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Il Novecento

Elvio Giudici, Il Novecento e la musica americana

1562 pagine, Il Saggiatore, 2019

Con questo quinto volume si completa il monumentale catalogo dell’opera lirica in DVD di Elvio Giudici. Britten, Janáček, Puccini e Strauss la fanno da padroni, ma c’è anche spazio per Kaija Saariaho o Tan Dun, e per tutti i contemporanei che Giudici inserisce nel capitolo “Il teatro musicale angloamericano” (Adams, Adès, Benjamin, Bernstein, Birtwistle, Corigliano, Dove, Glass, Heggie, Menotti, Turnage…).

Come sempre illuminanti le note, come quella che precede appunto quest’ultimo capitolo collettivo: «È un discorso che sarebbe vecchio se solo lo si fosse fatto quand’era il caso, ovvero anni e anni fa. Invece, ignorando quel che accade al di là dell’Atlantico (da qualche tempo, anche al di là della Manica), molti ancora si gingillano col quesito se il melodramma non sia ormai “morta cosa”, se ogni entrata in teatro non equivalga a visitare un museo e via salmodiando. Non è affatto morto, il melodramma. Non lo è, per lo meno, ove se ne ricordi e conseguentemente se ne accetti – come costuma farsi nei paesi anglosassoni – quella sua intrinseca accezione di teatro una volta pacificamente accettata con le ovvie conseguenze. […] Lo è, invece, se esso viene praticato avendo come referente solo la sparuta intellighenzia di musicologi che su di esso discettano. E che in genere liquidano tutto quanto esuli dai ristrettissimi ambiti apoditticamente indicati come “giusti” appiccicando etichette di comodo e comodamente spregiative quali “musica di consumo”, “musica da film”, “musical travestito” e via spocchiosando. Fino al classico “americanata” che tutto pare riassumerle fungendo da sinonimo di pattumiera, nella quale finisce non solo il nutritissimo teatro musicale americano, ma anche la poca o punta attenzione prestata al meno consistente ma forse ancor più agguerrito teatro musicale inglese».

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★☆☆☆

Amburgo, Staatsoper, 19 gennaio 2020

(video streaming)

Fat shaming ed eurotrash: il Falstaff di Bieito

Mentre a Piacenza sale sul palcoscenico un nuovo Falstaff con la voce e le fattezze di Luca Salsi, ad Amburgo ritorna il Falstaff per antonomasia dei nostri tempi, il collaudato Ambrogio Maestri. Ma qui la curiosità è per la messa in scena di Calixto Bieito, che per la prima volta si cimenta con una commedia venata sì di malinconia, ma sostanzialmente comica. I risultati, ahimè, non sono mirabili.

Seduto su una poltrona, solo nel buio, il cavaliere si gusta un intero vassoio di ostriche. Nel silenzio si sente solo il risucchio soddisfatto per i molluschi avidamente gustati. Solo quando il vassoio è vuoto attaccano le prime note. Nel frattempo dal buio si evidenzia la struttura scenografica di Susanne Gschwender sulla immancabile piattaforma rotante: l’esterno e l’interno di un pub con tristi decorazioni natalizie mentre sullo schermo della televisone del locale passano i video youtube della passione del cantante per la cucina.

L’uomo è un pancione che neanche per le sue imprese amorose rinuncia alla t-shirt taglia XXXL (costumi di Anja Rabes) – ed è il regista che rinuncia a un momento comico che nessun altro finora si era lasciato scappare: qui l’uomo non si cura dell’abito e prende per la gola delle sue vittime presentandosi con un piatto da lui cucinato. D’altronde anche Miss Quickly si era presentata con tatuaggio sul collo e guantoni da box. L’ambientazione è ovviamente contemporanea – nessuna sorpresa – ma le gag trucide non reggono il ritmo e tanto meno lo spirito della musica. E tutte le indicazioni del libretto cadono nel vuoto, una per tutte la cesta che finisce nel Tamigi: qui il grassone riceve una secchiata di escrementi sulla testa e nella scena successiva lo troviamo in una latrina che beve vino nel cartone e fino alla fine non troverà il tempo di farsi una doccia. La dimensione fiabesca del terzo atto è ovviamente del tutto assente per trasformarsi invece in una scena da film horror con atmosfera da La notte dei morti viventi e con le nudità di Falstaff messe impietosamente in mostra («uom vecchio, sudicio e obeso») – Bieito è riuscito a spogliare anche Ambrogio Maestri! La lettura del regista spagnolo questa volta non aggiunge nulla alla comprensione dell’opera e manca del tutto l’aspetto malinconico. Anche l’idillio tra i giovani Fenton e Nannetta è ridotto a una scopata e a un test di gravidanza effettuato dal vivo.

Ancor più greve è la componente musicale, non tanto per la mediocrità delle voci, quando per la dizione che fa strame delle sottigliezze linguistiche di Boito e del carattere di conversazione del lavoro. Oltre ad Ambrogio Maestri, che ormai gigioneggia e interpreta la parte a occhi chiusi – talora anche troppo chiusi –, tra i pochi nomi che merita di riportare ci sono quelli di Markus Brück, un Ford un decisamente sopra le righe, Maija Kovalevska, efficace Alice ed Elbenita Kajtazi Nannetta, vocalmente pregevole. Direzione senza particolari bellurie quella di Axel Kober, ma sarebbero comunque passate inosservate con quello avviene in scena.

Tristan und Isolde

Richard Wagner, Tristan und Isolde

★★★★☆

Bologna, Teatro Comunale, 24 gennaio 2020

Valčuha trionfa all’apertura della nuova stagione del Comunale

Cinque opere di Wagner, una per ogni stagione, «per valorizzare lo storico legame di Wagner con il nostro Teatro partendo dalle opere […] che furono rappresentate per la prima volta in Italia proprio a Bologna» ha annunciato Fulvio Macciardi, sovrintendente del Teatro Comunale.

Si inizia con Tristan und Isolde, una coproduzione con il Théâtre de la Monnaie. A Bruxelles lo spettacolo era stato presentato nel maggio dell’anno scorso con grande successo sotto la direzione di Alain Altinoglou e gli stessi protagonisti principali, Ann Petersen e Bryan Register, anche se qui Tristano appartiene al secondo cast, essendoci nel primo Stefan Vinke.

L’aspetto visivo è affidato all’ideazione artistica di Alexander Polzin e al complesso gioco di luci e ombre di John Torres. Dopo Bill Viola e Anish Kapoor il Tristan è oggetto di ricerca visuale sul piano astratto e di esplorazione dei misteri dei sentimenti umani. L’aspetto filosofico della vicenda si carica di simboli ed arcani riferimenti alchemici (Tristano all’ultimo atto ha il viso coperto di oro) in questa lettura del regista Ralf Pleger al suo esordio italiano. Il visual artist Polzin crea tre atti nettamente distinti: nessuna nave al primo atto ma una parete a specchio che riflette un soffitto di stalattiti di ghiaccio che nel tempo accrescono fino a toccare il pavimento diventando traslucide colonne luminose; nel secondo un’enorme radice diventa albero animato quando ci accorgiamo che i rami sono dei danzatori seminudi dipinti dello stesso bianco; al terzo atto la parete di fondo è traforata e da ogni foro esce un cilindro trasparente. Anche qui giocano un ruolo determinante la luce, i colori e le ombre che accompagnano il pathos della vicenda.

La produzione bolognese è enigmatica e aperta all’interpretazione personale quanto l’opera stessa: qui non c’è bisogno di effettive pozioni d’amore per provocare l’evento magico, come se l’innamoramento fosse qualcosa che viene dall’interno, implacabile, senza nessuna logica o ragione e frutto di un profondo desiderio interiore. È solo la musica che porta il peso della sua convinzione. Nelle dichiarazioni del regista il filtro di Tristano e Isotta è l’inizio di un viaggio psichedelico che permette loro di entrare in un altro livello di coscienza catapultandoli in un’altra realtà. L’idea del regista rappresenta un affascinante punto di partenza per una messa in scena visivamente fantasiosa. Quella che viene trascurata è la regia attoriale e il rapporto tra i personaggi, sempre distanti, senza interazione personali. Il Liebestod di Isotta avviene con la cantante in piedi al proscenio come in una esecuzione concertistica. Tutti si muovono molto lentamente, un po’ alla Bob Wilson, ma non con gesti ieratici, bensì come in una pantomima al rallentatore. Costumi fantasiosi ma discutibili quelli di Wojciech Dziedzic, come i mutandoni/cintura Gibaud per i danzatori, la giacca luccicante che trasforma Re Marke in un Elton John senza occhiali, il pastore rinchiuso in un cuscino semovente.

Sul piano musicale è un trionfo personale per Juraj Valčuha, che riceve grandiose ovazioni dopo aver concertato con una tensione palpabile e con grande sensibilità le quattro ore di musica. Gli interventi strumentali prendono una luce particolare, come quando il corno inglese del pastore sembra quasi una Sequenza di Luciano Berio nelle sue arcane modulazioni. L’orchestra del Comunale risponde a meraviglia sotto la sua bacchetta esibendo una cura dei timbri degni di una grande orchestra sinfonica.

In generale per gli interpreti di Tristano e Isotta è già un gran merito arrivare alla fine. Qui Ann Petersen delinea una drammatica Isotta di ottima presenza scenica e potente vocalità anche se la voce, che pure ha grande proiezione risulta un po’ indietro in gola e il timbro di conseguenza non è tra i più piacevoli. Nel complesso però la sua performance è convincente e molto apprezzata dal pubblico. Molto aperta e quasi stentorea invece la vocalità del Tristano di Stefan Vinke, che però parco di colori e con incertezze di intonazione soprattutto nel primo atto. Una lezione di stile è quella del Re Marke di Albert Dohmen che nei suoi interventi dimostra la bellezza di un canto espressivo fondato tutto sulla parola. Autorevole Kurwenal è quello di Martin Gartner e Brangäne di lusso Ekaterina Gubanova. Nelle parti di Melot e di un pilota della nave Tommaso Caramia ha gestito una notevole voce baritonale, mentre più lirica è quella del pastore e del marinaio di Klodjan Kaçani, prossimo Nemorino in questo stesso teatro.

L’impegno dello spettacolo non ha spaventato il folto pubblico bolognese che è rimasto fino alla fine per poi tributare calorosi applausi agli interpreti e al direttore. Un po’ meno convinti ma senza punte di dissenso quelli per gli ideatori visivi.

Stagione Sinfonica RAI

Gustav Mahler, Sinfonia n° 2 in do minore
1. Allegro maestoso. Mit durchaus ernstem und feierlichem Ausdruck
2. Andante moderato. Sehr gemächlich
3. In ruhig fließender Bewegung
4. Urlicht. Sehr feierlich, aber schlicht. Choralmässig
5. Im Tempo des Scherzos. Wild herausfahrend. Langsam. Allegro energico. Langsam. Aufersteh’n. Langsam. Misterioso

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 23 gennaio 2020

La Seconda Sinfonia di Mahler: l’appello alla immortalità

Terzo incontro consecutivo con Mahler per la stagione Sinfonica RAI: dopo la Nona Sinfonia e i Gesänge des Knaben Wunderhorn l’Orchestra Nazionale affronta la Seconda Sinfonia, la prima delle quattro con intervento di voci.

Questa sinfonia ha costituito il mio primo approccio alla musica di Mahler: un doppio long-playing della Deutsche Gramophon acquistato nel 1969 con l’orchestra di Monaco diretta da Rafael Kubelik, uno dei pochi a cimentarsi con un compositore tutt’altro che popolare allora. Dopo Bruno Walter gli altri erano Bernstein, Klemperer, Solti e Haitink, ma il direttore boemo fu il primo, se non erro, a incidere l’integrale delle sinfonie. Che poi fosse stata soprattutto la copertina del disco ad attrarmi per un dettaglio astratto del Bacio di Klimt è un altro discorso – e a quel tempo neanche sospettavo la scelta maliziosa di illustrare il disco con un dipinto di quel Klimt che, dopo averla assediata quando era sedicenne, ancora faceva una corte spudorata a quella Alma Schindler che stava per diventare la moglie di Mahler!

Era il 29 marzo 1894 quando il compositore partecipò alla commemorazione di Hans von Bülow deceduto il mese prima. Nella Michaeliskirche di Amburgo, dopo brani della Matthäus-Passion di Bach e del Deutsches Requiem di Brahms, un coro di voci bianche intonò un corale da Der Messias di Klopstock le cui parole «Aufersteh’n, ja aufersteh’n wirst du, mein Staub, nach kurzer Ruh!» (Risorgerai, certo risorgerai, dopo un breve riposo, mia polvere) colpirono Mahler: era come se un coro d’angeli fosse disceso dal cielo a incantare il compositore ebreo attratto dal misticismo cattolico e ossessionato dalla morte. Aveva finalmente trovato il finale a quella sua sinfonia da troppo tempo rimasta nel cassetto.

La Seconda inizia dove finiva la Prima, Titan: «Ho chiamato Totenfeier (cerimonia funebre) il primo movimento […] si tratta dell’eroe della mia Sinfonia in re maggiore che io porto a seppellire; da un osservatorio più alto raccolgo la sua vita in un limpido specchio. E, al tempo stesso, si pone la grande domanda: perché sei vissuto? perché hai sofferto? È tutto questo solo un grande, atroce scherzo? […] Chiunque senta riecheggiare nella sua vita questo richiamo, deve rispondergli, e questa risposta la do nell’ultimo movimento», scriveva il compositore per presentare il suo lavoro alla prima berlinese del 13 dicembre 1896.

I cinque movimenti della Seconda rompevano drasticamente con la tradizione classica, cui si era attenuta ancora la Prima Sinfonia. Il primo movimento in do minore, in una libera forma di sonata, è marcato «Allegro maestoso. Con espressione del tutto seria e solenne». Il secondo movimento dovrebbe iniziare dopo una lunghissima pausa, per lo meno così richiedeva il suo autore – almeno 5 minuti! – quasi un intervallo tra due atti d’opera. Mahler così voleva enfatizzare la cesura tra la prima parte e il resto della sinfonia, formato da una sequenza di pagine molto diverse tra di loro: un Ländler («Andante moderato. Molto comodo»); uno scherzo («Con moto tranquillo e scorrevole»); un Lied («Molto solenne, ma semplice, come un corale») per voce sola e un lunghissimo finale corale a sua volta suddiviso in due parti. Il testo del quarto movimento è quello di “Urlicht” (Luce primigenia), uno dei canti della raccolta del Knaben Wunderhorn (Corno magico del fanciullo) mentre quello del quinto è tratto dal poema Die Auferstehung (La resurrezione) di Friedrich Gottlieb Klopstock, i cui ultimi quattro versi vennero sostituiti con altri di Mahler stesso. Anche il terzo movimento si basa su un Lied del Wunderhorn, la “Predica di Sant’Antonio da Padova ai pesci” in forma puramente strumentale.

Un altro lavoro di quel periodo affrontava ambiziosamente il tema della rigenerazione dell’uomo, questa volta però per mano all’arte: nel 1900 veniva completata la Prima Sinfonia di Aleksandr Skrjabin, sei movimenti in cui l’ultimo vede la partecipazione di un coro e due solisti sulle parole «Venite, gente del mondo, Canteremo un’arte alla gloria! La gloria all’arte, Per sempre gloria!». Entrambi i lavori sono accomunati dallo stesso tono grandioso e magniloquente – quello di Skrjabin senza neanche la giustificazione religiosa – ed entrambi tendono a una certa esteriorità.

Il colpo d’occhio che accoglie il pubblico accorso all’Auditorium Arturo Toscanini è quello di un palco gremito fino all’ultimo centimetro disponibile, con un coro sterminato e un organico strumentale di eccezione. Solo i corni sono ben 11: delle sinfonie di Mahler la Seconda è seconda per monumentalità solo all’Ottava. James Conlon gestisce l’imponente massa orchestrale con sicura padronanza, cercando di dare unitarietà a un organismo di estrema varietà che sembra voler mettere in scena la grandiosità dell’orchestra di fine Ottocento. I vari episodi si susseguono come tante scene teatrali: immani scosse telluriche si alternano a oasi di lirismo, come quando le viole sembrano accennare al Sigfried-Idyll wagneriano; all’ineffabile pizzicato contrappuntato dal gocciolio dei legni che conclude il secondo movimento segue il trattamento quasi kletzmer del clarinetto del terzo movimento; agli ottoni fuori scena che intonano beffarde marcette che sembrano anticipare il Wozzeck rispondono le gloriose fanfare dei corni; alla voce del mezzosoprano che intona il canto – che differenza rispetto allo stesso Lied intonato dal baritono una settimana fa! – segue in un crescendo formidabile un finale la cui potenza sonora se non fa risorgere i morti di certo scoperchia le tombe con il suo colossale sfoggio di decibel.

Inappuntabili si sono rivelati gli interventi delle due voci soliste, il mezzosoprano Vivien Shotwell e il soprano Lucia Cesaroni. Prima pianissimo e poi in piena voce si è fatto ammirare il validissimo coro del Teatro Regio di Parma istruito dal maestro Martino Faggiani, mentre quasi ogni strumentista ha avuto modo di risaltare in uno dei tanti momenti quasi solistici concertati con abilità dal direttore Conlon. L’esecuzione ha ottenuto il caldo applauso di un pubblico particolarmente numeroso.

Violanta

foto Edoardo Piva © Teatro Regio

Erich Wolfgang Korngold, Violanta

★★★★★

Torino, Teatro Regio, 21 gennaio 2020

Violanta o della seduzione in musica

«Prima di tutto la melodia!» risponde deciso Korngold alla domanda che gli pone l’intervistatore su cosa manchi alla musica moderna (Notes for Interview, ca. 1930). Il padre Julius aveva cercato in tutti i modi di tenere il figlio lontano da quella Neue Musik che egli detestava e c’era riuscito: infatti i cammini di Schönberg e Korngold rimasero sempre divergenti pur avendo come punto di contatto la figura di Alexander von Zemlinsky, che fu amico del primo e maestro del secondo.

E di melodia ce n’è molta nella sua seconda opera Violanta, tragedia in un atto concepita a 17 anni e presentata il 28 marzo 1916 a Monaco di Baviera sotto la bacchetta di Bruno Walter con immediato successo. Data la brevità dell’opera, allora le fu abbinato l’altro atto unico Der Ring des Polykrates, una “commedia domestica” questa, che Korngold aveva composto in quegli stessi anni.

La musica di Violanta è quasi un compendio di quanto offriva la Vienna musicale di allora e che il giovane prodigio golosamente assorbiva: Wagner, Mahler, Strauss, lo Schönberg Jugendstil dei Gurre Lieder, Lehár, ma anche Debussy, Bartók… Tutto confluisce nella eclettica e raffinata composizione di questo primo gioiello che aveva già in sé tutto il Korngold della maturità. Come afferma Donatella Meneghini nel programma di sala, fu proprio questo ampio spettro del suo linguaggio musicale a incontrare il favore di un pubblico molto vasto, ma non sono d’accordo sul fatto che questo sia stato contemporaneamente il suo limite, quello cioè di non aver saputo caratterizzarsi in un idioma dalla forte personalità. Al contrario, ora che cominciamo a conoscerlo meglio, ogni sua nota diventa facilmente riconoscibile e conferma il singolare carattere della sua musica. Qui il dramma passionale della vicenda è ricreato con una lussureggiante orchestrazione in cui strumenti come arpa, mandolino, celesta e pianoforte aggiungono i loro fremiti inquietanti, ma le audaci soluzioni armoniche si affiancano a struggenti melodie la cui suadente cantabilità echeggia il mondo dell’operetta. E questa commistione tra tardo-romanticismo e leggerezza è la cifra inimitabile della musica di Korngold.

Il libretto di Hans Müller-Einigen situa la vicenda nel XV secolo a Venezia durante una notte di carnevale. Sono sette scene che si susseguono senza soluzione di continuità con tre personaggi principali – Simone Trovai, capitano della Repubblica di Venezia, la moglie Violanta e Alfonso, figlio illegittimo del Re di Napoli – e numerosi personaggi secondari: il pittore Giovanni Bracca, i convitati Bice e Matteo, la nutrice Barbara, due ancelle e due soldati.

Violanta, moglie del comandante militare Simone Trovai, è ossessionata dal desiderio di vendicare la morte della sorella Nerina, che si è uccisa dopo essere stata sedotta da Alfonso, principe di Napoli. Questi è presente a Venezia e partecipa tra la folla ai festeggiamenti del carnevale. Violanta, in incognito, lo ha incontrato e ne ha attratto l’attenzione cantandogli un’aria e lo ha quindi invitato a farle visita nel suo palazzo, dove intende farlo assassinare dal marito. Simone, dapprima inorridito, si lascia convincere ad assecondare il piano della moglie; resterà nascosto fino a quando Violanta intonerà, quale segnale convenuto, lo stesso canto con il quale ha ammaliato Alfonso in precedenza. Alfonso arriva in gondola, preceduto fuori scena da una sua suggestiva serenata; giunto al cospetto di Violanta, ne elogia la bellezza e la prega di cantargli ancora la fatidica canzone. Al che Violanta gli svela la propria identità e il proprio disegno di vendetta. Ma Alfonso rivela che la morte sarà per lui un ambito sollievo, tanto la sua esistenza, vissuta in uno stato di perenne disperazione, gli è divenuta intollerabile; insiste quindi perché Violanta dia il segnale prestabilito e il suo destino si compia. A questo punto la donna si accorge di amare follemente la propria vittima, sedotta dalla sua immensa, commovente infelicità. Vergognandosi di sé stessa, gli ordina di uscire, ma egli rinnova l’invito a dare il segnale. Violanta confessa il proprio smarrimento di fronte alla nuova, inattesa passione che sente di provare per lo stesso seduttore della sorella. I due si abbracciano perdutamente e cantano insieme un inno alla natura sublime dell’amore puro. La loro beatitudine è interrotta da Simone, che, impaziente, chiama la moglie. Questa, avvertendo che il sogno è alla fine, canta l’aria fatidica. Irrompe Simone e alla vista della coppia avvinta nell’abbraccio tenta di accoltellare Alfonso. Violanta si interpone ed è lei a ricevere il colpo mortale. Spira fra le braccia del marito mentre si ode ancora una volta, intonato dal coro delle maschere, il canto fatale.

Periodo felice il nostro per Korngold: dopo le fortunate produzioni di Die tote Stadt (recentissime quelle di Gilbert/Vick a Milano, Rubiķis/Carsen a Berlino, Petrenko/Stone a Monaco di Baviera) e di Das Wunder der Heliane (negli ultimi due anni quelle di Albrecht/Loy a Berlino e di Joel/Bösch ad Anversa), anche il Regio di Torino offre il suo contributo allestendo per la prima volta in Italia Violanta, una produzione originale che si avvale di due personalità del mondo teatrale quali Pinchas Steinberg alla direzione musicale e Pier Luigi Pizzi alla messa in scena.

Pizzi dà corpo alla sontuosità della musica di Korngold costruendo una scenografia tutta in porpora e oro – appena prima del duetto d’amore finale Violanta racconta che «Um mich wogt purpurgoldne Flut (Intorno a me scorrono flutti di porpora e d’oro) – con due enormi drappi di broccato che scendono a incorniciare una grande apertura circolare che dà sul nero dell’esterno dove scivolano funebri gondole. La scena (assistente Lorenzo Mazzoletti) e gli elegantissimi costumi (assistente Lorena Marin) evocano gli anni tra le due guerre nelle divise dei militari e negli abiti lunghi delle signore. Il mantello di Alfonso è quello del Casanova di Fellini (un omaggio nel centenario della nascita?) e anche le maschere hanno un che di felliniano. I movimenti e la recitazione richiamano invece le commedie sofisticate di quel periodo. Con Pier Giovanni Bormida direttore dell’allestimento e con le luci di Andrea Anfossi viene allestito uno spettacolo di rara suggestione che ricrea la Venezia dei Racconti di Hoffmann con la sua seduttiva e torpida atmosfera.

A suo agio in questo repertorio Pinchas Steinberg dà vita a questa affascinante partitura che dai misteriosi arpeggi iniziali e i distanti rintocchi di campane carichi di tensione confluisce nei temi contorti della festa. Quando Violanta esprime la sua gioia di vendetta («Allora seppi che mia sorella Nerina oggi riderà nel suo avello») l’orchestra tutta esplode in un tema glorioso che tornerà altre volte. Come tornerà ossessivamente «quell’infame canzon» intonata dal coro esterno e segno convenuto per attuare l’omicidio. La concertazione delle voci in scena e il loro equilibrio con la buca orchestrale non sono un problema per il navigato direttore israeliano e qualche suono non perfettamente pulito degli ottoni non inficia il buon risultato musicale. Nessun problema invece per le voci dei protagonisti: magnificamente timbrata quella di Annemarie Kremer che delinea un’intensa e sofferta Violanta; gloriosamente tenorile e inappuntabile quella di Norman Reinhardt nell’impervia parte di Alfonso; autorevole Simone è quello di Michael Kupfer-Radecky dalla magnifica voce baritonale. Efficaci e di apprezzabile presenza scenica Peter Sonn (Giovanni Bracca), Soula Parassidis (Bice) e Joan Folqué (Matteo). Menzione speciale per Anna Maria Chiuri, la tenera Nutrice. Impeccabili nella loro divise, e nella vocalità, i due soldati, Cristiano Olivieri e Gabriel Alexander Wernick, elegantissime e vocalmente sontuose anche le due ancelle, Eugenia Braynova e Claudia de Pian, qui promosse a invitate.

Fino al 28 gennaio c’è tempo per vedere lo spettacolo, o magari rivederlo una seconda volta. Un’occasione assolutamente da non perdere.

Risurrezione

Franco Alfano, Risurrezione

Florence, Teatro del Maggio Musicale, 19 January 2020

★★★☆☆

 Qui la versione italiana

The resurrection of an opera: Alfano’s Risurrezione in Florence

Italian opera of the 18th century is not the only field of operatic rediscovery: although not at the same level, the post-Verdi era, the so-called verismo, is the subject of new attention.

With no more than a dozen works generally known, that period is being revived once more, and not only in Italy: even the islands beyond the Channel seem to be interested in recovering works that were once extremely popular. Mascagni’s Isabeau has been staged at Opera Holland Park, Giordano’s Mala vita and Leoni’s L’oracolo at the Wexford Festival, all recently brought to light by director Francesco Cilluffo…

continues on bachtrack.com

Risurrezione

Franco Alfano, Risurrezione

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 19 gennaio 2020

★★★☆☆

  Click here for the English version

L’opera di Alfano risorge a Firenze gettando nuova luce sul suo autore

Non soltanto il Settecento italiano è campo di riscoperte: anche se quantitativamente e qualitativamente inferiore, l’opera del dopo-Verdi, il cosiddetto Verismo, è ora oggetto di nuova attenzione.

Conosciuto al più per una decina di lavori, quel periodo viene ora riproposto con frequenza, e non solo in Italia: anche nelle isole oltre Manica sembra esserci interesse a recuperare opere una volta estremamente popolari. È il caso di Isabeau di Mascagni all’Opera Holland Park, Mala vita di Giordano e L’oracolo di Leoni al Wexford Festival Opera, portate alla luce dal direttore italiano Francesco Cilluffo…

Proveniente appunto da Wexford, Risurrezione di Franco Alfano è ora a Firenze. Il compositore è ricordato soprattutto per aver completato la Turandot di Puccini lasciata incompiuta nel 1924 alla morte dell’autore: Alfano era stato scelto da Toscanini sì per gli indubbi meriti artistici ma anche per il fatto che la sua Leggenda di Sakuntala (1920) già aveva avuto un’ambientazione esotica e ciò era sembrato un valore aggiunto per l’impegnativo compito. Precedentemente, la sua opera Risurrezione era stata presentata a Torino il 30 novembre 1904 con successo: più di mille repliche, per lo meno fino agli anni ’50 del secolo scorso, per poi venire dimenticata.

I quattro atti su libretto in prosa (una novità per l’epoca!) di Cesare Hanau sono liberamente ispirati al romanzo omonimo di Lev Tolstoj del 1899. Il nucleo della vicenda è lo stesso – la storia di una ragazza orfana che viene sedotta da un giovane nobile e scacciata dalla famiglia che la ospitava quando viene scoperta la gravidanza – ma nell’opera solo in parte è messa in evidenza la forte denuncia sociale presente nel romanzo russo. La vicenda di Katjuša, che da ragazza madre diventa prostituta e poi deportata per un crimine non commesso, viene letta secondo la morale del tempo: la risurrezione del titolo è quella della “peccatrice” Katjuša che si redime rinunciando all’amore e al matrimonio riparatore col suo seduttore. Non sorprende che Tolstoj non ne amasse la trasposizione in musica.

Atto I. Dmitri, di ritorno per la sola notte di Pasqua nella casa della zia Sofia, prima di partire per la guerra contro i Turchi, vi ritrova la giovane orfana Katjuša Lubova; l’amore già sbocciato in passato tra i due ora rinasce più forte, ed ella si abbandona al principe che la notte diventa il suo amante. Il giorno dopo l’uomo parte per la guerra.
Atto II. La stazione di una piccola città. Katjuša, ora in stato di gravidanza, è stata cacciata di casa. Aspetta con ansia il principe Dmitri che dovrebbe transitare per la stazione. Ma quando lo vede arrivare in compagnia di una prostituta, non ha il coraggio di andargli incontro e rimane nascosta fino a quando lei va via, con il cuore trafitto dal dolore.
Atto III. Carcere a San Pietroburgo. Katjuša, affranta dall’incuranza di Dmitri e dalla morte del suo bambino, finisce in un luogo di dissolutezza. Rimane coinvolta in un crimine e, sebbene innocente, viene condannata per omicidio e deve essere deportata in Siberia. Prima che lei parta, Dmitri, preso dal rimorso, viene a vederla in prigione e si offre di sposarla. Ma ella è in un tale stato di disperazione che rifiuta l’offerta.
Atto IV. Sulla strada per la Siberia. Katjuša è diventata di nuovo sé stessa, la brava ragazza dolce dei tempi passati. Ha trovato la volontà di vivere dando conforto alle colleghe deportate. Dmitri, che l’ha seguita, ora vuole sposarla ad ogni costo. Ottiene la grazia per lei e la sua libertà. Ma Katjuša, anche se lei lo ama ancora con tutta l’anima, rifiuta. Si sente che solo se entrambi rinunciano al matrimonio potranno essere riscattati.

La musica di Alfano fa tesoro non solo di Puccini (molti passaggi echeggiano la sua Manon Lescaut) ma anche di Debussy (Pelléas et Mélisande è di due anni prima) per la ricercata armonia. Pur nella raffinatezza orchestrale l’opera non sfugge al gusto verista dell’epoca nei momenti più drammatici della vicenda, con ricorso al grido e al parlato.

Rosetta Cucchi legge la vicenda dal punto di vista della protagonista: la sua Katjuša è vittima prima del demone seduttore (ritratto nel quadro di Vrubel appeso nella camera di Dmitri), poi della società borghese che non tollera la sua “colpa” e infine del sistema giudiziario che la condanna per un delitto non ha commesso. La sua messa in scena essenzialmente tradizionale si avvale dell’impianto scenografico senza profondità di Tiziano Santi e solo nel finale ricorre a un efficace coup de théâtre: appare un campo di spighe dorate in cui si inoltrano Katjuša e una bambina, spesso presente in scena a rappresentare lo stato di innocenza perduta della donna, mentre suonano le campane di Pasqua della risurrezione di Cristo, le stesse che avevamo ascoltato all’inizio.

La direzione di Francesco Lanzillotta è trasparente e leggera, quasi evanescente nei finali d’atto. Solo raramente l’orchestra diventa turgida dispiegando la sua ricca strumentazione. Il maestro è abile nel concertare le diverse voci nella scena della stazione del secondo atto, un’invenzione del librettista, dove al dolore e alla solitudine della protagonista si alternano le vivaci controscene dei viaggiatori in attesa. Venti sono i cantanti in scena, ma solo tre hanno a disposizione un’aria che spezza lo stile declamato predominante. La più famosa è «Dio pietoso» di Katjuša, parte ripresa dal soprano francese Anne Sophie Duprels che conferma le doti drammatiche già esibite a Wexford. Il timbro non è dei più piacevoli, ma la voce ha una sicura proiezione. Quasi una romanza è «Piangi, sì piangi» di Dmitri, il personaggio più scialbo della vicenda e qui l’interpretazione di Matthew Vickers non ha fatto molto per riscattarne la statura: il cantante ha una bella voce ma non sempre sviluppa la potenza necessaria a bucare l’orchestra. Il messaggio di cristianesimo pietoso e umanitario dell’opera originale è delegato al personaggio di Simonson, il baritono Leon Kim che ha avuto un successo personale per la sensibile caratterizzazione e l’efficace performance vocale.

Anche se non è stata la riscoperta di un capolavoro nascosto, questa riedizione di Risurrezione ha permesso di gettare luce su un lavoro le cui preziosità sono da cercare più nell’orchestra che nella vocalità. Una cosa singolare per l’opera italiana in un’epoca che affidava alla melodicità di Puccini il suo punto di forza.

Stagione Sinfonica RAI

Gustav Mahler, Sechs Gesänge aus “Des Knaben Wunderhorn”
1. Rheinlegendchen
2. Wo die schönen Trompeten blasen
3. Das irdische Leben
4. Urlicht
5. Revelge
6. Der Tambourg’sell

Béla Bartók, Concerto per viola e orchestra BB 128

Béla Bartók, Il mandarino meraviglioso, suite da concerto

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 gennaio 2020

Secondo appuntamento mahleriano

La stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI dopo la Nona sinfonia fa un salto indietro nel tempo, e qui la datazione diventa più complessa. A partire da quei primi due Lieder su poesie di Heinrich Heine scritti a 15 anni e andati perduti, tutta la carriera compositiva di Gustav Mahler è costellata di Lieder, la sua forma prediletta.

Mahler ebbe sempre un fortissimo legame con Des Knaben Wunderhorn, la raccolta di storie e leggende popolari pubblicate da Achim von Arnim e Clemens Brentano nel 1808: «Fino all’età di quarant’anni ho tratto le parole dei miei Lieder esclusivamente da questa raccolta. Mi sono votato con tutta l’anima a quella poesia, che è essenzialmente diversa da ogni altro genere di “poesia letteraria” e potrebbe essere definita meglio come Vita e Natura». Anche se Il corno magico del fanciullo (questo il titolo in italiano) si scoprì non essere affatto una collezione di poesie popolari e contadine, bensì la libera riscrittura di due poeti romantici, per Mahler esse rappresentarono sempre l’autentica voce del popolo, espressioni di una naïveté che contrastava con la realtà urbana e sofisticata in cui viveva, talora con disagio, il musicista. Lo stesso contrasto si evidenzia nella sontuosa veste orchestrale con cui è ammantata l’anacronistica semplicità dei versi, come è evidente fin dal primo pezzo in programma, quella Piccola leggenda renana (1893), un testo ingenuo accompagnato da un elegante valzerino viennese. Tre dei sei pezzi scelti fanno riferimento alla vita militare e alla guerra: il secondo (Dove suonano le belle trombe, 1898), il quinto (Sveglia, 1899) e l’ultimo (Il tamburino, 1901), dove le angosce dei giovani che devono lasciare la casa e gli affetti sono contrappuntate da beffarde marcette militari che anticipano di qualche decennio le ciniche musiche di Kurt Weill. Il terzo pezzo (La vita terrena, 1893) sembra voglia contrapporsi con la sua cupezza e tragicità a Das himmlische Leben (La vita celeste), che costituisce il quarto movimento della sua Quarta Sinfonia. Anche il quarto pezzo (La luce primigenia, 1893) ha trovato posto come preludio al finale corale della Seconda Sinfonia.

A interpretare queste gemme è stato invitato uno dei più celebrati cantanti tedeschi di oggi, il baritono Matthias Goerne, allievo di due dei maggiori liederisti del secolo passato, Dietrich Fischer-Dieskau ed Elisabeth Schwarzkopf, e rinomato per i cicli schubertiani e schumanniani incisi su disco. Il bellissimo timbro, i fiati strepitosi e la potenza sonora egualmente distribuita su tutti i registri gli permettono di affrontare questi canti con un agio e un’intensità espressiva che riflette la teatralità dei ruoli incontrati nella sua carriera lirica nelle opere di Wagner, Strauss o Berg. Con una padronanza somma della parola, ogni frase ha il giusto risalto, ogni indicazione della partitura la dovuta realizzazione e i diversi stati d’animo sono espressi con un’estesa gamma di toni e colori. Ha fornito il suo contribuito anche la fisicità debordante del cantante, quasi egli fosse su una scena teatrale e non sul palco di un auditorium. Inutile dire che la sua prestazione ha destato un entusiasmo al calor bianco tra gli spettatori. Merito della felice riuscita è stata anche la sapiente direzione orchestrale dello svizzero Michel Tabachnik, che ha prontamente sostituito l’indisposto James Conlon previsto.

Il suo subentro ha solo in parte portato a una variazione di programma: invece del previsto brano di Franz Schreker – uno dei rappresentanti di quella “musica degenerata” a cui il maestro Conlon dedica lodevole attenzione – il maestro Tabachnik ha eseguito un titolo più noto, la suite da concerto da Il mandarino meraviglioso (1926) di Béla Bartók, uno dei brani più inquietanti del secolo scorso, che fa propria la violenza orchestrale della stravinskiana Sacre du printemps di tredici anni prima per arrivare a un parossismo sonoro quasi insostenibile. La tavolozza rutilante di colori è stata magnificamente realizzata dalla nostra orchestra sotto la sua coinvolgente guida. Dello stesso autore si era ascoltato prima il Concerto per viola e orchestra, opera postuma eseguita la prima volta nel 1949. Atmosfera completamente differente qui, in cui le lunghe e intense arcate della viola prevalentemente nel registro basso sono alternate a passaggi più virtuosistici che trovano nell’orchestra un accompagnamento trasparente, quasi minimalista – Bartók non fece a tempo a scrivere la parte orchestrale e questa fu completata con riserbo reverenziale dal suo allievo Tibor Serly. Solo nel terzo tempo l’orchestra diventa più protagonista nel dialogo. Interprete del concerto è la prima viola dell’orchestra, Luca Ranieri, che si è accostato alla parte con dedizione e tecnica ineccepibile. Il suo sforzo è stato giustamente ripagato dagli scroscianti applausi del folto pubblico intervenuto.

Il matrimonio segreto

foto @ Edoardo Piva

Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto

Torino, Teatro Regio, 15 gennaio 2020

★★★☆☆

Pizzi e le nozze di Paolino

Non sempre i regnanti hanno dimostrato un infallibile gusto musicale: il 7 febbraio 1792 al Burgtheater di Vienna l’Imperatore Leopoldo II faceva bissare per intero Il matrimonio segreto del suo protetto Cimarosa, ma la moglie Maria Luisa solo pochi mesi prima aveva definito «una porcheria tedesca» La clemenza di Tito, l’ultimo sublime capolavoro serio di Mozart.

Il lavoro di Cimarosa ebbe molto successo all’epoca e nel periodo romantico, ma oggi, seppure ancora in cartellone, non suscita più gli entusiasmi di un tempo. Il confronto con Le nozze di Figaro è impietoso, ma anche senza affrontare inopportune comparazioni, l’opera di Cimarosa – la 54esima e più nota delle quasi cento opere del compositore di Aversa – continua a essere considerata importante per il suo particolare ruolo di cerniera tra il teatro di Mozart e quello di Rossini, avendo in abbondanza caratteristiche e stilemi legati al primo e facendo presagire le straordinarie invenzioni del secondo. Ma ha perso un po’ il favore del pubblico e ha bisogno di una bella spolverata per essere nuovamente godibile in scena.

Ci voleva un protagonista della storia del teatro italiano da quasi settant’anni come Pier Luigi Pizzi per togliere dalla naftalina quest’opera e liberarla di parrucche, panier, ventagli e stucchi rococo. A quasi novant’anni torna infatti per la seconda volta a Il matrimonio segreto – aveva firmato le scenografie della produzione romana del 1971 con Sandro Sequi alla regia – ma questa volta non si vuole annoiare: in una vivace intervista a Mattia L. Palma ha ammesso infatti di aver trovato allora noiosa l’opera di Cimarosa, mentre ora ha divertito sé stesso e il pubblico in questa edizione che ha visto la luce l’estate scorsa a Martina Franca e ora è al Regio di Torino.

Coerentemente alle parole di Lorenzo Mattei nel programma di sala – «Lungo l’intero Settecento il teatro d’opera italiano, serio o buffo che fosse, attuò un gioco di rispecchiamento tra platea e palcoscenico che ne garantì la vitalità e l’internazionalità» – in scena abbiamo personaggi e ambienti moderni che rendono la vicenda piccantemente attuale e quindi godibile per il pubblico di oggi. La cosa riesce alla perfezione a Pizzi che, volendosi rifare qui della non felice esperienza del passato, crea un ritmo teatrale che è consono alla musica, ma mai scatenato e con una recitazione molto misurata. Il regista modifica leggermente i personaggi – Geronimo qui è un ricco mercante d’arte moderna – e i recitativi in accordo col maestro concertatore e disegna un’elegante ambientazione contemporanea dominata dal bianco e da pochi colori primari. Il palcoscenico di Martina Franca aveva portato a concepire un lungo ambiente tripartito in larghezza che con pochi adattamenti doveva servire anche all’altro suo allestimento, l’Ecuba di Nicola Antonio Manfroce, impianto scenico adattato felicemente alle dimensioni più consuete del teatro torinese. L’appartamento di Geronimo è un lussuoso loft, illuminato dalle luci fisse di Andrea Anfossi, con mobili di design, opere di Burri e Fontana alle pareti e sculture sui pochi mobili. Lo stile architettonico è quello de La pietra del paragone al ROF di tre anni fa, ma senza la piscina. Dalle sei porte, tante quanti sono i personaggi, entrano ed escono i tre uomini e le tre donne della vicenda.

Il cast maschile supera in qualità quello femminile. Marco Filippo Romano, già presente a Martina Franca, delinea un Geronimo nouveau riche in completo giallo canarino di irresistibile comicità ma senza le “caccole” di cui si parla nella suddetta intervista. Vocalmente è ineguagliabile nel fraseggio preciso e nella dizione chiara e scandita, nella grande musicalità e senza mai ricorrere al parlato di tradizione. Alasdair Kent, Paolino anche lui al Festival della Valle d’Itria, pur senza essere in possesso di uno strumento debordante ne fa un uso intelligente e spicca per l’eleganza e lo stile. Quando è necessario però gli acuti non gli mancano. Il conte Robinson trova in Markus Werba l’interprete spigliato ed elegante che conoscevamo e con il solido bagaglio vocale che gli è proprio.

Nel terzetto femminile è una conferma in positivo Monica Bacelli, la “donna esperta” Fidalma, non caricaturale ma sensibile, che piega la voce a sfumature espressive che rendono il suo personaggio particolarmente persuasivo. Le giovani Carolina Lippo ed Eleonora Bellocci, rispettivamente Carolina (ovviamente…) ed Elisetta, dimostrano una solida tecnica e un lodevole impegno. Nelle arie solistiche a loro disposizione riescono a ben delineare il carattere del proprio personaggio, tra il buffo e il patetico quello di Carolina, bizzoso e vendicativo quello della rivale “seconda donna” a cui il compositore affida un’aria da opera seria («Se son vendicata») che non ci si aspetterebbe qui. In entrambe le cantanti fa però difetto un timbro non gradevole che è penetrante nella prima e acerbo nella seconda, per di più con un vibrato eccessivo. Tutte e due suppliscono però ampiamente con una spigliata presenza scenica.

Nikolas Nägele realizza il giusto equilibrio tra le voci in scena e la buca orchestrale. Fin dai primi accordi della sinfonia – quasi gli stessi del Flauto magico, ma qui con un effetto molto meno magico… – l’orchestra ha risposto con precisione. Neanche Nägele però riesce a fare del Matrimonio quello che non può essere: la musica è piacevole e l’orchestrazione brillante, ma non c’è mai il guizzo del genio che prenda l’ascoltatore di sorpresa e lo incanti e nonostante il ritmo le ripetizioni vengono a noia e la musica sembra girare su sé stessa senza mai coinvolgere.

L’esecuzione è stata comunque apprezzata dal pubblico, non numeroso, che ha tributato calorosi applausi agli artisti in scena, al direttore, all’orchestra e al regista salito sul palco assieme ai suoi collaboratori per i saluti finali.