Beatrice di Tenda

   

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Parigi, Opéra Bastille, 15 febbraio 2024

★★★☆☆

(video streaming)

Dittature, torture e belcanto

False accuse, ingiusta reclusione, torture e infine morte: no, non parliamo di  Aleksej Naval’nyj la cui notizia della morte nel carcere siberiano è arrivata poche ore fa, ma di una vicenda del XV secolo in cui una donna ha subito la stessa sorte per mano di un tiranno, il marito in questo caso, nel penultimo lavoro di Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda.

Così Felice Romani, il librettista, presenta la vicenda che ebbe luogo nel castello di Binasco nel 1418: «Beatrice de’ Lascari, contessa di Tenda, vedova di Facino Cane, già tutore de’ figli di Giovanni Galeazzo Visconti primo duca di Milano, persuasa, o da ambizione o da amore che fosse, sposossi a Filippo Maria, il quale degli stati paterni non conservava che una tenue porzione; e a lui recò in dote, non solo il retaggio de’ suoi antenati, ma tutte le città e castella di cui Facino si era fatto signore. Cotal maritaggio pose le fondamenta della grandezza di Filippo, il quale regnò solo su tutta la Lombardia ed una parte del Piemonte; ma riuscì funesto a Beatrice». Un marito ingrato del fatto che la moglie gli abbia apportato fortune e potere, se ne vuole liberare per amore di un’altra, e lo fa nel modo più facile, accusandola di adulterio e tradimento. Una vicenda simile a quella dell’Anna Bolena che Donizetti aveva portato in scena due anni prima – e con la stessa cantante: Giuditta Pasta.

La produzione parigina, la prima del dramma di Bellini in tempi moderni, è sorprendentemente affidata a Peter Sellars alla sua prima regia in questo repertorio: fino ad oggi non ha mai affrontato l’opera italiana, che dichiara comunque di amare. Il regista legge la vicenda come un’accusa ai regimi dispotici di ieri e soprattutto di oggi: l’ambientazione è contemporanea con computer, cellulari e fucili kalashnikov. La scenografia di George Tsypin ricrea una corte rinascimentale tramite lamiere di metallo con cui riprodurre il labirinto e la topiaria di un giardino che della natura non ha che il colore verde e il fogliame nei trafori. La facciata del castello con particolari corinzi è anch’essa perforata, come per dire che i muri qui hanno orecchie e occhi. Durante il preludio vediamo infatti un tecnico installare una telecamera di sorveglianza, quella per spiare i movimenti di Beatrice e Orombello. I costumi di Camille Assaf non si distinguono per particolare originalità: il solito doppio petto per il tiranno, pelle nera per gli scagnozzi, il coro maschile in completi neri, quello femminile in sottoveste. Di James F. Ingall sono le luci plumbee che virano al rosso sangue per sottolineare la brutalità della tirannia di Filippo Maria Visconti durante il processo. Una regia ben lontana da quello che ci si aspettava e che, malgrado alcuni tocchi personali, è risultata deludente. Non tanto per la lettura forzatamente contemporanea, quanto per la non convincente realizzazione.

La tensione drammatica del lavoro di Bellini non è certo tra le più convincenti e la direzione di Mark Wigglesworth non fa molto per rendere più coinvolgente la vicenda: i tempi wagneriani fanno perdere coesione all’azione e lo smalto della partitura perde un po’ della sua lucentezza risultando tutto grigiastro. Sui tagli sembra  sia da attribuire a Sellars  la scelta di eliminare non solo intere scene – ben tre nel primo atto – ma anche singole battute: nella scena quinta del secondo atto «Io più non tremo. | Sol ch’io mora perdonato» sono omesse rendendo incomprensibile il seguente «da quest’angelo d’amor!». Eliminati anche tutti gli interventi del coro e di Anichino nelle scene finali. Sembra che né il regista né il direttore abbiano fiducia o abbiano compreso la particolare drammaturgia di Bellini e del  teatro del primo Ottocento italiano, con le sue riprese (qui talora tagliate), i versi ripetuti, le cabalette e un passo che non segue la verità scenica ma ha un suo peculiare andamento puramente musicale.

Anche la scelta dei due interpreti principali, peraltro ottimi e debuttanti nella parte, non sembra voler esaltare il lo stile belcantistico della Beatrice di Tenda: Tamara Wilson lascia i panni di Turandot, Senta, Isolde, Elsa von Brabant e Leonora per vestire quelli di Beatrice e il salto non è da poco. Anche nel passato una certa cantante era passata in pochi giorni da La valchiria ai Puritani, ma era Maria Callas… Il soprano americano assume il ruolo di “soprano drammatico d’agilità” dosando opportunamente l’imponente volume sonoro, affrontando con sensibilità legati e sfumature, sciorinando le agilità con relativa facilità, ma è nella fluidità delle variazioni che si sente che manchi qualcosa. Comunque riesce a definire efficacemente il personaggio nella sua integrità morale fuori del comune e che accetta il martirio e offre il suo perdono a tutti.

Anche Quinn Kelsey arriva da un repertorio più “pesante”: Rigoletto, Simon Boccanegra, Amonasro, e qui il baritono hawaiano talora ha tocchi di verismo fuori luogo, anche se la parte di Filippo, tormentata fino alla fine e non un semplice vilain, è delineata con intensità. Theresa Kronthaler aveva cantato la parte di Agnese del Maino a Martina Franca nella versione concertistica, là era risultata poco gradevole,  non solo come personaggio, è ovvio, ma anche vocalmente, ma ora l’impressione è maggiormente positiva soprattutto nel secondo atto ma come per gli altri in questa produzione si sente l’assenza di cantanti di lingua  italiana: anche se la dizione è accettabile, fa difetto la cantabilità tipica de repertorio repertorio belcantistico. Cantabilità che si ritrova solo in parte nei tenori, i fratelli samoani Pene e Amitai Pati, che per la luminosità e dolcezza del timbro e della linea vocale delineano con eleganza i caratteri di Orombello e Anichino. Molto bene il coro, spesso diviso tra maschile (cortigiani, giudici) e femminile (dame e damigelle) a cui sono stati tagliati, come s’è detto, gli interventi finali.