Michel Carré

Les contes d’Hoffmann

foto © Michele Crosera

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Venezia,  Teatro La Fenice, 24 novembre 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’ultimo Offenbach a Venezia, trent’anni dopo e con lo stesso direttore

Sono così tante le possibili versioni di Les contes d’Hoffmann, che ogni nuova produzione è un caso a sé. Morto prima di riuscire a completarlo, Jacques Offenbach ha lasciato il suo ultimo capolavoro incompiuto e schiere di musicologi hanno tentato di ricostruirlo dandone ognuno una versione differente e talora contrastante con le altre.

C’era quindi molta curiosità per l’atteso spettacolo veneziano inizialmente affidato a quel raffinato concertatore che è Antonello Manacorda, ma purtroppo il direttore torinese ha dovuto rinunciare per un’indisposizione e al suo posto è subentrato all’ultimo momento colui che aveva diretto pochi mesi fa lo stesso titolo alla Scala, ossia Frédéric Chaslin. Il direttore francese ha salvato la situazione – c’era il rischio che l’inaugurazione della stagione saltasse – e gliene siamo tutti grati, ma ha ovviamente riproposto quanto aveva fatto allora e non è stato neppure questa volta esaltante: una direzione di routine, generica e senza grandi sottigliezze. Proprio quello che si era ascoltato a Milano. Aveva diretto l’opera a Venezia già nel 1994 e quella fu la sua prima volta, questa, ha egli stesso dichiarato, è la 732esima! Chaslin si professa un profondo conoscitore dell’opera in tutte le sue versioni e sta provando a realizzarne una propria. La sua è una versione spuria – un misto delle Choudens e Oeser – e con numerosi tagli: rispetto all’edizione “originale” di oltre quattro ore, qui ci sono 2 ore e 35 minuti di musica ripartita in una prima parte di 1h10′ (prologo e atto primo), una seconda di 50 minuti (atto secondo) e una terza di 35 minuti (atto terzo ed epilogo). In questa edizione il finale è drammaturgicamente ancora meno convincente e il personaggio di Giulietta poco definito. 

Quasi contemporaneamente alla Opéra Royal de Wallonie-Liège, che li ha messi in scena con Stefano Poda, e in attesa del ritorno della produzione di Robert Carsen all’Opéra di Parigi fra qualche giorno, nella città lagunare l’allestimento de Les contes d’Hoffmann è affidato al veneziano Damiano Michieletto, che affronta con la sua decisa personalità questa opéra fantastique. Nella sua lettura il poeta Hoffmann è un vecchietto «parcheggiato in una locanda» che incomincia a raccontare dei fantasmi del suo passato, di tre avventure amorose vissute con tre donne diverse in tre diverse città: a Parigi, Olympia; a Monaco, Antonia; a Venezia, Giulietta. Tutte e tre le figure si fondono con quella della cantante Stella in scena per il Don Giovanni in quel momento a Norimberga, dove avviene l’azione del presente.

Olympia rappresenta la prima infatuazione, quella sui banchi di scuola, ed infatti Michieletto ambienta l’episodio della bambola meccanica in una scuola – come aveva fatto nel suo Flauto magico – dove Spalanzani è il maestro e Cochenille il bidello. Il valzer in cui Hoffmann, giovinetto in braghe corte, viene trascinato è una lezione di ginnastica con i cerchi e l’esibizione della bambola meccanica avviene su una danza di numeri e simboli matematici che si staccano dalla lavagna per poi piovere dal soffitto. Il mondo surreale si fonde qui con lo sguardo nostalgico sull’amore adolescenziale.

Anche il secondo atto è ambientato in una scuola, di danza. Antonia infatti per Michieletto non è una cantante, bensì una ballerina costretta a letto – come nella sua Cendrillon a Berlino o nella Rusalka di Christof Loy. Nonostante il tema drammatico, questo quadro diventa vivace per la presenza di piccole ballerine in tutù che irridono Frantz, un caricaturale maître de ballet. Forte è il contrasto tra umorismo e patetismo con la morte di Antonia istigata a danzare dal diabolico Docteur Miracle. Hoffmann qui è un giovanotto nella sua seconda fase della vita, innamorato più dell’idea di amore che della povera fanciulla.

Ritroviamo Hoffmann uomo maturo e senza illusioni nel terzo atto, beffato dalla bella Giulietta che lo imprigiona dietro uno specchio dopo che è stato marcato con una X sul petto dalla maschera del dottore della peste, unico riferimento visibile alla città di Venezia che ospita la vicenda. Nell’epilogo ritornano tutti i personaggi, che un po’ fellinianamente concludono la vicenda: gli spiriti del vino e della birra, i tre diavoli in paillettes, Nicklausse spiritello vittoriano con le alucce irdescenti, le tre donne amate. Nel suo abito da gran sera, boa di struzzo e parrucca rosso fuoco, la diva Stella si scopre non essere altro che il bieco rappresentante del male nella sua ultima incarnazione dopo Lindorf, Coppélius, Miracle, Dapertutto.

La morale del libretto, meglio affidarsi all’arte che alla fuggevolezza dei sentimenti amorosi, è affermata con beffarda ironia in questo spettacolo  che Michieletto ha ideato assieme al suo solito valido team, ossia Paolo Fantin per le sempre sorprendenti scenografie, qui un ambiente in cui si aprono aperture rettangolari, i «buchi di memoria di Hoffmann», da cui si calano oggetti o scende la luce sempre mirabilmente ricreata da Alessandro Carletti. Assieme  ai magnifici costumi di Carla Teti e alle ironiche coreografie di Chiara Vecchi, tutti concorrono alla creazione di uno spettacolo di grande bellezza visuale che cresce di atto in atto fino all’intenso epilogo finale. 

Se Jessica Pratt è stata l’unica interprete dei tre personaggi femminili nella produzione australiana ora ripresa (lo spettacolo è coprodotto da Sydney, Londra e Lione), qui ci sono tre cantanti, molto differenti per personalità e vocalità. Rocío Pérez ha spigliate agilità, timbro luminoso ed è un’Olympia meno meccanica del solito, più simpaticamente umana. Di Carmela Remigio si ammira la partecipazione emotiva al personaggio di Antonia, un po’ meno la vocalità dalla linea discontinua, non migliorata dalla lingua francese, e dai suoni fissi. La parte di Giulietta, qui ridotta, è affidata all’eleganza di Véronique Gens. Paola Gardina è un’ironica Musa con borsone alla Mary Poppins mentre di Giuseppina Bridelli si ammirano l’espressività e la sicura vocalità come Nicklausse. Già Faust due volte a Venezia ed entrambe con Chaslin, Iván Ayón Rivas debutta nella parte eponima delineando un Hoffmann coinvolgente, dal timbro luminoso e dallo squillo poderoso. Anche scenicamente risulta più convincente del solito. Le quattro diverse identità del cattivo trovano in Alex Esposito interprete di eccezione per la proiezione vocale impressionante, il timbro ricco di armonici,  l’articolazione da manuale della frase e la dizione perfetta. A queste si aggiungono le doti da autentico istrione della scena. Indubbiamente i ruoli diabolici si addicono al baritono bergamasco che ha a suo attivo i personaggi di Méphistophélès de  La damnation de Faust di Berlioz e del Faust di Gounod. Anche Didier Peri copre quattro parti – Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio – particolarmente gustosa è quella del maître de ballet Frantz. François Piolino è lo stralunato Spalanzani, Christian Collia è Nathanaël, Yoann Dubruque veste adeguatamente i panni di Hermann e Schlémil, un po’ sbiadito Francesco Milanese come Luther e Crespel. Federica Giansanti è La voce della madre di Antonia, qui anche lei ballerina. Buona prova la dà il coro istruito da Alfonso Caiani.

Pubblico molto caloroso e prodigo di applausi per tutti gli artisti coinvolti e per il Presidente della Repubblica che con la sua illustre presenza ha anche contribuito ad allontanare il rischio dello sciopero previsto. Meglio di così non si poteva sperare.

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

Parigi, Opéra Bastille, 14 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Amleto al manicomio? Non una novità

Tre anni dopo la prima parigina del Macbeth di Verdi, un altro compositore ottocentesco si misurava con un’opera del Bardo, conosciuto allora soprattutto attraverso adattamenti: quello di Hamlet, il lavoro di Thomas del 1868, era infatti di Alexandre Dumas padre che aveva eliminato alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, aveva aggiunto una scena d’amore tra Amleto e Ofelia, e aveva fatto riapparire nel finale il fantasma del re assassinato per fargli dire: «Vis pour ton peuple, Hamlet! C’est Dieu qui te fait Roi!».

I librettisti Barbier e Carré, dal canto loro, avevano ridotto i personaggi e incentrato l’attenzione sui quattro principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra i primi due. Concepito inizialmente in quattro atti, su richiesta dell’Opéra di Parigi Hamlet fu diluito in cinque, con l’aggiunta del ballo inserito prima della scena della follia di Ophélie. Nella versione per Londra del 1969 un nuovo finale prevedeva la morte del protagonista, ma non fu sufficiente a mitigare le critiche degli inglesi, come quella su The Pall Mall Gazette del 1890: «No one but a barbarian or a Frenchman would have dared to make such a lamentable burlesque of so tragic a theme as Hamlet» (Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare di un tema così tragico come quello dell’Amleto una così deplorevole parodia».

Il lavoro di Thomas conobbe grande successo fino agli anni ’30 del secolo scorso, per poi scomparire dalle scene. Un frequente ritorno del titolo è invece avvenuto dagli anni ’80 con pregevoli recenti produzioni al Grand Théâtre di Ginevra nel 2003 con Simon Keenlyside e Nathalie Dessay; al Met (2010), ancora Keenlyside e Marlis Petersen e una grande Jennifer Larmore; An der Wien e poi La Monnaie (2013) con Stéphane Degout e la intrigante messa in scena di Olivier Py e l’Opéra Comique (2108), ancora con Degout e Sabine Devieilhe. Ora alla Bastille il titolo viene riproposto in una ricca produzione che vede sul podio Pierre Dumoussaud, un cast importante e una discussa regia.

Con Hamlet di Thomas, Krzysztof Warlikowski firma uno dei suoi più complessi e ambiziosi allestimenti, 22 anni dopo la sua lettura del dramma di Shakespeare al festival di Avignon del 2001 – ma lo spettacolo era stato creato a Varsavia nel 1999. Inizialmente la sua messa in scena può risultare fastidiosamente spiazzante, addirittura indisponente, poi però il suo indubbio istinto prevale in scene di grande teatralità. L’abbondanza di allusioni sia teatrali che cinematografiche e la loro realizzazione un po’ confusa possono disturbare la leggibilità dello spettacolo, però restituiscono l’essenza di un rapporto con la realtà e la memoria disturbato da allucinazioni e sensi di colpa che inducono a un’azione impotente, com’è quello del principe danese.

L’ambientazione costruita dalla scenografa Małgorzata Szczęśniak è quella di una casa di riposo o centro psichiatrico – non un’idea originale ma plausibile dato il numero di disturbati mentali in scena. All’alzarsi del sipario vediamo un Hamlet signore di mezza età e Gertrude una vecchia sulla sedia a rotelle mentre alla televisione trasmettono Les Dames du Bois de Boulogne, il film di Robert Bresson del 1945. Due i livelli temporali: il primo e l’ultimo atto si svolgono nel presente della vicenda, gli altri tre atti formano un unico lungo flashback che ci mostra i traumi del protagonista vent’anni prima, ed ecco infatti i costumi virare verso gli anni ’20. Hamlet qui è un adulto mal cresciuto che gioca con una macchinina radiocomandata e sembra piuttosto disturbato, fuma in continuazione e ha vari tic. È evidente che non ha superato la morte del padre e meno ancora il secondo matrimonio della madre, verso la quale dimostra un forte complesso edipico. Nel primo atto il Re, Laërte e Ophélie (o il suo fantasma?) sono dei visitatori. Quando compare lo spettro del padre è vestito come un clown bianco, chiaramente un frutto della realtà distorta di Hamlet, così come lo sarà il ballo del quarto atto, assieme alla morte di Ophélie, due dei momenti migliori dello spettacolo. Nel quinto atto Hamlet ha acquisito lo status di fantasma del padre, lo stesso costume da clown, ma nero. E si capisce finalmente perché la folla era in lutto nel primo atto: era per il funerale di Ophélie!

Per un beffardo caso di contrappasso, un cantante che un anno fa aveva stigmatizzato le regie “moderne”, si trova ora a lavorare con uno dei registi più iconoclasti del nostro tempo! È il caso infatti di Ludovic Tézier che in un’intervista aveva detto di preferire le regie “tradizionali”, ma non sembra abbia avuto difficoltà a lavorare con Krzysztof Warlikowski: dal punto di vista attoriale la sua è un’interpretazione pienamente convinta della lettura non proprio ortodossa del regista polacco con cui recupera l’aspetto psicologicamente complesso di una figura semplificata dai librettisti. I colori e le intenzioni espressive sotto tutti presenti in una vocalità in stato di grazia che ha scatenato le ovazioni del pubblico parigino. Ovazioni che sono state estese anche alla Ophélie di Lisette Oropesa, di cui sono state ammirate sia la purezza d’emissione sia le precise agilità nella scena della pazzia. Grande performance anche quelle di Eve-Maud Hubeaux, una Gertrude torturata, John Teitgen (Claudius) e Julien Behr (Laërte). Clive Bayley, l’espressionista Fantasma del Re, e Frédéric Caton (Horatio) sono tra gli altri efficaci interpreti. Lodevole sopra ogni misura il coro, istruito da Alessandro di Stefano, a cui è chiesto di travestirsi, ballare, muoversi e recitare – cosa impensabile da pretendere dai cori nostrani. A capo dell’orchestra del teatro, il giovane Pierre Dumoussaud, che ha sostituito il previsto Thomas Hengelbrock, ha rivelato mature doti mettendo in luce le qualità di questa partitura che a distanza di tempo conquista sempre più il favore dei pubblici.

 

Les contes d’Hoffmann

   

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?

Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.

La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.

La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile. 

A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.

Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venise, Teatro la Fenice, 30 avril 2022

 Qui la versione italiana

Faust à Venise : le diable s’habille… en plumes !

Le destin de Faust à la Fenice est très particulier : l’opéra était présent lors de la première véritable saison du théâtre après sa fermeture suite au déclenchement de la deuxième guerre d’indépendance italienne en 1859 : réouvert le 31 octobre 1866, quelques mois plus tard, l’opéra de Gounod figurait parmi les six opéras au programme. Ce fut ensuite le titre inaugural de la réouverture de la Fenice en 1920, après les événements de la Grande Guerre qui avaient maintenu le théâtre fermé depuis 1914. La même chose s’est produite, cent ans plus tard, en juillet 2021, après la fermeture due à la pandémie. À l’époque, le public était dans les loges et l’action se déroulait en partie dans les stalles, avec un effet spatial inhabituel et surprenant qui combinait le besoin de distanciation avec un choix dramaturgique efficace qui exploitait brillamment cette situation inhabituelle…

la suite sur premiereloge-opera.com

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venezia, Teatro la Fenice, 30 aprile 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Il diavolo veste le piume di Lola-Lola

È un particolare destino quello che lega il Faust con il teatro veneziano. Era presente nella prima vera stagione del teatro dopo la chiusura seguita allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana nel 1859: riaperta il 31 ottobre 1866, pochi mesi dopo tra le sei opere in programma figurava appunto l’opera di Gounod. Fu poi il titolo inaugurale per la riapertura nel 1920, dopo gli eventi bellici della Grande Guerra che avevano tenuto chiuso il teatro dal 1914. Lo stesso è avvenuto, cento anni dopo, nel luglio 2021, dopo la chiusura per pandemia. Allora il pubblico era solo nei palchi e l’azione si svolgeva in parte in platea con un inedito e sorprendente effetto spaziale che coniugava le esigenze di distanziamento con una efficace scelta drammaturgica che sfruttava genialmente l’inusuale situazione.

Ora, con il medesimo cast di un anno fa, Joan Anton Rechi ripropone l’opera in una produzione totalmente diversa, sia a livello visivo che concettuale e, diciamolo subito, questa volta è meno convincente. Il risultato ottenuto sembra confermare il fatto che è quando ci sono forti vincoli che allora la creatività viene esaltata.

Nel nuovo approccio di Rechi il tema dell’eterna giovinezza è diventato il punto focale dell’intera vicenda, assieme al cinema inteso come fonte di illusione. «La nostra idea», dice il regista, «nasce da una scena del film Intervista di Federico Fellini, nella quale un’Anita Ekberg e un Marcello Mastroianni già avanti con gli anni contemplano le immagini della loro famosa scena alla Fontana di Trevi nella Dolce vita e nei loro volti si può scorgere la nostalgia per la gioventù perduta. E questo a maggior ragione essendo stati miti del cinema e avendo a disposizione immagini che glielo ricordano costantemente». E così inizia l’allestimento di Rechi, con un malandato Faust che da una sedia a rotelle sembra contemplare i suoi passati splendori da stella del cinema. Con il patto col Diavolo la scena si trasforma in un set cinematografico e Mefistofele diventa Fellini, il regista che crea quel mondo di fantasia in cui Faust ha la possibilità di assaporare i piaceri che non aveva conosciuto in giovinezza.

Questa è l’idea di fondo del regista, ma la distanza tra intenzioni e realizzazione qui è grande: manca totalmente la magia del cinema – forse ci voleva Davide Livermore… – e lo spunto iniziale si ripete senza offrire un significato alternativo a un’opera permeata totalmente dall’elemento religioso, elemento che connotava invece la lettura di un anno fa, e che è difficilmente estirpabile dall’opera di Gounod. L’ambientazione ai nostri giorni rende poi ancora più incongrui certi aspetti del libretto che hanno significato solo se calati nell’epoca della composizione o affrontati in maniera più convinta.

L’avvicendarsi delle varie scene è risolto dallo scenografo Sebastian Ellrich con la solita piattaforma rotante e una brutta struttura a varie sezioni, con scale e passerelle, finte rovine e un grande telo su cui si aspetta inutilmente fino all’ultimo che qualcosa di cinematografico venga proiettato. Invece, nulla. Personaggi vagamente felliniani negli sgargianti costumi di Gabriela Salaverri popolano la scena e spingono in tondo le parti del praticabile. Non aiutano a rendere più suggestiva la visione né le luci di Alberto Rodríguez Vega che variano monotonamente dal bianco al rosso né i torpidi movimenti delle masse corali. Margherite e Marthe sono sartine, la casa di Marguerite è un camerino, il giardino un divano disegnato sulla forma delle labbra rossa su cui si sdraia il Dr. Frank-N-Furter del Rocky Horror Picture Show, la chiesa una croce al neon. La vicenda dei soldati tornati dal fronte è anch’essa una scena di film girata in diretta, la notte di Valpurga una datata scena di seduzione del recalcitrante Faust da parte delle vamp del cinema: abbiamo quindi Cleopatra, ma anche Barbarella, la principessa Leia di Star Wars (!), la Marilyn inguainata di raso di Gentlemen Prefer Blondes, la Sally di Cabaret e così via. Per non farsi mancare nulla il regista traveste Méphistophélès stesso da Lola Lola di Der blaue Engel – o come Helmut Berger ne La caduta degli dèi. Come trasgressione siamo a un livello piuttosto basso. Ma è con la scena del valzer che assistiamo a una delle più tristi mai realizzate, con quattro smandrappate ballerine di cancan, una scena che visivamente smorza l’impulso travolgente fornito all’orchestra dal direttore Frédéric Chaslin che dà una lettura trascinante della partitura pigiando forse un po’ troppo forte sul pedale del volume esaltato dall’acustica del teatro.

Il cast è quello dell’altra volta e si confermano le impressioni ricevute allora. Nella parte eponima ritroviamo dunque Iván Ayón Rivas e il suo tono spavaldo, la luminosità e la sostanza degli acuti, assieme a una certa latitanza nell’introspezione psicologica del personaggio e nell’eleganza del fraseggio. Carmela Remigio che non ha la brillantezza del canto che dovrebbe definire il personaggio di Marguerite, soprattutto nella prima parte. È infatti nelle scene più drammatiche che si ritrova il temperamento del soprano abruzzese e la sua resa migliore. Ma i suoni fissi sono sempre lì in agguato e un certo modo manierato nell’articolare le frasi non ne fa la Marguerite ideale. Una conferma anche per il sensibile Valentin di Armando Noguera, timbro chiaro e strana emissione nel registro basso, ma bella presenza scenica. Importuna l’idea del regista di farlo resuscitare dopo la sua lunga straziante fine per minacciare ancora di più la povera sorella come se non fosse bastato quello che le ha vomitato addosso in punto di morte. Ottima anche questa volta la prova di Paola Gardina, trepidante Siebel. Il coro istruito da Alfonso Caiani ha dato il meglio di sé nonostante le mascherine che ovattano le voci e impastano la dizione.

E poi c’è Alex Esposito e qui non si sa più cosa inventarsi per l’emozione di trovare un Méphistophélès che non si pensava potesse migliorare. Eppure, ci si stupisce ogni volta per la straordinaria presenza scenica sempre al di qua di una possibile gigioneria, anzi l’eleganza e la padronanza scenica sono ancora più raffinate. L’espressione e la dizione francese sono da manuale, la voce piena e sonora si flette in mille sfumature e ogni parola riceve il giusto accento senza che il discorso perda di musicalità. A lui il pubblico ha tributato meritatissime ovazioni da stadio. Era l’ultima recita. Ora i suoi impegni lo porteranno di nuovo agli amati Rossini e Donizetti, ma non si può affermare che quello sia il suo repertorio di elezione: «Egli fa tutto ben quello ch’ei fa», come direbbe Susanna, ma questa volta senza alcuna ironia.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venice, Teatro La Fenice, 3 July 2021

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

La Fenice transformed into a cathedral for Joan Antón Rechi’s vision of Gounod’s Faust

Take the greatest masterpiece of German literature, translate it and betray it by transforming its philosophical message into a sequence of beguiling arias and – voilà! – you have Gounod’s Faust, one of the world’s most popular operas. But it was not always so.Faust was created at the Théâtre Lyrique in Paris in 1859 with spoken dialogue. It met with critical interest, but not with public fervour. It would take several years to reach its “definitive” version at the Opéra, ten years later, with sung recitatives and a ballet. Born as opéra-comique, Faust became grand opéra. Audiences were ecstatic, but the critics were lukewarm…

continues on bachtrack.com

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venezia, Teatro La Fenice, 3 luglio 2021

Union-jack.jpg  Click here for the English version

Dopo quasi un anno la Fenice riapre all’opera e diventa una cattedrale per il Faust di Gounod

Prendere il massimo capolavoro della letteratura tedesca, tradurlo e tradirlo trasformando il suo messaggio filosofico in una serie di arie rapinose et voilà il Faust di Gounod, una delle opere più popolari e rappresentate al mondo. Quella con cui si inaugurò il Teatro Metropolitan di New York nel 1883 e quella che assieme a Carmen e Les contes d’Hoffmann forma il nucleo fondante dell’opera francese del XIX secolo sopravvissuto gloriosamente nel XX e XXI.

Ma non è stato sempre così. Il Faust era approdato al Théâtre Lyrique di Parigi nel 1859 con i dialoghi parlati e aveva incontrato l’interesse della critica, ma non quello del pubblico. Ci vorranno molte altre versioni per arrivare a quella definitiva all’Opéra, dieci anni dopo, con i recitativi cantati e il balletto. Nato come opéra-comique il Faust diventava grand opéra. Stavolta il pubblico esultava, la critica invece si faceva più tiepida.

Il libretto di Jules Barbier, basato sul dramma di Michel Carré Faust et Marguerite del 1850, è strutturato in cinque atti – il terzo, con la scena nel giardino e il duetto d’amore, è quello cardine della vicenda, il secondo atto presenta l’incontro degli innamorati, il quarto la separazione, il tutto incastonato fra due atti che fungono da prologo e da epilogo. Il lavoro si affianca a quelli di Berlioz (La damnation de Faust, 1846), Boito (Mefistofele, 1868) e Busoni (Doktor Faust, 1924), ma qui il tema religioso è preponderante, tanto che il regista Joan Antón Rechi, che lo propone ora alla Fenice, trasforma il teatro veneziano in una cattedrale, con i banchi da chiesa al posto delle poltrone e il pubblico nei palchi e nelle gallerie. Il pavimento è inizialmente coperto da un telo che quando viene tolto mostra una superficie a specchio che riflette gli ordini di palchi e le luci delle appliques e del grande lampadario di vetro che illuminano il settecentesco interno del teatro. La trasformazione in sala da ballo per la scena del valzer è così completa.

L’ambientazione è quella dell’epoca della composizione, con le donne in grandi gonne e i maschi in divisa militare o redingote. L’azione si sviluppa sia in platea che sul palcoscenico: le esigenze di distanziamento sanitario qui diventano una efficace scelta drammaturgica del regista andorrano che non rinuncia ad alcuni vezzi registici come lo spostamento dei banchi da parte di due figuranti in nero in un lungo silenzio scandito solo dai loro passi sul pavimento, o il tormentone della fotografia con cui Siébel cerca di riprendere il coro schierato sul palco per «Gloire immortelle», o il ritorno del fantasma di Valentin che trascina via per i piedi la sorella Marguerite. Per il resto si tratta di una realizzazione intelligente e spettacolare, che ripropone in maniera moderna il fasto del grand opéra con una recitazione vivace e movimenti dei singoli e delle masse molto efficaci. Rechi è autore anche dei costumi, mentre il complesso gioco luci è opera di Fabio Berettin. Suo è il bellissimo effetto della luce filtrata da un immaginario rosone.

Frédéric Chaslin è un esperto della musica francese e della complessità del Faust riesce a dare una visione unitaria malgrado la frammentarietà dei pezzi musicali di una ricchezza melodica e strumentale stupefacente. Nelle note sul programma di sala il direttore parigino (che è anche compositore, pianista e scrittore) cita Mahler come l’unico musicista che pensava di aver capito davvero l’essenza del lavoro di Goethe con la sua Ottava Sinfonia. Queste sue considerazioni vengono in mente a posteriori dopo aver ascoltato alcuni momenti nel finale del terzo atto che richiamano in effetti atmosfere che per noi saranno poi “mahleriane”. La non ortodossa disposizione in buca con il direttore all’estrema destra invece che al centro non ha inficiato l’equilibrio sonoro, così come non sembra aver dato troppo fastidio la mascherina indossata dal coro molto ben preparato da Claudio Marino Moretti. Niente da dire per una volta sulla dizione dei coristi.

Il peso drammatico del Faust di Gounod è spostato sul personaggio femminile di Marguerite, qui nei panni del soprano Carmela Remigio, cantante di temperamento ma poco adatta alla parte: si dimostra giustamente espressiva ma a discapito di una linea vocale frastagliata, con salti di registro innaturali, una dizione qui piuttosto eccepibile e una generale mancanza di brillantezza, evidente nell’“air des bijoux”. Iván Ayón Rivas nella parte del titolo si esprime in un fraseggio elegante e ottime mezze voci, ma sembra sempre che scalpiti per sfogarsi negli acuti, che infatti arrivano e sono luminosi ma spesso eccessivi. Non è la prima volta che si riscontra nella voluta esibizione di mezzi vocali generosi una caratteristica dello stile del tenore peruviano. Grande presenza scenica ma una strana emissione nel registro basso è  quella di Armando Noguera (Valentin) mentre delizioso il Siébel di Paola Gardini, eccellente e sensibile soprano.

Vero trionfatore della serata è stato Alex Esposito, che del Méphistophélès ha dato un’interpretazione da questo momento irreversibile. Il regista ne fa un prestigiatore/ipnotizzatore in marsina e cilindro che riempie la scena anche quando, prima ancora che inizi l’opera, se ne sta immobile seduto sull’ultimo banco della chiesa immaginata da Rechi. Poi non avrà un attimo di pace: lo vedremo agilmente saltare sui banchi, scomparire all’improvviso per ricomparire subito dopo sul palcoscenico, affrontare i personaggi soggiogandoli con la mente, e sempre invisibile per loro: come il Diavolo è visto solo da chi il male l’ha fatto, come Marguerite dopo l’assassinio del neonato, quando la ragazza si aggrappa a lui invece che al fedifrago Faust. Con il basso-baritono bergamasco non c’è distinzione tra canto e recitazione. Detto il meglio della seconda, per quanto riguarda l’emissione vocale di tratta di una proiezione della voce prodigiosa, di un accento che scolpisce le singole senza però essere stucchevole e di una dizione pressoché perfetta. La scena della beffarda serenata riunisce la genialità del regista e l’attorialità del cantante: in un numero da café chantant, inquadrato dalla luce di uno spot luminoso, il cantante/attore dà prova delle sue straordinarie doti teatrali e il pubblico alla fine lo ricompensa con applausi a scena aperta e acclamazioni finali. Questa volta il Faust di Gounod si sarebbe dovuto intitolare Méphistophélès

Faust

Charles Gounod, Faust

★★☆☆☆

New York, Metropolitan Opera House, 10 dicembre 2011

(registrazione video)

Il Faust atomico del MET

“Faustspielhaus” l’aveva ribattezzato nel 1897 l’arguto critico musicale del New York Times (1) per la frequenza con cui il lavoro di Gounod veniva rappresentato nel teatro newyorkese, a partire dalla sua apertura nel 1883 proprio col Faust. Anche George Bernard Shaw pochi anni prima aveva causticamente scritto: «Bisognerebbe fare qualcosa per questa Royal Italian Opera. Ho sentito Faust di Gounod non meno di 90 volte negli ultimi 10 o 15 anni e ne ho avuto abbastanza. I diritti delle nuove generazioni includono l’accesso, e l’accesso frequente, a Faust, ma protesto contro la disumanità di sceglierlo per presentare nuove primedonne, poiché in tali occasioni devono assistere i critici…».

Anche se le statistiche lo danno meno frequente negli ultimi decenni, il lavoro di Gounod è tra i favoriti del MET che non lesina nei mezzi per la sua messa in scena, come avviene anche per questa produzione in cui Yannick Nézet-Séguin ritorna per la terza volta sul podio dell’orchestra del teatro con la sua direzione brillante e “strumentale” (2).

Nella parte del titolo Jonas Kaufmann gioca le sue carte irresistibili nelle mezze voci e nei legati di «Laisse-moi contempler ton visage» nel duetto che segue il suo lirico «Salut! demeure chaste et pure» concluso con un crescendo in fortissimo che strappa gli applausi ma che sarebbe meglio invece evitare. Per di più la sua dizione non è inappuntabile. Ancora peggiore però è quella di Marina Poplavskaya, vocalmente e scenicamente corretta, ma con colori ed espressività limitate. Una Marguerite di cui non ci si riesce a innamorare. René Pape è un Méphistophélès elegante e affidabile nella voce, ma il personaggio fa fatica a uscire nella sua sardonica ironia. Michèle Losier (Siébel), Russell Braun (Valentin), Jonathan Beyer (Wagner) e Wendy White (Marthe) completano un cast non eccelso.

Il regista Des McAnuff arriva da Broadway, dove ha ripreso il musical Jesus Christ Superstar e questa è la sua prima (e al momento unica) incursione nel mondo della lirica. La sua lettura si basa sull’idea che il nostro Faust, come il Robert Oppenheimer di Doctor Atomic (2005) è pieno di rimorsi sull’utilizzo dell’energia atomica che ha appena cancellato le città di Hiroshima e Nagasaki. Arriva a suicidarsi, ma bevuto il veleno, invece di morire rivive sé stesso da giovane – e quindi passiamo all’epoca della Grande Guerra – per poi ritornare ai nostri giorni. Ma è tutto lì: a parte una notte di Valpurga che riprende il tema della bomba e dei veleni con il coro che canta osservando con gli occhiali scuri l’esplosione, nella regia di McAnuff Faustnon fa che bighellonare col suo sodale diabolico di cui condivide l’abito, un completo doppiopetto gessato, e dal quale è eterodiretto. Dei suoi sensi di colpa iniziali non rimane nulla.

La scenografia di Robert Brill non brilla certo per originalità o bellezza: una scena unica con due scale simmetriche a spirale ai lati, un andare e venire di tavoli e sedie portati da inservienti, e un fondale per le proiezioni.

(1) «Molto lontano nel futuro, quando una guida accompagnerà il neozelandese di Macaulay attraverso gli scavi dell’isola di Manhattan, si fermerà davanti alle rovine di un vasto auditorium nella parte alta di Broadway e il neozelandese dirà: “Suppongo che questa fosse l’arena”, ma la guida risponderà: “No, era il sacro Faustspielhaus”. Il neozelandese di Macaulay, conoscendo il tedesco, dirà: “Vorrà dire Festspielhaus”. E la guida replicherà: “No, caro signore, il Festspielhaus era in Germania, dove hanno recitato drammi di un certo Vogner. Qui hanno suonato Faust ed è, quindi, il Faustspielhaus”. E il neozelandese si meraviglierà molto».

(2) «The MET Opera has a gay conductor» titolerà il solito New York Times, non si sa se più ingenuo o improvvido, visto che di lì a poco dovrà occuparsi delle vicende sessuali di James Levine…

Faust

Schermata 2021-05-01 alle 18.09.49

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 29 aprile 2021

(diretta streaming)

Mefistofele vampiro ai tempi di De Gaulle

Frank Castorf debutta alla Staatsoper di Vienna riproponendo il suo Faust di Stoccarda del 2016. L’impianto scenografico è lo stesso utilizzato nelle sue ultime produzioni: la solita struttura su piattaforma rotante che qui condensa la Parigi degli ultimi anni ’50 in cui ambienta la vicenda, un secolo dopo la creazione di Gounod che è del 1859. Il collage architettonico di Aleksandar Denić ingloba un pezzo di Notre Dame con le sue gargouilles, l’uscita Stalingrad della stazione della metropolitana, un caffè col suo dehors (che qui chiamano terrasse), una macelleria abbandonata. Al piano superiore la camera di Marguerite, sotto una vecchia bottega il cui sinistro proprietario si rivela essere Mefistofele.

Anche la lettura del regista tedesco è la solita, con personaggi trucidi ed esagerati, primo fra tutti un Mefistofele metà vampiro e metà prete voodoo che nel corso della rappresentazione diventa caprone dalla vita in giù. Nella drammaturgia di Ann-Christine Mecke le implicazioni filosofiche che mancano nel lavoro di Gounod vengono sostituite dai problemi della Francia con la guerra d’Algeria ed ecco i soldati che arrivano dal fronte con le teste mozze dei ribelli o Valentin che scrive sul muro “l’Algérie est française” in caratteri rossi. Il gusto per il sangue contagia anche Wagner che beve l’acqua con cui ha lavato i piedi insanguinati di Siebel (!), il quale Siebel qui è una donna (o un travestito) innamorata di Marguerite, che qui beve e fuma a profusione e va in giro vestita come un’odalisca di varietà. Tra l’altro è già talmente carica di bigiotteria che i famosi gioielli non fanno molto per cambiarla.

In molti punti i personaggi leggono testi di Rimbaud e Verlaine, ma ci sono altri richiami all’epoca: la pergamena che Mefistofele fa firmare (col sangue) a Faust è un numero della rivista Match con Brigitte Bardot in copertina e il duetto d’amore tra Faust e Margherita è accompagnato dalle immagini delle pubblicità televisive dell’epoca proiettate sugli immancabili schermi in alto. Il taglio cinematografico di Castorf è esaltato dalla ripresa video dello spettacolo messo in scena nel teatro vuoto e trasmesso in streaming.

Deludente la notte di Valpurga, qui una festa con le solite maschere del Dia de los Muertos dove il «doux nectar» è quel ruhm che si beve nei peggiori bar di Caracas mentre aperto è il finale: Margherita non muore, ma sola al bar si versa una polverina nel bicchiere.

A realizzare questa drammaturgia tirata per i capelli sono degli interpreti di grande qualità che assieme alla direzione sontuosa di Bertrand de Billy compensano le spesso sgradevoli immagini. Debuttante nella parte eponima Juan Diego Flórez mette nel canto quella sensibilità e quell’eleganza che difettano nella recitazione. Per quanto si impegni non riesce a essere convincente – ma come dargli torto, questa volta. È debuttante anche Nicole Car, Margherita splendida sia vocalmente sia scenicamente, dalla tecnica sicura e dagli acuti sfavillanti. Per di più porta nel suo personaggio uno slancio giovanile e una smania di vita contagiose. Il giovane basso polacco Adam Palka è un autorevole ma monotono Mefistofele che la regia di certo non ha aiutato nel farlo muovere come zombie su zoccoli,  con brache pelose e copricapi tribali. Il mezzosoprano Kate Lindsey, per una volta non en travesti, delinea un memorabile Siebel, il baritono Étienne Dupuis è un intenso Valentin, così come lo è Martin Häßler nella breve parte di Wagner, che vediamo morire in guerra in un filmato. Cinica e provocante la Marta di Monika Bohinec.

Schermata 2021-05-01 alle 18.11.07

Schermata 2021-04-30 alle 17.01.47

Schermata 2021-04-30 alle 17.03.37

Schermata 2021-04-30 alle 17.07.01

Schermata 2021-04-30 alle 17.07.25

Schermata 2021-04-30 alle 17.08.06

Schermata 2021-05-01 alle 18.10.30

Les contes d’Hoffmann

 

les_contes_dhoffmann_c_monika_rittershaus_029

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Zurich, Opernhaus, 11 avril 2021

(streaming)

Qui la versione italiana

Un dénouement heureux pour l’opéra d’Offenbach

La version de référence des Contes d’Hoffmann, opéra laissé inachevé après la mort d’Offenbach, reste celle de Michael Kaye et Jean-Christophe Keck. Andreas Homoki, surintendant de l’opéra de Zurich et, en cette occasion, également metteur en scène, a donc bien fait d’opter pour celle-ci, qui est la plus complète (trois heures et demie de musique), et la plus cohérente du point de vue dramaturgique. Du finale inachevé, Homoki donne une version optimiste qui ne correspond pas tout à fait à l’esprit de l’opéra : Hoffmann vainc Lindorf et s’échappe avec Stella ; c’est le premier et seul moment où nous le voyons sourire après les événements tragiques qu’il aura traversés…

la suite sur premiereloge-opera.com