
foto © Andrea Macchia
∙
Gaetano Donizetti, La fille du Régiment
Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2023
ici la version française sur premiereloge-opera.com
Si ripete a Torino il trionfo di John Osborn nell’opéra-comique di Donizetti
Il lavoro di Donizetti è uno dei non molti ad aver goduto di popolarità costante fin dal suo esordio. La fille du régiment vide la luce all’Opéra-Comique di Parigi l’11 febbraio 1840. In quello stesso anno le ceneri di Napoleone venivano traslate da Sant’Elena agli Invalides: in cinquant’anni le turbe vocianti del quarto stato erano state sostituite da una borghesia soddisfatta di sé sotto il nuovo regime di Luigi Filippo che aveva assimilato le gesta della Rivoluzione a una visione nazionalista di cui la “commedia bellica” donizettiana rappresentava una scanzonata ma affettuosa parodia. Andando ben oltre le intenzioni del compositore e dei suoi librettisti, il patriottismo del lavoro è stato talora eccessivamente enfatizzato: nel 1940 a New York Lily Pons dopo il «Salut à la France» aveva intonato La Marseilleaise e oltralpe l’opera è stata spesso eseguita durante i festeggiamenti del 14 luglio.
Installato a Parigi da cinque anni, Donizetti era l’unico rappresentante del teatro in musica italiano di allora: Bellini era appena mancato dopo aver presentato qui I puritani e Rossini si era prematuramente ritirato dalle scene teatrali per dedicarsi alla composizione di melodie, musica sacra e strumentale, ma soprattutto per godersi i benefici della sua gloria. Nel 1839 Donizetti aveva visto nascere con grande successo al Théâtre de la Renaissance Lucie de Lammermoor, adattamento francese della sua opera più famosa, ma un vero trionfo fu quello della Fille, che fu replicata 55 volte nel solo 1841 e arrivò nel 1914 alla millesima rappresentazione. Il compositore bergamasco riesce qui genialmente ad adattarsi al gusto del luogo e l’autore di cabalette scrive couplets perfettamente in linea con lo stile francese, senza però perdere nulla della sua specificità, in particolare le preziose linee melodiche e il misto di umorismo e malinconia tipico delle sue opere migliori. Il modello opéra-comique, in cui le parti recitate si alternano alle parti cantate, resterà comunque una rarità nella sua produzione.
La Fille era arrivata alla Scala il 30 ottobre 1840 nella versione italiana di Calisto Bassi che aveva trasferito la vicenda dal Tirolo alla Svizzera e aveva apportato modifiche al libretto di Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges e Jean-François Bayard abbreviandone i recitativi o tagliando qualche numero, come ad esempio i couplets della Marchesa («Pour une femme de mon nom») nella prima scena dell’atto primo.
La versione francese, incomparabilmente superiore, è quella comunemente eseguita all’estero, mentre quella italiana viene ancora preferita nel nostro paese. Non al Regio di Torino, dove il titolo è in italiano ma si tratta della versione originale e la produzione è quella vista a Venezia lo scorso ottobre. Gli unici elementi in comune sono l’interprete di Tonio e l’attore che impersona Hortensius.
La direzione musicale è qui nelle mani esperte di Evelino Pidò che da grande conoscitore di questo repertorio dà una lettura sempre attenta alle qualità di una partitura che rende nella sua leggerezza e preziosità strumentale, con dinamiche appropriate e grande attenzione all’accompagnamento dei cantanti, qui ottimi professionisti anche se non sempre altrettanto ottimi attori, con ritmi teatrali talora zoppicanti e una recitazione non sempre all’altezza della performance vocale. E anche se dei dialoghi originali rimane solo una frazione minuta, questi mancano di fluidità, si sente che gli interpreti non si esprimono con l’agio che darebbe la loro lingua madre. Non è quindi un caso che l’unico che dimostri tempi perfetti sia, come già a Venezia, l’attore Guillaume Andrieux quale Hortensius, l’impareggiabile intendente della marchesa. E poi c’è il caso della duchessa di Crakentorp, personaggio che ha visto in scena vecchie glorie del melodramma o mature attrici apportare il loro tocco comico più o meno riuscito. Qui il Regio ha fatto il colpo grosso di ingaggiare una gloria locale, il trasformista Arturo Brachetti en travesti al quale si devono i momenti più spettacolari ed esilaranti della serata: prima come assatanata crocerossina con siringa in mano a caccia di maschi a cui inoculare vitamine (siamo in tempo di guerra, d’altronde) e poi surreale duchessa in vena di esibizione vocale in una canzone piemontese di fine Ottocento, Ciribiribin, portata al successo nazionale negli anni ’40 dal Trio Lescano – ma è celebre anche la versione di Frank Sinatra! Brachetti non ha rinunciato a esibire le sue incredibili doti di trasformismo cambiando nel giro di un attimo diversi abiti per il pubblico sorpreso e divertito.

Ritornando al cast vocale, Giuliana Gianfaldoni nella parte di Marie è interprete che pur corretta e spigliata nei momenti brillanti meglio rende le arie patetiche, quella del primo atto «Il faut partir!» e quella, che è un po’ un doppione e infatti viene talora tagliata, del secondo atto «Par le rang e par l’opulence», numeri affrontati con sensibilità ed espressività dal soprano tarantino che vi ha profuso legati e belle mezze voci. Nel complesso però viene a mancare lo sfrontato carattere della vivandiera e il virtuosismo non ha quella punta di acrobatica follia che ci si aspetterebbe. Anche Manuela Custer fa della marchesa di Berkenfield un ritratto votato alla sobrietà, tutt’altro che parodistico, puntando piuttosto sulla pateticità del personaggio. Così pure è per il Sulpice di Roberto de Candia, fin troppo composto e un tantino impacciato nella dizione.
Discorso a parte è quello di John Osborn, un Tonio ormai di riferimento, presente non solo nella produzione veneziana ma anche in quella al momento insuperata del Festival di Bergamo, giusto per citare le sue più recenti in Italia. Il tenore di Sioux City supera con agio lo scoglio dei famosi nove do di «Pour mon âme», immancabilmente bissati con variazioni anche qui a Torino, ma è nei momenti lirici che si apprezzano le sue doti belcantistiche, quando nella toccante «Pour me rapprocher de Marie» sfoggia mezze voci e smorzature da manuale e acuti emessi utilizzando il falsettone con gusto francese da haute-contre. Una vera lezione di canto unica nel suo genere. Un momento che da solo vale il prezzo il biglietto.
Ottima la prova del coro, che nel finale entra in scena pomposamente annunciato con nomi altisonanti che non sono altro che quelli delle medicine degli ospiti della casa di riposo in cui i registi André Barbe e Renaud Doucet hanno immaginato la vicenda: un lungo flash-back della tenera vecchietta – la nonna nonagenaria di Renaud – presente nel video durante l’ouverture e il cui viso in bianco e nero ci saluta alla fine con un velo di tristezza. Il tono nostalgico è il tratto distintivo di questa lettura registica, qui ripresa da Florence Bas, che si conferma efficace anche se una più attenta cura attoriale sarebbe stata maggiormente apprezzata al di là della simpatica cornice scenografica rappresentante, ingigantiti, gli oggetti ricordo della vecchia Marie.
Una sala con molti posti vuoti ha salutato con calore gli artefici dello spettacolo, soprattutto il tenore. Proseguono intanto gli altri appuntamenti per festeggiare i cinquant’anni del Nuovo Regio e si attende con curiosità la presentazione della nuova stagione, la prima finalmente completa e con la nuova direzione artistica dopo il tribolato periodo del commissariamento e della pandemia.
Tre “trasformazioni” della duchessa di Crakentorp di Arturo Brachetti
⸪