Concerto

Stagione Sinfonica RAI

 

Alban Berg, Drei Orchesterstücke, op. 6

I. Präludium
II. Reigen
III. Marsch

Jean Sibelius, Lemminkäinen Suite, op. 22

I. Lemminkäinen e le ragazze di Sari
II. Lemminkäinen in Tuonela
III. Il cigno di Tuonela
IV. Il ritorno di Lemminkäinen

Kirill Petrenko direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 24 maggio 2023

Kirill Petrenko chiude la stagione dei concerti RAI 

Siamo fin troppo abituati ad associare in maniera quasi indissolubile i nomi Schönberg-Berg-Webern, i tre fondatori della Seconda Scuola di Vienna, che quasi dimentichiamo le profonde differenze tra l’uno e l’altro e l’altro ancora.

I Drei Orchesterstücke, dedicati da Alban Berg ad Arnold Schönberg, sembrano voler rimarcare l’emancipazione dal maestro e sottolineare il differente approccio del suo autore rispetto al creatore della dodecafonia e dell’atonalismo. Tanto il secondo voleva scardinare con la sua musica quella del passato, tanto il primo, con gli stessi mezzi musicali, ne riprendeva la gloriosa eredità traghettandola nel nuovo secolo. I Tre pezzi orchestrali op. 6 sono un grandioso omaggio al mondo del sinfonismo mahleriano, ma siamo alla vigilia del conflitto mondiale e la “Marcia” del terzo pezzo prefigura le insensate atrocità che verranno e che Karl Kraus denuncia nel suo apocalittico Gli ultimi giorni dell’umanità. Una diretta influenza letteraria è invece quella del secondo pezzo: Reigen (Girotondo), di Arthur Schnitzler, aveva scandalizzato la società viennese con una girandola di giochi di coppie che qui prende la forma di un valzer beffardo che alla fine si tramuta in un incubo. Un serrato contrappunto di temi fortemente caratterizzati dal ritmo è invece la sostanza del primo pezzo, “Preludio”.

Con il secondo brano in programma si affronta il tema delle scuole nazionali che dall’Ottocento fino a Novecento inoltrato hanno portato il loro contributo al rinnovamento della musica, sia sinfonica, sia teatrale che da camera. Dalla Finlandia arriva Jean Sibelius, un compositore ampiamente sottovalutato e ogni ascolto conferma questa tesi. La Lemminkäinen Suite comprende brani che dovevano far parte di un’opera tratta da un episodio del poema epico Kalevala di Elias Löhnrot (1835) con cui veniva fondata la lingua finnica moderna. Luoghi e avvenimenti del Kalevala erano già stati presenti nel Kullervo, una suite di movimenti sinfonici composta nel 1892, ma Sibelius ci ritorna con questa nuova composizione del 1894, conosciuta anche come “Quattro leggende dal Kalevala”, intitolata al personaggio di Lemminkäinen, figura sciamanica della mitologia finnica, un po’ Parsifal, un po’ Don Giovanni, un po’ Don Chisciotte. La natura lirica del linguaggio musicale di Sibelius, fortemente impressionista ma nello stesso tempo legato ai temi del folklore della sua terra, pervade questi quattro pezzi in cui è inutile ricercare legami narrativi col racconto mitologico: bisogna invece lasciarsi trasportare dalla particolare tinta strumentale, dai fiabeschi paesaggi sonori a cui l’onnipresente rullo della grancassa dà grande profondità, dalle struggenti melodie del violoncello o dei legni.

Sarebbe potuto arrivare con una Quarta, una Quinta, una Sesta qualsiasi, e invece ha scelto un programma raffinatissimo e poco popolare per l’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. Così ha lasciato ancor più il segno della sua presenza in due lavori a loro modo diversamente emblematici della musica del Novecento. Sul podio Kirill Petrenko se non un’esperienza mistica è un avvenimento che non lascia indifferenti. Con la sua concertazione il suono assume una sontuosità quasi mai ascoltata, l’orchestra è come trasfigurata, i timbri degli strumenti esaltati, la complessa rete polifonica dei temi resa logica e distinta, i pianissimi nascono come per magia dal silenzio, i fortissimi non hanno il fragore materico che talora possono avere. È sempre Musica con la maiuscola quella dipanata con gesto ampio ed espressivo. Solo da un grandissimo come lui può poi arrivare una lezione di umiltà: assieme al direttore artistico Ernesto Schiavi scende dal podio per introdurre i pezzi di Alban Berg facendoci ascoltare prima i momenti salienti per meglio apprezzarli dopo. E con la sua voce dal forte accento slavo il direttore russo ha anche parole per sottolineare il dolore di ascoltare suoni che richiamano una guerra così vicino a noi.

Dal 2019 direttore principale e direttore artistico dei Berliner Philharmoniker, Petrenko è stato per sette anni direttore musicale della Bayerische Staatsoper. Per il più osannato e ricercato direttore d’orchestra del mondo ci si aspettava che il pubblico prendesse d’assalto la sala dell’Auditorium Toscanini, ma così non stato. A mala pena si è arrivati a tre quarti dei posti di platea, con le gallerie desolatamente vuote. C’è però  ancora una possibilità per rimediare: il concerto viene replicato giovedì 25 maggio alle 20.30. Sarebbe imperdonabile mancare anche questo appuntamento.

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Stagione Sinfonica RAI

Gustav Mahler, Sinfonia n° 6 in la minore “Tragica”

I. Allegro energico ma non troppo
II. Scherzo. Wuchtig (pesante)
III. Andante moderato
IV. Finale. Allegro moderato. Allegro energico

Robert Treviño, direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 maggio 2023

Il Mahler più tragico

«La Quinta, la Sesta e la Settima, le più critiche fra le sinfonie mahleriane, sono tutte insieme il tempo del trauma e del distacco […] Prevale l’idea del cammino e dell’itinerario, e i ritmi di marcia, che dominano l’avvio di tutte e tre le sinfonie, seppur con sembianze diversissime, qui non sono più moto corporeo né allusione descrittiva e neppure ideogramma, bensì astrazione materializzata in misura. […] Nella Sesta l’estensione è meno importante della tensione: la verticalità prevalente, i piani sovrapposti, la polifonia lavorata a sbalzo, sono tendenze costruttive percorse de uno stato d’animo tutto fretta, impazienza e febbre» scrive Quirino Principe nel suo Mahler, La musica tra Eros e Thanatos.

Composta durante le vacanze estive del 1903 e 1904, la Sesta di Mahler, come la analoga Sesta di Čajkovskij, dà espressione ai sentimenti più profondi e reconditi della disperazione ed è una rappresentazione così intensa degli abissi emotivi da essere un caso estremamente raro nella storia della musica. Alma Mahler aveva riferito in proposito che «Nessuna opera sgorga così direttamente dal suo cuore. La Sesta è la sua opera più personale e profetica». Mahler sembra infatti anticipare le prossime catastrofi personali e storiche e non sorprende che la sinfonia sia stata indicata con l’appellativo di “Tragica”. Come per quella di Čajkovskij, “Patetica”, l’appellativo che non è del compositore il quale tuttavia ammise che la sua nuova opera sarebbe stata enigmatica, «würde Rätsel aufgeben». Il fatto che l’ultimo movimento sia scritto in tono minore, caso unico nelle sinfonie di Mahler, e che manchi una chiusa trionfale, anzi che le ultime note si spengano in un tono di tragica desolazione, spiega quanto l’appellativo, seppure spurio, sia efficace e abbia resistito al tempo.

La Sesta si colloca nel mezzo delle tre sinfonie puramente strumentali e dal punto di vista formale si dimostra piuttosto tradizionale sviluppandosi nei classici quattro movimenti con quelli esterni in forma di sonata. Ad eccezione dell’Ottava, questa è la più estesa sia nella durata sia nell’orchestrazione. Oltre agli archi, due arpe e celesta, nei legni impiega ottavino, 4 flauti, 4 oboi, corno inglese, tre clarinetti, 4 fagotti e controfagotto; negli ottoni vi sono otto corni, sei trombe, 4 tromboni e basso tuba. Ma è tra le percussioni che si ha la maggiore varietà, essendo necessari sei timpani, grancassa, tamburo militare, piatti, triangolo, campanacci e campane non intonate, gong, fruste, glockenspiel e xilofono. Particolare è la presenza di un martello il cui suono fu stabilito da Mahler per essere «breve e possente, ma senza risonanza e di carattere non metallico, come la caduta di un’ascia», suono ottenuto con una grande mazza di legno che colpisce un blocco di legno anch’esso, una sorta di prefigurazione del destino in versione ben più dirompente dei colpi del “destino che bussa alla porta” della Quinta beethoveniana. 

La solitudine alpina ricercata dal compositore al riparo dalle incombenze cittadine – a Vienna Mahler era direttore della Hofoper – ha qui un’evocativa presenza nei campanacci “fuori scena” nel primo e quarto movimento e poi sul palco nell’Andante, che in questa versione è il terzo movimento. Esiste infatti una seconda versione del 1906 in cui i due movimenti centrali si scambiano di posizione e i colpi di martello nel finale passano da tre a due.

Ma è la prima versione quella scelta dal direttore ospite principale Robert Treviño – mi piace usare la forma originale del suo cognome – per il ventesimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale in una esecuzione che ancora una volta mette in luce la qualità della compagine della RAI. Pur in una visione unitaria del lavoro, Trevino evidenzia efficacemente i peculiari “gesti sonori” e i diversi colori di questo lavoro. La complessità della scrittura, gli inviluppi dei temi, il tono sardonico delle marcette militari, quello lugubre delle marce funebri di cui è intessuto il primo tempo, tutto è magistralmente realizzato sotto il suo gesto ampio che non lascia nulla al caso. Gli attacchi di millimetrica precisione diventano allora il logico coronamento di un lavoro meticoloso. Ai limiti della tonalità, il cromatismo della Sesta la avvicina alla trascendente sua Nona, anche questa dal finale di cupa rassegnazione. I lunghi secondi di silenzio che sono seguiti all’ultima nota – il la pizzicato degli archi – dimostrano la tensione trasmessa al pubblico che ha salutato il direttore e l’orchestra con scroscianti applausi. 

RAI Nuova Musica

György Kurtag, Doppio concerto op. 27 n° 2 per pianoforte, violoncello e orchestra

György Ligeti, Atmosphères per orchestra

Márton Illés, Víz-szín-tér per orchestra

Peter Eötvös, Reading Malevič

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 14 aprile 2023

Robert Trevino direttore

Jean-Guihen Queyras violoncello

Tamara Stefanovich pianoforte

Serata ungherese per Nuova Musica

Impaginazione tutta ungherese per il terzo concerto di RAI Nuova Musica. Quattro compositori nati nel secolo scorso, tre ancora viventi. Quattro composizioni che pur nella diversità in qualche modo rivelano un gusto in comune, un fil rouge che passa da un pezzo all’altro. Come scrive Oreste Bossini: «l’impronta della lingua musicale ungherese si percepisce nella solidità del gesto ritmico, in cui si fondono movimento ed espressione in una dimensione di spazialità sonora estremamente eloquente e spesso drammatica».

Di György Ligeti è eseguito uno dei suoi lavori più famosi, Atmosphères, del 1961. Caratterizzato da una forma statica non definita da un’articolazione temporale, nella sua musica non c’è ritmo, non c’è armonia, né successione di note tale da formare un tema. È puro suono, una dimensione materica che si contrapponeva allora provocatoriamente al serialismo e allo stile puntillistico della scuola di Darmstadt di cui Ligeti era stato frequentatore tramite Karlheinz Stockhausen con i suoi studi sulla musica elettronica. La “popolarità” data dal film di Stanley Kubrik 2001 A Space Odissey alla sua musica cela l’enorme complessità e raffinatezza della scrittura, come in questo pezzo dove processi contrappuntistici estremamente dilatati frantumano una polifonia di cinquanta voci, una per ogni strumento dell’orchestra. Ne risulta una trama densissima impossibile da sviluppare in una dimensione temporale. L’infinità delle onde sonore genera un suono simile a quello prodotto dall’elettronica, una specie di “rumore bianco”, che qui è invece ottenuto da un’orchestra del tutto tradizionale.

Di tre anni più giovane è György Kurtag, il cui Doppio concerto per pianoforte, violoncello e orchestra del 1990 allude nel titolo alla sonata beethoveniana per pianoforte che porta lo stesso numero d’opus , «Al chiaro di luna» op. 27 n° 2 in do diesis minore. Kurtag richiede per il suo pezzo una disposizione spaziale stereofonica ben definita: qui il doppio è ripreso nei gruppi strumentali perfettamente simmetrici con gli ottoni che riversano i loro suoni dall’alto della prima galleria dell’Auditorium Toscanini. La dimensione spaziale si unisce a quella temporale violentemente scandita dalle percussioni. I due movimenti in cui è suddiviso il Doppio concerto sono di carattere molto contrastante: il primo è un Poco allegretto in stile minimalista in cui una sola nota ripetuta passa dal pianoforte al violoncello generando una forte pulsione – e qui sta forse l’omaggio a Beethoven e alla sua capacità di trasformare della materia inerme in una situazione espressiva – mentre l’Adagio del secondo movimento, lirico e contemplativo, sviluppa il tema del doppio in un gioco di echi fra gli strumenti solistici.

Peter Eötvös è conosciuto anche come grande direttore d’orchestra, ma qui è il compositore che si fa ispirare dalla pittura, quella suprematista (astratta e geometrica) di Kazimir Malevič, famoso per i suoi quadri dove un solo quadrato scuro domina in una tela altrimenti vuota. Reading Malevič del 2018 deriva dalla sua impressione della Composizione suprematista n° 56 del pittore russo, un insieme di rettangoli colorati disposti in un ordine geometrico che il compositore vuole ricreare con i suoni, che diventano così colori. Le due parti che costituiscono Reading Malevič sono “Horizontal” e “Vertical”, per sottolineare l’illusione spaziale del pezzo che è ricco dei “colori” degli strumenti, alcuni desueti per un’orchestra, come l’organo Hammond, il cymbalon (lo strumento ungherese per eccellenza), la chitarra elettrica. L’astrattismo musicale di Eötvös gioca su ritmi e silenzi così come le figure geometriche di Malevič sono strutturale sulla superficie della tela con pieni e vuoti

Márton Illés è il più giovane dei quattro compositori, essendo nato nel 1975. Anche Víz-szín-tér, composizione per orchestra del 2019, fa riferimento alla pittura, in quanto il titolo può essere tradotto come Acquarelli-spazio: tre stati d’animo, il secondo più drammatico, il primo e il terzo più lirici. Il gesto sonoro si ispira in Illés a Bartók per la forte componente ritmica, una marcata spazialità sonora, una fitta trama di voci parallele che creano qui, a differenza di Ligeti, dei respiri melodici lenti e costanti.

Il direttore e ospite principale Robert Trevino tiene saldamente in mano lo sviluppo di questi complessi e affascinanti lavori che mettono in risalto la qualità strumentale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI e assieme ai solisti Tamara Stefanovich e Jean-Guihen Queyras alla fine del concerto riceve i caldi applausi di un pubblico numeroso e attento attirato da un’offerta musicale così stimolante.

Kazimir Malevič, Composizione suprematista (rettangolo blu sopra un raggio rosso), 1916

Concerto di Pasqua della OSN RAI

foto © PiùLuce/OSN Rai

Richard Wagner

Lohengrin, preludio atto I

Tannhäuser, preludio

Tristan und Isolde, Preludio e morte di Isotta

Parsifal, incantesimo del venerdì santo

Götterdämmerung, immolazione di Brunidle

Fabio Luisi direttore, Gun-Brit Barkmin soprano

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 6 aprile 2023

Pasqua wagneriana con Luisi

Se Beethoven andava bene per il concerto di Natale, perché non Wagner per quello di Pasqua? Almeno qui però c’è un brano che è legato alla festività: quell’incantesimo del venerdì santo che costituisce la pagina più intensa dell’ultima opera di Wagner. Nel corso della serata si ascolteranno pagine appartenenti all’intera sua più significativa carriera compositiva: dal 1845, inizio della scrittura del libretto del Lohengrin, al 1882, prima del Parsifal.

Finalmente Fabio Luisi è sul podio che aveva dovuto disertare a Natale per motivi di salute. Il Direttore Emerito è in un repertorio a lui congeniale e si sente subito dall’attacco del Vorspiel del Lohengrin, con quegli accordi appena percepibili, primi suoni di un unico immenso crescendo giocato sulle polifonie magnificamente eseguite dall’orchestra. Ecco, se proprio si vuole fare un appunto, le note avrebbero una purezza ancora maggiore se eseguite dagli archi con la stessa arcata, ma forse è pretendere troppo.

Il Tannhäuser è un’opera che mette insieme tre elementi diversi: l’antico torneo poetico della Wartburg (il palazzo-fortezza dei Langravi della Turingia), con la leggenda di Tannhäuser e del suo viaggio al Venusberg (una caverna sui monti Hörselberg) e la figura di Elisabetta di Ungheria, venerata come santa dalla Chiesa di Roma. Anche l’ouverture vive di diversi elementi contrapposti ma anche interconnessi: il solenne coro dei pellegrini, che ricorda la preghiera del Rienzi, che incarna l’austero mondo della penitenza; il tema febbrile e sensuale del Venusberg; il mondo di purezza e castità di Elisabetta. I diversi colori sono resi con sapienza e grande gusto strumentale dalla concertazione di Luisi.

Dopo il Lohengrin si ritorna allo struggente desiderio di un amore impossibile con gli accordi iniziali del Tristan un Isolde, la leggenda bretone dei due infelici amanti che rispecchiava la borghese sbandata vissuta dal compositore per la moglie del suo ospite, il commerciante Otto Wesendonck, nella primavera del 1858. E il completamento della partitura a Venezia più che dal desiderio di un ambiente romantico per la scrittura del lavoro era dettato dalla opportunità di allontanare i due amanti prima che lo scandalo deflagrasse. In questa Einleitung (introduzione, qui non è un preludio come per il Lohengrin, o un’ouverture come per il Tannhäuser) che ci introduce alla nave in viaggio, la musica si ferma alcune volte come se gli strumenti avessero paura, lunghe pause di silenzio amplificano la tensione che sfocia poi in temi languidi e appassionati, specchio degli animi sconvolti della coppia. La scena finale dell’opera è una trasfigurazione della donna come una santa in estasi: l’orchestra distende una musica tranquilla che quasi dimentica le spinte passionali dei momenti d’amore e si sviluppa in una lenta agonia.

Tutt’altro tono è quello dell’Incantesimo del Venerdì santo, la pagina del Parsifal più vicina a quel mondo bruckneriano prediletto dal maestro ligure che qui affronta lo specifico tono sonoro di questo lavoro destinato al nuovo teatro fatto costruire da Wagner. Un suono diverso che non è facile ottenere al di fuori del contesto in cui è stato concepito, ma questa volta anche lontano da Bayreuth nella sala dell’Auditorium Arturo Toscanini le note intrise di misticismo di questa pagina hanno trovato una realizzazione efficace.

Il concerto termina in maniera colossale con il finale della terza giornata della saga del Ring. La pira dell’eroe Sigfrido, l’immolazione di Brunilde a cavalo del suo destriero, le fiamme che lambiscono e poi incendiano il Walhalla, le acque del Reno che salgono… Mai crepuscolo fu più drammaticamente grandioso di questo e la musica raggiunge effetti inusitati. Il rischio in questa pagina è quello di perdere di vista il complesso intreccio degli infiniti Leitmotive che ricorrono in questo finale per puntare a una esteriore monumentalità e spettacolarità, ma questo non succede nella direzione di Luisi che riesce a sviluppare con chiarezza i diversi temi fino al finale che si spegne nel silenzio, come nel silenzio era iniziato, quasi diciassette ore prima, Das Rheingold. Nella conclusione di questa intensa serata si ascolta il soprano Gun-Brit Barkmin, cantante molto espressiva anche se non di grande proiezione vocale, che si è fatta notare per i due outfit con cui si è presentata: in abito meringa/mongolfiera bianca prima come Isotta, in pelle nera sadomaso poi come Brunilde.

Chissà quando la RAI riprenderà nei suoi cartelloni l’esecuzione di un’opera in forma di concerto invece di un pot-pourri di brani sciolti, soprattutto per serate speciali come questa. Una consuetudine molto apprezzata nelle stagioni a.C., anti Covid. Ora che l’affollamento sulla scena non è più un problema, si gradirebbero esecuzioni più strutturate, non solo opere, ma anche messe ed oratori che è sempre più difficile ascoltare nei luoghi di culto cui sarebbero destinati.

Stagione Sinfonica RAI

Joseph Martin Kraus, Ouverture da Olympie, VB 33

Adagio – Allegro ma non troppo

Andrea Luchesi, Sinfonia n° 5 in Mi maggiore, WK 4

I. Allegro
II. Andante
III. Presto

Joseph Boulogne Chevalier de St.Georges, Concerto in Sol maggiore per violino e orchestra, op. 2 n. 1

I. Allegro
II. Largo
III. Rondeau

Franz Joseph Haydn, Sinfonia n. 103 in Mi bemolle maggiore, “Rullo di timpani”, Hob:I:103

I. Adagio – Allegro con spirito
II. Andant epiù tosto allegretto
III. Minuetto – Trio
IV. Allegro con spirito

Ottavio Dantone, direttore

Roberto Ranfaldi, pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 23 marzo 2023

Lo spirito di Mozart

Sì, il sedicesimo concerto della stagione della Orchestra Sinfonica Nazionale RAI è dominato, per lo meno nella prima parte, dallo spirito di Mozart con tre autori che in maniera diversa rimandano al compositore salisburghese.

Joseph Martin Kraus è coetaneo di Mozart, nasce infatti nello stesso anno 1756 e muore esattamente un anno dopo, anche lui a dicembre. Da Magonza prosegue la sua carriera di compositore in Svezia alla corte di Gustavo III (quello de Il ballo in maschera), un grande amante del teatro per cui scrive vari drammi per musica, tra cui le musiche di scena per la tragedia Olympie di Johann Henrik Kellgren, il suo librettista di fiducia, tratta dalla omonima pièce di Voltaire. Nella breve composizione è evidente lo spirito Sturm und Drang tradotto in uno stile che deve molto a Gluck, il compositore che incarnava per lui l’ideale del dramma musicale, e che Kraus aveva conosciuto anziano a Vienna durante uno dei suoi viaggi sponsorizzati dal monarca svedese. La pagina costituisce una efficace introduzione al fosco dramma che si prepara dietro il sipario.

Andrea Luchesi (o Lucchesi, Treviso 1741 – Bonn 1801) è balzato agli onori della cronaca degli ultimi anni per una coppia di studiosi che in un libro autopubblicato hanno avanzato la tesi secondo la quale Luchesi è il vero autore di alcune delle opere di Mozart, il quale avrebbe copiato e fatto passare per sue le partiture del trevisano. Che la tesi sia stata smontata dai musicologi più affermati non ha fermato però i due autori che continuano nella loro miserevole opera di distruzione del mito di Mozart. Che il compositore italiano abbia avuto a che fare col salisburghese è fuor di dubbio: i due si erano conosciuti a Venezia nel marzo 1771 durante il primo dei viaggi dei Mozart in Italia, ma più interessanti sono i rapporti di Luchesi con i Beethoven: prima il nonno Ludwig, di cui prenderà il posto di Kapellmeister a Colonia; poi con il giovane nipote che fu a suo servizio a Bonn come organista e violista. La sinfonia che viene qui presentata risale al periodo veneziano e rivela uno stile un po’ superato per l’epoca, con  una scrittura piuttosto semplificata e un utilizzo di certi strumenti a mero rafforzamento armonico. Si tratta in conclusione di una pagina piacevole, ma niente più, che Ottavio Dantone, alla testa di un’orchestra ridotta – due dozzine di archi e cinque strumenti a fiato – riesce a rendere nel suo aspetto migliore nonostante una compagine non molto avvezza a questo repertorio: passare da un programma centrato al 90% su Brahms, Mahler e Šostakovič alle semplici architetture del Luchesi è un bel salto!

Lo stesso problema si pone per il terzo titolo in programma: il Concerto  di Joseph Boulogne Chevalier de St.Georges (1739 o 1745 – 1799) figlio di un francese proprietario di piantagioni nelle Antille e di una schiava di colore, e per questo definito il “Mozart nero”, è del 1773, precede quindi quelli di Mozart. Scritti in un piacevole stile galante, i suoi due concerti per violino e orchestra non hanno una forma particolarmente complessa e in questo in Sol maggiore la semplice struttura tende a lasciare spazio al virtuosismo dello strumento solista, qui affidato a Roberto Ranfaldi, primo violino di spalla dell’orchestra, che esegue con tecnica ineccepibile le agilità richieste, ma sembra cauto nell’affrontare un lavoro che non è evidentemente nelle sue corde e la sua performance difetta di brio e di colori emergendo soprattutto nel movimento centrale, un largo malinconico ed espressivo.

Dopo l’intervallo l’orchestra riacquista il suo organico abituale nella grande sinfonia n. 103 con cui Haydn dà prova di grande teatralità – quasi maggiore che nei suoi effettivi lavori teatrali… – non solo nell’inedito rullo di timpani che richiama bruscamente l’attenzione degli ascoltatori, ma anche nella scrittura “operistica” degli strumenti in fitto dialogo. Qui nel secondo movimento ha il suo momento di gloria solistica l’altro primo violino di spalla, Alessandro Milani, con l’ineffabile tema dell'”Andante più tosto [sic] allegretto”.

Dantone ritornerà anche la settimana prossima con Mozart, quello vero, e di nuovo Haydn, ma sarà presente anche domenica 26 marzo nei Concerti del Quirinale con l’ensemble barocco dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai “La Mole Armonica” in musiche di Bach e Geminiani.

Stagione Sinfonica RAI

 

Ludwig van Beethoven, Concerto n° 5 in Mi bemolle maggiore op. 73 “Imperatore”

I. Allegro
II. Adagio, un poco mosso
III. Rondò. Allegro

Minas Borboudakis, “Z” Metamorphosis

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 9 in Mi bemolle maggiore op. 70

I. Allegro
II. Moderato
III. Presto
IV. Largo
V. Allegretto

Constantinos Carydis, direttore

Francesco Piemontesi, pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 9 marzo 2023

Un esile filo rosso “militare” lega tre composizioni diversissime 

Nel 1809, epoca della composizione del Concerto in Mi bemolle, l’Austria è in guerra con la Francia napoleonica: a maggio Vienna è sotto i cannoneggiamenti dei francesi e Beethoven per difendere dal frastuono il già compromesso udito si rifugia nella cantina del fratello. Quando un editore penserà di chiamare “Imperatore” il lavoro non si riferirà certo alla figura di Napoleone – i sentimenti antifrancesi di Beethoven avevano raggiunto allora il culmine – bensì alla sontuosità del tema del primo movimento, “imperiale” nella sua imponenza. Il Concerto in Mi bemolle è anche il primo da compositore: non sarà Beethoven a presentarlo come esecutore al pubblico come aveva fatto con i quattro precedenti. A suonarlo per la prima volta nel novembre 1811 sarà Friedrich Schneider a Lipsia, mentre Carl Czerny lo eseguirà a Vienna nel febbraio 1812. Il manoscritto è infatti zeppo di precise indicazioni di fraseggio e di uso dei pedali per la sua esecuzione. Un’altra particolarità di questa pagina è che manca il momento improvvisativo, quello in cui il solista ha lo spazio di libertà: «non si fa una Cadenza, ma s’attacca subito il seguente» prescrive lo spartito per introdurre la coda. Invece, abilmente simulato da cadenza, ma in un punto inconsueto, ossia subito dopo il primo accordo dell’orchestra, sarà l’ingresso in scena del pianoforte con una brillante esibizione di arpeggi e trilli. Il quale pianoforte si mette poi da parte per assistere, assieme a noi, all’esposizione del primo tema e degli altri “personaggi”, temi, motivi, figure di raccordo, che costituiranno lo sviluppo del grandioso primo movimento. Qui è determinante il gioco di equilibrio tra solista e orchestra che nel concerto all’Auditorium RAI non si è realizzato alla perfezione a causa della direzione piuttosto pesante e monocorde del direttore Constantinos Carydis che ha privilegiato sonorità e tempi “militari” in contrasto con il pianista Francesco Piemontesi che ha risposto con un’interpretazione di grande fluidità e leggerezza dipanando con tecnica eccezionale e tocco preciso i suoi interventi. Una cantabilità, la sua, che viene messa ancor più in risalto nell’Adagio un poco mosso. Quasi una romanza mozartiana impregnata di una calma religiosa resa con elegante espressività dal pianista che agli applausi del pubblico ha risposto con un raffinatissimo bis: una pagina di estatica bellezza di Karol Szymanowski.

Chissà che faccia avranno fatto quelli tra il pubblico che la sera del 3 novembre 1945, inaugurazione della stagione della Filarmonica di Leningrado, si accingevano ad ascoltare quella che tutti si aspettavano essere la celebrazione della grande vittoria dell’Armata Rossa nella guerra contro il Nazismo e invece scoprivano una sinfonia che iniziava quasi come un lavoro di Haydn e proseguiva in maniera ironica, scherzosa, quasi parodistica, dove un trombone, anziché intonare una gloriosa fanfara, accennava per ben sei volte le prime due note di una marcia per poi ritrarsi come se avesse sbagliato l’attacco. Il tono circense del primo movimento, quasi di un Nino Rota prima di Fellini, cede il passo al languido valzerino del Moderato, ma il gioco di stili continua nei tre movimenti successivi e qui si è finalmente apprezzato in pieno il contributo del direttore Carydis che ha fornito della pagina una versione totalmente convincente grazie anche alla qualità dell’orchestra.

Il secondo brano della serata faceva conoscere un autore di oggi, Minas Borboudakis, classe 1974. Il compositore greco, presente in sala, ha ricevuto i calorosissimi applausi di un pubblico soggiogato dai suoni di “Z” Metamorphosis, un pezzo per orchestra tratto dalla sua opera Z ispirata al romanzo politico di Vassili Vassilikos divenuto poi il film di Costa-Gavras Z – L’orgia del potere. L’opera di Borboudakis è del 2018, ha avuto la sua prima ad Atene ed è stata poi rappresentata, nella versione tedesca, a Monaco di Baviera  l’anno successivo. L’originale per undici strumenti diventa qui una poderosa orchestra sinfonica impegnata in una pagina di grande intensità sonora e cupezza di colore, ben adatte alla tragica vicenda del deputato Grigoris Lambrakis assassinato a Salonicco nel 1963 da estremisti di destra, vicenda anticipatrice del colpo di stato dei Colonnelli del 1967.

Concerto di Carnevale della OSN RAI

foto © PiùLuce/OSNRai

Gioachino Rossini, Guillaume Tell, Ouverture; Hector Berlioz, Le carnaval romain, Ouverture caratteristica op. 9; Antonin Dvořák, Carneval, Ouverture per grande orchestra op.92; Claude Debussy, “Clair de lune” dalla Suite bergamasqueJohann Strauss figlio, Der Karneval in Rom, Ouverture; Johann Strauss padre, Erinnerung an Ernst oder Der Carneval in Venedig op 126; Johann Strauss figlio, Die Fledermaus, Ouverture; Jacques Offenbach, “Barcarolle” da Les contes d’HoffmannJacques Offenbach, “Galop infernal” da Orphée aux enfers; Ferde Grofé,  “Mardi gras” da Mississippi suite

Kristian Järvi direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 21 febbraio 2023

Carnevale senza maschera

Secondo concerto fuori abbonamento della Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, questo volta dedicato al carnevale. Quasi nessuno in maschera tra il compassato pubblico torinese, mentre molti tra i professori d’orchestra stanno al gioco esibendo travestimenti gustosi: viole e corni come Blues Brothers, tra i percussionisti spiccano Batman e il Joker, Biancaneve e i sette nani sono tra i violoncellisti, il maestro di trombone è in parrucca, abito di paillettes e collana di brillanti al collo…

Il programma comprende famosi pezzi dell’Ottocento per finire nel secolo scorso e tutti, o quasi, a tema o comunque di carattere gioioso, come la Sinfonia del Guillaume Tell di Rossini che, nonostante l’argomento drammatico della vicenda, contiene quell’irresistibile crescendo che ha raggiunto la popolarità al di fuori delle sale da concerto e dei teatri. Il carnevale è comunque nei titoli dei pezzi successivi di Berlioz e Dvořák: Le carnaval romain è del 1844 e utilizza pagine del suo sfortunato Benvenuto Cellini, l’opera che Berlioz aveva ambientato nella Roma di papa Clemente VII, in cui nell’atto secondo siamo immersi nel carnevale di piazza Colonna con i suoi rutilanti colori orchestrali. Il quasi insuccesso dell’opera nel 1838 spinse il compositore a presentare una nuova versione a Londra nel 1852 che questa volta incorporava appunto la popolare “ouverture caratteristica”. Il Carneval di Dvořák è invece del 1892 e faceva parte di un trittico prima che il musicista decidesse di separare i tre pezzi con nuovi titoli.  Il lavoro è di poco precedente alla composizione della sua Sinfonia n° 9 “Dal nuovo mondo” e comprende alcuni spunti tematici che verranno sviluppati in Rusalka, infatti la pagina ha momenti scuri accanto a quelli brillanti. Il Clair de lune di Debussy nella trascrizione orchestrale fatta da André Caplet non ha nessun riferimento al carnevale, ma serve probabilmente a inserire una pausa di tranquillità tra pezzi così effervescenti. Un altro carnevale romano in musica è quello dell’operetta di Johann Strauss figlio di cui ascoltiamo l’ouverture, mentre a quello veneziano si riferisce la composizione del padre, una pagina singolare dedicata al grande violinista Heinrich Wilhelm Ernst le cui virtuosistiche variazioni rivaleggiavano con quelle del più vecchio Paganini. Qui il famoso tema passa da uno strumento all’altro dando lo spunto agli orchestrali per divertenti siparietti molto apprezzati dal pubblico.

Ma allegria in musica vuol dire operetta e Il pipistrello di Johann Strauss figlio è l’inarrivabile modello del genere danubiano: la sua ouverture non smette ogni volta di trasmettere un senso di felicità misto a nostalgia del passato. Passando all’operetta francese il re indiscusso è Jacques Offenbach, qui presente con la Barcarola dai suoi Racconti di Hoffmann, e dall’immancabile scatenato “galop infernal dell’Orfeo all’inferno, prototipo del can can ed emblema della spensierata epoca bella. Chiude il programma una pagina del ‘900, il “Mardi Gras” dalla Mississippi Suite di Ferde Grofé, pianista della più famosa orchestra da ballo americana degli anni Venti, la Paul Whiteman Band, il quale scriveva questo lavoro che sapeva di jazz e celebrava la musica dei neri del sud. Era il 1925 e un anno prima George Gershwin aveva presentato la sua Rhapsody in blue a cui in parte si ispira.

Maestro di cerimonie di questa festa spumeggiante è l’estone-americano Kristjan Järvi che sul palco dell’Auditorium Toscanini si immedesima nell’atmosfera festosa con una direzione di grande vivacità in cui prevalgono le scelte coloristiche e timbriche a scapito di volumi sonori che non differenziano molto un pezzo dall’altro. Il rubato straussiano un po’ si perde nella foga dei tempi così come la sensualità della barcorola offenbachiana. Il gesto di Järvi è molto estroverso, a tratti sembra una marionetta scomposta, ma riesce ad accattivarsi la simpatia del pubblico facendolo partecipare con i battimani e invitandolo a intensificare gli applausi. Che non mancano e incorniciano il “Mambo” da West Side Story di Leonard Bernstein eseguito fuori programma.

Grande assente della serata la televisione, la padrona di casa. Peccato, l’elemento visivo è stato uno degli aspetti più divertenti del concerto.

Stagione Sinfonica RAI

Arnold Schönberg, A Survivor from Warsaw op. 46

Gustav Mahler, Sinfonia n° 7 in mi minore

I. Adagio – Allegro risoluto ma non troppo
II. Nachtmusik I. Allegro moderato
III. Scherzo (Schattenhaft)
IV. Nachtmusik II. – Andante amoroso
V. Rondò finale. Allegro

Fabio Luisi, direttore

Francesco Micheli, voce recitante

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 26 gennaio 2023

Concerto per la Giornata della Memoria

Il 27 gennaio di 78 anni fa le truppe dell’Armata Rossa scoprivano il campo di concentramento di Auschwitz. Da quel momento tutti vennero a sapere – e qualcuno non potè più fingere di non sapere – quello che era successo a milioni di esseri umani.

Da quasi vent’anni celebriamo la Giornata della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto e anche la RAI ha voluta ricordarle con il suo decimo concerto della stagione. Apre infatti la serata Un sopravvissuto di Varsavia op. 46 che Arnold Schönberg scrisse nel 1947. Con questa pagina il compositore non solo dava il suo tributo al ricordo della Shoah, ma completava anche il processo di autocoscienza della propria identità ebraica. Nelle sue parole è il miglior commento al lavoro: «Un sopravvissuto per prima cosa è un monito a tutti gli ebrei a non dimenticare quello che ci hanno fatto, non dimenticare mai che anche quelli che non lo hanno fatto direttamente erano d’accordo con loro e ritenevano necessario trattarci in questo modo». Parole molto dure ma giustificate e condivisibili ancora oggi. Il significato dell’op. 46 trascende i valori musicali di una pagina che ebbe un grande impatto negli ascoltatori di tutto il mondo, che addirittura non riuscivano ad applaudire al termine dell’esecuzione per l’emozione. E grande emozione c’è stata anche nella sala dell’Auditorium Toscanini dopo la lettura del testo: «I cannot remember ev’ryhing, I must have been unconscious most of the time». Sì, la celebrazione della memoria inizia con le parole «Non riesco a ricordare tutto: devo essere stato svenuto la maggior parte del tempo», come racconta il sopravvissuto alla furia nazista sul ghetto di Varsavia. Ma quello che non riesce a cancellare dalla mente è la conta dei morti e il coro che intona lo Shema Ysroel. Tutto questo è reso in musica in maniera efficacissima e concisa in un’introduzione strumentale che espone la serie di dodici note utilizzata da Schönberg, seguita dal testo recitato da Francesco Micheli che fa scorrere i brividi lungo la schiena per l’intensità e la partecipazione della lettura (in inglese perché così l’ha scritto il compositore stesso adattando la musica alla prosodia del testo), con dizione impeccabile e con quel più di espressività italiana, che non guasta, nei gesti: come le braccia e le mani spalancate sul grido grandioso del coro mentre in sala le mezze  luci diventano quasi abbaglianti. Un tocco teatrale che è congruo alla drammaturgia del testo «quasi cinematografico», come dice giustamente Micheli.

Al conciso brano di Schönberg segue una delle più lunghe sinfonie di Mahler, quella Settima che aveva lasciato lasciato perplessi non solo il pubblico praghese della prima esecuzione nel 1908, ma anche molti critici musicali che non riuscirono a discernere un disegno compositivo evidente in questa sterminata suite in cinque movimenti di oltre un’ora e un quarto. Probabilmente la chiave di lettura di questa mastodontica impresa va cercata nel Finale, come scrive Oreste Bossini nel programma di sala: un rondò con ritornello che si presenta ben sette volte, con una citazione dai Meistersinger di Wagner e l’utilizzo di elementi sonori extramusicali (campane, campanacci, una secca percussione) oltre a marce militari dal sapore turchesco. È il cuore poetico di un lavoro in cui predomina la forma ciclica presente sin dal primo movimento, dove le note della marcia funebre annunciata all’inizio ritornano trasformate nel corso del tempo. E ciclicità si ha anche nei tre movimenti centrali che formano lo Scherzo “Schattenhaft” (oscuro) incorniciato da due Nachtmusik.

Fabio Luisi affronta i due autori ebrei del programma con appassionata dedizione e una grande cura dei particolari strumentali messi in evidenza all’interno comunque di una visione unitaria. Il legame tra i due compositori è evidente: delle tre sinfonie che rinunciano alla voce umana e a un testo poetico – la Quinta, la Sesta e la Settima – quest’ultima è quella più proiettata verso il futuro, mentre di Schönberg è nota l’immensa ammirazione che aveva per Mahler. Luisi rende chiari questi legami e il passaggio tra due lavori così apparentemente diversi avviene senza traumi, grazie anche alla maestria dell’orchestra che rende in maniera lucida le dissonanze del Survivor e organiche le tormentate forme sinfoniche della Settima.

Wagner e Strauss saranno gli autori dei prossimi appuntamenti con il Direttore Emerito della nostra orchestra.

I concerti del Regio

Andrea Battistoni, Angela Meade

Giuseppe Verdi, Messa da Requiem 

I. Requiem
II. Dies iræ
III. Offertorium
IV. Sanctus
V. Agnus Dei
VI. Communio
VII. Responsorium

Andrea Battistoni direttore, Angela Meade soprano, Silvia Beltrami mezzosoprano, Enea Scala tenore, Gianluca Buratto basso

Torino, Teatro Regio, 9 gennaio 2023

Sontuoso inizio della Stagione Sinfonica del Regio di Torino

Il mi2 dei violoncelli, segnato in partitura “con sordino” e pp, è a mala pena udibile. Poi le note si inabissano fino al mi dell’ottava inferiore e si uniscono gli altri archi, sempre pp, e infine le voci, prima quelle maschili poi quelle femminili, “sotto voce”, «Requiem. Requiem». Sul palcoscenico del Teatro Regio sono appena un sussurro. Andrea Battistoni, che inaugura con questa “opera” di Verdi i concerti dell’orchestra del Teatro Regio, sceglie dinamiche estreme, ma con predilezione per i pianissimi, così che non occorrono interventi frastornanti dell’orchestra per ottenere la terribilità del Dies irae o del Tuba mirum e in questo equilibrio sonoro così ottenuto il giovane direttore veronese, che dirige a memoria,  esalta la drammaticità di una pagina che ogni volta che si ascolta riesce a sconvolgere per la sua forza e che la sua direzione non esprime con effetti plateali, ma rende evidente per contrasto con i momenti lirici.

La Messa venne scritta in quel lungo periodo tra il 1871 (Aida) e il 1887 (Otello) in cui Verdi sembrava voler abbandonare la composizione di opere e si concentrava sulla revisione di lavori del passato – è del 1881 quella del Simon Boccanegra, del 1884 quella del Don Carlos – , sulla musica strumentale e da camera (nel 1873 scrive il suo Quartetto per archi in mi minore) e sulla musica sacra e la polifonia vocale del passato. Per onorare la scomparsa di Alessandro Manzoni, Verdi pensa al progetto abortito della Messa per Rossini, un progetto da lui proposto all’indomani della scomparsa del grande pesarese nel novembre 1868: una messa composta da tredici numeri scritti da altrettanti compositori. Nei tempi stabiliti tutti consegnarono le loro partiture ma per motivi in parte futili il lavoro non venne eseguito e rimase negli archivi per oltre cento anni prima di essere presentato a… Stoccarda nel 1986. Verdi, che aveva composto il finale, Libera me,  si fa restituire la partitura da Ricordi e completa il lavoro nella forma che conosciamo, che è quella della Messa per Rossini per orchestra, coro e quattro voci soliste e col medesimo testo. Da quel 22 maggio 1874 in cui la Messa da requiem fu eseguita nella chiesa di San Marco a Milano il suo successo è stato continuo e, se possibile, crescente.

Nell’ascoltare le quattro voci soliste non si riesce a non pensare ai grandi personaggi verdiani: ecco quindi che il «liber scriptus» del mezzosoprano ricorda il racconto di Azucena, gli interventi del basso richiamano la figura dell’inquisitore del Don Carlos, il soprano ha lo stesso slancio dell’Amelia di Un ballo in maschera e così via. E totalmente teatrale è la fanfara fuori scena del Tuba mirum, con quell’effetto di dislocazione spaziale che Verdi aveva usato per le trombe in Aida. Ma tutta la sequenza del Dies iræ con le sue drammatiche immagini  è ricca di “colpi di scena”.   Il suono ricco dell’orchestra del teatro qui ha modo di rifulgere in tutto il suo splendore strumentale così come il coro magistralmente istruito da Andrea Secchi.

La presenza di solisti di grande livello perfettamente integrati con la lettura del direttore porta a un risultato di eccellenza in cui si ammira la straordinaria voce di Angela Meade con i suoi fiati immensi, la grande proiezione, la perfetta intonazione, la fluidità del fraseggio, il timbro sontuoso. Se qualcuno avesse pensato a una certa freddezza nell’interpretazione del soprano americano, viene il momento in cui le parole del Libera me fanno scorrere un brivido nella schiena per l’intensità espressiva con cui sono pronunciate. Altrettanto spettacolari e ricchi di pathos sono gli interventi del mezzosoprano Silvia Beltrami e lontani da toni sbiancati quelli del tenore Enea Scala che sostiene «Hostias» con voce piena e acuti sicuri. La sua è una performance ricca di colori e di intenzioni realizzate. Il basso Gianluca Buratto ci ricorda invece che l’italiano oltre alle vocali ha anche le consonanti – e mors, ripetuta quattro volte di seguito nel silenzio orchestrale, ne ha tre contro una… – e dimostra l’importanza della parola anche in un testo liturgico in latino. Peccato che l’intonazione non sia sempre ineccepibile.

Grandi applausi da parte di un pubblico numeroso e rumoroso – ben quattro le suonerie di telefonini che si sono ascoltate durante i pianissimi e le pause piene di tensione. Quelle durante i pieni orchestrali non si sono invece notate.

Concerto di Natale della OSN RAI

Ludwig van Beethoven, Sinfonia n° 9 in re minore op. 125

I. Allegro non troppo, un poco maestoso
II. Molto vivace – Presto
III. Adagio molto cantabile – Andante moderato
IV. Finale presto – Allegro assai

Ion Marin direttore, Uliana Alexyuk soprano, Valentin Stadler mezzosoprano, Nicky Spence tenore, Tómas Tómasson basso

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 23 dicembre 2022

Natale con Beethoven, ma senza Luisi

Con l’inno alla Dea Gioia, Friedrich Schiller conclude nel 1785 il suo periodo stürmeriano: «Nell’inno An die Freude gli elementi lirici conquistati al prezzo di sì lungo travaglio, ubbidirono finalmente alla fantasia e si disposero in una vasta ed ardita fuga, ordinata pur nel tumultuante incalzare di motivi sempre più ampi e vigorosi» (Ladislao Mittner). Espressione possente e compiuta della lirica schilleriana, in origine doveva avere come titolo An die Freiheit (Freude=gioia, Freiheit=libertà). L’ode venne scelta dal compositore di Bonn per il finale della sua nona e ultima sinfonia, la cui scrittura prese molto tempo: dall’originario progetto risalente al 1816 la composizione continuò fino alla prima esecuzione nel maggio 1824. Un lungo periodo caratterizzato da innumerevoli ripensamenti sulla volontà di dar voce all’ode schilleriana: Beethoven era conscio di trovarsi a un passo molto rischioso anche se l’utilizzo di un brano corale in una composizione strumentale non era una grande novità all’epoca e il compositore stesso ne aveva già fatto prova con la Fantasia Corale op. 80 per pianoforte, coro e orchestra, un singolare lavoro,  formalmente un tema con variazioni, con un crescendo strumentale, dal pianoforte solo all’orchestra al coro, e armonico, dal do minore al Do maggiore, terminante con un testo di Kuffner su un motivo musicale che ricorda quello della futura Nona. Nell’ode di Schiller si può intravedere una forma musicale che poi Beethoven saprà genialmente esaltare: un vigoroso crescendo che dal pianissimo iniziale della prima strofa, «Freude schöner Götterfunken, | Tochter aus Elysium» (Gioia, bella scintilla divina, figlia dell’Elisio»), porta alle vertigini ondeggianti tra terra e cielo nelle risposte tra poeta e coro, con il Creatore che si manifesta con sempre più luminosa evidenza. In questa gioia illuministica l’abbraccio di fratellanza e il bacio cosmico cancellano ogni differenza rigidamente stabilita dalla “moda”, la convenzione sociale: «Seid umschlungen Millionen! | Diesen Kuß der ganzen Welt!» (Abbracciatevi moltitudini! Questo bacio al mondo intero!).

Oltre che con i contenuti, Beethoven sperimenta anche con la forma in questo suo lavoro sinfonico. Nel primo movimento un semplice accordo armonicamente incerto precede il tema che rappresenta la forza soprannaturale che porta ordine nel caos primordiale. Dopo un primo tempo vasto e complesso, contrariamente alla consuetudine che prevedeva un tempo lento, viene invece anticipato lo Scherzo, movimento dalla vivace forza ritmica. Solo con il terzo tempo inizia l’ascesa: un sublime adagio con variazioni, nella estatica contemplazione della bellezza. E infine il quarto movimento: dopo un riepilogo dei temi dei primi tre movimenti, un vigoroso recitativo degli archi gravi introduce la voce umana, prima il baritono, che interviene a chiedere ordine nel caos strumentale, e poi il coro che, sul famoso tema ascendente, intona l’ode schilleriana adattata da Bethoven per la sua sinfonia.

Forse non il programma più adatto per un “concerto di Natale”– da quanto tempo non si ascolta a Torino un oratorio händeliano o bachiano? – comunque grande era l’attesa per questo concerto offerto fuori abbonamento dalla Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e con la prevista direzione di Fabio Luisi, ma il suo direttore emerito, indisposto, non ha potuto essere presente. Grande riconoscenza va dunque al maestro che l’ha sostituito con così poco preavviso, ma è comprensibile anche che a causa del breve tempo a disposizione sia potuta venire a mancare quella sintonia tra direttore, orchestra, solisti e coro che richiede una pagina come questa. Ed è quello che è avvenuto appunto l’altra sera con il maestro Ion Marin, rumeno di elegante presenza: fin dalle prime note, dove gli attacchi strumentali non si sono distinti per particolare pulizia e dove il livello sonoro sembrava coprire un fraseggio poco curato, si è compreso che tra la nostra orchestra e il direttore arrivato pochi giorni prima non è scoccata la scintilla e i pur pregevoli interventi solistici degli strumentisti sono annegati in un denso strato sonoro a cui sembravano indirizzate la parole del basso «O Freunde, nicht diese Töne» (Amici, non questi suoni). La mancanza di trasparenza e leggerezza si è fatta evidente nel terzo movimento, mentre il vivace-presto del secondo movimento non si è particolarmente distinto per colore dal primo movimento. Neanche il finale si è riscattato da una lettura piuttosto pesante, con un coro, quello eccellente del Teatro Regio, eccessivamente fragoroso e con solisti che messi alla prova dalla impervia scrittura vocale di Beethoven non sembrano aver dato il meglio di loro stessi. Sono il soprano ucraino Uliana Alexyuk, il mezzosoprano tedesco Valentina Stadler, il tenore scozzese Nicky Spence (che ricordiamo quale splendido Laca nella Jenůfa del Covent Garden dello scorso anno) e il basso islandese Tómas Tómasson.

Auditorium gremito con molti giovani ai quali è da attribuire l’entusiasmo degli applausi. L’atmosfera non era però del tutto festosa e aggravata dalla totale mancanza di decorazione della sala già intristita dalla eliminazione di sei file di platea e dalla presenza di un palcoscenico aggiunto che aumenta la distanza dal pubblico. Essendo il concerto ripreso per la televisione, possibile che nessuno abbia chiesto a un fiorista della città di decorare in qualche maniera il palco? E non mi si dica trattarsi di costi, perché chiunque l’avrebbe fatto gratuitamente in cambio di una menzione sul programma.