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Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann
Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023
(diretta streaming)
Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?
Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.
La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.
La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile.
A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Docteur Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.
Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.
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