Mese: settembre 2016

Otello

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Giuseppe Verdi, Otello

★★★★☆

Madrid, Teatro Real, 24 settembre 2016

(live streaming)

L’Otello bianco di Alden

Per celebrare i suoi 200 anni, il Teatro Real di Madrid, fiero dei suoi 20 mila abbonati e del 90% di posti occupati, alla presenza della famiglia reale spagnola inaugura la sua nuova stagione con il capolavoro di Verdi. Che poi siano anche i 400 anni dalla morte del Bardo aggiunge un ulteriore significato all’operazione.

Efficace la messa in scena di David Alden con un buon uso delle masse corali. La vicenda temporale è trasportata ai primi anni del secolo scorso in una desolata guarnigione, la luce di Cipro si intravede solo sullo sfondo, ed è sempre crepuscolare. In scena ci sono le bellissime luci di Adam Silverman con ombre ostili o fasci taglienti in cui si stagliano i personaggi. Stupenda la scena con Emilia e Jago o quella con l’ombra minacciosa di Otello sulla porta nel finale. La scenografia di Jon Morrell costruisce una scena unica dai muri scrostati, dalle mattonelle erose. Suoi anche gli scuri costumi dei militari e del popolo – solo Desdemona sfoggia abiti chiari, tra cui la veste del matrimonio che stringe tra le braccia negli ultimi attimi di vita, mentre Emilia è in rosso. Il regista introduce alcuni momenti beffardi (Jago e Cassio che giocano a freccette usando come bersaglio un’icona sacra) o di inquietudine nella messa in scena – come la presenza di un’“indemoniata” al primo atto e di tristi bambini del secondo atto – o evidenzia la drammaticità dei finali, ma la sua lettura rimane molto tradizionale e fedele al libretto, ben lontana da quello che lo stesso Alden aveva fatto con il Rinaldo di Monaco o la Deidamia di Amsterdam.

Otello ha le fattezze di Gregory Kunde, Yankee di Kankakee (Illinois) così che i riferimenti di Jago alla diversità razziale del generale («odio quel moro… […] se il moro io fossi […] il rio destino impreco che al moro ti donò») pérdono ogni significato e nella lettura di Alden rimane solo il gioco crudele innescato da Jago che porta i personaggi alla distruzione. Otello è una figura insicura, che non crede alla fortuna di aver incontrato Desdemona e alla fine Otello muore lontano dal corpo dell’amata e il «bacio» cui anela è un delirio della sua mente in punto di morte, mentre Jago osserva impassibile seduto su una sedia in disparte il frutto tremendo della sua macchinazione.

Kunde è l’Otello dei nostri tempi – anzi dei due Otelli, essendo quello di Rossini parimenti nel suo repertorio. Con grande intelligenza affronta ancora una volta il personaggio che ha portato in scena chissà quante volte, ma pur nella pienezza vocale certi suoni tremolanti o certi acuti non sempre limpidi tradiscono il passare del tempo. Intatta rimane la presenza scenica, l’eleganza del fraseggio, i recitativi espressivi, ma mancano a volte gli scoppi d’ira di un Del Monaco o di un Domingo che ti mettevano i brividi addosso.

Alla inizialmente prevista Krassimira Stoyanova è succeduta Ermonela Jaho che qui a Madrid aveva riscosso grande successo come Traviata nell’allestimento di McVicar l’anno scorso. Il soprano albanese si conferma come una cantante di grande temperamento che tiene molto bene la scena e ha una bella vocalità, a parte certe note un po’ fisse e un eccesso di maniera nella resa del personaggio. Lo Jago di George Petean è giustamente insinuante e maligno senza esagerazioni sulfuree mentre Cassio è un dimenticabile Alexey Dolgov. Efficaci sono invece Gemma Coma-Alabert (Emilia) e Roberto Tagliavini (Ludovico), unico italiano del cast.

Italiano è invece un verdiano come Renato Palumbo la cui direzione evidenzia le tinte wagneriane e drammatiche della partitura, ma sa tessere con estrema sensibilità i motivi più lirici di Desdemona nella ‘canzone del salice’ e nell’Ave Maria.

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Norma

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Vincenzo Bellini, Norma

Londra, Royal Opera House, 26 settembre 2016

★★★★☆

(live streaming)

Norma dell’Opus Dei

Norma mancava da Londra da trent’anni e per l’apertura della nuova stagione della Royal Opera House doveva esserci Anna Netrebko nel ruolo della sacerdotessa druidica, ma già ad aprile il soprano russo aveva ritirato la sua partecipazione adducendo come motivo il cambiamento avvenuto nella sua voce da quando, quattro anni fa, aveva accettato il ruolo. La recente uscita del suo nuovo album dedicato alle opere del Verismo sembra confermare questa sua scelta: la voce si è ispessita e forse non si può più cantare con lo stesso risultato «Casta diva» e «Suicidio!». Solo la Callas riusciva nell’impresa, nel 1951. Ma era la Callas…

Nella messa in scena del regista Àlex Ollé de La Fura dels Baus, i druidi sono diventati membri di una setta religiosa che ricorda l’Opus Dei (decisive sono le origini spagnole del regista) e il Ku Klux Klan, con sacerdoti donne (!), e come simbolo una croce composita che ricorda quella di Gerusalemme. La religione è un tema pervasivo di Norma e qui la foresta è una fitta selva fatta di migliaia di crocifissi incombenti sulla scena da cui filtra la luce della luna come tra frondose secolari querce. L’epoca è quella attuale, con un esercito di occupazione minaccioso, anche se non si vede. Ollé non forza comunque sull’ambientazione militaristica e punta invece sul triangolo amoroso soffocato dalla religione: qui Norma è una donna umanamente complessa i cui dubbi e le cui contraddizioni sono quelli della nostra contemporaneità. L’ambientazione moderna è particolarmente efficace nella scena del tentato assassinio dei figli da parte della madre: in un ambiente domestico con peluche, giocattoli, piste per automobiline, uno schermo televisivo trasmette disegni animati con bestiole dallo sguardo spaventato. Il tutto rende ancora più atroce la tragedia che incombe e che la musica di Bellini accompagna in tutta la sua suspense come in un thriller.

La direzione di Pappano raggiunge qui vette eccelse e ha come degni strumenti le voci impareggiabili di Sonya Yoncheva e Joseph Calleja. Il soprano bulgaro, al suo debutto nel ruolo, dimostra una maturità stupefacente, una vocalità senza pari, grande presenza scenica e dizione perfetta. Il legato di «Casta diva», l’intensità dei recitativi, la passione dei suoi interventi fanno della sua interpretazione un degno paragone con quella della Callas.

Altrettanto sorprendente è la performance del tenore maltese, dal timbro particolare ma piacevolmente datato (c’è chi ha fatto a questo proposito i nomi di Björling e di Gigli), dall’elegante fraseggio e dal sempre mutevole spettro vocale. Toccante in più punti Sonia Ganassi come Adalgisa, anche se non proprio la “giovinetta” del libretto di Felice Romani.

Il finale è a sorpresa. Le fiamme del rogo formano una grande croce verso la quale viene spinto Pollione, ma a Norma è risparmiato questo supplizio: il padre Oroveso uccide prima la figlia con un pugnale.

Tra il pubblico del cinema che assiste alla trasmissione live da Londra il regista Ollé, presente a Torino per preparare la sua prossima Bohème al Teatro Regio, un po’ infastidito dal volume sonoro sparato nella sala cinematografica, che falsa gli equilibri acustici. Come dargli torto?

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Mignon

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Ambroise Thomas, Mignon

direzione musicale di Jean Fournet

messa in scena e regia video di Pierre Jourdan

novembre 1996, Théâtre Impérial de Compiègne

Della felice stagione di Pierre Jourdan a Compiègne rimangono fortunatamente alcune registrazioni della televisione francese, come questa della prima vera opera di Ambroise Thomas, quella Mignon per la quale Jules Barbier et Michel Carré pescano liberamente negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister, romanzo scritto da Goethe di ritorno dal grand tour in Italia. Dopo il successo del Faust, Thomas, fino ad allora autore di opéras-comiques, cambia stile e gli stessi librettisti di Gounod gli forniscono una storia sentimentale a lieto fine – riusciranno a inserire un finale lieto anche nell’Hamlet!

Atto primo. In Germania e in Italia, verso il 1790. Nel cortile di una taverna si ritrovano il vecchio menestrello Lothario, alla ricerca della figlia perduta, una carovana di attori tra i quali spicca la bella Philine, e un gruppo di zingari capitanati dal crudele Jarno. Egli ha con sé la piccola Mignon, che vorrebbe costringere a danzare sotto la minaccia di un bastone, ma Lothario e il giovane studente Wilhelm Meister prendono le sue difese. Mignon, riconoscente, spartisce tra i due un mazzolino di fiori. Intanto Wilhelm viene adocchiato dalla capricciosa Philine, e malgrado un altro attore, Laërte, lo metta in guardia, finisce per soccombere al suo fascino, e le dona i fiori che Mignon gli aveva dato. La giovinetta torna da lui per ringraziarlo e gli racconta di non sapere nulla della sua origine e di conservare solo il ricordo di un paese più caldo «dove fiorisce l’arancio». Wilhelm, commosso, decide di riscattarla dal suo padrone e di portarla con sé. Partono dunque insieme al seguito della compagnia di Philine, invitata a recitare presso il castello del barone Rosemberg.
Atto secondo. Al castello, ospitata in un lussuoso boudoir, Philine seduce Wilhelm sotto gli occhi di Mignon, la quale, ingelosita, approfitta della sua assenza per truccarsi davanti allo specchio e indossare un vestito della rivale. L’arrivo di Frédéric, precedente amante di Philine, e poi quello di Wilhelm, la costringe a nascondersi senza potersi cambiare d’abito. I due si sfidano a duello per amore della bella attrice e Mignon interviene per separarli svelandosi così nel suo nuovo abbigliamento, che provoca l’ilarità generale. Wilhelm, il quale vede per la prima volta Mignon come una donna, si rende conto che per loro è meglio separarsi. La giovinetta, disperata, trova rifugio presso il vecchio Lothario, cui confida il suo dolore e il suo ingenuo desiderio di veder bruciare il castello, dove Philine sta trionfando nelle vesti di Titania nel Sogno di una notte di mezza estate. Lothario dà fuoco al castello senza sapere che, nel frattempo, Mignon vi è entrata per prendere, su ordine di Philine, il mazzolino di fiori che un tempo era suo. Wilhelm, eroicamente, si getta tra le fiamme per salvarla.
Atto terzo. In Italia, dove lo studente ha condotto Lothario e Mignon, nel tentativo di guarirla. Egli ormai l’ama e vorrebbe anche acquistare per lei il palazzo dove sono alloggiati, che è in vendita poiché il proprietario è impazzito dal dolore per la morte della moglie e della figlia. Nel conoscere il nome del palazzo, Cipriani, Lothario ha un sussulto, ma Wilhelm, preoccupato per la sorte di Mignon, non se ne avvede. La fanciulla si sveglia dal suo lungo torpore e Wilhelm può finalmente rassicurarla circa il suo amore. Ma la loro felicità è turbata dall’arrivo di Philine, che fa cadere nuovamente Mignon in deliquio. Quando ella si ridesta appare Lothario lussuosamente vestito; egli le porge un cofanetto, che contiene un libro di preghiere. Mignon comincia a leggere una preghiera, poi, gettato il libro, prosegue a recitarla a memoria: fra la commozione generale Lothario, ritornato nei panni del marchese Cipriani, riconosce in lei la figlia Sperata e benedice l’amore dei due giovani. Anche Philine deve arrendersi al fatto che Wilhelm non l’ama, e si consola tra le braccia di Frédéric.

Nel 1866, a cinquantacinque anni, Thomas con la Mignon ha il suo primo grande trionfo e di conseguenza una gloria internazionale confermata due anni dopo dal suo Hamlet. Assieme al Faust e alla Carmen, Mignon è l’opera più popolare nella Francia della seconda metà dell’Ottocento. Napoleone III è spettatore della 22esima replica ed è così entusiasta da voler far rappresentare l’opera l’anno seguente per l’Esposizione Universale. Poi Mignon va a Weimar, Vienna e Londra, qui in italiano, e nel 1885 arriva alla millesima rappresentazione. Nel frattempo i dialoghi parlati venivano trasformati in recitativi, musicati da Thomas stesso, per una versione in stile grand-opéra, quella che viene generalmente messa in scena oggi, mentre per i paesi tedeschi il compositore aveva approntato una versione con finale drammatico, per non urtare i lettori di Goethe.

«Oggi appaiono evidenti i suoi difetti, come la scarsa efficacia drammatica, e se ne ammirano essenzialmente le eleganti melodie tipicamente francesi e i raffinati impasti timbrici, che hanno fatto parlare alcuni critici dell’inizio del terzo atto come di un precedente a Pelléas et Melisande. Sono soprattutto le melodie, spesso malinconiche, ad aver assicurato la fortuna dell’opera, e alcuni brani come «Adieu Mignon, courage», o l’aria di bravura di Philine «Je suis Titania», cavalli di battaglia di molti interpreti nel corso di questo secolo. Su tutti svetta la ballata di Mignon «Connais-tu le pays» la cui melodia, che procede da intervalli piccoli a intervalli sempre più ampi ed è punteggiata da pause, è un tipico esempio del linguaggio dell’opéra-lyrique». Severo il giudizio di Anna Tedesco per questo piacevolissimo lavoro di Thomas. Ce ne fossero di più di opere come questa!

Qui a Compiègne nel ’96 orchestra, coro e danzatori sono al limite dell’accettabile, ma nel cast c’è Annick Massis, Philine di gran lusso, che mette in ombra tutti gli altri interpreti, compresi i giovani Lucille Vignon e Alain Gabriel nei due ruoli principali.

Die Liebe der Danae

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Richard Strauss, Die Liebe der Danae (The Love of Danae)

★★☆☆☆

Salzburg, Grosses Festspielhaus, 31 July 2016

(video streaming)

bandieraitaliana1 21.35.38.gif   Qui la versione in italiano

Danae in the Seraglio

After his impressive Die Soldaten of four years ago at the Felsenreitschule, Alvis Hermanis has returned to Salzburg to stage this penultimate work of Richard Strauss, now at the Grosses Festspielhaus. As he did with his intolerable Jenůfa, the director has relied too much on the richness and profusion of costumes, here in a dazzling gold accent.

Under Hermanis’ direction the mythological story turns into a fairy tale and the Greek island of Eos a parody of Middle East, complete with oversized turbans, flowing robes, women in burqas, oriental carpets – all set for The Abduction from the Seraglio. The Latvian director recently came out with some racist statements about the refugees, in line with Donald Trump’s raving utterances, or with the xenophobic assertions of some political parties in this part of Europe, and his political ideas are beginning to collide with his ideas of directing, with worrying results. His exoticism removes the text of every possible psychological, social, political or cultural implication. Even the subtle irony inherent in Danae‘s music is totally absent in this tedious and vacuous mise en scène. No significant inter-relationship affects the characters: this love story – in which a woman chooses a humble donkey driver over a god (much to the latter’s chagrin) –  becomes a sterile display of glittering tableaux vivants. One almost longs for the Günter Krämer production, presented here in 2002.

After having exhausted all the budget on the costumes (of Juozas Statkevicius), the scenery is left conversely drab and only Gleb Filshtinsky’s clever use of lights make the pyramid of aseptic white tiles acceptable, but even they can do nothing to improve the look of the ugly plaster elephant on wheels – and the albino donkey that at some point appears on stage only helps somewhat. The golden rain is entrusted to Ineta Sipuniva’s videographics while Anna Sigalova’s choreographic movements, with twelve golden dancers in attendance, are monotonous beyond belief (the same happened in Jenůfa), halfway between a TV play and a Las Vegas show.

Fortunately, positive notes come from the singers. The Bulgarian Krassimira Stoyanova confirms her excellent vocal skills and good stage presence, although here she is forced into the trite gesticulations imposed by Hermanis’ vacuous direction. Tomasz Konieczny, as the charming Jupiter, is a blue eyed Wotan with a sumptuous sound quality and his looks make it particularly difficult to swallow how Danae could prefer the heavy and poorly tuned Midas of Gerhard Siegel instead. The scene of Jupiter’s yielding is enhanced by neither the director nor the orchestral conducting. There is a moment when one would like to wipe out the ubiquitous dancers who are waving white handkerchiefs to bid farewell to the god… The remaining cast is not bad. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke’s Polux is to remember, together with the first-rate Vienna State Opera Choir.

The usually starched Franz Welser-Möst is particularly rushed here and he seldom succeeds in singling out the extraordinary harmonies and tonal colors of the score, which is a shame, given the dream orchestra of the Wiener Philharmoniker at hand.

(Many thanks to Gail Clarke for the revision)

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MITO

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José Malhoa, O fado, azulejo da Estrada Velha, Sintra

MITO Settembre Musica

Turim, Conservatorio Giuseppe Verdi, 17 de setembro 2016

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Fado erratico

Vai continuando a exploração musical do festival de Nicola Campogrande. Na sua breve apresentação, Stefano Catucci define o concerto como um ato de equilíbrio sobre fio – sendo a cantora Cristina Branco o acrobata sobre o fio tradicional do fado de Amália Rodrigues, que foi adaptado por Stefano Gervasoni, compositor italiano apaixonado de Luigi Nono e que estudou com Castiglioni e Corghi no Conservatório de Milão e, em seguida, com Ligeti e Eötvös.

A sua composição, que se estreia em Itália, intitula-se Fado erratico, em italiano, ou seja um fado que toma um rumo diferente e talvez arriscado. O projeto nasceu no IRCAM em Paris e foi apoiado pelo centro de Camões daquela cidade. As músicas mais famosas da grande cantora portuguesa são propostas, sem alterar até mesmo uma nota, por uma voz atual do fado, Cristina Branco, uma das herdeiras da grande Amália. As canções são ligadas por interlúdios instrumentais de timbre atonal e com um caráter pontilhístico, típico da vanguarda musical do século passado, apresentado por uma equipe de vinte músicos que juntamente com os instrumentos tradicionais de fado – a guitarra portuguesa e a guitarra clássica – tem instrumentos de tradições musicais diferentes, como o acordeão e o saltério, um quinteto de cordas, quatro madeiras e três metais, harpa e vária percussão. O conjunto é cercado por um discreto fundo de electrónica em tempo real que combina sons da natureza, ruídos da cidade, fragmentos da voz de Amália.

Na escuridão da sala, ao som de uma corrente de água como se estivéssemos em Alfama (o nome deriva do árabe al-hamma, as fontes, de quais era rico este bairro típico de Lisboa), os músicos vão acendendo uma a uma as luzes da sua estante. Dos instrumentos vão sair sons quebrados, errantes, que pouco a pouco vão aglutinar-se no tema pungente de Foi Deus ou Com que voz ou Uma lágrima entre outras melodias que Cristina Branco reproduz fielmente. Mas não é a voz da Amália! Talvez intimidada pela orquestra, à sua voz falta o original pathos perfurante, quando Amália cantava as palavras escritas por ela mesma «Cheia de penas me deito | e com mais penas me levanto» ou «Não sei, não sabe ninguém | por que canto o fado | neste tom magoado | de dor e de pranto», estas últimas do poeta Alberto Janes. Ou ainda: «Tudo passei; mas tenho tão presente | a grande dor das cousas que passaram, | que as magoadas iras me ensinaram | a não querer já nunca ser contente». E estas são do grande Luís de Camões.

Eventualmente, a cantora e os músicos apagam um após o outro a luz da sua partitura e a sala mergulha outra vez na escuridão e no silêncio. O aplauso do público exige um encore: é Maria Lisboa, a única nota alegre neste oceano de saudade, onde Amália compara a sua cidade a uma varina, uma Maria (nome) Lisboa (sobrenome) que «tem movimentos de gata, […] algas na cabeleira» e que «vende sonho e maresia», os dois elementos característicos da cidade lusitana. Mesmo a sala do Conservatório de Turim respirou um pouco da maresia, o ar perfumado do mar que da Praça do Comércio entra nas ruas estreitas da cidade.

(agradeço muito Afonso Oliveira pela revisão)

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MITO

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José Malhoa, O fado, azulejo da Estrada Velha, Sintra

MITO Settembre Musica

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 17 settembre 2016

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Fado erratico

Continuano le esplorazioni musicali del festival di Nicola Campogrande. Nella sua breve presentazione Stefano Catucci definisce il concerto a cui stiamo per assistere un numero di equilibrismo sul filo, l’acrobata essendo la cantante Cristina Branco in audace equilibrio sul filo della tradizione del fado di Amália Rodrigues di cui si è riappropriato Stefano Gervasoni, compositore bergamasco fulminato da giovane da un incontro con Luigi Nono, allievo di Castiglioni e Corghi al Conservatorio di Milano, poi di Ligeti e di Eötvös.

In prima esecuzione italiana, la sua composizione si intitola Fado erratico, un fado, cioè, che prende una strada diversa e forse azzardata. Il progetto era nato all’IRCAM di Parigi ed era stato sostenuto dal Centro Camões di quella città. Le più celebri canzoni della grande cantante portoghese vengono riproposte, senza cambiarne neanche una nota, da una voce attuale del fado, Cristina Branco, una delle eredi della grande Amália. Legano le canzoni interludi strumentali, di colore atonale e con un carattere puntillistico tipico dell’avanguardia musicale del secolo passato, presentati da una compagine di venti musicisti, il Divertimento Ensemble, che accanto agli strumenti tradizionali del fado, la chitarra portoghese e la chitarra classica, affiancano strumenti di tradizioni musicali diverse, come la fisarmonica e il cymbalon, un quintetto d’archi, quattro legni e tre ottoni, arpa e percussioni varie. Il tutto è immerso in uno sfondo abbastanza discreto di elettronica dal vivo di Sentieri Selvaggi mdi Ensemble, in cui si mescolano suoni campionati della natura, rumori della città, lacerti della voce di Amália.

Nel buio della sala, come se fossimo ad Alfama, sul rumore di un gocciolio di acque (Alfama deriva dall’arabo al-hamma, le fontane, di cui era ricco questo quartiere tipico di Lisbona), gli strumentisti ad uno ad uno accendono la luce del leggio. Dai loro strumenti escono suoni spezzati, vaganti, che poco per volta si agglutinano nel tema struggente di Foi Deus o Com que voz o Uma lágrima o di una delle tante altre melodie che Cristina Branco ripropone fedelmente. Ma non è la voce di Amália! Forse per soggezione davanti al mezzo orchestrale, alla sua manca il pathos lancinante dell’originale, di quando Amália cantava, sulle parole da lei stessa scritte, «Cheia de penas me deito | e com mais penas me levanto» (mi corico col mio dolore, e con ancor maggior dolore mi alzo) oppure «Não sei, não sabe ninguém | por que canto o fado | neste tom magoado | de dor e de pranto» (Non so, non lo sa nessuno, perché canto il fado con questo tono che fa male, di dolore e di pianto), queste ultime del poeta Alberto Janes. O ancora: «Tudo passei; mas tenho tão presente | a grande dor das cousas que passaram, | que as magoadas iras me ensinaram | a não querer já nunca ser contente» (Tutto ho passato; ma ho ancora così presente il grande dolore delle cose passate, che quelle sofferte collere mi hanno insegnato a non voler mai più esser felice). E queste sono del grande Luís de Camões.

Alla fine la cantante e gli strumentisti spengono una dopo l’altra la luce sul loro spartito e la sala ripiomba nel buio e nel silenzio. Gli applausi del numeroso pubblico richiedono un bis: è Maria Lisboa, l’unica parentesi lieta in tanto oceano di saudade, dove Amália paragona la sua città a una venditrice di pesce, una Maria (nome) Lisboa (cognome) che «tem movimentos de gata, […] algas na cabeleira» e che «vende sonho e maresia», due elementi caratteristici della città lusitana. La maresia, quell’aria profumata di mare che sale dalla Praça do Comércio su per i vicoli della città, si è respirata un po’ anche nella sala del conservatorio torinese.

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TEATRO DE LA ZARZUELA

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Teatro de la Zarzuela

Madrid (1856)

1242 posti

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Il Teatro de la Zarzuela fu costruito per iniziativa della Sociedad Lírico Española che voleva che vi fosse un luogo dedicato esclusivamente agli spettacoli di zarzuela nella capitale spagnola. L’opera fu finanziata dal banchiere Francisco de las Rivas. Il progetto fu affidato all’architetto Jerónimo de Gándara, che prese a modello il teatro alla Scala di Milano. Così fu costruito un teatro a ferro di cavallo con tre ordini di palchi. L’inaugurazione ebbe luogo il 10 ottobre 1856, giorno del compleanno della Regina Isabella II.

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Nella seconda metà dell’Ottocento il teatro divenne il principale centro della zarzuela e vi si tennero le prime dei nuovi lavori dei promotori del Teatro: Francisco Asenjo Barbieri, Rafael Calleja Gómez, Joaquín Gaztambide, Rafael Hernando, José Inzenga, Luis Olona e Cristóbal Oudrid. Nel 1904 l’edificio fu quasi distrutto da un terribile incendio. Fu perciò ricostruito, utilizzando meno legno e più metallo, nel 1914. Il teatro fu successivamente ristrutturato nel 1956 quando fu acquisito dalla Sociedad General de Autores y Editores, ma perse buona parte della facciata e della decorazione dell’interno, compreso il soffitto dipinto da Francisco Hernández Tomé e Manuel Castellanos.

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Nel 1984 il teatro divenne di proprietà dello Stato spagnolo. Il Ministero della Cultura, in mancanza di un teatro dell’opera a causa della chiusura del Teatro Real, allargò l’attività dalla zarzuela e dall’opera alla danza ed al flamenco. Nel 1998, dopo la riapertura del Teatro Real, il Teatro de la Zarzuela fu dichiarato monumento nazionale e nuovamente ristrutturato, recuperando la forma originale, per essere dedicato esclusivamente alla lirica spagnola.

Molto frequentato è il ridotto del teatro, l’Ambigu, non solo prima degli spettacoli e negli intervalli, ma anche come sede di concerti e incontri.

Rigoletto

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Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 28 January 2016

(Video streaming)

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Gilda caged

With their performances sold out, opera theaters can afford to be generous and donate a free live broadcast that will be seen by a much larger audience. And, who knows, one day even one in a thousand of these viewers may want to see live what he had enjoyed on-screen. It is planting the seeds for the future and now many theaters are committed to offering their productions in video streaming. The Wiener Staatsoper is no exception, especially when it’s the case of a popular title that boasts a trio of international superstars among the vocal performers. Add to that a renowned director and an esteemed Italian conductor and it’s “a done deal”. Almost done…

The dreading notes of Rigoletto‘s “curse” once more resonate in the creamy and golden hall rebuilt after WW2. Here these notes have a particularly ominous colour, with the brass lined up on a raised setting on either sides of the orchestral pit.

Rigoletto is shirtless, only wearing a jester’s ruff. His back is bent due to the burden of age and to the bullying he has suffered – he is not a hunchback. Tired and heavy, he climbs the stairs of Christof Hetzer’s desolate scenery – earthy colours, dark walls, basements littered with garbage. The rotating set shows Rigoletto’s house with Gilda’s “cage” and finally the skull shaped hovel of Sparafucile.

Carlos Álvarez’s Rigoletto has a beautiful legato and a noble timbre, but he is a bit monotonous and more colours would be preferable in his performance.

Juan Diego Flórez not only restores the Duke’s cabaletta of the second act, he also sings the reprise with variations, but with no high C. His limited vocal power is balanced by the elegance of phrasing and ease in the high register. His «La donna è mobile» has become a recurrent encore in his recitals. On stage we appreciate his youthful prowess: «giovin, giocondo, sì possente, bello» (young, jolly, so powerful, beautiful) says Rigoletto, «troppo è bello e spira amore» (he is such a beauty and inspires love), echoes Gilda, while Maddalena laments her brother’s murderous project, «Peccato! … è pur bello!» (what a shame! … He is beautiful too!). Unfortunately Flórez was badly served by the microphones and his voice came and went as he moved on stage.

Olga Peretyatko’s Gilda shows great sincerity and the  well known vocal timbre. She demonstrates great prowess in her vocal agility and well performed dramatic moments, but most of the cheers of the Viennese audience are saved for the two males.

Nadia Krasteva was the Maddalena we expected while her brother Sparafucile, in Ain Anger, has a voice so cavernous that it is almost incomprehensible. The Monterone of January 28 was so terrible that he was executed on the spot and his body remained there while Gilda and Rigoletto sang their duet.

Pierre Audi doesn’t bring anything new. His direction has some inconsistencies, but his interpretation does not affect the understanding of the story which unfolds smoothly: the thunderstorm has lightning, the Duke’s thugs have ugly faces, Maddalena’s dress is red. The costumes are vintage and the merry women of the first scene have their faces caged so as to emphasize the submission of the female to the male. Not really memorable is the acting: Alvarez moves like a caged bear, Flórez raises arms in the high notes and Maddalena raises her skirt to show her legs.

Evelino Pidò’s conducting is heavy, dragging and without accents. Luckily he has an orchestra under him that compensate for a boring routine.

(Many thanks to Sthephen and Loredana Lister for the revision)

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Rigoletto

 

Faust

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Charles Gounod, Faust

★★☆☆☆

Salzburg, Felsenreitschule, 23 August 2016

(live streaming)

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 Rolling balls, daisies and sad clowns

“Rien” (nothing) reads the neon sign above a pile of sheets of paper watched over by black robotic crows. And it is also the first word sung by Faust, «Rien! […] Je ne vois rien! Je ne sais rien! Rien! Rien!» (Nothing! I see nothing! I know nothing! Nothing! Nothing!): knowledge does not give him the fulfillment he desired, and now he’s thinking of ending his life by poison, thus affirming that, in the end,  he is the master of his destiny. Offstage voices stop him from killing himself and Faust launches an invective toward that god which cannot give him back youth and love. It is the right time for the entry of Mephistopheles, who can give him these things. Thus begins Faust by Gounod in its debut in Salzburg at the Grosses Festspielhaus with new staging by production designer Reinhard von der Thannen in his directing debut. He created the scenes for the Lohengrin in Bayreuth, the one with the rats, and here is the same white aseptic laboratory lit by fixed cold lights, this time populated by little doll houses on wheels, giant daisies, hospital beds, chairs on which other daisies grow, a huge skeleton without an arm (?), a gift bag with the corpse of Marguerite’s newborn child… Various images of Regietheater gimmicks that don’t even shock, unfortunately, and in the end the “cute” show gets its share of applause.

The librettists Barbier and Carré had made a clean sweep of the philosophical implications of Goethe’s text, transforming the story into a mundane love story in grand-opera style, but other renditions have found deeper meaning in this Second Empire-style Faust. Without a basic idea, disappointing moments alternate: the transformation of Faust into a young lad (elsewhere realized with more theatrical taste), the mournful waltz, the Walpurgis night with depressed clowns rolling black balls… In the director’s intentions, the mythical story is turned into a children’s game or a sad tale.

The trivial choreographic movements by Giorgio Madia are entrusted to the choir with embarrassing results: in the scene of the soldiers of the fourth act, all sixty members of the male choir are on the proscenium as unwilling and awkward chorus girls of a sad vaudeville show. Vocally, they’re bleak: instead of the semi-improvised Philharmonia Choir, it would have been better to cast the Vienna Opera Choir for a work in which the choral part is so important.

Piotr Beczala’s Faust is vocally generous and bold. He has good breath control and great vocal security, but the volume of the voice never changes and French pronunciation is stilted. The Polish tenor leaves all the mezza voce to the Italian singer Maria Agresta, who sketches a Marguerite of great sensitivity whose resolve wavers only at the signt of an irresistible scarf shimmering with crystals – the Swarovski headquarters are not far from Salzburg…

Gounod’s Mephistopheles is different from Boito’s: whereas there Il’dar Abdrazakov was more effective, here his voice is sometimes veiled. From a scenic standpoint, we can admire the efforts of the Russian bass to liven up the atmosphere, but everything in this production is icy cold.

Despite the fake beard, neither the physique du rôle nor the terrible costume can be admired in the Siebel of Tara Erraught, for whom the second aria of the fourth act was restored. Alexej Markov’s Valentin is excellently performed; vocally an impressive baritone, after being stabbed several times by both Mephistopheles and Faust, he remains on his feet for a good fifteen minutes cursing his sister before he dies. Marie-Ange Todorovitch is the only French singer in the cast and her Marthe has a warm mezzo-soprano timbre and a vivid presence.

The Argentinian Alejo Pérez at the head of the Vienna Philharmonic is attentive to the dynamics, but without those passionate outbursts which make grand-opera enjoyable: the final duo of Faust and Marguerite never takes off and other points in the opera fall flat.

In the last scene of Marguerite’s death and redemption, once again we see the “Rien” sign, a clear seal to this production lacking in ideas.

(Many thanks to Gail McDowell for the revision)

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MITO

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MITO Settembre Musica

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli

9 settembre 2016

Che scandalo! Divertirsi a un concerto!

Un soprano che dirige un’orchestra, un clarinettista che fa giochi di prestigio, un direttore che balla il tip tap… Cronache di questi primi giorni di MITO.

All’Auditorium del Lingotto il soprano Barbara Hannigan mentre dirige l’Orchestra Ludwig canta con stile impeccabile sia l’impervio Sibelius che il suadente swing di Gershwin; all’auditorium RAI tra le colonne sonore hollywoodiane concertate con passione da John Axelrod con l’Orchestra Verdi di Milano si inserisce un lavoro del compositore vivente Rolf Martinsson in cui il giovane e talentuoso Magnus Holmander non solo incanta il pubblico con i suoi virtuosismi sonori (compresi suoni a bocca chiusa emessi mentre suona il clarinetto), ma lo lascia letteralmente di stucco quando alla fine, invece di concedere il fuori programma di prammatica, fa sparire il suo strumento in un fazzoletto di stoffa con un abile numero di magia; nella sala del Conservatorio torinese Alessandro Cadario dirige l’orchestra dei Pomeriggi Musicali con un gesto difficilmente catalogabile, ma efficace, in una suite e un concerto brandeburghese del vero J.S. Bach, mentre nella seconda parte è la volta dell’immaginario P.D.Q. Bach, pseudonimo sotto il quale si nasconde il compositore Peter Schickele i cui giochi eruditi fanno il divertimento dei conoscitori di musica.

Genere quanto mai frequente nella cultura anglosassone (basti per tutti il nome di Anna Russell e delle sue esilaranti lezioni wagneriane) da noi è stato raramente affrontato, sia per scarsezza di humour sia per abbondanza di ignoranza musicale. Come ha detto Nicola Campogrande nella presentazione del concerto, occorre essere ben addentro ai meccanismi della musica per apprezzare un divertissement come questo Concerto per due pianoforti contro l’orchestra (due pianoforti sono meglio di uno). Ed ecco quindi che oltre al tip tap estemporaneo dell’insolito concertatore, abbiamo le interminabili cadenze pianistiche durante le quali gli altri orchestrali leggono il giornale, chiacchierano col pubblico o rispondono al telefonino; i crescendo resi drammaticamente ridicoli da percussioni imperversanti; le code di lunghezza infinita; i lacerti beethoveniani-brahmsiani; le “quinte vuote” del Wozzeck; l’assolo di Rhapsody in blue; accenti jazz o tardoromantici – il tutto in una cornice barocca. Un mix esilarante inframmezzato dalle gag dei due bravissimi pianisti Herbert Schuch e Gütru Ensari.