Ottocento

La fille du régiment

foto © Andrea Macchia

Gaetano Donizetti, La fille du Régiment

Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Si ripete a Torino il trionfo di John Osborn nell’opéra-comique di Donizetti

Il lavoro di Donizetti è uno dei non molti ad aver goduto di popolarità costante fin dal suo esordio. La fille du régiment vide la luce all’Opéra-Comique di Parigi l’11 febbraio 1840. In quello stesso anno le ceneri di Napoleone venivano traslate da Sant’Elena agli Invalides: in cinquant’anni le turbe vocianti del quarto stato erano state sostituite da una borghesia soddisfatta di sé sotto il nuovo regime di Luigi Filippo che aveva assimilato le gesta della Rivoluzione a una visione nazionalista di cui la “commedia bellica” donizettiana rappresentava una scanzonata ma affettuosa parodia. Andando ben oltre le intenzioni del compositore e dei suoi librettisti, il patriottismo del lavoro è stato talora eccessivamente enfatizzato: nel 1940 a New York Lily Pons dopo il «Salut à la France» aveva intonato La Marseilleaise e oltralpe l’opera è stata spesso eseguita durante i festeggiamenti del 14 luglio.

Installato a Parigi da cinque anni, Donizetti era l’unico rappresentante del teatro in musica italiano di allora: Bellini era appena mancato dopo aver presentato qui I puritani e Rossini si era prematuramente ritirato dalle scene teatrali per dedicarsi alla composizione di melodie, musica sacra e strumentale, ma soprattutto per godersi i benefici della sua gloria. Nel 1839 Donizetti aveva visto nascere con grande successo al Théâtre de la Renaissance Lucie de Lammermoor, adattamento francese della sua opera più famosa, ma un vero trionfo fu quello della Fille, che fu replicata 55 volte nel solo 1841 e arrivò nel 1914 alla millesima rappresentazione. Il compositore bergamasco riesce qui genialmente ad adattarsi al gusto del luogo e l’autore di cabalette scrive couplets perfettamente in linea con lo stile francese, senza però perdere nulla della sua specificità, in particolare le preziose linee melodiche e il misto di umorismo e malinconia tipico delle sue opere migliori. Il modello opéra-comique, in cui le parti recitate si alternano alle parti cantate, resterà comunque una rarità nella sua produzione.

La Fille era arrivata alla Scala il 30 ottobre 1840 nella versione italiana di Calisto Bassi che aveva trasferito la vicenda dal Tirolo alla Svizzera e aveva apportato modifiche al libretto di Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges e Jean-François Bayard abbreviandone i recitativi o tagliando qualche numero, come ad esempio i couplets della Marchesa («Pour une femme de mon nom») nella prima scena dell’atto primo.

La versione francese, incomparabilmente superiore, è quella comunemente eseguita all’estero, mentre quella italiana viene ancora preferita nel nostro paese. Non al Regio di Torino, dove il titolo è in italiano ma si tratta della versione originale e la produzione è quella vista a Venezia lo scorso ottobre. Gli unici elementi in comune sono l’interprete di Tonio e l’attore che impersona Hortensius.

La direzione musicale è qui nelle mani esperte di Evelino Pidò che da grande conoscitore di questo repertorio dà una lettura sempre attenta alle qualità di una partitura che rende nella sua leggerezza e preziosità strumentale, con dinamiche appropriate e grande attenzione all’accompagnamento dei cantanti, qui ottimi professionisti anche se non sempre altrettanto ottimi attori, con ritmi teatrali talora zoppicanti e una recitazione non sempre all’altezza della performance vocale. E anche se dei dialoghi originali rimane solo una frazione minuta, questi mancano di fluidità, si sente che gli interpreti non si esprimono con l’agio che darebbe la loro lingua madre. Non è quindi un caso che l’unico che dimostri tempi perfetti sia, come già a Venezia, l’attore Guillaume Andrieux quale Hortensius, l’impareggiabile intendente della marchesa. E poi c’è il caso della duchessa di Crakentorp, personaggio che ha visto in scena vecchie glorie del melodramma o mature attrici apportare il loro tocco comico più o meno riuscito. Qui il Regio ha fatto il colpo grosso di ingaggiare una gloria locale, il trasformista Arturo Brachetti en travesti al quale si devono i momenti più spettacolari ed esilaranti della serata: prima come assatanata crocerossina con siringa in mano a caccia di maschi a cui inoculare vitamine (siamo in tempo di guerra, d’altronde) e poi surreale duchessa in vena di esibizione vocale in una canzone piemontese di fine Ottocento, Ciribiribin, portata al successo nazionale negli anni ’40 dal Trio Lescano – ma è celebre anche la versione di Frank Sinatra! Brachetti non ha rinunciato a esibire le sue incredibili doti di trasformismo cambiando nel giro di un attimo diversi abiti per il pubblico sorpreso e divertito.

Ritornando al cast vocale, Giuliana Gianfaldoni nella parte di Marie è interprete che pur corretta e spigliata nei momenti brillanti meglio rende le arie patetiche, quella del primo atto «Il faut partir!» e quella, che è un po’ un doppione e infatti viene talora tagliata, del secondo atto «Par le rang e par l’opulence», numeri affrontati con sensibilità ed espressività dal soprano tarantino che vi ha profuso legati e belle mezze voci. Nel complesso però viene a mancare lo sfrontato carattere della vivandiera e il virtuosismo non ha quella punta di acrobatica follia che ci si aspetterebbe. Anche Manuela Custer fa della marchesa di Berkenfield un ritratto votato alla sobrietà, tutt’altro che parodistico, puntando piuttosto sulla pateticità del personaggio. Così pure è per il Sulpice di Roberto de Candia, fin troppo composto e un tantino impacciato nella dizione.

Discorso a parte è quello di John Osborn, un Tonio ormai di riferimento, presente non solo nella produzione veneziana ma anche in quella al momento insuperata del Festival di Bergamo, giusto per citare le sue più recenti in Italia. Il tenore di Sioux City supera con agio lo scoglio dei famosi nove do di «Pour mon âme», immancabilmente bissati con variazioni anche qui a Torino, ma è nei momenti lirici che si apprezzano le sue doti belcantistiche, quando nella toccante «Pour me rapprocher de Marie» sfoggia mezze voci e smorzature da manuale e acuti emessi utilizzando il falsettone con gusto francese da haute-contre. Una vera lezione di canto unica nel suo genere. Un momento che da solo vale il prezzo il biglietto.

Ottima la prova del coro, che nel finale entra in scena pomposamente annunciato con nomi altisonanti che non sono altro che quelli delle medicine degli ospiti della casa di riposo in cui i registi André Barbe e Renaud Doucet hanno immaginato la vicenda: un lungo flash-back della tenera vecchietta – la nonna nonagenaria di Renaud – presente nel video durante l’ouverture e il cui viso in bianco e nero ci saluta alla fine con un velo di tristezza. Il tono nostalgico è il tratto distintivo di questa lettura registica, qui ripresa da Florence Bas, che si conferma efficace anche se una più attenta cura attoriale sarebbe stata maggiormente apprezzata al di là della simpatica cornice scenografica rappresentante, ingigantiti, gli oggetti ricordo della vecchia Marie.

Una sala con molti posti vuoti ha salutato con calore gli artefici dello spettacolo, soprattutto il tenore. Proseguono intanto gli altri appuntamenti per festeggiare i cinquant’anni del Nuovo Regio e si attende con curiosità la presentazione della nuova stagione, la prima finalmente completa e con la nuova direzione artistica dopo il tribolato periodo del commissariamento e della pandemia.

Tre “trasformazioni” della duchessa di Crakentorp di Arturo Brachetti

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L’incantatrice

Pëtr Il’ič Čajkovskij, L’incantatrice

Francoforte, Oper, 21 dicembre 2022

★★★★☆

(diretta streaming)

Asmik Grigorian, grande incantatrice

La settima opera di Čajkovskij L‘incantatrice (Чародейка, Čarodejka, anche conosciuta in passato come La maliarda) fu rappresentata il 1° novembre 1887 al Mariinskij di San Pietroburgo sul libretto di Ippolit Vasil’evič Špažinskij tratto dal suo omonimo dramma del 1884: nel gennaio del 1885 Pëtr, che aveva assistito a una sua rappresentazione al Malij, scrisse a Špažinskij chiedendogli di convertire il dramma in un libretto d’opera. Il drammaturgo accettò e i due si incontrarono quello stesso mese per discutere il progetto, ma quando il libretto fu finalmente completato ad agosto era troppo lungo e Čajkovskij dovette ridurlo radicalmente. Nonostante ciò, quest’opera rimane il lavoro più lungo da lui composto.

Atto I. Ultimo quarto del XV secolo. Sulla riva dell’Oka opposta a Nižnij Novgorod, presso la locanda di Nastas’ja. La bella ostessa Nastas’ja, detta Kuma, canta per i suoi ospiti, quando si avvicinano alla riva delle imbarcazioni: si tratta del giovane principe Jurij, che torna dalla caccia. Nastas’ja è felice perché è innamorata di Jurij, ma egli invece la rifugge e decide di non fermarsi e proseguire. Invece arriva un ospite ben più sgradito: il padre di Jurij, il terribile principe vicario Kurljatev, con il diacono Mamyrov ed il suo seguito. Nastas’ja teme disgrazie, ma il principe, affascinato dalla bellezza e dal parlare arguto della ragazza, cambia la sua ira in benevolenza. Accetta dalla mano della locandiera una tazza di vino, beve e, ubriacatosi, ordina a Mamyrov di danzare con i buffoni per rallegrare i presenti.
Atto II. Il giardino della casa del principe. La principessa, abbandonata dal marito, è addolorata. Mamyrov, in collera per l’offesa ricevuta, fa credere alla principessa che il marito è rimasto vittima dei sortilegi della maliarda Kuma. La donna, rimasta sola, medita vendetta. Arriva il vecchio principe, perso nei suoi pensieri per Nastas’ja. L’irosa conversazione che segue tra i due coniugi non fa che aggravare la situazione. Entrambi se ne vanno. Nel giardino irrompe una folla di popolani, che insegue i servitori del principe, colpevoli di aver derubato dei mercanti in pieno giorno. Compare l’odiato Mamyrov, che prende i servitori ladri sotto la sua protezione e dà ordine di legare i capi della folla. Il rumore fa uscire il principe Jurij, che rimprovera Mamyrov per la sua ingiustizia e libera i capi del popolo. Nel frattempo il vecchio principe è andato di nuovo da Kuma e la principessa si sfoga con Jurij, che promette alla madre di uccidere la strega che ha irretito il padre.
Atto III. Nell’isba di Nastas’ja, la sera. Il vecchio principe cerca di convincere Nastas’ja a diventare la sua amante, alternando lusinghe e minacce, ma lei si rifiuta ostinatamente. Giunge perfino a porgere la gola al pugnale del principe, preferendo la morte alle sue profferte. Il vecchio, fuori di sé dalla rabbia, se ne va. Entra un’amica di Kuma con una brutta notizia: il principe Jurij ha creduto alle calunnie su di lei e la cerca per ucciderla. La povera ragazza rimasta sola si dispera, poi va a dormire senza chiudere la porta. Di soppiatto entra Jurij per ucciderla, ma al vederla desiste dal suo proposito: lei apre gli occhi e si dichiara pura. Jurij le crede e se ne innamora.
Atto IV. Un fitto bosco sulle rive dell’Oka. La principessa travestita si reca dal malvagio stregone Kud’ma per farsi dare del veleno, con cui vendicarsi di Kuma. Si è appena nascosta quando arrivano Jurij e Nastas’ja. Il giovane, cacciato da casa, cerca con la sua amata la felicità in qualche posto lontano. Ma, approfittando di una breve assenza di Jurij, la principessa riesce a far bere dell’acqua avvelenata a Nastas’ja, che muore tra le braccia del suo amato. Il suo corpo, per ordine della principessa, viene gettato nel fiume. Si fa scuro e sta per scoppiare una tempesta. Giunge il vecchio principe Kurljatev, sulle tracce del figlio e dell’amata. Sospettando che il giovane abbia nascosto Kuma da qualche parte, egli in uno scatto uccide suo figlio. Tutti fuggono inorriditi. Il principe quasi pazzo rimane solo nella sua disperazione, mentre la tempesta inizia a infuriare.

‘incantatrice nel 1887 rimase in cartellone una stagione per poi passare a Mosca per una sola rappresentazione nel febbraio 1890. Ci fu una seconda produzione al Bol’šoi nel 1916, una terza nel 1958 ebbe 45 repliche fino al 1965 mentre l’ultima produzione nel teatro moscovita è stata nel 2012. Nel 1941 era stata data a Leningrado in una nuova versione col libretto di Sergej Gorodetskij. Al Theater an der Wien nel 2014 si ebbe la produzione di Christof Loy diretta da Mikhail Tatarnikov, nel 2017 venne data al San Carlo di Napoli con la regia di Pountney e nel 2019 all’Opéra de Lyon diretta da Daniele Rustioni con la regia di Andriy Zholdak. Ora è l’Opera di Francoforte a cercare di far conoscere questa che è tra le meno eseguite del compositore russo.

Nella drammaturgia di Zsolt Horpácsy Nastas’ja è una donna che ha avuto un matrimonio infelice, senza figli. Rimasta vedova si è dedicata alla pittura e vive in un variopinto ambiente bohémien. Questo lo vediamo in un video proiettato durante l’ouverture. La scenografia di Christian Schmidt mostra un’ambientazione contemporanea che evidenza il contrasto tra il suo mondo, pieno di presenze queer, e quello alto-borghese del principe Kurljatev nel cui salotto bazzicano personaggi bigotti e una cristalliera racchiude icone e trofei del figlio pugile. Il personaggio più completo è proprio quello di Nastas’ja/Kuma, qui affidato ad Asmik Grigorian che si impadronisce della parte in maniera mirabile, come solo lei sa fare con la voce e la presenza scenica. Vere gemme sono le sue due arie nel primo e nell’ultimo atto. La Grigorian riesce interpretare la scena in cui attende Juri, che la vuole uccidere, con un mix convincente di innocenza, ironia e malizia. Assoluta perfezione. Non è difficile capire come il giovane arrivato con tutte le intenzioni di far fuori la “strega” se ne innamori perdutamente. Geniali molte soluzioni del regista Vasilij Barkhatov, come quella dei quadri dipinti dalla donna che svelano il suo amore per il giovane principe, un bravo Aleksandr Mikhajlov dalla voce luminosa. Il loro duetto alla fine del terzo atto appartiene al miglior Čajkovskij, un momento di abbandono che però fa chiaramente presagire la tragedia che puntualmente si verificherà nell’atto successivo. Bellissima anche la trovata registica di farli uscire assieme alla fine della scena per poi scoprire che durante l’interludio tra i due atti Nastas’ja è invece sola nel retro delle scenografie: è stata dunque tutta una finzione per lei? Un sogno? E quando rientra in quello che era il suo loft si trova invece nel salotto del principe trasformato in un ambiente minaccioso, per poi vedere il suo funerale, come in un sogno appunto. 

I costumi di Kirsten Dephoff mostrano la loro genialità, come nel caso del diacono Mamyrov che nel quarto atto diventa lo stregone Kud’ma, con un cappello e una barba enormemente più lunghi e una mantella che è la gonna che gli era stata fatta indossare per il balletto a cui era stato costretto a partecipare e che ha innescato la sua sete di vendetta. Nella parte si distingue il basso Frederic Jost dalla efficace presenza. Meno convincente è il principe Kurljatev affidato a Iain MacNeil truccato come il compositore e altrettanto tormentato psicologicamente. Vocalmente però non sembra sempre avere l’autorevolezza necessaria. Ben definita è invece la principessa, Claudia Mahnke. Ottimi gli altri interpreti ed eccellente la prova del coro istruito da Tilman Michael.

Maiuscola la direzione di Valentin Uryupin che sorprende per la capacità di trascinare l’orchestra e a mettere in piena luce la ricchezza di una partitura come questa che alterna intense pagine sinfoniche a gloriosi momenti vocali, evidenziando così la validità di un titolo che merita degnamente il suo posto nel repertorio malgrado la sua debolezza drammaturgica e la lunghezza.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Düsseldorf, Opernhaus, 15 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Bellini in purple

Ecco uno spettacolo che non sarebbe possibile presentare in un teatro italiano. Non per la drammaturgia di Anna Melcher che rende intrigante la tenue vicenda dalle innumerevoli fonti letterarie – il vaudeville La Somnambule (1819) di Eugène Scribe e Germain Delavigne; la commedia-vaudeville La Villageoise somnambule ou Les deux fiancés (1827) di Armand d’Artois e Henri Daupin; il balletto-pantomima La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur (1827) di Scribe e Jean-Pierre Aumer – ma perché nella scenografia e in gran parte dei costumi di questa produzione della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf il tono dominante è il viola, tinta che sui nostri palcoscenici è bandita in quanto considerata in potere di portare sfortuna – e solo perché era il colore della Quaresima, periodo in cui in passato i teatri italiani dovevano rimanere chiusi.

In area tedesca tali fisime non hanno peso ed ecco quindi che il regista Johannes Erath e lo scenografo Berhardt Hammer riempiono il palcoscenico di divani e abiti viola. I costumi moderni suggeriscono una certa contemporaneità, ma particolari tirolesi come i Lederhosen confermano l’ambiente alpino. La scena è divisa orizzontalmente in due parti: in basso si svolge l’azione dell’opera vera e propria con un tavolo per il ricevimento nuziale perennemente presente in scena e attorniato da elementi imbottiti viola che fungono da divani; in alto si svolgono scene oniriche con una ballerina vestita dell’altrettanto onnipresente abito da sposa bianco e video di paesaggi invernali. Il coro svolge un ruolo centrale, perché formula le aspettative della società e si intreccia strettamente con i numeri musicali dei protagonisti: in un ambiente così chiuso come quello di un villaggio alpino sperduto tra le montagne, l’opinione degli altri esseri umani è importante e il controllo sociale asfissiante. Anche nella regia di Erath non possono mancare i doppi dei personaggi, ma qui almeno sono più accettabili e la semplice psicologia di Amina, Elvino & Co. acquista uno spessore maggiore nella lettura del 48enne regista tedesco ex violinista ed assistente di Graham Vick.

Rimpiazzo all’ultimo momento della titolare indisposta, Stacey Alleaume stupisce per l’agio con cui affronta il ruolo di Amina, dove le agilità sono importanti quanto la sensibilità, ma il soprano coloratura australiano supera pienamente la prova con acuti che raggiungono il do sopracuto e una presenza scenica efficace. Meno sorprendente la bella performance di Edgardo Rocha in una parte, quella di Elvino, che richiede una voce spinta verso il registro alto che il tenore uruguayano raggiunge con l’eleganza e lo stile che gli vengono riconosciuti da tempo. Una sorpresa invece per il Conte Rodolfo di Bogdan Taloș, basso rumeno di bel timbro, grande proiezione, rapinoso fraseggio e bella presenza scenica. Una Lisa particolarmente pungente è quella di Heidi Elisabeth Meier, precisa nelle agilità e buona attrice. Antonino Fogliani dirige l’orchestra dei Düsseldorfer Symphoniker con tempi e volumi sonori adeguati e accompagna con intelligenza i cantanti.

Uno spettacolo che meriterebbe fosse portato in Italia. Ma quel viola…

La sposa dello zar

Konstantin Makovskij, La scelta della sposa, 1887

Nikolaj Rimskij-Korsakov, La sposa dello zar

Torino, Teatro Regio, 26 marzo 2023

(esecuzione in forma di concerto)

La sposa ambita

È la solita storia del soprano e del tenore il cui amore è contrastato dal baritono, ma qui c’è un terzo pretendente in lizza: lo zar stesso, quell’Ivan IV Groznyj (il Terribile) la cui proposta non si può rifiutare.

Siamo infatti nel 1572, nella Russia dove il passatempo preferito dagli uomini è quello di rapire fanciulle: «Quando una ragazza mi piaceva, arrivavo di notte, forzavo la porta, la caricavo sulla trojka e l’affare era fatto […] quante hanno appagato il mio sangue ardente!» canta Grjaznoj nel primo numero musicale dell’opera dopo l’ouverture. Oppure si fa come lo zar, che sceglie una delle sue otto mogli radunando le belle dei villaggi. Secondo il politically correct quest’opera non si potrebbe neppure mettere in scena!

Tratta dalla tragedia omonima del 1849 di Lev Aleksandrovič Mej, è quasi un unicum nella produzione di Rimskij-Korsakov che ha sovente preferito soggetti di fiaba o del folclore russo per il suo teatro musicale. Mej gli aveva fornito anche i testi de La fanciulla di Pskov (1873) e Servilia (1901). Ma è nella forma musicale che sta la peculiarità de La sposa dello zar (1899) in cui il compositore russo adotta un modello “sorpassato” – siamo nel 1899, un anno prima in Italia c’era stata Fedora di Giordano e il 1900 di apre con le note della Tosca pucciniana – un modello che recupera le forme chiuse del melodramma del passato soppiantate dal declamato continuo delle forme aperte in cui erano state scritte le opere di Musorgskij. Quello di Rimskij-Korsakov non era però un provocatorio ritorno alle origini dell’opera russa, quella di Glinka, ma rispondeva a precisi obiettivi estetici di equilibrio tra musica e dramma: «in musica non c’è che lirismo: ci possono essere situazioni drammatiche, ma non dramma propriamente inteso» scrive in una lettera all’amico Mikhail Vrubel. L’intento è quello di ripristinare l’idealismo di una musica che trascenda l’azione. Ed ecco quindi il frequente utilizzo dei pezzi d’insieme, duetti, trii, quartetti, concertati, inconcepibili per Musorgskij come per Wagner. Ciononostante La sposa dello zar è opera moderna perché astrae in pura invenzione sonora le violenti emozioni della vicenda con grande distacco da parte del compositore. È la malinconia il sentimento che pervade i personaggi: quella di Grjaznoj per i «giorni sfrenati»; di Lykov per i paesi dove «la gente, la natura, tutto è diverso»; di Marfa per l’infanzia quando conobbe il suo Vanja; di Ljubaša per l’amore perduto di Grigorij. Sono momenti in cui evidente è l’influsso di Čajkovskij nella melodia nostalgica ma soprattutto nella strumentazione. Quasi un Leitmotiv è il tema «Slava» (Gloria), l’inno dello zar enunciato la prima volta dopo il brindisi, che ritorna ogni volta che si faccia riferimento alla figura dello zar, talora in modo ossessivo, sinistro, minaccioso.

Bene ha fatto il Regio di Torino a scegliere di far conoscere questo titolo anche se solo in forma di concerto. Le esigenze di bilancio per una volta sono un motivo positivo per godere, senza le “distrazioni” della messa in scena, di una musica di eccezionale qualità messa magistralmente in luce dalla concertazione appassionata del trentasettenne direttore ed ex clarinettista Valentin Uryupin, ucraino di origine (è nato a Lozova quando esisteva ancora l’Unione Sovietica) ma russo di formazione e cittadinanza, vincitore nel 2017 del prestigioso Sir Georg Solti International Conductor’s Competition di Francoforte, e allievo di Gennadij Roždestvenskij. La leggendaria cura strumentale del compositore è messa in luce dalla cura orchestrale del giovane direttore che rivela una formidabile capacità nell’incalzare e portare al massimo livello qualitativo la compagine del teatro. Anche il coro, istruito da Andrea Secchi, nei numerosi momenti richiesti dall’opera dimostra compattezza e precisione, magari non sempre impeccabile si dimostra la dizione – si è sentita la mancanza di un coach di eccezione come il precedente sovrintendente Sebastian Schwarz – ma i numerosi interventi corali, alcuni polifonici, mai facili comunque, hanno una felice esecuzione.

A suo agio nella lingua, invece, il cast vocale, multiforme ma proveniente quasi tutto da quella grande regione una volta unita: ecco quindi dei russi, un azerbaijano, una bielorussa, un ucraino, a dimostrazione che la musica unisce, non divide. Due i personaggi più complessi della vicenda e tutti e due hanno interpreti che si sono particolarmente distinti. Il baritono Grigorij Grjaznoj ha la voce di Elchin Azizov dal bellissimo timbro, notevole proiezione, gamma estesa e omogenea, grande intensità espressiva. Fin dal suo intervento con cui si apre il lavoro, un recitativo e aria di solida costruzione, si è capito che ci si trovava davanti a un cantante di eccellenza e il resto dell’opera ha confermato la prima impressione. Appartiene alla scuola del Regio Ensemble ma dimostra già grande maturità il mezzosoprano Ksenia Chubunova, una intensa Ljubaša dalla calda voce che ha stregato il pubblico con la sua canzone del primo atto cantata a voce nuda nel silenzio degli strumenti. Ha poi dimostrato temperamento e una intensa interpretazione nel successivo duetto con l’infedele Grjaznoj e poi nei suoi affannosi interventi del quarto atto quando confessa le sue colpe.

Il soprano Nadine Koutcher è Marfa, l’infelice sposa ambita da tre uomini. I momenti solistici per il suo personaggio sono l’aria del secondo atto «A Novgorod vivevamo vicini» e quella dell’ultimo atto, una vera e propria aria di pazzia in cui il dolore fa scambiare Grjaznoj per l’amato Lukov. In entrambe la cantante bielorussa dimostra sensibilità e una impeccabile linea vocale. Il personaggio di Lykov non ha una grande personalità drammaturgica, ma ha a disposizione due momenti di grande liricità: l’arioso del primo atto in cui racconta dei suoi viaggi nell'”esotico” Occidente e l’aria nel terzo atto, «Le nubi tempestose sono sparite», in cui pensa sia scampato il pericolo che la sua Marfa sia vittima delle voglie dello zar. E invece… Il tenore Sergej Radčenko personalità ne ha, il timbro è particolare ma gradevole, e qualche piccolo sbandamento di intonazione non inficia la sua performance. Il tenore Thomas Cilluffo, anche lui del Regio Ensemble e presenza frequente della stagione, delinea correttamente Bomelij, magari un pizzico di idiomaticità in più non sarebbe guastato per un personaggio che anticipa con la sua tessitura acuta il futuro Astrologo del Gallo d’oro. Gloria dell’opera russa di oggi e di ieri è il basso Gennadij Bezzubenkov, un Sobakin irresistibile che scatena l’entusiasmo del pubblico torinese accorso in buon numero ad ascoltare questa interessante proposta e che festeggia con caldi e prolungati applausi tutti gli artisti coinvolti.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

Milano, Teatro alla Scala, 13 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Lisette Oropesa infiamma il pubblico della Scala

Con le trasmissioni video l’opera ha aggiunto la dimensione visiva a quella solo acustica dei dischi, in vinile o CD, a cui è stato confinato per parecchi decenni chi non poteva frequentare i teatri d’opera. Esserci di persona è un’altra cosa, è lapalissiano, ma è comunque già molto poter vedere lo spettacolo sullo schermo. Se poi si dispone di un impianto di riproduzione audio di alto livello la fruizione si avvicina abbastanza alla realtà.

Ahimè, non è il mio caso: il mio apparecchio televisivo denuncia i suoi anni e finché non passo a qualcosa di più sofisticato mi devo accontentare e adattare il mio udito al segnale sonoro che ricevo. Ecco quindi che per quanto riguarda l’ultima trasmissione televisiva offerta dal Teatro alla Scala, la Lucia di Lammermoor che doveva inaugurare la stagione lirica 2020-21 annullata per Covid, le impressioni devono fare i conti con le limitatezze del mezzo: equilibri e volumi sonori non sono quelli che avrei potuto ascoltare dal vivo e i miei altoparlanti evidenziano difetti che probabilmente in realtà non ci sono o al contrario smussano asperità che il pubblico in sala ha invece percepito. Tutto questo per mettere le mani avanti rispetto alla mia impressione sull’esecuzione musicale che mi è entrata in casa.

Meglio va per l’elemento visivo, anche se la regia televisiva talora migliora quello che si è visto dal vero, talora lo peggiora oppure ne fornisce una prospettiva diversa. Tre aspetti sono risultati comunque ben chiari in questa ultima Lucia alla Scala: l’apprezzamento del pubblico per la direzione musicale, il trionfo di almeno due degli interpreti vocali, i dissensi per la messa in scena.

Riccardo Chailly restituisce Lucia «alla purezza e all’identità donizettiana» con il ripristino di 33 battute e delle parti che troppo spesso vengono tagliate, soprattutto per quella di Raimondo che riacquista qui il suo giusto peso drammaturgico. Il Maestro si basa sulla edizione critica di Gabriele Dotto e Roger Parker della partitura utilizzata il 26 settembre 1835 al Teatro di San Carlo di Napoli e pone molta «attenzione alla continuità, cioè al filo armonico e drammatico» che lega le azioni dei personaggi, eseguendo senza interruzione le prime due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale I” prima dell’intervallo cui segue “Il contratto nuziale II”. Oltre all’utilizzo della glasharmonika per la scena della pazzia viene anche eliminata la cadenza del soprano col flauto, composta nel 1889 per Nellie Melba dalla sua maestra di canto, che quindi di Donizetti non ha nulla. 

Fin qui le intenzioni. Per quanto riguarda i risultati della sua lettura della partitura e la sua concertazione, la direzione di Chailly si è fatta ammirare per la incalzante continuità narrativa della fosca vicenda, la varietà delle dinamiche e dei colori, ma nello stesso tempo la cura per i dettagli strumentali. L’orchestra accompagna con partecipazione il duetto d’amore prima, l’inquietudine di Lucia poi, la convulsa scena del contratto di nozze, la tensione del grande concertato del secondo atto. L’atmosfera diventa violenta nella scena della torre dove la furia degli elementi sottolinea quella dei due uomini che si fronteggiano. Non è solo la glasharmonika a dare il tono spettrale alla pazzia di Lucia: i pizzicati degli archi, le volatine del flauto, le lunghe note di oboe e clarinetto, tutto converge a dipingere efficacemente la desolazione della donna e la sua conseguente follia omicida.

Autentiche ovazioni accolgono la performance di Lisette Oropesa. Un risultato sorprendente in un teatro che ha visto nel passato le ingombranti presenze di Maria Callas (1954), Joan Sutherland (1961), Renata Scotto (1967), Beverly Sills (1970), Luciana Serra (1983), Mariella Devia (1992) o June Anderson (1997). Elvio Giudici nel programma di sala analizza il ruolo che a Napoli e a Parigi fu della Fanny Tacchinardi Persiani per poi arrivare alle incisioni con la Pagliughi e Lily Pons, fino alle recenti Rancatore e Netrebko. Ora si inserisce a sorpresa quello appunto del soprano americano di cui si ammirano soprattutto la duttilità vocale e la presenza scenica. Vera interprete belcantista, non gioca solo magistralmente con piani e pianissimi, agilità fluide e leggere, acuti luminosissimi, ma riesce a delineare un personaggio drammaticamente consistente che da subito fa presagire l’instabilità mentale che la porterà alle estreme conseguenze dell’uxoricidio. Sentimenti quali il languore amoroso nei duetti con Edgardo o l’angoscia poi disperata, sono vissuti con grande sensibilità e forse un eccesso di vibrato dalla cantante che però ha dalla sua una bella freschezza vocale.

Secondo per intensità di applausi è il Raimondo di Michele Pertusi, personaggio che come già detto ha riacquistato la sua dimensione drammaturgica dando la possibilità al basso parmense di esibire le sue intatte doti vocali e interpretative sostenute da un’emissione potente ma morbida, da un fraseggio impeccabile, da un’espressione chiara e solenne tale da suscitare empatia verso un personaggio che ha invece i suoi lati ambigui. 

Sempre sul programma di sala Alberto Mattioli discetta del ruolo maschile dell’opera, l’Edgardo creato a Napoli da quel Gilbert-Louis Duprez che quattro anni prima aveva partecipato con scalpore alla inaugurazione a Lucca della prima italiana del Guillaume Tell rossiniano ma che diventerà il tenore preferito da Donizetti, il quale scriverà per lui ben sei opere – oltre alla Lucia, Parisina, Rosmonda d’Inghilterra, Les Martyrs, La favorite e Dom Sébastien. Qui alla Scala Chailly ha voluto Juan Diego Flórez che sconfina un poco in un repertorio non del tutto suo apportandovi però la sua classe. Nella ripresa televisiva non si nota la relativa mancanza di volume che qualcuno ha lamentato dal vivo, anzi. Unica pecca nella sua interpretazione è una presenza scenica poco efficace con una certa gesticolazione di maniera e un’espressività facciale poco fotogenica. Neanche Boris Pinkhasovič è un esempio di grande attorialità, vocalmente però è potente, elegante e il suo Enrico non ricorre a emissioni sforzate per sottolineare la crudeltà del personaggio. Efficace il coro e convincenti gli interpreti dei ruoli minori: Giorgio Misseri (Normanno), Leonardo Cortellazzi (Arturo) e Valentina Plužnikova (Alisa).

Sonori buu hanno salutato l’ingresso del regista Yannis Kokkos ai saluti finali: non è chiaro se perché la sua regia è stata considerata troppo tradizionalista o, all’opposto, perché ha scelto costumi moderni. In effetti gli abiti anni ’20 dei personaggi erano l’unico elemento imprevedibile di una messa in scena che poteva tranquillamente risalire a  cinquant’anni fa. La scenografia è scura e si avvale di pochi elementi didascalici come le statue di levrieri e cervi per la scena della caccia, di una donna velata come il Cristo della cappella Sansevero di Napoli per quella della fontana della Sirena, della Morte con la falce per il cimitero. Elementi scenici obliqui ricordano sia la produzione di Pier’ Alli del 1992 sia la recente Aida di Livermore mentre sulla scalinata ingombra degli invitati alla festa appare la figura di Lucia nella solita veste bianca macchiata, qui con moderazione, di sangue. Quasi totale la mancanza di regia attoriale e se ne esce comunque vincente la Oropesa, Flórez e Pinkhasovič ne risentono. Precisi ma prevedibili i movimenti del coro.

Nulla di particolarmente originale nella lettura di Kokkos dunque, ma neanche di fastidioso o fuorviante. Dalla Scala ci si aspetterebbe però qualcosa di più. Semplicemente quello che si può vedere appena al di là dei confini, come ad esempio la Lucia del Teatro Real di Madrid.

Aida

Giuseppe Verdi, Aida

Roma, Teatro dell’Opera, 31 gennaio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Quasi Cabiria, l’Aida di Livermore a Roma

Il primo numero di “Calibano”, la nuova rivista del Teatro dell’Opera di Roma, è dedicata al tema del black face, complice la programmazione dell’Aida, opera che, soprattutto nei paesi anglosassoni, ha sollevato la questione della rappresentazione di personaggi di colore. Si rimanda dunque a quella pubblicazione un’interessante disanima del problema.

Nella produzione scelta dal direttore artistico Alessio Vlad – che vede la regia e i movimenti coreografici di Davide Livermore, l’impianto scenografico di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro e i video della D-WOK – il problema è dribblato: Aida e Amonasro non hanno la faccia nera che ci si aspetterebbe da degli etiopi, anzi: come artisti del cinema muto il viso è coperto di biacca e i costumi solo in parte differenziano le etnie. La questione razziale non sembra l’elemento essenziale della lettura del regista torinese, il quale punta a una drammaturgia che esalta gli aspetti intimistici della vicenda, più che quelli spettacolari. Non che questi manchino, ma non vengono affidati a moltitudini di comparse e a cavalli nella scena del trionfo, ma a una videografica, risolta questa volta con sobrietà, di immagini proiettate sulla superficie di un parallelepipedo, messo di sbieco per accentuarne la tridimensionalità. Ecco dunque fiamme, geroglifici dorati, figure fantasmatiche, paesaggi, turbini di sabbia prendere corpo grazie alle diavolerie digitali della D-WOK. Livermore si libera del bric-à-brac di tradizione, ma costruisce uno spettacolo a suo modo tradizionale, sia nell’impianto scenico formato, oltre che dal suddetto monolito, da pareti oblique scorrevoli, sia nella recitazione da cinema muto, appunto. Il bianco e nero dominante nei costumi che rimandano, con minore eccesso, a quelli del Ciro in Babilonia, è ravvivato solo dall’oro, il resto lo fa il gioco delle luci e la grafica. Il regista risolve in maniera originale i momenti coreografici, spesso stucchevoli: qui i movimenti quasi da break-dance sono affidati alle giovani del corpo di ballo del teatro. 

Nella lettura di Livermore al centro di tutto c’è la storia d’amore ostacolata dalla guerra più che dalla gelosia della figlia del Faraone, con un finale diverso dal solito: Radames, solo nella tomba sigillata dall’esterno, ha una visione di Aida che lo accompagna in un mondo di luce. L’amore alla fine vince su tutto. Le note con cui Verdi conclude la sua opera in fondo possono essere anche intese con questa speranza. Sublime ambiguità della musica.

Musica perfettamente eseguita da Michele Mariotti alla guida dell’orchestra del teatro: alcuni momenti strumentali suonano quasi inediti e non c’è dettaglio della partitura che non venga esattamente analizzato e realizzato con un uso sapiente dei colori e una grande varietà dinamica. Una musica che dimostra così tutta la sua modernità impressionistica.

Grandi personaggi si sono dimostrati gli interpreti principali, anche se hanno superato il culmine della loro carriera: Krassimira Stoyanova non ha più la limpidezza di un tempo, ma ha guadagnato in espressività e intensità nel delineare la sua Aida. Il Radames di Gregory Kunde mostra ancor di più l’usura di un mezzo vocale fino a qualche anno fa miracolosamente intatto. Ora i suoni sono meno stabili, ma gli acuti sono sempre luminosi. Non realizza in pianissimo come prescritto il si bemolle finale di «Celeste Aida» ma riesce a modularne sapientemente il volume e il passato belcantistico rende la sua performance non eroica ma elegante e convincente.  Non freschissima neppure la voce di Ekaterina Semenčuk, ma la sua Amneris si distingue per la bellezza del fraseggio e le intenzioni interpretative che non esagerano mai. Efficace anche l’Amonasro di Vladimir Stoyanov nonostante un timbro un po’ opacizzato mentre non memorabile ma sostanzialmente corretto il Ramfis di Riccardo Zanellato. Più autorevole e solido il Re di Giorgi Manoshvili mentre Veronica Marini è una bella Sacerdotessa e Carlo Bosi il solito comprimario di lusso che incide il suo bel cammeo come Messaggero. Ottimo il coro del teatro istruito da Ciro Visco.

 

Les contes d’Hoffmann

 

   

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?

Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.

La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.

La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile. 

A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Docteur Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.

Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.

 

 

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

Parigi, Opéra Comique, 1 ottobre 2021

★★★☆☆

(video streaming)

Fidelio a Guantanamo

«Sprecht leise, haltet euch zurück, | wir sind belauscht mit Ohr und Blick!» (Parlate piano, frenatevi, orecchi e sguardi ci spiano!) cantano i prigionieri a cui è stata concessa una boccata d’aria. Infatti sul palcoscenico dell’Opéra Comique una parete di monitor permette di controllare i detenuti di una prigione di oggi, potrebbe essere il famigerato carcere di Guantanamo. La tecnologia è cambiata, ma è sempre la stessa la violenza e sono gli stessi i soprusi, con i detenuti privati dei loro averi personali che finiscono in parte nelle tasche dell’avido carceriere Rocco, che d’altronde aveva intonato poco prima la sua prosaica lode al denaro: «Hat man nicht auch Gold beineben, | kann man nicht ganz glücklich sein» (Se non hai dell’oro appresso, non puoi esser davvero felice) ai due giovani innamorati Jaquino e Marzelline, in realtà la ragazza è innamorata di una terza persona…

Siamo infatti nel Fidelio, in una produzione che vede Cyril Teste alla messa in scena dell’unica opera di Beethoven. Come era già avvenuto nel suo precedente spettacolo qui alla Salle Favart, l’Hamlet di Thomas, l’artista di Carpentras, che è passato dalle arti visive alla regia lirica, fa dell’aspetto visuale l’elemento centrale della sua lettura con un operatore di steady cam in scena che tallona i personaggi rubando loro dettagli facciali espressivi che vengono proiettati ingigantiti sugli schermi. Cosa già vista molte volte e che qui ha un’invadenza ancora maggiore del solito che la ripresa televisiva mitiga, ma che dal vivo doveva essere ancora più fastidiosa. Il dominio delle immagini è totale: quando Leonore minaccia Don Pizzarro, non lo fa con un revolver, bensì con una macchina da ripresa!

Le scene di Valérie Grall e i costumi di Marie L. Rocca sono coerenti con la visione del regista che dà un taglio contemporaneo alla vicenda pur con una drammaturgia che rimane fedele alla vicenda: invece di carceri tenebrose dai muri grondanti umidità, qui abbiamo un ambiente asettico con lucide sbarre d’acciaio, tute arancioni per i prigionieri e la morte di Florestan è prevista con un’iniezione letale. Accurato è l’uso delle masse corali così come il movimento dei personaggi, ma poco plausibili sono i bambini che entrano incarcere durante il coro dei detenuti, più accettabile la riunione delle famiglie alla fine. Le regia non incappa in errori grossolani, ma neanche si evidenzia per particolare originalità: già altrove il grido di libertà di Florestan è stato considerato buono per qualunque epoca.

Alla testa della sua orchestra Pygmalion, dal suono piuttosto asciutto, Raphaël Pichon dirige un Beethoven settecentesco, senza fremiti romantici, e con un baldanzoso ritmo da Singspiel, ma tiene conto del tipo di voci in scena: i due protagonisti infatti sono cantanti che hanno sempre frequentato ruoli più lirici che drammatici. È il caso dell’australiana Siobhan Stagg, soprano lirico di coloratura, apprezzata Pamina nel Flauto magico di McVicar a Londra, che qui delinea una Leonore non di grande volume sonoro e con in fondo una certa freddezza che non rende particolarmente intenso il suo rapporto col marito Florestan, un Michael Spyres sorprendente per doti drammatiche. Bellissimo il suo spettacolare «Gott!» in crescendo che nasce da un silenzio angoscioso fino a toccare un insostenibile livello di tragicità, pur sempre composta, seguito da un silenzio che agghiaccia il sangue. La bellezza della linea di canto, la luminosità degli acuti, l’intelligenza dell’interprete si fanno ammirare in ogni momento, anche quando ci si aspetterebbe una voce ancora più voluminosa come nel finale della stessa scena con quell’affannoso rincorrersi e accavallarsi delle frasi con cui il pover’uomo ha la visione della sposa che lo salverà anche se solo per accompagnarlo in paradiso. La sua è un’interpretazione che ha preso il cuore e si è impressa nella memoria.

La Marzelline di Mari Eriksmoen e lo Jaquino di Linard Vrielink sono entrambi lodevoli mentre come Rocco troviamo un Albert Dohmen pienamente autorevole. Giustamente perfido ma vocalmente non così minaccioso il Don Pizarro di Gábor Bretz, un’oasi di affabilità il Don Fernando di Christian Immler. Impeccabile il coro Pygmalion.

   

La traviata

  

Giuseppe Verdi, La traviata

Parigi, Opéra Garnier, 28 settembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

A Parigi una Traviata 2.0

Assieme a Stiffelio, La traviata è l’unica altra opera in cui Verdi mette in scena la sua contemporaneità. Per questo entrambi i lavori ebbero grandi problemi con la censura: la società borghese del tempo non amava vedersi raffigurata nei suoi vizi e nelle sue ipocrisie, preferiva rispecchiarsi in vicende storiche del passato sublimate dal tempo e dalla distanza. Il romanzo di Dumas, La Dame aux camélias, era stato pubblicato da neanche cinque anni e l’adattamento teatrale era uscito  un anno prima: per ricreare l’impatto che quel lavoro aveva avuto sui contemporanei di Verdi, ora a distanza di 170 anni i registi rendono attuale l’ambientazione per il pubblico di oggi e sempre meno infatti si vedono Violette in crinoline ottocentesche o in stile Belle Époque, meno che mai in costumi settecenteschi, come aveva dovuto fare Verdi per aggirare la censura in alcune città degli stati che formavano l’Italia di allora.

Ecco quindi che al Palais Garnier Simon Stone adatta la vicenda ai nostri tempi: Violetta è una star dei social con milioni di follower; ha una sua linea di cosmetici; come VIP salta le file per entrare nei locali alla moda ma proprio per la vita troppo indipendente della donna il principe saudita che doveva sposare la sorella di Alfredo «si ricusa al vincolo» – e questo è l’elemento meno convincente della drammaturgia, mentre passa invece il fatto che non sia la tisi a minare la salute della giovane bensì una recidiva tumorale. Tutto questo lo veniamo a sapere fin dal preludio dai messaggi che scorrono sugli schermi a led che tappezzano le facce di un parallelepipedo rotante che si mostra cavo per il locale trendy, per la Place des Pyramides o per la stanza dell’ospedale oncologico in cui viene ricoverata Violetta. Le scene sono firmate da Bob Cousins e l’interessante gioco luci si deve a James Farncombe. Questa dicotomia tra realtà virtuale e reale è l’elemento più intrigante della messa in scena di Stone, che poi indugia in «scene che potrebbero urtare la sensibilità dei più giovani o dei non informati», come si legge su un avviso dell’Opéra National che mette in guardia il pubblico dalle esplicite immagini al neon che decorano la festa da Flora, praticamente un’orgia in costume, e dei goliardici costumi dei partecipanti, ideati da Alice Babidge, con falli di gomma ben in mostra ma nei posti sbagliati.

Per sottolineare il cambiamento d’atmosfera tra l’ambiente urbano e quello rurale del secondo atto, nella produzione di Černjakov alla Scala Alfredo affettava le zucchine, qui invece spinge una carriola piena digrappoli d’uva che poi pigia coi piedi per il vino fatto in casa, mentre per il latte c’è una placida vacca che Violetta sta mungendo – ma che diventerà un trattore nelle riprese dello spettacolo a Monaco di Baviera – e c’è pure una piccola chiesetta per ricordare alla giovane che «dal ciel non furono tai nodi benedetti». Angosciante il terzo atto nel reparto trasfusioni di un ospedale, dove ogni paziente è accompagnato da qualcuno, Violetta invece è sola, si stacca la flebo e delirando rivive il passato: la fila per entrare nel locale trendy, il retro della discoteca con i bidoni di immondizia, la piazza con la statua dorata, le immagini sul cellulare del felice passato. Poi la vediamo coricata nel lettino di ospedale in uno spazio vuoto e abbagliante di bianco, ma non muore nel lettino: si avvia verso un’apertura e sparisce nella nebbiolina. Un finale poco convincente.

Quella che invece risulta del tutto convincente è la direzione di Michele Mariotti, dai lividi accordi del preludio del primo atto a quello straziante del terzo, dagli angosciosi colpi dei timpani di «Amami Alfredo» alle ruvide e desolate strappate degli archi di «Addio del passato». Mariotti presta grande attenzione alle voci e al loro equilibrio sonoro con la fossa orchestrale. Riapre poi i tagli di tradizione così che la sua Traviata risulta integrale salvo alcuni da capo nelle cabalette dei due uomini.

Trionfo personale per la Violetta di Pretty Yende che esordisce nella parte, a suo agio nelle agilità e nei virtuosismi del primo atto come nella tragica intensità del terzo quando è finalmente e totalmente nella pelle della protagonista, mentre fino a quel momento c’era una certa freddezza. Non sembra scoccare invece la stintilla tra i due protagonisti, più convincenti da soli che in duo. Benjamin Bernheim ha voce ampia e ben sfumata, la recitazione non è un gran che ma così delinea un Alfredo un po’ impacciato e superficiale, come in realtà è il personaggio. Jean‑François Lapointe è un Germont padre non particolarmente convincente ma gioca in casa e il pubblico è in delirio per lui. Julien Dran (Gaston) e Thomas Dear (Dottor Grenvil) sono quelli che si fanno più notare nella folta schiera di comprimari. Preciso e scenicamente sciolto il coro del teatro diretto da José Luis Basso.

 

Il barbiere di Siviglia

   

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

Torino, Teatro Regio, 24 gennaio 2023

★★★☆☆

Un Barbiere di facile presa sul pubblico inaugura la semi-stagione torinese

Non è vero che non ci sono più le mezze stagioni: c’è quella del Regio di Torino, ad esempio, che inizia a gennaio e terminerà in estate. Dopo commissariamento, pandemia e cambi al vertice della soprintendenza e della direzione artitstica, solo dal prossimo autunno si potrà parlare di una stagione regolare per il nostro sfortunato teatro.

Il titolo scelto per l’inaugurazione di questa semi-stagione gode di enorme popolarità ed è tra i dieci più presenti nei cartelloni dei teatri lirici negli ultimi anni. Solo in questo mese infatti in giro per il mondo si possono vedere ben 14 diverse produzioni de Il barbiere di Siviglia: Austria (Vienna), Bulgaria (Plovdiv), Germania (Berlino, Eisenach), Polonia (Poznań, Varsavia), Repubblica Ceca (Praga, Brno), Russia (Kazan’, Mosca) e anche Ucraina (Odessa), oltre ovviamente all’Italia (Bari, Torino).

I motivi per riproporre per l’ennesima volta un titolo così inflazionato dovrebbero essere l’originalità se non la eccezionalità dell’allestimento o l’eccellenza degli interpreti, ma nessuno dei due elementi sembra ritrovarsi nello spettacolo ora in scena, una coproduzione dell’Opéra Nationale du Rhin (Mulhouse, Strasbourg) e dell’Opéra di Rouen–Normandie risalente al 2018.

Del regista Pierre-Emmanuel Rousseau si ricorda un Hänsel und Gretel suburbano e da incubo horror di due anni fa, sempre a Strasburgo. Ora il suo Barbiere ha le vesti più rassicuranti di un’ambientazione realistica nella Spagna ottocentesca dove la «forza» ha le uniformi della Guardia Civil e don Bartolo è un ricco borghese con servitori in polpe. L’ambiente unico, una grande stanza con cancelli, porte, finestre e balconi, serve sia come «piazza nella città di Siviglia» sia come «camera nella casa di don Bartolo». Le pareti sono rivestite di maioliche azzurre in basso, la parte alta è in rosso pompeiano. La stanza ha nel mezzo un impluvium, una vasca che raccoglie la pioggia proveniente da un foro circolare nel soffitto, non esattamente il caratteristico patio delle case dell’Andalusia, ma comunque piacevole da vedere e tale da permettere ai protagonisti di sguazzare con i piedi nell’acqua. Costumi e scenografie sono dello stesso Rousseau mentre le luci soffuse di Gilles Gentner diventano espressionistiche al momento dell’aria di don Basilio o del temporale quando si tingono di verde.

L’impianto registico tradizionale spinge verso una caratterizzazione dei personaggi più vicina al testo di Beaumarchais che al libretto di Sterbini: Figaro ad esempio è uno scapestrato donnaiolo che scappa a piedi nudi e in canottiera da una donna con cui ha passato la notte; quando si veste indossa una casacca da Arlecchino e si porta dietro una sacca con i suoi strumenti di lavoro nella quale all’occorrenza nasconde l’argenteria trafugata a don Bartolo – non solo è particolarmente sensibile «all’idea di quel metallo», ma anche ladruncolo se c’è l’occasione. L’avidità dell’oro è un elemento che, ben presente nel testo, è messo in ulteriore evidenza da Rousseau, il quale riempie la sua lettura registica con molte trovate, alcune argute, come quella della processione iniziale da cui si staccano i musicisti della serenata di Lindoro, altre gratuite e senza sbocco, come quando trasforma Rosina in Tosca e don Bartolo in Scarpia. La partenza in mongolfiera degli sposi nel finale è invece un’idea copiata tale e quale dalla produzione madrilena di Emilio Sagi del 2005. Le tante trovatine non sempre originali o di buon gusto trasformano la vicenda in uno spettacolo che incontra comunque i gusti del pubblico che abbocca alle gag, alle mossette di danza sul ritmo della musica, ai “trenini” dei personaggi e alla loro ipercinetica attività.

Nonostante un impianto chiuso su tre lati e in alto, la scena mette in evidenza l’acustica non felice del teatro: mentre il suono dell’orchestra arriva forte e chiaro alla mia sedicesima fila, le voci che non hanno una particolare proiezione si perdono quando il cantante non è in proscenio e nei concertati. È quello che succede col Figaro di John Chest, baritono americano di efficace presenza scenica ma la cui voce, dopo un piccolo incidente, sembra arrivare da dietro le quinte. Lo stesso avviene per la Rosina, qui mezzosoprano, di Josè Maria Lo Monaco, apprezzata interprete dalle precise agilità, dall’elegante fraseggio e dal bel timbro, ma la cui personalità vocale non svetta come dovrebbe. Tempi duri invece per i tenori di questa produzione colpiti dai mali di stagione: ne erano previsti due ma è stato necessario arruolarne un terzo, che però neanche lui si è rivelato in perfetta forma. Antonino Siragusa ha proiezione per farsi sentire con il suo timbro penetrante, ma gli acuti sono un po’ sforzati e i passaggi talora poco puliti, tanto che l’aria finale viene saggiamente saltata. Non manca di proiezione neppure la voce di don Basilio, ma Guido Loconsolo non è sufficientemente espressivo nonostante il regista lo presenti parodisticamente come una specie di Rasputin. Sbiadita infine la performance di Leonardo Galeazzi, un don Bartolo vocalmente poco convincente. Rocco Lia (Fiorello) e Irina Bogdanova (una rancorosa Berta che sputa nella minestra di Rosina e le strappa i capelli con la spazzola) completano il cast.

Diego Fasolis affronta la concertazione di questa partitura con la sua immensa competenza del repertorio sei-settecentesco e il Rossini che viene fuori dalla buca orchestrale è precisamente scandito nei tempi e nelle agogiche. I crescendi magari non sono trascinanti e il «caos organizzato» rilevato da Stendhal qui è soprattutto organizzato, tanto che a qualcuno del pubblico è piaciuta poco la sua direzione che però si rivela la più vicina possibile all’originale e si fa apprezzare per leggerezza e trasparenza. Orchestra e coro del teatro hanno fornito ottima prova.

Come s’è detto la maggior parte del pubblico ha reagito con calore, ma sembra che all’anteprima per gli under 30 l’entusiasmo sia stato incontenibile. È anche partita Regio Opera Pop, un’iniziativa per coinvolgere i giovani: il teatro quella sera è stato aperto a partire dalle 19 per un aperitivo e per un breve spettacolo a cura di Casa Fools, una compagnia teatrale torinese che ha inventato un podcast di successo per dare al pubblico giovanile le chiavi di lettura dello spettacolo a cui stavano per assistere. Ma non è finita lì: al termine, The Goodness Factory nel foyer ha inscenato Contrasti, il primo di cinque happening musicale in cui si mettono in relazione tra loro differenti generi musicali. Lodevole iniziativa per assicurare all’opera il pubblico di domani.