Mese: marzo 2021

Il maestro di cappella

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Domenico Cimarosa, Il maestro di cappella

Schwetzingen, Schlosstheater, 1991

(registrazione video)

«Oh che armonico fracasso»

È l’orchestra protagonista in questo monologo comico scritto da Domenico Cimarosa a Pietroburgo tra il 1786 e il 1791 su testo anonimo. Per la sua singolarità di prevedere un solo cantante, diversamente dai consueti intermezzi, si pensa che possa trattarsi originariamente dell’ampliamento di un’aria o di una cantata comica in forma scenica. Come l’opera dello stesso Cimarosa L’impresario in angustie, da cui è presa in prestito l’ouverture, anche Il maestro di cappella è una satira dell’ambiente teatrale, un tema appartenente al rigoglioso filone dei lavori sul “teatro nel teatro”.

Il maestro vuol provare con l’orchestra un’aria «in stil sublime» (ossia un’aria da opera seria). L’avvio delle prove è un disastro: gli strumentisti attaccano al momento sbagliato. Il maestro deve allora canterellare i motivi di ciascuna parte dell’orchestra, affinché gli esecutori li apprendano e li assimilino a uno a uno. L’addestramento funziona: alla fine, i musicisti sono pronti per cimentarsi in un pezzo di bell’effetto.

Dal punto di vista della struttura musicale, quest’intermezzo si può sintetizzare così: un recitativo (accompagnato) introduce le prove; un’arietta propone, in un quadro di vivace disordine, un campionario dei timbri strumentali dell’orchestra classica; le parti proposte dal maestro vengono via via intonate dalle sezioni orchestrali, indi concertate in una pagina d’ampio respiro; un’aria finale conclude gioiosamente la travagliata prova.

L’orchestra è sul palcoscenico del teatrino di corte. Sotto la “direzione” del baritono Alberto Rinaldi, dai tempi comici perfetti, gli orchestrali della Sonfonieorchester des Südwestrundfunks in parrucche e abiti settecenteschi ma strumenti moderni suonano e recitano la loro parte con gusto. Li aveva sapientemente concertati precedentemente Gianluigi Gelmetti.

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L’heure espagnole

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Maurice Ravel, L’heure espagnole

★★★★☆

22 marzo 2021

Toledo a Kensington

La chiusura dei teatri ha fatto riscoprire il film-opera, qui riproposto con gusto moderno da Stephen Medcalf in questa produzione della Grange Park Opera dell’atto unico di Ravel L’heure espagnole.

Una vera bottega di orologiaio nel quartiere londinese di Kensington (la Howard Walwyn’s Fine Antique Clocks, per la precisione) è la location: fuori il traffico, dentro un silenzio ovattato scandito dal ticchettio degli orologi. Tutto è molto british, di spagnolo c’è soltanto La veduta di Toledo di El Greco sulla parete dell’immigrato Torquemada, mentre il mulattiere è un corriere UPS. La stanza “al piano di sopra” è al piano di sotto…, un tocco di ironico surrealismo inserito nel realismo dell’ambientazione, come il fatto che i due pretendenti, l’inetto poeta Gonzalve e il tronfio banchiere Don Iñigo Gomez, possano entrare nelle cassa di una pendola reale o che il forzuto Ramiro possa tenerla in equilibrio su un solo dito.

L’orchestra qui è soppiantata da pianoforte (Chris Hopkins), pochi ottoni e percussioni per un suono più rarefatto e intimo che fanno perdere la fantasmagoria tonale della partitura di Ravel ma non il tono iberico. Gli interpreti hanno registrato la loro parte alla Wigmore Hall e qui cantano in playback con molta naturalezza e possono concentrarsi sulla recitazione con gli a parte di Conceptión rivolti alla cinepresa e quindi allo spettatore.

Ottimi gli interpreti, eccellenti cantanti e bravi attori: Catherine Backhouse (l’insoddisfatta moglie), Jeffrey Lloyd-Robert (il marito cornuto ma affarista), Ross Ramgobin (il mulattiere), Ashley Riches (il banchiere) e Elgan Llŷr Thomas (il poeta).

Chi ha detto che non si possano fare cose belle in economia?

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L’heure espagnole / La voix humaine

Francis Poulenc, La voix humaine

Maurice Ravel, L’heure espagnole

★★★☆☆

Maastricht, Opera Zuid, 14 novembre 2020

(video streaming)

Due donne sull’orlo di una crisi di nervi

Il divano è lo stesso nell’allestimento della belga Opera Zuid, ma non potrebbero essere più diverse le due donne che animano queste due operine novecentesche. Non solo perché scritte a distanza di quasi cinquant’anni l’una dall’altra – 1911 l’anno di composizone di L’heure espagnole, 1959 quello de La voix humaine e in mezzo ci sono state due guerre mondiali… – quanto per il carattere dei due personaggi femminili: libera, spregiudicata e sensuale quella di Ravel, tutta l’opposto quella di Poulenc.

Il dramma di Cocteau è ambientato in una stanza quasi vuota dove scatoloni di cartone suggeriscono un trasloco appena avvenuto o imminente. Regia, scene e costumi, tutto al femminile: Béatrice Lachaussée, Amber Vandenhoeck, Jorine van Beek rispettivamente. L’epoca è quella contemporanea: il telefono è un cellulare e non c’è la telefonista ma la solita chiamata dal call center che ti propone un nuovo abbonamento. In camicia da uomo e scalza Lei guarda ogni tanto l’anello che Lui le ha regalato. La ripresa è cinematografica, primi piani e una macchina da presa che tallona la donna nel suo muoversi nervosamentenella stanza alla ricerca di campo. Lentamente scende la sera: le ombre si fanno più nette, le luci più bluastre, i vetri della finestra si rigano di pioggia per poi tingersi del nero della notte. Elle è il soprano siriano-armeno Talar Dekrmanjian che ha un timbro leggermente acido ma dimostra buone capacità interpretative e un’intensa presenza scenica.

Orologi e pendole di ogni foggia e dimensione riempiono la stessa stanza per l’atto unico di Ravel. Qui i personaggi sono cinque e tutti indaffarati a uscire e entrare, chi dalla stanza chi dalla cassa dell’orologio. Il mulattiere qui è un corriere in bicicletta. Tutto è chiaro, ma manca il mistero da boîte à musique e l’ironica ibericità del lavoro. Senza particolari eccellenze il cast formato da Gilles Ragon (Torquemada), Romie Estèves (Conceptión), Michael Wilmering (Ramiro), Alexandre Diakoff (Don Iñigo Gomez), Peter Gijsbersen (Gonzalve). Corretta la concertazione di Karel Deseure.

Dido and Æneas

Henry Purcell, Dido and Æneas

★★★★☆

Verona, Teatro Filarmonico, 28 marzo 2021

(video streaming)

La pandemia aguzza l’ingegno dei registi

Negli ultimi mesi i metteurs en scène sono riusciti a fare di necessità (le restrizioni dovute alla pandemia di Covid-19) virtù, utilizzando in maniera creativa lo spazio dei teatri privi di pubblico – che è sì una contraddizione, ma di questi tempi che cosa c’è di non contradditorio?.

È il caso ad esempio di Stefano Monti, che trasforma l’intero Teatro Filarmonico di Verona in un set per la rappresentazione in streaming di Dido and Æneas, l’unica opera del Seicento, dopo Monteverdi, regolarmente in repertorio ancora oggi in tutto il mondo.

Monti firma anche scene e costumi di questo allestimento che arriva da Modena e che è stato adattato alle nuove esigenze sanitarie. Le poltrone sono impacchettate alla Christo e modellini di navi poggiate sulla tela macchiata di azzurro trasformano la platea nel mare su cui si avventura Enea per fondare un impero ma abbandonando la sua Didone. I coristi sono distribuiti nel palchi, i cantanti sono a debita distanza (e non per l’imposizione degli dèi…) così come gli orchestrali nella buca allargata e alzata a livello del pavimento della platea.

Una pedana rossa sghemba e pochi elementi su fondo nero trasformano il palcoscenico nel palazzo della regina di Cartagine, scendendo in platea entriamo invece nella caverna delle streghe, mentre un piano inclinato e due torri di valigie ci portano tra i marinai che si preparano a salpare. Lo spettacolo ha una sua giusta sontuosità: ricchi ed evocativi costumi – anche per i coristi con gorgiera, poi con maschera per la scena delle streghe, quindi vestiti da marinaretti per il terzo atto –, numerosi figuranti che accennano a movimenti coreografici, gesti solenni e stilizzati, attento gioco di luci.

Giulio Prandi è alla testa di un’orchestra che non è avvezza a questo repertorio, ma riesce a ottenere un buon suono grazie anche alla bravura dei musicisti impegnati in momenti solistici. La precisone dell’attacco delle voci del coro è più che accettabile nonostante la dispersione spaziale. Josè Maria lo Monaco è una Dido dal bel legato e da intensità espressiva, Maria Grazia Schiavo è una efficace Belinda, Lucia Cirillo la crudele e invidiosa Sorceress, Federico Fiorio passa con nonchalance da First Witch a Spirit e Marta Redaelli ben completa il terzetto delle streghe. Come Æneas Renato Dolcini si riconferma cantante di eccezione che al magnifico timbro e allo stile impeccabile unisce colori e belle intenzioni interpretative. Anche il suo inglese suona migliore di quello degli altri.

Molto bello il finale: i coristi si ritraggono nei palchi, la sala piomba nell’oscurità e Didone, che è scesa in platea e ha attraversato il corridoio e il foyer, esce fuori dal teatro nel Lapidario Maffeiano e si accascia fra le colonne. Particolarmente angosciante il momento dei saluti finali in un silenzio assoluto. Impossibile abituarcisi.

L’opera di Purcell è stata preceduta a mo’ di prologo dalla cantata Giusti Numi che il ciel reggete di Niccolò Jommelli, per soprano, archi e continuo, qui affidata alla voce di Maria Grazia Schiavo che davanti al sipario semiaperto intona con intensità e senso del teatro il lamento di Didone ripartito in due arie e un recitativo-arioso centrale. Jommelli è autore di una Didone abbandonata in tre atti andata in scena in una prima versione nel 1747 al Teatro Argentina.


Il castello del duca Barbablù

Béla Bartók, Il castello del duca Barbablù

Lione, Opera Nouvel, 26 marzo 2021

(video streaming)

Barbablù è di casa a Lione. Ora vietato ai minori – e sconsigliato ai maggiori.

Per la quarta volta in pochi anni Barbablù è protagonista sul palcoscenico dell’opera di Lione: dopo il Bartók di Pelly del 2007 e quello ilare di Offenbach del 2019 ancora di Pelly, ora per il festival “Femmes libres?” a quello di Dukas segue nuovamente quello più famoso di Bartók.

La durata indicata, oltre le due ore, fa supporre che l’atto unico non sia il solo evento della serata e infatti dopo le note finali inizia di nuovo l’opera, ma con una Judith diversa: nella prima parte abbiamo il punto di vista della donna, dice Andriy Zhodak, l’autore della messa in scena, nella seconda quello dell’uomo. Nella drammaturgia di Georges Banu l’idea è intrigante, ma è la realizzazione del regista ucraino che lascia perplessi.

Attraverso una cornice con specchio passiamo in un alloggio fatiscente popolato da una folla di strani personaggi che entrano ed escono in continuazione dalle porte che la donna dovrebbe aprire, così che le camere misteriose risultano  essere quelle che abbiamo appena visto… Riprese da un operatore alla steadicam le immagini sono proiettate in alto su uno schermo (che novità…) mentre l’impianto scenografico di Daniel Zholdak consiste nella solita immancabile piattaforma che ruotando ci mostra i vari ambienti, uno più disgustoso dell’altro, di questa dimora infestata da ossessioni sessuali e crudeltà assortite: dal sadismo alla coprofilia, dalla sodomia all’esibizionismo all’autoerotismo, tutto è reso esplicito tanto quanto è reticente il testo di Balász e misteriosa la musica di Bartók. Per di più quello che viene mostrato non ha nulla a che vedere con quello che viene detto, gli interpreti potrebbero cantare qualunque altra cosa e il risultato non cambierebbe. Che l’opera di Bartók abbia un’indubbia componente psicanalitica non è una novità e lo dimostrano diversi recenti allestimenti, ma qui l’atmosfera onirica si tinge di splatter e di porno gratuito. Il regista sembra voler mettere a prova la pazienza dello spettatore, e ci riesce. Buon per lui che in teatro non ci sia il pubblico.

Nella seconda parte l’ambiente è unico, il corridoio con le porte di prima, e dei vari personaggi sono rimasti solo l’uomo in abito da sera femminile svolazzante in continuazione da una camera all’altra e due delle figure femminili, che ora però appaiono con meno frequenza. In più c’è una ragazzina che chiuderà lo spettacolo scostando per l’ultima volta lo specchio attraverso cui siamo entrati. In questa seconda parte non ci sono più le immagini ripugnanti di prima, i due personaggi rimangono vestiti e ingioiellati e in scena non succede praticamente nulla. Su uno schermo a destra rivediamo alcune delle immagini della prima parte, quelle riprese dalla steadicam, ma dal confronto non ricaviamo nessuna informazione o emozione in più. L’unica cosa certa è che la Judith di questa seconda parte sembra abbia comunque un inconscio molto meno turbato.

Di Andriy Zhodak non si sa molto se non che è nato nel 1962 in Ucraina e dopo aver lavorato in patria è poi andato in Germania. Il suo lavoro sembra un mix mal digerito di Bieito, Warlikowski e Bösch.

Imperterrito Titus Engel dipana con sapienza le inquietanti armonie che non trovano un corrispettivo adeguato nell’incubo che viene proposto in palcoscenico dove manca del tutto la tensione che troviamo nella musica. Károly Szemerédy è un Barbablù dalla voce chiara e sonora ma sembra più impegnato a recitare la parte del perverso che a curare l’espressività. Delle due Judith la prima, Eve-Maud Hubeaux, ha un tono più drammatico, la seconda, Victoria Karkačeva, un timbro più scuro, ma questo non sembra lo spettacolo adatto a farne risaltare le qualità vocali.

Lasciamo alle fotografie il compito di dare un’idea dell’aspetto visivo di quanto trasmesso in streaming.

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Ariane et Barbe-bleu

Paul Dukas, Ariane et Barbe-bleu

★★★☆☆

Lione, Opera Nouvel, 24 marzo 2021

(video streaming)

Il rifiuto della libertà

Una coppia appena sposata in macchina. Dai finestrini si vede scorrere la campagna. Lei è ancora vestita di bianco, lui ha una folta barba blu. Fuori campo si sente la folla: «À mort! À mort! […] Retournez! | N’entrez pas! N’entrez pas! C’est la mort!». Le voci degli abitanti del villaggio inutilmente mettono in guardia la sposa, che è decisa a scoprire il mistero che circonda suo marito: «Il m’aime, je suis belle | et j’aurai son secret» risponde decisa Ariane alla nutrice che l’aspetta al castello.

L’Ariane et Barbe-bleue fa parte di un festival on line dal titolo “Femmes libres?” che l’Opéra de Lyon dedica alla donna con conferenze, interviste al femminile e spettacoli dedicati a tre personaggi del teatro musicale: l’Ariane dell’opera di Dukas, la Judith del Castello del duca Barbablù di Bartók e la Mélisande di Maurice Maeterlink con un evento al Museo del tessuto sulle musiche di Fauré, Debussy, Schönberg e Sibelius.

Destinato inizialmente a Edvard Grieg, il libretto dell’Ariane et Barbe-bleu ou La délivrance inutile pubblicato nel 1902 e da lui definito «un canevas pour le musicien. Trois petits actes très brefs sans aucune prétension et qui n’attendent toute leur valeur de la musique qu’y mettra le musicien», dopo la rinuncia del compositore fu proposto a Paul Dukas che lavorò alla sua intonazione fino al 1906 e che al proposito scrisse: «Nessuno vuole essere liberato. La liberazione è costosa perché è l’ignoto, e gli uomini (e le donne) preferiranno sempre una schiavitù “familiare” a quella terribile incertezza che è il peso della “libertà”. E poi la verità è che non si può liberare nessuno, è meglio liberare sé stessi. Non solo è meglio, ma è l’unico modo. E queste signore lo mostrano molto  bene a questa povera Arianna che ne era all’oscuro e che crede che il mondo ha sete di libertà mentre aspira solo al benessere: appena queste signore sono trascinate fuori dalla loro cantina, lasciano andare la loro liberatrice per il loro gioielliere-carceriere (un bel ragazzo, tra l’altro) come era opportuno! Questo è il lato “comico” dell’opera, perché c’è, almeno nel poema, un lato satirico di cui la musica non potrebbe tenere conto senza rendere l’opera abbastanza incomprensibile».

Questo aspetto “comico” non sembra essere stato preso in considerazione dal regista Àlex Ollé de La Fura dels Baus che invece considera il lavoro un inno alla liberazione e alla scoperta della verità, come afferma in un’intervista. La scenografia di Afons Flores copia il labirinto che cala dall’alto della produzione di Stefano Poda, che comunque non influisce molto sulla drammaturgia e rimane appena discernibile nell’oscurità che non rende facile la ripresa dello streaming. Le diverse porte sono risolte con un fascio di luce di colore e l’ultima si apre sul salone in cui si svolge la festa di nozze con le altre mogli tra gli invitati. I tavoli saranno poi impilati a piramide, una barricata in verticale, per il tentativo di fuga (verso il soffitto?) delle donne capeggiate da Ariane. Il terzo atto è dominato da una grande cornice, lo specchio di un bagno per signore ed è dalle quinte che Ariane e la nutrice si allontaneranno, lasciando le altre donne avanzare verso il proscenio con il marito ancora legato alla sedia. Il realismo che vediamo in scena non risolve certo il simbolismo del lavoro e il lungo intervento prima dell’inizio dello spettacolo di due membri di un collettivo che rivendica l’occupazione del teatro non ha aiutato a entrare nell’atmosfera. 

Alla testa dell’orchestra del teatro Lothar Koenigs ricostruisce con sapienza la struttura di questa “sinfonia con voce” dove domina in assoluto Ariane – Barbe-bleu (qui il basso Tomislav Lavoie) ha solo poche battute nel primo atto e delle cinque mogli una è muta. Katarina Kernéus prende in carica il personaggio che tratteggia con efficacia, ma è superata vocalmente dalla nutrice di Anaïk Morel per colore e fraseggio (la lingua madre aiuta molto).

Il signor Bruschino

Gioachino Rossini, Il signor Bruschino

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 21 marzo 2021

(video streaming)

Comicità in bianco e nero

La pandemia non ferma i teatri allo stesso modo: a Monaco si reagisce meglio che in altri e la programmazione prosegue, anche se in streaming, magari sfruttando in maniera diversa il nuovo medium.

Marcus H. Rosenmüller, regista di cinema e documentarista televisione, che aveva qui prodotto sette anni fa un Comte Ory, fa diventare Il signor Bruschino un film in bianco e nero, una vecchia pellicola rigata dal tempo in cui le inquadrature hanno un taglio cinematografico. La vicenda è ambientata in un teatro dove Sofia è una sarta e Florville il custode, con l’orchestra sul palcoscenico davanti a uno schermo e i cantanti agiscono al proscenio con pochi mezzi scenografici a disposizione. Dirige l’orchestra del teatro in formazione ridotta – flauto, due oboi, clarinetto, fagotto, due corni, archi e basso continuo al pianoforte per i recitativi secchi – Antonino Fogliani, un esperto di questo repertorio che infatti mette abilmente in risalto i frutti del precoce genio rossiniano, qui otto numeri musicali preceduti dalla famosa sinfonia con gli archetti dei violini che battono sui leggii.

A parte Bruschino padre, ognuno dei personaggi principali ha un pezzo in cui primeggiare: Emily Pogorelc dipana la bellissima aria di Sofia «Ah, donate un caro Sposo» con sensibilità e agili colorature; Josh Lovell è un lirico Florville nel «Deh tu mi assisti amore» con cui si apre l’opera e i due giovani interpreti si uniscono nel sognante «Quant’è dolce un’alma amante»; di tono completamente diverso è il duetto «Io danari vi darò» in cui Florville si mette d’accordo con Filiberto, un efficace Edwin Crossley-Mercer, per tener rinchiuso nella locanda Bruschino figlio per farsi passare per lui e conquistare la figliola; l’aspetto più comico dell’atto unico è appannaggio dei personaggi di Gaudenzio, qui Misha Kiria buon caratterista ma dall’intonazione talora vagante nella sua cavatina «Nel teatro del gran mondo». Come Bruschino padre, che nonostante sia il personaggio del titolo non ha un’aria tutta per sé ma entra a far parte degli insiemi, c’è l’irresistibile e come sempre eccellente Paolo Bordogna. Eliza Boom (Marianna), Andrew Hamilton (Delegato di Polizia) e Andres Agudelo (Bruschino figlio) completano lo smilzo cast di questo fluido e piacevole spettacolo.


 

Der Rosenkavalier

Richard Strauss, Der Rosenkavalier

★★★★★

Monaco, Nationaltheater, 21 marzo 2021

(video streaming)

«Solo un commedia, nient’altro»

Richard Strauss sta a Monaco di Baviera come Giuseppe Verdi a Parma o Antonio Vivaldi a Venezia e il nuovo allestimento della sua opera più famosa doveva costituire l’evento della stagione della Bayerische Staatsoper.

Diretta dal suo Generalmusikdirektor Vladimir Jurovskij e messa in scena dal più interessante regista di oggi, Barrie Kosky, Der Rosenkavalier che è stato trasmesso in streaming a teatro chiuso al pubblico ha avuto un ulteriore punto di interesse: l’immensa partitura è stata riadattata dal compositore e direttore Eberhard Klohe per un’orchestra ridotta a causa delle restrizioni sanitarie dovute alla pandemia da Covid-19, una pratica soluzione per portare comunque in scena l’opera – una soluzione molto più accettabile di quella discutibile d’accorciare un’opera com’è stato fatto con l’ultimo Così fan tutte salisburghese. L’arrangiamento di Kloke «parte dal supposto di Der Rosenkavalier come un pezzo di conversazione per trascrivere la sua partitura nell’orchestrazione della appena successiva Ariadne auf Naxos, essa stessa un’opera all’intersezione tra dramma e teatro musicale. L’idea è stata di cambiare il suono e quindi la struttura tonale all’interno dell’orchestra, così come l’equilibrio tra palcoscenico e orchestra, ottenendo sia un’espansione che una compressione del suono in cui la strumentazione predilige una gamma di suoni distinti e contrastanti invece di un suono misto. Il riferimento all’orchestra di Ariadne si esprime, ad esempio, nell’uso frequente di pianoforte, arpa, celesta e harmonium» recita il programma di sala.

In effetti all’ascolto il suono risulta più scoperto, da musica da camera, meno turgido e sinfonico, adattandosi efficacemente al tono del Rosenkavalier. Comunque i momenti di melanconico struggimento non vengono per nulla scalfiti dalla nuova strumentazione e l’intreccio di temi viene articolato con sapienza dalla concertazione di Vladimir Jurovskij.

Dopo quasi cinquant’anni in cui alla Bayerische Staatsoper aveva dominato la produzione rococò di Otto Schenk, l’opera di Strauss è ora affidata a Barrie Kosky. Il Settecento visto da un compositore tra Ottocento e Novecento e riletto da un regista del XXI secolo è quello che ci propone Kosky con il suo gusto per l’ironia, il Kitsch, la farsa, la malinconia. Un mix realizzato come sempre con grande equilibrio e senso del teatro dal regista che crea per ogni atto un mondo diverso.

Secondo la drammaturgia di Nikolaus Stenitzer il personaggio principale è il tempo, ed ecco allora che ognuno dei tre atti inizia con un orologio – «Talvolta mi alzo nel mezzo della notte e fermo tutti gli orologi, tutti», canta la Marschallin nel primo atto, «È il tempo, Quinquin […] Il tempo, cosa strana. […] È intorno a noi, è anche dentro noi. Cola sui volti, cola nello specchio, e scorre nelle mie tempie. […] Silente come una clessidra». Seminudo e con due ali sulle spalle da decrepito Cupido, un vecchio si aggira come un domestico onnipresente, è Crono, lo stesso che condurrà la carrozza d’argento di Oktavian con la sua rosa. Durante il preludio un pendolo dalle lancette impazzite custodisce i due amanti, fuori dal tempo in una tempesta erotica per l‘ultima volta. Poi escono dalla cassa ed inizia l’opera tra il cinguettio di uccelli in orchestra e in scena. Nel primo atto la camera da letto della Marschallin è tutto un gioco di vetri scuri come quelli di un trumeau settecentesco e l’apparizione del Tenore è un sogno in cui rivive Farinelli, quello del film. Il palazzo di Faninal del secondo atto è una pinacoteca di nudi femminili con fauni che saltano fuori dalle allegorie barocche e si trasformano nel barone Ochs von Lerchenau. La “messa in scena” del terzo atto ha luogo proprio sul palcoscenico di un piccolo teatro con Oktavian e la sua nuova amante sul palco e la Marschallin disincantata in platea: «Das Ganze war halt eine Farce und weiter nichts» (Fu tutto solo una commedia, nient’altro).

Eccezionale è il gioco attoriale ed espressivo degli interpreti, e se qualche momento sfiora la farsa in maniera forse un po’ pesante, per il resto lo spirito dell’opera è magistralmente e fedelmente restituito da questa produzione che assieme alla recitazione ha i suoi punti di forza nelle sceonografie, soprattutto per il primo atto, di Rufus Didwiszus, nei costumi di Victoria Behr e nelle luci di Alessandro Carletti.

Di eccellenza è il cast, a iniziare dalla Marschallin di Marlis Petersen, perfetta vocalmente e scenicamente e al suo debutto nella parte. Lo stesso si può dire per Samantha Hankey, vivace Octavian e deliziosa Mariandel, e Katharina Konradi, Sophie dal timbro d’argento e dalle soavi agilità. Il Barone Ochs trova in Christof Fischesser un attore-cantante duttile ed efficace, così come Herr von Faninal in Johannes Martin Kränzle. Come sempre elegantemente caratterizzato da Wolfgang Ablinber-Sperrhacke è il personaggio di Valzacchi. Buona anche la Marianne Leitmetzerin di Daniela Köhler. Non esaltante invece il Tenore Galeano Salas.

Il signor Bruschino

Gioachino Rossini, Il signor Bruschino

★★★☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 18 agosto 2012

(registrazione video)

Bruschino a RossiniLand

Nato nel 2004 dall’incontro di attori usciti dalla Scuola Laboratorio di Sesto Fiorentino, Teatro Sotterraneo è un elemento di spicco della nuova scena contemporanea. Vincitore del premio Ubu del 2019 («per la capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo attraverso l’uso intelligente di nuovi codici visuali e linguistici»), nel 2012 era stato ingaggiato dal ROF per la messa in scena dell’ultima delle cinque farse scritte dal giovane Rossini per il veneziano Teatro di San Moisé. Dopo aver completato il recupero di tutti i lavori, anche di quelli meno noti o addirittura inediti, il Festival ora si premura di riproporli in allestimenti che spesso rasentano la sperimentazione.

“Farsa giocosa” è definito Il signor Bruschino e stavolta la denominazione è azzeccata per la strampalata vicenda del Foppa, resa ancor più stravagante dalla messa in scena del collettivo Teatro Sotterraneo: il sipario si apre sul padiglione “Il signor Bruschino” di RossiniLand, un parco divertimenti dedicato al sommo pesarese. Figuranti un po’ svogliati e dai costumi ironici si preparano a rivivere la vicenda per il pubblico domenicale di famiglie scese sull’Adriatico. Il tour include anche la visita all’ottocentesco Teatro Rossini e i turisti armati di macchina fotografica (sì, sette anni fa ancora non erano soppiantate dagli smartphone) ammirano dorature, velluti, palchi e rispettivi occupanti. Arguta e divertente la regia dà pepe a questa operina dal ritmo scorrevole.

Dopo la bella prova del Demetrio e Polibio di due anni prima, tornano a occuparsi delle scenografie e dei costumi gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Urbino con eccellenti risultati. Il giovane Daniele Rustioni a capo dell’Orchestra Sinfonica Rossini dà una lettura efficace del lavoro con spunti interessanti. Nettamente sbilanciato il cast vocale: Sofia è Maria Aleida dal timbro sottile, l’espressione un po’ monocorde, agilità precise ma meccaniche e una predilezione per i sopracuti non sempre giustificata. Di poco volume anche il Florville di David Alegret, voce per di più dal timbro non piacevole. A contrasto è il peso sonoro di Roberto de Candia (Bruschino senior) e Carlo Lepore (Gaudenzio), che arriva su un segway e per tutta la serata impone la sua presenza sia vocale che scenica. Una quasi debuttante Chiara Amarù è Marianna, vivace Filiberto è Andrea Vincenzo Bonsignore mentre nella parte ridotta di Bruschino junior troviamo Francisco Brito.

 

Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

Kurt Weill, Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 18 marzo 2021

(video streaming)

Sette + uno

Nel dicembre 1932 Kurt Weill a Parigi riceve l’incarico da Edward James, un facoltoso inglese, di scrivere un balletto che doveva includere due personaggi destinati alle rispettive consorti: una cantante (Lotte Lenya, la moglie di Weill) e una ballerina (Tilly Losch, la moglie di James). Da questa doppia personalità doveva nascere il libretto di Die sieben Todsünden (I sette peccati capitali) scritto da Bertolt Brecht. Sarebbe stato il loro ultimo sodalizio. Il 27 febbraio 1933 Hitler saliva al potere e l’ebreo Weill aveva compreso da tempo che era meglio lasciare la Germania. Da Berlino il compositore aveva raggiunto prima Parigi, poi Praga, quindi Vienna, Zurigo, Lugano e poi ancora Parigi. Sette città. Sette come le città del balet chanté che vide la prima al Théâtre des Champs-Élysées il 7 giugno del ’33 con la coreografia di Balanchine. In un prologo, sette scene e un epilogo veniva messo in scena il dramma di due donne e la loro odissea americana.

Die sieben Todsünden racconta la storia di due sorelle. Anna I, la cantante, è il ruolo vocale principale. Anna II, la ballerina, si sente solo di rado e si esprime in parlato. Il testo accenna alla possibilità che siano la stessa persona: Anna I è la componente cinica e con senso pratico, Anna II è la bellezza emotiva e impulsiva. La famiglia è un quartetto maschile e funge da coro greco nel commentare la vicenda. Le due donne si recano in sette diverse città americane per fare abbastanza soldi da costruire una casetta sulle rive del Mississippi. In ogni città incontrano un peccato mortale diverso e Anna I rimprovera Anna II per essersi impegnata in un comportamento peccaminoso, un comportamento che ostacola l’accumulo di ricchezza.

Epilogo. Anna I spiega il rapporto tra lei e Anna II e la loro ricerca e identifica il resto della famiglia: una madre, un padre e due fratelli. 1 Accidia. I genitori di Anna notano che è sempre stata pigra ma per altri versi è stata una bambina rispettosa, mentre i fratelli intonano: “L’ozio è la madre di tutti i vizi”. La Famiglia prega che Dio mantenga Anna sulla via che porta alla prosperità e alla felicità. 2 Orgoglio. Anna I e Anna II sono a Memphis. I nuovi vestiti di Anna II l’hanno fatta impazzire. Quando accetta un lavoro come ballerina esotica, cerca di trasformarlo in arte, con dispiacere dei clienti paganti. Anna I la rimprovera per il suo orgoglio e le ricorda che deve fare ciò che le viene richiesto. 3 Ira. La famiglia nota con dispiacere che le ragazze non hanno inviato abbastanza denaro. Sono a Los Angeles e le cose stanno andando abbastanza bene finché Anna II non assiste ad atti di crudeltà e si ribella all’ingiustizia. Anna I le ricorda che una tale rabbia la renderà inabile al lavoro e quindi inutile. 4 Gola. La famiglia ha ricevuto una lettera da Filadelfia. Stanno guadagnando bene, ma il contratto di Anna II specifica che non deve aumentare di peso, nemmeno un grammo. Ricordano che Anna II ama mangiare e riconoscono le sue difficoltà, ma si fidano di lei per ricordare che un contratto è un contratto. 5 Lussuria. A Boston, Anna II ha trovato un ricco amante, ma si innamora di un altro uomo, che è povero. Anna I fa notare che il ricco amante non tollera una lealtà divisa. Anna II si ribella, ma alla fine cede a malincuore e rinuncia al povero amante. 6 Cupidigia. La famiglia viene a sapere che sono a Baltimora. Gli uomini si stanno suicidando per Anna II, il che aumenta la sua capacità di guadagno, ma si teme che diventerà troppo avida. Sperano che sia moderata e non si renda troppo impopolare per guadagnare soldi. 7 Invidia. Da San Francisco Anna I racconta che Anna II è stanca e invidiosa di chi non deve faticare. Anna I predica della necessità di rinunciare ai piaceri del mondo e promette una ricompensa in arrivo. La famiglia le dà ragione, dicendo che il rigoroso autocontrollo è la via verso la gloria. Epilogo. Le ragazze tornano in Louisiana dopo sette anni. La casa è completa e si ricongiungono alla Famiglia.

Un’ottava città è quella di Mahagonny, la città in cui tutto è permesso grazie al denaro. Nel 1927 Weill aveva composto una cantata scenica per sei voci e dieci strumenti su cinque canzoni tratte dalla quarta “lezione” delle Hauspostille (Breviario domestico) che Bertolt Brecht aveva pubblicato l’anno precedente. Due dei testi erano in inglese: “Alabama Song” e “Benares Song”. Questa Piccola Mahagonny diventerà tre anni dopo Die Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, l’opera in tre atti. Prodotto per il Festival di Baden Baden del luglio 1927, Mahagonny-Songspiel nel programma di sala fu presentato come «una breve pièce epica che trae spunto dall’irresistibile declino delle nostre classi sociali esistenti e si rivolge a un pubblico che va a teatro ingenuamente e per gioco». Nell’allestimento di Caspar Neher la scena rappresentava un ring di pugilato con uno schermo su cui venivano proiettati questi testi esplicativi:

1 Le grandi città dei nostri giorni sono piene di persone a cui non piacciono; 2 Scappa a Mahagonny, quindi, la città d’oro situata sulle rive della consolazione, lontana dalla frenesia del mondo; 3 Qui a Mahagonny la vita è meravigliosa; 4 Ma anche a Mahagonny ci sono momenti di nausea, impotenza e disperazione; 5 Si sentono gli uomini di Mahagonny rispondere alle domande di Dio sulla causa della loro vita peccaminosa; 6 L’adorabile Mahagonny si sgretola davanti ai tuoi occhi.

I due brevi lavori formano ora il terzo spettacolo della stagione scaligera in streaming. Questo dittico di Weill è stato allestito in poco tempo e con poche risorse, come racconta la regista Irina Brook che ha accettato di prendere in considerazione l’offerta con sole tre settimane di preavviso: «Oggetti, costumi, materiali, tutto è recuperato tra gli avanzi dei magazzini dell’Ansaldo. Debutto alla Scala con uno spettacolo bric-à-brac: un’isola immaginaria circondata da un mare di bottiglie di plastica, una pianta spennacchiata come palma, due tavole di legno per un bar scalcinato. Un non luogo, approdo di un gruppetto di sopravvissuti. Tutto è stato spazzato via da una catastrofe ecologica. Il mondo è finito, non c’è più futuro».

Gli spostamenti delle due ragazze, così come poi il viaggio dei cercatori d’oro di Mahagonny, avvengono girando in tondo a una piattaforma rialzata al centro e circondata appunto da bottiglie di plastica trasparente. Su uno schermo vengono proiettate immagini della squallida famiglia davanti a una lercia roulotte. A parte questo sembra un’esecuzione in forma concertistica tanto scarsi sono i movimenti. Anche il balletto si limita alla presenza di due ballerini e a due smilzi siparietti.

Chailly dirige l’orchestra della Scala in gran forma e dopo tante esecuzioni con compagini rabberciate – però anche più graffianti – questa permette di scoprire nella partitura del compositore “degenerato” gli influssi della musica del suo tempo, del jazz o di quella popolare, il tutto rimaneggiato dalla forte personalità del compositore tedesco che avrà una seconda carriera nel musical americano.

Dopo Lotte Lenya e Gisela May il ruolo di Anna I è stato sostenuto sia da cantanti d’opera (Anja Silja, Brigitte Fassbaender, Anne Sofie von Otter…) sia di musica leggera (Milva, Marianne Faithfull…). La scelta di Kate Lindsey qui alla Scala è stata quanto mai opportuna perché il mezzosoprano americano ha dimostrato di avere il carattere e il temperamento giusto per affrontare questo ruolo ibrido, oltre che la presenza scenica. Limitato all'”Alabama Song” è il ruolo di Lauren Michelle di voce tutt’altra che copiosa. Il quartetto maschile si appoggia sui due tenori Matthäus Schmidlechener (il padre e Charlie) e Michael Smallwood (un fratello e Billy), il basso Andrew Harris (la madre e Jimmy) e il baritono Elliott Carlton Hines (l’altro fratello e Bobby). Curiosa la scelta di terminare lo spettacolo con la ripresa dell'”Alabama Song” nella versione di Jim Morrison.

Novant’anni dopo il Weill di Irina Brook non scandalizza, neanche disturba. Diventa un po’ inutile. Brecht sarebbe stato deluso. Come noi.