una volta, gli interpreti maschili dei personaggi di Padron Toni (Alessandro Luongo), Titta Nane (Enrico Casari), Beppo (Marcello Nardis), Padron Vicenzo (Pietro di Bianco), Toffolo (Leonardo Cortellazzi) e Padron Fortunato (Rocco Cavalluzzi) che «parla presto e non dice che la metà delle parole, di maniera che gli stessi suoi compatrioti lo capiscono con difficoltà», come lo descrive Goldoni. E infine Isidoro (Federico Longhi), l’unico a esprimersi in veneziano, l’outsider, il deus ex machina che risolve la litigiosa situazione combinando non due ma ben tre matrimoni in una volta sola. Tutti hanno ben meritato gli applausi del folto pubblico che ha salutato con calore questa singolare prima della stagione lirica veneziana.

Il lavoro di Battistelli consta di 37 microscene, un preludio corale e un epilogo strumentale. Il tutto è suddiviso in tre quadri che formano un atto unico senza intervallo della durata di circa 100 minuti. Nel magma sonoro si coagulano a tratti devastanti temi melodici, sghembi temi ballabili, come all’arrivo dei pescatori. Nel finale, la parte migliore della partitura, le percussioni, che hanno anche troppo imperversato fino a quel momento, si incantano su un grottesco zum-pa zum-pa nella apoteosi della succulenta «zucca barucca». Alla guida dell’orchestra del teatro Enrico Calesso concerta le voci e gli strumenti con passione e competenza rendendo al meglio i particolari colori orchestrali e la densa struttura di questa complessa partitura.

Se qualche perplessità può essere espressa da quanto viene ascoltato, nulla si può dire invece per la parte visiva dello spettacolo, affidata al veneziano d.o.c. Damiano Michieletto di cui poche ora prima si è ammirato, fino quasi a cadere nel deliquio, l’installazione immersiva “Archèus. Labirinto Mozart” al Forte Marghera, di cui si riferisce a parte. Come là, è la realizzazione scenica quella che più colpisce anche ne Le baruffe. Paolo Fantin ha tradotto il tono e l’atmosfera della commedia goldoniana ideando un insieme di cinque «macchine emotive o dell’inquietudine», come le ha volute definire lui: la prima è il teatro stesso nella sua nudità; la seconda è il vento, lo scirocco che infiamma gli animi, concretizzato da tre grandi pale di ventilatori; la terza è il legno delle strutture che definiscono i diversi ambienti, un legno corroso dall’acqua e dal sale come quello delle barche o delle bricole che punteggiano la laguna, strutture che vengono distrutte per fornire le “armi” a questi poveri belligeranti, le assi, e il rumore fragoroso di quando queste si abbattono a terra; la quarta è la nebbia della laguna, con le macchine dei fumi, le ombre; la quinta è la luce, magnificamente ricreata da Alessandro Carletti. Sergio Metalli si occupa delle atmosferiche proiezioni video mentre Carla Teti provvede i come sempre perfetti costumi, qui settecenteschi ma logori e declinati nelle mille tonalità del grigio sporcato d’azzurro, verde o terra. Il gioco di pieni e di vuoti in scena, il movimento delle masse e la recitazione attoriale dei singoli sono gestiti in maniera magistrale da Michieletto che firma uno spettacolo più scarno del solito, ma sempre coinvolgente.

Per il debutto di una sua opera Battistelli invece di Robert Carsen questa volta ha scelto un regista che lavora soprattutto sulle immagini come Michieletto, che senza le coccole di un lezioso Settecento ha saputo restituirci un Goldoni brusco e moderno. Lo spettacolo è stato ripreso ed è disponibile su youtube.

La diavolessa

foto © Beatrice Milocco

Baldassare Galuppi, La diavolessa

★★★☆☆

Vicenza, Teatro Olimpico, 5 settembre 2019

La diavolessa non fa i coperchi

Due coppie, spiantata la prima (Dorina e Giannino), nobile la seconda (il conte e la contessa Nastri), un vecchio ricco da gabbare (don Poppone), l’immancabile servetta di cui è innamorato (Ghiandina) e un oste (Falco) furbastro macchinatore di inganni. Ecco gl’ingredienti per una perfetta commedia con gli scorrevoli versi di Goldoni messi in musica dal Buranello, il compositore Baldassare Galuppi.

Dorina e Giannino sono una coppia infelice; la ragazza infatti non è disposta al matrimonio finché Giannino resterà povero. Per risolvere la situazione l’oste Falco li invia da Don Poppone, annunziandoli come turchi in grado di aiutarlo nella caccia a un tesoro nascosto in cantina. Poppone li scambia però per i conti Nastri, di cui è in attesa e, quando anche questi ultimi arrivano, li accoglie come gli ospiti turchi. Risolto il doppio equivoco, l’operina prosegue con una messinscena di Giannino e Dorina, che si fingono diavoli e, in cambio di informazioni sul tesoro, estorcono del denaro a Don Poppone. Ma i successivi interventi della serva Ghiandina e dell’oste Falco portano la vicenda a una svolta: la prima scopre l’estrazione plebea dei due finti conti, mentre il secondo svela che Giannino dalla morte del padre ha ereditato denaro a sufficienza per sposare Dorina. L’opera termina così con il ritorno dei veri nobili a Roma, la restituzione del maltolto a Poppone e il perdono generale di prammatica.

Presentata al veneziano San Samuele nel novembre 1755 – pochi mesi prima della nascita di Mozart! – La diavolessa (commedia giocosa in tre atti) è uno dei frutti del fecondo sodalizio tra il compositore buranese e il commediografo veneziano, una dozzina di opere complete. Prima c’erano stati Gustavo I re di Svezia (1740), L’Arcadia in Brenta, Arcifanfano re de’ Matti (1749), Il mondo della Luna, Il paese della cuccagna, Il mondo alla roversa o sia Le donne che comandano (1750), Il conte Caramella (1751), La serva astuta o sia Il filosofo di campagna (1754). Poi metteranno ancora in scena La calamita de’ cuori, Le pescatrici (1756) e Il Re alla caccia (1763).

Galuppi è stato talora considerato l’inventore dell’opera buffa: il teatro in musica a Venezia aveva in effetti privilegiato l’opera seria nei primi decenni del XVIII secolo, per poi rivolgersi a quella buffa per motivi pratici, in quanto quest’ultima prevedeva allestimenti più economici. Il Buranello aveva introdotto in questo genere elementi compositivi innovativi, quali insiemi vocali e concertati che fanno presagire alla lontana quelli di Mozart. Un esempio è dato dal finale secondo quando il quartetto comico formato da Poppone, Dorina, Giannino e Falcone intona su un ritmo indiavolato i versi «Viva l’orco, e l’orca anch’essa; | e la bella diavolessa | il tesor si goderà. | Diavoli qua. | Diavoli là. | La diavolessa contenta se n’ va». Di lì a citare il Don Giovanni come qualcuno ha avventatamente scritto, ce ne vuole però.

Anche nell’orchestrazione dell’opera si possono notare elementi nuovi, dove la musica diventa essa stessa supporto alla drammaturgia pur con una strumentazione leggera e trasparente messa in luce qui dalle cure di Francesco Erle che, dopo averla amorosamente studiata, la rende viva sulle tavole dell’Olimpico per la rassegna Vicenza in lirica. Due corni, due flauti e due oboi, oltre agli archi e al clavicembalo, sono sufficienti per ricreare «il vivissimo incontro di arte e della parola» senza mai esagerare nelle dinamiche e nei volumi, ma mantenendo sempre un perfetto equilibrio tra buca e scena. Certo qui non c’è l’invenzione coloristica e timbrica di Vivaldi, o la complessità armonica di Händel: gli strumenti per lo più accompagnano le voci, come succede nella coeva commedeja pe mmuseca napoletana. Comunque la smilza orchestra disegna un quadro vario e colorato sottolineando ironicamente le figure nobili del conte e della contessa, gli unici personaggi cui sono riservate lunghe e complesse arie con da capo, o i personaggi buffi che si esprimono con melodie e ritmi più semplici e popolari, Dorina addirittura con una specie di tarantella nella sua prima aria e con una canzonetta in dialetto veneziano nella seconda. I numeri solistici sono equamente distribuiti, tre arie per ciascuno eccetto Dorina e Giannino, solo due per gli spiantati, ma frequenti sono gli assiemi vocali, soprattutto i duetti, ben quattro, un trio per il finale primo e i concertati a più voci per gli altri due finali.

In scena ci sono giovani interpreti, tutti volenterosi e teatralmente efficaci. Si distinguono il Giannino di Omar Cepparolli, baritono dalla voce ben proiettata e dalla chiara dizione con cui scandisce la parola nei recitativi, e il Conte di Ettore Agati, controtenore di bel timbro il quale si ritaglia un godibile siparietto teatrale nella sua aria «Tenta invan co’ suoi vapori» del primo atto quando si atteggia come le statue nelle nicchie del fondo per indulgere poi in mosse da cantante pop durante le variazioni nel da capo della sua aria. Alla contessa il compositore riserva le arie più impegnative, risolte con efficacia dal soprano Ligia Ishitani Silva che affronta con agio le agilità richieste seppure con un’espressività un po’ generica. Vivace è la servetta Ghiandina di Lucia Conte, mentre ai limiti dell’udibilità è il Falco di Lucas Lopes Pereira, peccato perché il timbro sembrerebbe piacente. Efficace nella caratterizzazione sebbene meno soddisfacente vocalmente è il don Poppone di Stepan Polishchuck, non molto a suo agio nei recitativi, che sono tanti e lunghi in quest’opera. E veniamo infine all’interprete del personaggio eponimo, la Dorina/diavolessa. Di Arlene Miatto Albeldas riesce difficile definire il registro vocale in quanto il timbro e la qualità sembrano sfuggire alla catalogazione: voce molto aperta, colore caldo nei bassi, un po’ opaco il registro medio, poco controllato quello acuto, fin dall’inizio la cantante ha suscitato perplessità sulla linea vocale disordinata e fuori stile. La giovane e bella interprete ha puntato soprattutto sulla sua fisicità per definire il personaggio, ma ahimè non è stata molto aiutata dalla regia.

Già, la regia… Da Bepi Morassi non ci si aspettava certo chissà quale inedita lettura, ma qui sembra sia venuta a mancare un’idea che desse significato a questa vicenda strampalata sì, ma abilmente congegnata dal nostro maggior drammaturgo. A parte le solite moine e le stucchevoli gag viste e riviste, in scena il teatro è latitante e i giovani interpreti si agitano spesso a vuoto affidandosi alla loro non sempre matura presenza scenica. C’è poi il problema della location: la reverenza per il luogo porta a un allestimento che non sfrutta l’apparato scenico palladiano né le architetture dello Scamozzi: lo sfondo rimane inerte a quanto avviene in scena se non per il gioco luci di Andrea Grussu e Matteo Bianchi, a tratti suggestivo. Sul palcoscenico delle brutte pedane che sembrano rimaste lì da qualche spettacolo precedente diventano praticabili per inutili e affaticanti movimenti oppure tavole allestite da due svogliati mimi con stoviglie dozzinali (i mug per il caffè!). Visivamente lo spettacolo si affida soprattutto ai sontuosi costumi settecenteschi reinterpretati da Carlos Tieppo e realizzati dalle sartorie Daniela e Paola Girardi.

Il pubblico, che ha resistito senza troppe defezioni alle oltre tre ore, ha salutato alla fine lo spettacolo con caldi applausi.

Il mondo della Luna

★★★☆☆

Il garbo di Goldoni, le preziosità di Haydn e un pizzico di noia

Intonato per la prima volta da Baldassare Galuppi nel 1750, anche Paisiello nel 1774 aveva tratto dal testo di Carlo Goldoni una sua opera, Il credulo deluso, che poi avrebbe ripreso nel 1783 per una “festa teatrale comica” a San Pietroburgo, questa volta con il titolo originale Il mondo della Luna. Joseph Haydn scelse il medesimo libretto per una rappresentazione in occasione delle nozze del secondogenito del principe di Esterházy il 3 agosto 1777.

Questa di Haydn è l’intonazione più brillante, con una meticolosa cura dei recitativi accompagnati e un’orchestra che si diverte a imitare quanto avviene in scena – il “volo” di Buonafede come effetto dell’elisir o il canto degli uccelli nella scena pastorale del secondo atto – con una ricchezza inusuale di strumenti la cui potenza fonica viene dispiegata fin dalla sinfonia di apertura, che Haydn utilizzerà poi come primo tempo della sua sinfonia n° 63 in Do, con i legni e gli ottoni che si uniscono agli archi per l’esposizione del primo tema quasi a mo’ di fanfara. La lunghezza e complessità del finale secondo (437 battute) prelude all’analogo grandioso finale delle mozartiane Nozze di Figaro di nove anni dopo (ma là saranno ben 940!), tant’è che il terzo atto conclude la vicenda in appena un quarto d’ora.

Nell’ilare vicenda il citrullo Buonafede è portato a credere di andare sulla luna dove viene costretto, suo malgrado, a lasciar sposare le figlie con chi vogliono loro. «Goldoni compie, con il consueto garbo e con acuminata intelligenza, una puntuale critica a consuetudini e luoghi comuni della società: all’ignoranza (incarnata da Buonafede), alla falsità, alla superstizione, al potere, prospettando per converso una sorta di mondo ideale retto da un sovrano illuminato. Il testo, ricco di termini scientifici e [astrologici], riesce bene a evocare un’atmosfera di serenità ultraterrena, mentre non manca una vena di misoginia tipica del dramma giocoso (qui l’ironia verso le donne viene giustificata in quanto “va co’ la luna il lor pensiero”)». (Raffaele Mellace)

Tobias Moretti dopo Il commissario Rex dei telefilm aveva esordito come regista nel 2001 (un Don Giovanni a Bregenz) e prima di questo Mondo della Luna ha allestito la simpatica Finta giardiniera di Zurigo del 2006. Qui al Theater an der Wien nel 2009 il risultato è molto meno convincente, con la solita ambientazione moderna ma senza ironia, costumi orribili e un palcoscenico riempito a caso con cantanti che non sanno come muoversi e allora rimangono in scena perché nessuno ha detto loro di uscire. Per di più sono latitanti le doti attoriali dell’interprete di Buonafede, un Dietrich Henschel refrattario all’umorismo oltre che vocalmente poco gradevole. Sul piano vocale le cose non vanno meglio con l’Ecclitico di Bernard Richter, di piacevole aspetto e spigliato, ma insopportabile nei recitativi mezzo parlati e dalla dizione improponibile. Ma il peggio lo dà, ahimè, il Markus Schäfer di Cecco, che assomma i difetti dei precedenti.

Si salva invece il reparto femminile, soprattutto con l’Ernesto di una Vivica Genaux in pantaloni dallo stile eccellente e dalle precise agilità, anche se messe poco alla prova dal suo breve ruolo. Bene anche la maliziosa Lisetta di Maite Beaumont, neanche lei aiutata dalla regia però. Di buon livello le due figlie di Buonafede, la Clarice di Christina Landshamer e la Flaminia di Anja Nina Bahrmann, cui Haydn regala due deliziose arie nel secondo atto – ma sono tutti “deliziosi” i numeri musicali di quest’opera, il problema è che rimangono isolati e non sviluppano il pathos teatrale di Mozart o la fluida comicità della scuola napoletana.

Per fortuna la partitura è nella mani di Nikolaus Harnoncourt e l’esecuzione è quasi integrale anche nei recitativi. Alla testa del suo Concentus Musicus Wien, il maestro è olimpico nei tempi (l’esecuzione sfiora le tre ore) e cesellatore di preziosità.

Il DVD ha i sottotitoli anche in italiano, due tracce audio e un bonus di quasi mezz’ora con una bella intervista al maestro Harnoncourt.

Il burbero di buon cuore

★★★★☆

Lussuosa produzione per il piccolo Mozart di Valencia

Opera in italiano di un compositore spagnolo tratta da un’opera scritta in francese da un commediografo italiano. Questo è il caso de Il burbero di buon cuore di Martín y Soler (1754-1806) su libretto di Lorenzo da Ponte basato sull’omonima pièce che Carlo Goldoni aveva scritto in francese nel 1771, Le bourrou bienfaisant. Goldoni stesso nel 1789 avrebbe poi tradotto in italiano il suo testo con lo stesso titolo dapontiano. Due tra i nomi più insigni del teatro settecentesco si riunirono dunque per questo lavoro rappresentato con grande successo al Burgtheater di Vienna il 4 gennaio 1786.

Noto all’epoca come Vincenzo Martini, a sottolineare la sua appartenenza a quel mondo musicale egemone nel Settecento, Vicente Martín y Soler fu compositore di primo piano. Sono tre le opere scritte su libretti di Da Ponte: oltre al Burbero, L’arbore di Diana e quel Una cosa rara citato da Mozart nel suo Don Giovanni. Gli anni infatti sono quelli, 1786-1787.

La trama del libretto è praticamente la stessa della vicenda goldoniana. In Da Ponte Géronte diventa Ferramondo, i coniugi Dalancour diventano Giocondo e Lucilla, Picard (il servo di Ferramondo) Castagna e Marton (la governante) Marina.

Atto I. Angelica, nipote di Ferramondo, è innamorata di Valerio, ma vi sono ostacoli al loro matrimonio: Giocondo, fratello e tutore di Angelica, per mantenete i lussi della moglie Lucilla, a cui non sa negare nulla, ha sperperato in soli quattro anni tutto il patrimonio, attirandosi il disprezzo dello zio. La dote della sorella è andata in fumo sicché il fratello vuole rinchiudere Angelica in convento per evitare ulteriori spese. Angelica si confida con Ferramondo, burbero e scostante, tutto concentrato nel gioco degli scacchi, ma in fondo generoso; durante il colloquio, la giovane, intimidita dallo zio, non gli rivela l’amore per Valerio e perciò Ferramondo decide di cercarle un buon partito. Dati i pessimi rapporti tra zio e nipote, Giocondo incarica Dorval, amico di Ferramondo, di convincere il vecchio ad aiutarlo nella sua disastrosa situazione finanziaria. All’ambasceria di Dorval, Ferramondo dispone che Giocondo metta la testa a posto e concede Angelica a Dorval, che accetta purché la ragazza acconsenta.
Atto II. Giocondo è ormai alle strette: è infatti condannato e sta per essere incarcerato. Valerio è pronto a soccorrerlo e a sposare Angelica anche senza dote e incarica Marina di fare la proposta a Ferramondo; mentre Dorval, visto il fermo rifiuto di Angelica, si oppone alle nozze decise da Ferramondo e si anzi fa garante della causa di Valerio e Angelica. Ferramondo si commuove alla supplica di Giocondo, promettendo di aiutarlo e accettando che Lucilla resti con lui purché i beni vengano amministrati in modo più giudizioso e concede a Valerio la mano di Angelica insieme a una dote assai cospicua.

La musica del Burbero è estremamente piacevole, ha qualcosa di mozartiano ma armonicamente è più semplice, caratteristica che era stato riscontrata dai critici del tempo e che aveva reso la sua opera popolare, quasi quanto quelle di Mozart. Per la ripresa a Vienna del 1789, essendo il compositore spagnolo lontano mille miglia in quel di San Pietroburgo dove poi morirà, Mozart aveva scritto due nuove arie per la cantante Louise Villeneuve, la nuova Lucilla. «Chi sa, chi sa qual sia» e «Vado, ma dove? o dèi» gettavano una luce inedita su un personaggio che fino a quel momento era piuttosto esile. Queste due arie sono ora utilizzate nella ripresa moderna dell’opera al Teatro Real di Madrid le cui recite del novembre 2007 sono su un doppio DVD della Dynamic.

La lussuosa produzione ha nella direzione di Christophe Rousset e nel cast vocale i suoi punti di forza. Il direttore, anche al fortepiano nell’accompagnamento dei recitativi, dà una lettura scoppiettante della partitura e concerta magistralmente i cantanti in scena. Il reparto femminile ha in Elena de la Merced e Véronique Gens (Angelica e Lucilla) due valide interpreti, soprattutto nella seconda, che nelle due arie di Mozart rende evidente la diversa statura dei due compositori: buon mestiere in Martin y Soler, genio in Mozart. Indubbiamente efficaci i due tenori Saimir Pirgu e Juan Francisco Gatell nei personaggi giovani (Giocondo e Valerio), ma è nella coppia di baritoni che troviamo l’eccellenza di due interpreti perfettamente a loro agio nei loro ruoli. Sia Carlos Chausson, ma sia soprattutto Luca Pisaroni, unico italiano della compagnia, rendono credibili e godibili i due “anziani” Ferramondo e Dorval portando in scena tutta la simpatica umanità dei caratteri goldoniani.

Merito della buona riuscita della serata è anche la regia di Irina Brook, che punta sulla recitazione per creare uno spettacolo che ha l’attenta definizione di un testo di prosa. L’ambientazione moderna – siamo nella reception di una vecchia pensione il cui arredamento datato è ravvivato dai colorati elementi che ora fanno parte del modernariato mentre i costumi sono quelli di tutti i giorni (solo la fashion victim Lucilla e il marito Giocondo sono in tenute da ricchi parvenu) – se da un lato aiuta a rendere più vicino a noi la storia, dall’altro rende poco credibile la sottomissione e la minaccia del convento per una ragazza in t-shirt e jeans. Tuttavia molti sono i momenti di teatralità dello spettacolo, compreso un ammiccamento al mozartiano Figaro quando Valerio, per non essere scoperto, scappa saltando dalla finestra come Cherubino.

Bene ha fatto la Dynamic nel mettere a disposizione questo spettacolo, ma come casa editrice italiana dovrebbe curare maggiormente le didascalie nella nostra lingua affidandole a qualcuno più attento all’ortografia.

Il mondo della Luna

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Franz Joseph Haydn, Il mondo della Luna

★★☆☆☆

Montecarlo, Salle Garnier, 25 marzo 2014

(live streaming)

«Luna, lena, lino, lana, lana, lino, lunala!»

Allestimento in coproduzione col teatro di Bilbao questo di Monte Carlo. I recitativi sono drasticamente decimati e del maestro concertatore Jérémie Rhorer che cosa si può dire se non che l’aspettiamo in un’altra prova con un’orchestra di livello superiore a questa del Cercle de l’Harmonie. Non meglio il quartetto di voci del coro residente e accettabile invece il cast. Vocalmente le virtuosistiche agilità dei tre personaggi femminili (Ernesto è en travesti) trovano interpreti dignitose, soprattutto la spigliata servetta Lisetta di Annalisa Stroppa. Onesto Buonafede è Roberto de Candia mentre Ecclitico è interpretato da un cantante, Philippe Do, dal cognome tanto breve quanto musicale, peccato non lo sia la sua prestazione. Un po’ sopra le righe il Cecco di Mathias Vidal, ma coerente con la messa in scena un po’ camp del regista Emilio Sagi.

Nel primo atto i costumi di Pepa Ojanguren sembrano usciti dall’“Emporio del Coatto” (camouflage, borchie di metallo, giubbotti di pelle o jeans, salopette) che contrastano non solo con gli stucchi dorati della Sala Garnier dell’Opéra di Monte Carlo, ma soprattutto con l’ingenuità dell’assunto, che mal sopporta il disincantato cinismo dell’epoca moderna in cui è ambientata la storia. Sagi è più convincente nella ricostruzione dell’ambiente selenico del secondo atto, visto come un palcoscenico di cabaret, anche se fatto in economia (due girls e quattro boys poco convinti su una scala). Il regista non coglie i suggerimenti del testo per rendere più intrigante il rapporto fra i giovani amanti, soprattutto nel finale con quella musica così languidamente amorosa, e molto è lasciato all’improvvisazione dei cantanti.

Gli stitici applausi del pubblico monegasco non premiano nessun interprete in particolare.