Mese: marzo 2018

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

★★★★☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus , 13 agosto 2015

(video streaming)

Fidelio reloaded

Namenlose (indicibile) e unaussprechlich (inesprimibile) sono i termini più sovente utilizzati nel libretto del Fidelio, che si tratti di pena («o namenlose Pein!) o che si tratti di gioia e piacere («O namenlose Freude! unaussprechlich süßer Lust! unaussprechlich süßes Glück!). Solo la musica può dire quello che le parole non riescono a esprimere. Dell’altissimo messaggio di libertà e affermazione della nobiltà dello spirito che sopravvive e si rigenera dopo la sofferenza, nel testo purtroppo c’è poca traccia: i librettisti sono legati a un modello drammaturgico da opera comica che solo le note di Beethoven riescono a sublimare. I dialoghi parlati sono sempre stati, qui più che in ogni altro singspiel, un grosso problema per chi affronta la messa in scena del Fidelio.

Nell’agosto 2015 sull’enorme palcoscenico della Großes Festspielhaus Claus Guth risolve drasticamente il problema eliminandoli totalmente (tanto a Salisburgo tutti conoscono la vicenda!) e li sostituisce con fruscii, respiri, rumori metallici, sibili sinistri, installazioni sonore da film di fantascienza. Il monolito nero, che giganteggia nella monumentale sala vuota («il salone dell’inconscio») dagli altissimi muri di pannelli bianchi e dal pavimento in legno elegantemente intarsiato, non può non far pensare a 2001 A Space Odissey di Kubrick. Ma c’è ancora un altro film di riferimento per il regista: Don Pizarro ha un suo alter ego con cappotto nero e occhiali scuri che è il sosia perfetto dell’Agente Smith di Matrix degli (allora) fratelli Wachowski.

La pièce à sauvetage diventa un dramma psicologico, un «mosaico delle solitudini in cui ognuno è prigioniero» dice il regista, e la libertà è quella dalle prigioni della mente che ci imponiamo noi stessi. Completamente diverso sembra invece il pensiero del direttore Franz Werner-Möst il quale, sempre in un’intervista, afferma che Beethoven non vuole penetrare nella mente dei suoi protagonisti né si preoccupa dei loro destini individuali, ma è interessato a un’idea universale di libertà e uguaglianza magistralmente espressa nella sua musica. Il pubblico di Salisburgo sembra condividere l’opinione del maestro concertatore che saluta con ovazioni fragorose, mentre verso il regista esprime sonori dissensi.

La messa in scena può lasciare perplessi sulle intenzioni, ma è di grande eleganza. La scenografia di Christian Schmidt utilizza pochi elementi: nel secondo atto il monolito si solleva per scoprire la buca destinata a Florestan e il pavimento diventa pericolosamente inclinato; nella scena finale un tappeto rosso e un enorme lampadario di cristallo vorrebbero suggerire la festosità dell’azione, contraddetta però dal coro fuoriscena che ha un che di minaccioso per il prigioneiro salvato che infatti si tappa le orecchie e anche prima sfuggiva alle carezze della moglie con movimenti scomposti. Le luci laterali che proiettano ombre sui muri sottolineano i conflitti interpersonali dei personaggi in scena. Come Don Pizzarro anche Fidelio ha un alter ego: una Leonora con gli stessi abiti ma con un’acconciatura più femminile, la quale si esprime con i gesti dei non udenti (un’allusione alla sordità del compositore?) con un effetto piuttosto distraente. Per quanto lo spettacolo sia visivamente eccezionale e intrigante nella concezione, non è esattamente il dramma di Beethoven.

Successo pieno per Franz Werner-Möst: la sua lettura nobilita l’architettura musicale e l’esecuzione dell’ouverture “Leonora terza” prima della scena finale è pienamente convincente, realizzata con maestosità e slancio entusiasmante e salutata da un uragano di applausi.

Eccellente Adrianne Pieczonka una Leonora di presenza maestosa, la voce possente, gli acuti luminosi, ma è nel Florestan di Jonas Kaufmann che si concentra l’attenzione della serata, ruolo di elezione per il tenore tedesco che lo ha ripreso molte altre volte. Il suo «Gott!» in crescendo e nel buio rimane un momento indimenticabile. Poi la sua opulenza vocale dovrà fare i conti con i movimenti convulsi del corpo richiesti dalla regia.

Hans-Peter König come Rocco, Olga Bezsmertna (Marzelline), Norbert Ernst (Jaquino) e Tomasz Konieczny (Pizarro) completano l’eccellente cast.

La Gioconda

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

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Modena, Teatro Comunale Luciano Pavarotti, 25 marzo 2018

Un grand-opéra di provincia

Per nessun’altra opera è così netto il divario tra i giudizi della critica e del pubblico. Dal 1876, quando La Gioconda di Amilcare Ponchielli fu presentata alla Scala di Milano con un successo di inaudite proporzioni, ogni volta che questo drammone viene allestito in qualche teatro italiano si rinnova la sua fortuna popolare. Ma immutate rimangono anche le riserve della musicografia su questo feuilleton a forti tinte tratto da Angelo, tyran de Padoue che Victor Hugo aveva scritto quarant’anni prima. Il pubblico rimane comunque soggiogato dall’opulenza della musica di questo grand-opéra di provincia di sapiente costruzione musicale cui non mancano pagine di indubbio effetto. Il fatto è che i personaggi de La Gioconda hanno uno spessore psicologico minimo, essendo più che altro la rappresentazione in scena di sentimenti estremi più che personaggi dalla drammaturgia credibile.

Solo in parte la trama del dramma storico di Hugo viene rispettata dal librettista Arrigo Boito, che qui si firma Tobia Gorro. Nei suoi ricercati versi e nella musica di Ponchielli protagonista principale è la città di Venezia, «grande e terribile, piena di tenebre, dove non si muore sul patibolo, ma si sparisce» nel Canal Orfano o nel Canal Morto…

Il regista de La Gioconda oggi ha davanti a sé due vie antitetiche per la messa in scena: o una parodia della vicenda mettendo in scena “qualcos’altro” (chissà cosa ne farebbero Claus Guth o Krzysztof Warlikowski o Damiano Michieletto!) o un allestimento del tutto tradizionale con una Venezia da cartolina come scenografia. Federico Bertolani non sceglie la prima via: la sua è una messa in scena comunque semplificata e depurata da orpelli e cartapesta che tiene conto delle esigenze di budget sempre più limitati. Nella scenografia di Andrea Belli si accenna più che descrivere la città lagunare con l’acqua elemento sempre presente, anche se gli spettatori della platea quasi non se ne accorgano se non fosse per i riflessi di luce e gli spruzzi. Passerelle di legno formano gli ambienti del primo e quarto atto; un albero, due vele e cordami formano il brigantino su cui avviene la perdizione di Laura e la trasformazione della Gioconda in donna vendicatrice – ma non sarà l’unica conversione: diventerà poi pietosa e infine martire. Meno efficace la scena del terzo atto, l’interno della Ca’ d’Oro, realizzata con troppi drappi rossi che contrastano con i brutti teli di plastica traslucidi che negli altri atti accennano efficacemente all’elemento liquido della città. Che poi Laura sia costretta a rimanere una buona mezz’ora stesa sul suo catafalco coperta da un telo rosso è difficilmente giustificabile dal punto di vista drammaturgico.

Il direttore Daniele Callegari ripristina tutte le pagine di una partitura complessa, anche quelle che di tradizione vengono tagliate al secondo e al quarto atto, e ne dà una lettura trascinante, sottolinea i momenti crepuscolari, ma non lesina sui volumi sonori quando è necessario, senza mai prevaricare però sui cantanti. Peccato che i tre intervalli diluiscano molto la tensione drammatica e facciano andare a casa gli spettatori dopo oltre quattro ore. Non si giustificano i sessanta minuti totali di intervalli per i cambi di una scena essenzialmente minimalista.

Tre sono i momenti culminanti del personaggio di Gioconda: il duetto con la rivale Laura, il momento del lancinante «Suicidio!» e la scena finale. In tutti e tre Saioa Hernandez ha dimostrato grande temperamento e tecnica vocale assieme a volume sonoro ragguardevole e un timbro particolare che la rende adatta a questo tipo di repertorio. L’altro elemento di punta della serata è il personaggio di Enzo Grimaldo, qui sostenuto dal Francesco Meli di cui il pubblico ha apprezzato il solito impegno con applausi copiosi. Grande esperienza e temperamento sono le doti di Anna Maria Chiuri che, nonostante qualche asprezza nel registro basso, ha delineato con efficacia una Laura sofferta. Strumenti un po’ usurati quelli dell’Alvise Badoero di Giacomo Prestia, la sua è stata una prestazione generosa ma affaticata. Ancora un ruolo da vilain per Sebastian Catana, che dopo il perfido Giovanni de La ciociara di Marco Tutino veste le parti di Barnaba, uno Jago la cui perfidia qui è ancora più irragionevole. Buono il resto dei comprimari così come i cori.

Monica Casadei con la compagnia Artemis ha risolto con efficiacia la celeberrima “Danza delle ore”, una ingenua concessione alle esigenze del grand-opéra transalpino. Nello spazio esiguo tra coro e buca orchestrale i soli sei ballerini hanno illustrato con movimenti allusivi ai movimenti degli ingranaggi o a quelli delle lancette di un orologio i galop e i temi pimpanti di questa pagina il cui carattere è totalmente avulso dalle atmosfere notturne e misteriose del resto dell’opera.

Barbe-Bleu

Jacques Offenbach, Blaubart

★★★☆☆

Berlino, Komische Oper, 23 marzo 2018

(diretta video)

Offenbach tra Eros e Thanatos

Sotto la direzione di Barrie Kosky la Komische Oper di Berlino sta ripolverando il repertorio operettistico. Dopo l’operetta berlinese è la volta di quella francese con il Barbe-Bleu di Offenbach – Blaubart giacché qui le opere si danno in tedesco. L’occasione sono i settant’anni della fondazione del teatro berlinese ad opera di Walter Felsenstein il cui Blaubart fu una delle sue mitiche produzioni nel 1963.

Solo alla lontana Meilhac e Halévy si sono ispirati alla favola di Perrault per il loro libretto: come nelle numerose versioni popolari, la truce leggenda è volta al comico con le mogli di Barbablù non uccise, bensì addormentate. Finché si svegliano tutte assieme.

Atto primo. Un piccolo villaggio rurale con il castello di Barbablù sullo sfondo. Il re Bobèche, non volendo una ragazza come erede, aveva abbandonato sua figlia Hermia quando aveva tre anni. Ora è diciottenne e vive come pastorella sotto il nome di Fleurette ed è innamorata del giovane e attraente pastore Saphir, ma non è felice poiché non le ha ancora proposto il matrimonio. Oscar, il ciambellano del re scopre che la pastorella Fleurette è in realtà la principessa Hermia e le chiede di tornare alla corte del re, il che significa però che deve lasciare il ragazzo che ama. Viene nel frattempo “sorteggiata” una fanciulla illibata per il cavaliere Barbablù e tocca alla piccante Boulotte diventarne la sesta moglie.
Atto secondo. Scena prima. Il palazzo reale. Il re Bobèche è felice di dare il benvenuto alla figlia da tempo perduta e di trovarle uno sposo regale. Fleurette resiste a ogni pensiero di matrimonio fino a quando scopre, con sua gioia, che lo sposo prescelto per lei è Saphir, non un pastorello come lei aveva pensato, ma un principe che si era camuffato come tale per esserle vicino. Barbablù arriva a far visita al re Bobèche e mostra la sua nuova moglie Boulotte, ma viene immediatamente colpito dalla principessa Hermia. Scena Seconda. La prigione di Popolani. Barbablù ordina a Popolani di liberarlo della sua nuova moglie Boulotte. Popolani ha eliminato tutte le sue precedenti mogli avvelenandole, in modo che Barbablù possa sposare Hermia. Ma Popolani ha solo fatto finta di ucciderle, ha solo dato loro dei sonniferi facendole poi vivere in confortevoli appartamenti. Barbablù assiste, nel bel mezzo di una tempesta, a quello che pensa sia l’omicidio della sua ultima moglie, Boulotte, ma dopo lei si risveglia e conduce le altre mogli “morte” in marcia al castello del re
Atto terzo. La cappella nel palazzo reale. Hermia e Saphir stanno entrando nella cappella per il loro matrimonio quando Barbablù interrompe la processione e con la forza delle armi e chiede che Hermia si arrenda a lui come la sua settima moglie, essendo morta Boulotte, come lui pensa. Sfida quindi Saphir a duello, lo uccide e prende il suo posto come sposo di Hermia. Saphir non è morto però, come non lo sono i cinque ufficiali che Bobéche aveva voluto far uccidere per gelosia. Insieme con le mogli di Barbablù si introducono di nascosto nel castello travestiti da zingari. Nel trambusto generale la soluzione è presto trovata: i signori “morti” sposeranno le mogli “morte” e Barbablù rimarrà con Boulotte. Si può quindi celebrare finalmente il matrimonio di Hermia e Saphir.

Come sempre Offenbach e i suoi librettisti utilizzano la vicenda per una satira sociale che non risparmia né la borghesia con le sue ipocrisie né Napoleone III: i suoi coetanei nell’insaziabile Barbablù vedevano il riflesso degli analoghi appetiti sessuali del loro imperatore. Se per amare una donna bisogna sposarla ecco che Barbablù si sposa in continuazione perché, come Don Giovanni, ama tutte le donne. Poi però bisogna disfarsene… Tutto è cinismo in quest’opera dominata da un umorismo nero: «Je suis Barbe-Bleu, ô gué! | Jamais veuf ne fût plus gai!». Al Théâtre des Variétés l’opera debuttò con un franco successo il 5 febbraio 1866 e dopo cinque mesi di repliche iniziò un tour in Europa e in Nord America senza però raggiungere mai la popolarità delle altre opere di Offenbach.

La versione in tedesco carica i couplet di Offenbach di quell’umorismo berlinese che è spesso greve, come quando l’originale «C’est un métier difficile | que celui des courtesans […] il faut, s’il veut arriver, […] qu’il s’incline | et qu’il courbe son échine | autant qu’il la peut courber» diventa il più esplicito: «Wenn du etwas willst bezwecken, | wenn du steil nach oben strebst | musst du viele Ärsche lecken, | weil du sonst nicht überlest. […] Fleißig in den Arsch zu kriechen, | um den Duft der Macht zu riechen». Lascio ai poliglotti il piacere di scoprire le differenze.

Qui a Berlino anche la versione musicale è molto liberamente elaborata con richiami della Moldava di Smetana quando si parla del fiume su cui è abbandonata la figlia del re, o di corni wagneriani. Nel cast si stacca nettamente Wolfgang Ablinger-Sperrhacke che presta la sua stralunata presenza per il personaggio titolare. Scenicamente efficaci tutti gli altri attori-cantanti, ma qui non si devono cercare particolari doti di belcanto, che infatti mancano. Sotto la bacchetta di Stefan Soltész i ritmi ora sornioni ora indiavolati di Offenbach trovano la loro esatta realizzazione.

Nella messa in scena di Stefan Herheim la vicenda originale è incorniciata dai dialoghi di due personaggi, Cupido e la Morte, qui affidati a due grandi attori: Rüdiger Frank dal corpo deformato e Wolfgang Häntsch, un crudele Mangiafuoco che fa tirare il suo carrozzone dal povero Cupido. La storia è infatti una creazione dei due che si divertono a tormentare loro stessi e gli umani.

La scenografia di Christof Hetzer e i costumi di Esther Bialas ricostruiscono con ironia gli ambienti: dalla scena pastorale ai sotterranei di Barbalù alla reggia in costruzione di Bobèche.

Nella ripresa non tutto è funzionato a dovere: i microfoni talora non hanno captato le voci dei cantanti e una fune si è spezzata lasciando il fondale sbilenco. Il bello della diretta!

The Great Tamer

Dimitris Papaioannou, The Great Tamer

Parigi, Théâtre de la Ville, 21 marzo 2018

Per trovare l’uomo occorre scavare

«Ho nella memoria visiva le statue a pezzi, i fregi a bassorilievo, le colonne di marmo bianco e le nudità delle divinità dell’Olimpo» dice il coreografo, regista, scenografo greco Dimitris Papaioannou ai cui spettacoli è difficile incollare una definizione: balletto? teatro ibrido? teatro performativo? mise en espace di concetti?

E ancora più difficile raccontare a parole uno spettacolo che alla parola rinuncia per partito preso: i suoni sono quelli delle rarefatte note del Danubio Blu di Johann Strauss elaborate elettronicamente che si alternano ai rumori amplificati che riempiono la scena, un pendio di lastre grigie che cela anfratti, pozzi, sorgenti. «Credo che il corpo umano, in quanto veicolo di percezioni, sia l’unità di misura dello spazio e anche un potente medium attraverso cui comprendere ciò che ci circonda. L’interazione tra i corpi umani, gli oggetti e lo spazio organizzato rappresenta per me il veicolo di comprensione del mistero dell’esistenza».

Non sappiamo dove siamo né in che epoca. Potrebbero essere i primordi dell’umanità con l’uomo che cerca il suo posto in questo mondo desolato, oppure la fine di un pianeta devastato su cui una coppia di astronauti recupera dalla terra il corpo di un uomo sepolto vivo. Immagini misteriose e oniriche si dipanano con una loro logica che sfida la razionalità, ma con il costante riferimento a opere d’arte – il Cristo morto del Mantegna, la Nascita di Venere del Botticelli, la Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt e poi centauri, Narciso, Cerere, Persefone, Crono…

Nel finale uno scheletro lentamente si disfa sotto i nostri occhi e il teschio rotola tra i piedi degli spettatori della prima fila. Il titolo, Il grande domatore, fa riferimento al tempo, che tutto doma, tutto livella. Ma anche a un circo dove si alternano le acrobazie dei dieci performer con i loro giochi di prestigio o gli esseri mostruosi formati da brandelli di arti che si compongono in un corpo umano.

Dopo aver girato per l’Europa, l’ultima creazione di Papaioannou approda ora a Parigi. Lo spettacolo, da non perdere, arriverà a settembre per TorinoDanza. Il trailer dello spettacolo si può vedere su Vimeo dove si trovano molti altri suoi video.

Alcina

Georg Friedrich Händel, Alcina

★★★★★

Parigi, Théâtre des Champs-Élysées, 20 marzo 2018

La magia del teatro: ecco le armi di Alcina

Che cosa possono avere in comune Georg Friedrich Händel e Richard Strauss oltre al fatto di essere i più grandi compositori per il teatro in musica del loro tempo? A distanza di duecento anni affrontano entrambi i dolori di una donna che perde l’amore perché i suoi incanti svaniscono, perché il tempo passa: «Sì, son quella, | non più bella, | non più cara agli occhi tuoi» dice incredula un’Alcina settecentesca a Ruggiero che non l’ama più. I suoi lamenti sembrano echeggiare quelli della settecentesca Marschallin del Rosenkavalier che scopre gli anni che passano nell’amore del giovane Octavian per la coetanea Sophie. Che poi la prima sia un tantino più vendicativa della seconda è un problema di caratteri e di esigenze del teatro barocco.

Nato a Zurigo nel 2014 e ora riproposto al Théâtre des Champs-Élysées, lo spettacolo di Christof Loy è la sua terza messa in scena del titolo händeliano. Il luogo delle magie di Alcina in questo allestimento è il luogo per eccellenza delle illusioni: il teatro, metafora dell’isola della maga. Nella scenografia di Johannes Leiacker al primo atto ammiriamo un palcoscenico con quinte e fondali dipinti del quale si vedono però le macchine sceniche sotto il palco; nel secondo entriamo nelle camere per gli artisti, nel terzo siamo nel retroscena.

Eliminato il personaggio di Oberto e la scena del leone – che Händel aveva inserito all’ultimo momento per stupire il pubblico, così come le danze presto soppresse nel corso delle repliche dell’opera – l’azione si concentra sulle relazioni tra Alcina e Ruggiero, Ruggiero e Bradamante, Bradamante e Morgana, Morgana e Oronte. In quest’opera di Händel infatti non c’è coppia che non sia scomposta o scomponibile. Direzione attoriale precisissima e costumi, di Ursula Renzenbrick, che a mano a mano passano da un sontuoso Settecento alla contemporaneità per gli attori in scena sull’isola di Alcina, mentre Melisso e Bradamante sono sempre in abiti moderni.

Da Zurigo arrivano Cecilia Bartoli, che lì aveva debuttato nel ruolo titolare, Julie Fuchs (Morgana) e Varduhi Abrahamyan (Bradamante). Senza grandi pirotecnie vocali, il ruolo di Alcina si addice perfettamente al soprano romano che scava nell’espressività del personaggio con un’intensità drammatica da brividi e con suoni sfumati che scendono al sussurro. Con le sue sei arie riesce a definire tutte le possibilità espressive del canto, come in «Ah, mio core», la più lunga e più intensa dell’opera, su un ostinato che riflette la prostrazione di Alcina la Bartoli affronta uno dei lamenti più intensi dell’opera barocca: con cadenze spezzate, incessanti modulazioni, slanci e tregue dolenti, invettive furiose, la maga si mostra fragile e sincera, per una volta senza artifici. Una performance indimenticabile.

Julie Fuchs, indisposta per le prime recite, riprende le ultime regalando al pubblico un  «Tornami a vagheggiar» magistrale per eleganza e precisione che viene giustamente salutato da imponenti ovazioni

Eccellente anche il reparto maschile. Ruggiero è un Philippe Jaroussky in stato di grazia, ancora maturato rispetto al Ruggiero di Aix-en-Provence. Il timbro è sempre luminoso, la virtuosità vocale ineccepibile e la presenza scenica è messa in risalto dalla coreografia per la sua aria di congedo nel terzo atto, un irresistibile numero di commedia musicale con contorno di boys. Il personaggio di Melisso ha qui un risalto particolare per l’ottimo Krzystof Bączyk, basso polacco che esibisce una statura vocale e scenica di eccezione. Per l’improvvisa défaillance di Christoph Strehl che ha recitato afono in scena il personaggio di Oronte, in buca è sceso a prestargli la voce Allan Clayton, l’acclamato interprete del Hamlet di Brett Dean, che con minimo preavviso ha accettato la prova e l’ha superata in maniera brillantissima.

Nell’attenta concertazione di Emmanuelle Haïm e del suo Concert d’Astrée, che ha mantenuto in perfetto equilibrio il palcoscenico e la buca orchestrale, grande rilievo è stato dato agli interventi solistici – violino, violoncello e flauto – che accompagnano alcune arie di questa splendida pagina di teatro musicale.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

Monaco, Nationaltheater, 18 marzo 2018

★★☆☆☆

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I Vespri dei morti viventi

Le mummie della cripta dei Cappuccini di Palermo, il “día de muertos” della tradizione messicana, lo splatter macabro de La notte dei morti viventi di George A. Romero: tutto entra in questo allestimento del quasi omonimo Antú Romero Nunes di Les Vêpres siciliennes alla Bayerische Staatsoper, la versione originale in francese della prima opera scritta da Verdi per Parigi da noi quasi sempre presentata nella versione italiana I Vespri siciliani.

Il regista tedesco di padre portoghese e madre cilena dopo Der Vampyr di Marschner alla Komische Oper di Berlino gioca nuovamente la carta horror in questa messa in scena.  Il risultato però ricorda piuttosto una Festa di Halloween nel Village e il ridicolo è sempre dietro l’angolo con la madonna (la madre di Henri? Santa Rosalia?) in formaldeide, Procida che tira fuori da un sacco bistecche che getta a quelle bestie dei francesi o il can-can delle spose siciliane che, sottoposte alle violenze della soldataglia, ne escono insanguinate ma soddisfatte. O ancora, il risveglio dei cadaveri appesi durante il duetto di soprano e tenore – i soliti acrobati sul filo che sembra non possano mancare in una regia à la page.

Un popolo che non si ribella all’oppressore è un popolo morto, ha pensato il regista. Ed ecco che quindi i siciliani hanno tutti maschere di teschio, ma anche i francesi con divise napoleoniche hanno visi truccati grottescamente da morto. La Totentanz di Romero Nunes inizia con un telo nero, unica concessione delle scenografie di Matthias Koch, che si alza per rivelare un giovane per terra con il giubbotto arancione addosso, forse scampato al naufragio del «beau vaisseau» di cui canterà Hélène o un emigrante spiaggiato a Lampedusa. Se anche così fosse non ci saranno conseguenze né attualizzazione alle tragedie di oggi nella lettura di Nunes Romero. C’è anche una ballerina che accenna passi di danza sulle coreografie di Dustin Klein che punteggeranno altri momenti dello spettacolo, come l’ingresso di Procida vestito come un principe assiro (o è un santo nella sua teca reliquiario?). Il “balletto delle stagioni” qui è sostituito da una più breve elaborazione in stile techno: se i ballabili erano un corpo estraneo introdotto da Verdi solo per convenzione (e spesso assenti nelle versioni italiane), perché non portare l’idea all’estremo introducendo qualcosa di totalmente estraneo? I buu del pubblico di Monaco sembrano al momento dare una risposta. E quando ci si aspetterebbe l’ingresso di Grace Jones, entra invece Hélène in abito bianco a cantare la sua sicilienne (quella che in italiano diventa un bolero) prima del massacro finale in cui tutti schiattano, sola sopravvissuta è la figura col giubbotto salvagente.

Dall’influocata ouverture in poi tutto è trascinante nella direzione di Omer Meir-Wellber che non lesina con dinamiche e volumi sonori coerenti con quanto avviene in scena. Dei cantanti nessuno è francese e si sente nelle dizioni che vanno dall’approssimato all’improbabile. Rachel Willis-Sørensen è una Hélène dal timbro drammatico e dalle facili agilità ma gelida nell’espressione. Il tenore Bryan Hymel indisposto è sostituito dall’italiano Leonardo Caimi che ha fatto del suo meglio – e ancora grazie fosse disponibile un Henri all’ultimo momento. Neanche George Petean, Guy de Monfort con la roncola in mano (!) e il volto sfigurato da un trucco orripilante, punta sull’espressività e il suo doppio ruolo di tiranno e padre amoroso resta in sospeso. Erwin Schrott, Procida dall’aria svagata, è un alieno che riceve dal pubblico ovazioni da stadio.

Tamerlano

Georg Friedrich Händel, Tamerlano

★★★☆☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie6 febbraio 2015

(video streaming)

Da Stoccolma a Bruxelles, ma sempre minimalista

Vengono ripresi alla Monnaie gli spettacoli händeliani allestiti da Pierre Audi allo Slottsteater di Drottningholms nel 2002. Qui a Bruxelles essi si alternano: Tamerlano una sera e quella seguente Alcina.

Per entrambi quasi la stessa messa in scena, ancora più vuota quella del Tamerlano: se nella Alcina qualche quinta dipinta a fogliame e alcune casse occupavano il palcoscenico, qui c’è una sola sedia che funge da trono e da capestro e una prospettiva forzata di lesene il cui oro esce dal fondo nero in cui il tutto è immerso. L’abile gioco di luci di Matthew Richardson dà rilievo ai personaggi persi nel vuoto e ai loro costumi settecenteschi inizialmente dalle tinte attenuate e poi da colori più vivi.

Al minimalismo scenico si contrappone una recitazione piuttosto marcata che si sviluppa molto sul pavimento con continui accasciamenti dei personaggi. La regia appartiene alla collaudata maniera di Audi che, depurata di ogni scenografia, affida solo alla tensione fra i personaggi la drammatizzazione, ma in un’opera come questa, scura e di durata che supera le tre ore, la noia è sempre in agguato e non è certo l’eleganza dei movimenti da partita di scacchi con cui si muovono i personaggi a renderla emozionante. Poco comprensibili, anzi inopportune, sono poi alcune gag come quella del “colpo della strega” che colpisce la schiena del servo Leone.

Anche la direzione di Christophe Rousset risulta essenziale come le scenografie e latente di forza drammatica, ma la limitatezza delle dinamiche sembra una scelta per non mettere in difficoltà i cantanti che, soprattutto quelli maschili, non possono sfoggiare volumi vocali consistenti. Così infatti è per il Tamerlano di Christophe Dumaux, controtenore di temperamento e grande presenza scenica ma qui meno convincente del solito. Il limitato volume sonoro del Bajazet di Jeremy Ovenden lo porta a un eccesso di caratterizzazione con uso del parlato e passaggi di intonazione precaria. Da dimenticare il Leon di Nathan Berg. Meglio il reparto femminile con Sophie Karthäuser eccellente Asteria, non male Delphine Galou nei panni dell’Andronico che fu tenuto a battesimo dal Senesino nel 1724 ed efficace l’Irene di Anna Hallenberg.

L’Orfeo

 

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 13 marzo 2018

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L’Orfeo del Regio non ascende al cielo

I teatri sono delle macchine del tempo talora, nel senso che ci possono trasportare indietro nel passato. È il caso ad esempio di questa produzione de L’Orfeo di Monteverdi del Teatro Regio di Torino. Ma non per i 411 anni che ci separano dal debutto del primo capolavoro di un nuovo genere, il melodramma, bensì per il passato da cui sembra uscire questo allestimento nato già vecchio.

In controtendenza alle letture che hanno analizzato in modi diversi il mito anche decontestualizzandolo – vengono alla mente i nomi di Jean-Pierre Ponnelle, Pier Luigi Pizzi, Luca Ronconi, Robert Wilson e più recentemente di Trisha Brown, Claus Guth e Barrie Kosky, per citarne solo alcuni – nell’allestimento del regista Alessio Pizzech abbiamo uno spettacolo improntato alla mera illustrazione di quanto suggerisce il testo. La vicenda viene rappresentata in maniera piattamente lineare senza affrontare gli spunti che un lavoro di quattro secoli fa potrebbe suggerire a noi moderni. Qui le ninfe sono vestite di fiori, i pastori sono saltellanti, Orfeo non si separa mai dalla sua lira di plastica dorata (quella di Apollo avrà in più l’illuminazione a led!), a Euridice non manca il velo bianco e se si parla di «face ardente» ecco che un ballerino entra in scena con una fiaccola accesa. Tutto secondo copione. Ma dov’è la magia del teatro?

La scenografia di Davide Amadei presenta un piano inclinato messo in diagonale, un pavimento in parquet tagliato a metà in verticale che funge da sipario e che quando si alza svela un ambiente circondato da pareti che riprendono un soffitto ligneo a cassettoni dall’aspetto decisamente opprimente. Talora le pareti si aprono per mostrare un fondo grigio, nella scena degli inferi, o luminoso nel finale in cui Orfeo dovrebbe ascendere al cielo assieme al padre Apollo, ma che qui invece continuano a passeggiare in scena.

I costumi sono abiti da sera per i personaggi femminili mentre Orfeo è in completo bianco ma scalzo e Apollo in un outfit dorato. Ancora più strampalati quelli di Caronte e Plutone. Nella scelta registica di Pizzech mancano completamente di impatto gli ingressi sia della Musica sia della Messaggera e la barca di Caronte va avanti e indietro di pochi metri per traghettare anime riottose che con il loro scalmanarsi distolgono l’attenzione dal canto di Orfeo che cerca di addolcire il traghettatore dell’Ade. La stessa cosa avviene durante il sublime canto della Messaggera il cui intervento è disturbato dal fastidioso fruscio dei prati di plastica trascinati fuori dal palcoscenico.

Se non la prima opera, L’Orfeo è il primo lavoro a contenere in sé, sia musicalmente sia drammaturgicamente quella che sarà poi lo spettacolo lirico: una gamma completa di modalità espressive qui evidenziate da una ricchezza timbrica, strumentale e vocale che rendono quest’opera di Monteverdi un capolavoro ancora oggi pienamente apprezzabile.

Questa ricchezza timbrica è solo in parte presente nella direzione di Antonio Florio. Esperto di musica barocca, musicologo e fondatore dell’ensemble Cappella della Pietà de’ Turchini con cui ha esplorato la musica del Seicento e Settecento napoletano, affronta qui per la prima volta il lavoro di Monteverdi e come intimorito offre un’esecuzione sapiente ma che smorza i contrasti dinamici e sonori con tempi rilassati e colori spenti. La concertazione è sapiente e accurata ma si dimostra talora come intimorita dallo smalto sonoro potenzialmente esprimibile dalla partitura. Non sempre si percepisce lo splendore strumentale di una partitura che mette in campo un organico strumentale stupefacente per l’epoca: oltre agli archi nella buca orchestrale troviamo due flauti, cinque tromboni, due cornetti, tromba, timpani e percussione. E per l’esecuzione del basso continuo sono impiegati ben due clavicembali, un organo positivo, un regale, tre liuti, arpa, violoncello e violone.

Anche in scena abbondano interpreti esperti di musica barocca a cui però è assegnata una gesticolazione artificiosa ed eccessiva. È il caso ad esempio della Messaggera/Speranza di Monica Bacelli qui più manierata ancora del solito e se non fosse per la correttezza dell’emissione vocale sarebbe scenicamente insopportabile. Roberta Invernizzi è la sontuosa Musica del prologo e in seguito una passionata Proserpina. L’Euridice di Francesca Boncompagni ha poco da cantare e forse per questo sembra presa dalle convulsioni quando è tratta fuori dall’Ade. Gli eccessi di espressione sembrano voler caratterizzare questo allestimento anche nel caricato Caronte di Luigi De Donato e nel Plutone di Luca Tittoto, entrambi efficaci dèi degli inferi, e nella Ninfa esagitata di Leslie Visco. Nel ruolo titolare Marco Borgioni, baritono, sfoggia un bel timbro, ma le fioriture sono realizzate in maniera un po’ accademica e la dizione ha un che di artificiale. La presenza scenica un po’ impacciata non lo ha aiutato a delineare drammaticamente il personaggio. Modesto il Pastore/Apollo di Fernando Guimarães, mentre ottima prova ha dato il coro sia come garrula folla di pastori e ninfe, sia soprattutto nel coro degli spiriti dove ha splendidamente realizzato la solenne polifonia del pezzo che conclude il quarto atto.

Dialogues des Carmélites

Francis Poulenc, Dialogues des Carmélites

★★★★★

Bologna, Teatro Comunale, 11 marzo 2018

In scena uno tra i maggiori capolavori del Novecento

Seconda delle tre opere scritte da Francis Poulenc – dopo Les mamelles de Tirésias (1947) e prima de La voix humaine (1959) – Dialogues des Carmélites (I dialoghi delle Carmelitane) rappresenta il momento di maggior ripiegamento sulla spiritualità e il cattolicesimo di un compositore apertamente omosessuale che aveva passato la giovinezza come uno degli artisti più scapestrati e iconoclasti della Parigi anni ’20.

Il libretto di Emmet Lavery è basato sui dialoghi scritti da Georges Bernanos tratti dal romanzo di Gertrud von Le Fort Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo, 1931) per un film che sarà realizzato solo nel 1960 ma in altra forma, dialoghi che diventeranno una pièce teatrale di grande successo. Fu su richiesta dell’Editore Ricordi che Poulenc mise in musica il testo il cui soggetto lo ossessionava: nell’angoscia di sœur Blanche de l’Agonie-du-Christ Poulenc rivivevano la sua angoscia per la morte e l’agonia del compagno Lucien Roubert ucciso da un tumore al polmone.

Il debutto dell’opera avvenne dunque secondo il contratto a Milano e in italiano il 26 gennaio 1957 con la direzione di Nino Sanzogno e le voci di Virginia Zeani, Gianna Pederzini e Leyla Gencer. La prima francese avvenne a Parigi cinque mesi dopo con Denise Duval, Régine Crespin e Rita Gorr dirette da Pierre Dervaux.

Al Comunale di Bologna arriva ora l’acclamata produzione del 2013 del Théâtre des Champs-Élysées, presente anche in una registrazione su DVD. La regia di Olivier Py, le scene e i costumi di Pierre-André Weitz e le luci di Bertrand Killy formano uno spettacolo di grande bellezza e intensità emotiva.

Diversamente da quanto aveva fatto Černjakov con la sua controversa lettura totalmente a-religiosa, Py affronta di petto le questioni poste dal testo di Bernanos: l’impegno della religione, la forza della fede, il senso del martirio, la libertà. «Il secolo di Bernanos, che è sempre in un certo senso anche il nostro, ha portato l’ingiustizia e la violenza al potere, mostrando il silenzio di Dio, la sua assenza quindi la sua condanna a morte. Bernanos […] ha dovuto “capovolgere” la fulminante ingiunzione di Nietzsche “Dio è morto” in una forma di speranza, rispondendo a questa angoscia di fede “Sì, Dio è morto sulla croce”», scrive il regista. Il soggetto dell’opera rinforza così la sua attualità senza una artificiosa  decontestualizzazione.

Il lavoro attoriale è giocato sull’individualizzazione delle donne, uniformate dagli abiti, ma ben distinte psicologicamente e il risultato è stupefacente grazie alla qualità delle interpreti. Le scenografie coniugano ambienti opprimenti definiti da pannelli scorrevoli grigio antracite su cui vengono scritte alcune parole chiave (come “liberté” cui viene poi aggiunto “en Dieu”) e alberi spogli. Solo un lampadario di cristallo connota il palazzo nobiliare dei de La Force. Tutto converge con coerenza verso la scena finale: una prospettiva ancora più oppressiva del carcere che, con le lame di luce che rinchiudono le donne, si solleva a rivelare un cielo notturno stellato in cui si dissolvono le povere anime.

Gli interludi orchestrali previsti da Poulenc per i cambi di scena, qui resi inutili dalla virtuosità tecnica dell’allestimento, sono utilizzati dal regista per la creazione di tableaux vivants a soggetto sacro allestiti dalle monache (l’annunciazione, l’ultima cena, la crocefissione), ma è il finale dell’atto primo che raggela gli spettatori nelle loro poltrone: la lunga realistica agonia della vecchia priora avviene in una prospettiva zenitale, con il letto e i pochi mobili attaccati al muro di fondo sotto una luce livida e radente proveniente da una finestra che qui è infossata nel pavimento. Una delle pagine più sconvolgenti del teatro musicale del Novecento è qui resa in maniera magistrale e conclude col suo acme drammatico la prima delle due parti in cui è stato tagliato lo spettacolo.

La scenografia agisce da cassa sonora per l’orchestra diretta con impeto da Jérémie Rhorer e ne esalta i contrasti dinamici che passano dai lirici interludi alle esplosioni drammatiche affidate a una sezione di fiati piuttosto robusta e messa felicemente alla prova. La trasparenza dell’orchestrazione e il colore strumentale sono comunque sapientemente conservati ed evidenziati e le voci in scena hanno la capacità di superare i volumi orchestrali. Così è per la prestazione di Hélène Guilmette, ultima delle varie Blanche de La Force che l’hanno preceduta a Parigi e a Bruxelles. Il soprano francese ha un timbro fresco e luminoso e una sicura tenuta drammatica che tocca l’apice nel duetto col fratello cui, prima reticente poi confortata, confessa finalmente i suoi sentimenti, ma lui ahimé è già andato via e non l’ha sentita, il che aggiunge un’angoscia in più alla martoriata anima di Blanche che ha tutto meno che la forza del suo cognome. Madame de Croissy trova in Sylvie Brunet-Grupposo l’intensità espressiva necessaria a sostenere uno dei personaggi più drammaticamente delineati dell’opera moderna. Marie Adeline Henry è una madame Lidoine sostenuta ma dagli interventi talora eccessivi negli acuti. Sophie Koch interpreta al contrario con grande sobrietà la mère Marie scampata alla ghigliottina per caso e che alla fine segue da un palco laterale l’esecuzione delle consorelle. Nicolas Cavallier è un sicuro e tenero Marquis de La Force, mentre il figlio trova in Stanislas de Berbeyrac timbro elegante e facilità nei registri in cui si muove il suo ruolo di tenero fratello, che passa dall’affettuosità al dolore di veder rifiutato il suo aiuto e fuggire da una sorella determinata a restare a spiare la sua colpa di vivere (ricordiamo che la madre è morta dandola alla luce). Come sœur Constance Sandrine Piau riesce a rendere la fragilità e il candore del personaggio con la sapienza della sua vocalità e fa dimenticare la differenza d’età tra l’interprete e il personaggio. Scenicamente e vocalmente appropriato Loïc Félix, il cappellano del convento, efficace Matthieu Lécroart nei tre personaggi di lacché, medico e carceriere. La mère Jeanne di Sarah Jouffroy e la Mathilde di Lucie Roche completano l’universo femminile in scena.

Il pubblico non foltissimo della prima ha tributato un caloroso benvenuto allo spettacolo che si merita un maggior numero di appassionati di lirica che vogliano conoscere uno dei più grandi lavori musicali del secolo scorso.

Mazepa

★★★☆☆

Una strana coppia

Anche Mazepa (Мазепа) si basa su un lavoro di Puškin, il poema Poltava. Il libretto è di Viktor Petrovič Burenin e la composizione iniziò nel 1881. Settima opera di Pëtr Il’ič Čajkovskij, fu presentata nel febbraio 1884 a Mosca.

Sul guerriero cosacco Mazepa – che nel 1696 combatté con lo zar Pietro contro i Turchi, ma che in seguito contro di lui si alleò col sovrano svedese Carlo XII e fu sconfitto nella battaglia della Poltava – sono state scritte molte pagine letterarie (Byron, Hugo, e appunto Puškin) e di musica, la più famosa essendo il poema sinfonico Mazeppa di Liszt. Mentre in Liszt predomina l’eroe romantico legato nudo su uno stallone che percorre tutta l’Ucraina prima di stramazzare al suolo, in Puškin, e quindi in Čajkovskij, si ha invece un vecchio ambizioso e traditore che fa innamorare di sé la giovane Marija e le tortura e uccide il padre. Due compositori italiani, Fabio Campana e Carlo Pedrotti, gli intitolarono opere liriche, rispettivamente nel 1850 e nel 1861.

L’azione ha luogo in Ucraina all’inizio del XVIII secolo. Atto I. Scena prima. La residenza di Kočubej sulle rive del Dnepr. Un gruppo di ragazze canta e getta nel fiume ghirlande di fiori. Arriva Marija e le ragazze le chiedono di unirsi a loro, ma lei non può rimanere perché a casa ci sono ospiti: è arrivato l’Atamano Ivan Mazepa. Il suo amico d’infanzia Andrej le rivela di essere da sempre innamorato di lei e Marija risponde che vorrebbe poterlo amare a sua volta, ma il destino non lo permette. Andrej corre via disperato. Vasil’ Kočubej e Ljubov’, i genitori di Marija, arrivano con i loro ospiti: subito iniziano canti e balli. Mazepa chiede all’incredulo Kočubej la mano della figlia: Mazepa, oltre a essere molto vecchio, è anche padrino di Marija e la chiesa ortodossa non permetterebbe le nozze. Mazepa insiste e la situazione inizia a degenerare in uno scontro fino a che Marija si mette in mezzo ai due e, tra la sorpresa generale, decide di seguire Mazepa, di cui è innamorata. Scena seconda. Una stanza in casa di Kočubej. Ljubov’ piange la perdita della figlia, le donne di casa tentano invano di consolarla. Lei le manda via e chiede a Kočubej di convincere i cosacchi a far guerra a Mazepa, ma egli ha un piano migliore: mentre erano ancora amici, Mazepa gli aveva accennato alla sua idea di stipulare un’alleanza con gli Svedesi per liberare l’Ucraina dal dominio di Pietro il Grande. D’accordo con Iskra, amico fidato di Kočubej, Andrej viene pertanto incaricato di portare allo zar il messaggio dell’imminente tradimento di Mazepa. Atto II. Scena prima.  Una segreta del castello di Mazepa, di notte. Il piano non è riuscito: Pietro il Grande non ha creduto alla delazione e ha consegnato Kočubej a Mazepa. Sotto tortura, Kočubej ha reso una falsa confessione, incolpandosi di tutto ciò di cui veniva accusato. Arriva Orlik, uomo di fiducia di Mazepa: vuole sapere dove Kočubej ha nascosto i suoi tesori. Egli risponde di mandare Marija, che mostrerà loro ogni cosa, e di lasciarlo pregare prima dell’esecuzione, ma ciò non basta a Orlik, e la tortura ricomincia. Scena seconda. Una terrazza del castello di Mazepa, quella stessa notte. Mazepa pensa al terribile colpo che riceverà Marija quando saprà che cosa egli ha fatto al padre. Arriva Orlik: Kočubej non ha rivelato niente. L’esecuzione è fissata per l’alba e Mazepa manda Orlik a fare i preparativi. Arriva Marija che è scura in volto: perché Mazepa ultimamente passa così tanto tempo lontano da lei? Mazepa tenta di calmarla e dopo un po’ ci riesce. Le rivela i suoi piani per ottenere l’indipendenza dell’Ucraina, in modo che egli diventerà re e Marija regina. La mette poi alla prova su suo padre, chiedendole se tenga di più a suo marito o alla sua famiglia. Marija gli risponde dicendo che ha già lasciato tutto per lui ed egli, rassicurato, se ne va. Arriva Ljubov’, che supplica la figlia di intercedere presso Mazepa per salvare Kočubej. La ragazza, ignara di tutto, ha bisogno di un po’ di tempo per capire cosa sta succedendo, poi, inorridita, sviene. Ljubov’ la fa rinvenire e le due corrono via nell’estremo tentativo di supplicare Mazepa affinché risparmi la vita a Kočubej. Scena terza. Presso i bastioni della città. I poveri della città si radunano per assistere al supplizio. Un cosacco ubriaco canta una canzone. Arrivano Mazepa e Orlik, mentre Kočubej e Iskra sono condotti al patibolo. Marija e Ljubov’ giungono proprio nel momento in cui i due vengono decapitati. Ljubov’ respinge Marija, che scoppia in lacrime. Atto III. Le rovine della dimora di Kočubej, nei pressi del campo di battaglia. La battaglia di Poltava è finita, Pietro ha sconfitto Mazepa e gli Svedesi. Andrej ha preso parte alla lotta, ma non è riuscito a trovare Mazepa. Mentre vaga sopraggiungono dei cavalieri e si nasconde. Mazepa e Orlik sono in fuga: l’Atamano, un tempo potente, ha perso tutto. Mazepa manda Orlik a preparare il campo e Andrej esce allo scoperto e lo sfida: lo carica con la spada sguainata, ma Mazepa gli spara. Arriva Marija, completamente impazzita. Non riconosce Mazepa, che cerca di confortarla. Orlik torna avvertendo che le truppe si stanno avvicinando: Mazepa vorrebbe portare con sé Marija, ma Orlik si oppone, in quanto li rallenterebbe troppo. Mazepa a malincuore lascia Marija. Marija trova Andrej coperto di sangue. Il giovane si muove ancora e le chiede di guardarlo per l’ultima volta, ma lei non capisce e gli canta una ninna nanna, credendolo un bambino. Andrej muore mentre Marija continua a cullarlo e a cantare persa nel vuoto.

«Occorsero due anni a Čajkovskij per scrivere un’opera che, confesserà, “mi è costata molta fatica” e che venne accolta con freddezza dal pubblico e dalla critica. Il modello che qui si tenta di seguire è quello del grand opéra, ambientato in una Russia epica e arricchito da frequenti citazioni di temi popolari e ballate; ma il risultato rivela spesso una certa discontinuità drammatica. Per lo più esteriore rimane il tentativo di descrivere in musica il colore locale. Il preludio strumentale al terzo atto va ricordato perché raffigura la battaglia di Poltava, utilizzando un tema della tradizione russa (Slava Bogu na nebe, Slava) già usato da Beethoven nel trio dello scherzo-allegretto del quartetto opera 59 n° 2 in mi minore (“Razumovskij”), da Musorgskij nel quadro dell’incoronazione di Boris, nonché da Rimskij-Korsakov ne La fidanzata dello Zar. In certa misura convenzionali le scene della processione e della decapitazione, nelle quali il punto di riferimento è il Meyerbeer del Prophète. Ancora una volta – il modello di Tatiana nell’Eugenio Onegin insegna – il personaggio più riuscito è quello di Marija, lacerata tra l’amore paterno e quello per Mazepa, la cui individualità spicca soprattutto nella toccante scena finale nella quale l’autore le affida una delicata berceuse». (Susanna Franchi)

Della meritoria opera di Valerij Gergiev di recupero del repertorio russo al di fuori del suo paese fa parte questa registrazione video dello spettacolo al Mariinskij di San Pietroburgo del 1996. Mentre il direttore trae dall’orchestra i colori più sfumati ed evidenzia della partitura gli aspetti più “decadenti”, ossia moderni, in scena regista (Irina Molostova) e cantanti sembrano maggiormente legati a uno stile di canto di tradizione con una presenza scenica da realismo popolare russo, soprattutto per la Marija di Irina Loskutova, dalla figura troppo matronale per essere l’ingenua adolescente che si infatua di un “vecchio”. Vocalmente poi l’emissione è dura e gli acuti non sempre intonati. Modesto l’Andrei di Viktor Lutsiuk e stentoreo il protagonista Nikolaj Putilin. Eccellenti invece Sergej Aleksaškin (Kočubej) e soprattutto Larisa Diadkova (Ljubov’).