Mese: settembre 2020

I due Foscari

Giuseppe Verdi, I due Foscari

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 26 settembre 2019

(video streaming)

L’opera “grigia” degli “anni di galera”

Inaugura il Festival Verdi 2019 una nuova produzione de I due Foscari, il dramma più cupo del compositore di Busseto, come già si evince dalla presentazione di Francesco Maria Piave, il librettista: «Il 15 aprile del 1423 Francesco Foscari fu elevato al trono ducale di Venezia, in concorrenza di Pietro Loredano. Cotesto Pietro non lasciò di avversarlo ne’ consigli per modo che una volta, impazientatosi il Foscari, disse apertamente in senato: non poter credere sé veramente Doge finché Pietro Loredano vivesse. Per una fatale coincidenza alcuni mesi dopo, esso Pietro e Marco di lui fratello improvvisamente morirono, e, come ne corse voce, avvelenati. Jacopo Loredano, figlio di Pietro, lo pensava, lo credeva, lo scolpiva sulle loro tombe, e ne’ registri del suo commercio notava i Foscari debitori di due vite, freddamente aspettando il momento di farsi pagare. Il Doge aveva quattro figliuoli; tre ne morirono, e Jacopo, il quarto sposato a Lucrezia Contarini, per accusa di aver ricevuto donativi da principi stranieri, a seconda delle venete leggi, era stato mandato a confine, prima a Napoli di Romania, poscia a Treviso. Accadde frattanto, che Ernoldo Donato, capo del Consiglio dei dieci, il quale condannato avea Jacopo, trucidato fosse la notte del 5 novembre 1450, mentre tornava da una seduta del consiglio al suo palazzo. Siccome Oliviero, servo di Jacopo, s’era il dì innanzi veduto a Venezia, e la mattina seguente il delitto ne aveva pubblicamente parlato ne’ battelli di Mestre, così i sospetti caddero sopra i Foscari. Padrone e servo furono esiliati a vita in Candia. Cinque anni dopo Jacopo, sollecitato avendo inutilmente la sua grazia, né potendo più vivere senza rivedere l’amata patria, scrisse al duca di Milano, Francesco Sforza, pregandolo a farsegli intercessore presso la Signoria. Il foglio cadde in mano dei Dieci; Jacopo ricondotto a Venezia e nuovamente torturato, confessò di avere scritta la lettera, ma pe ‘l solo desiderio di rivedere la patria, a costo ancora di ritornarvi prigione. Si condannò a tornare in vita a Candia, a scontarvi però prima un anno di stretto carcere, e se gli intimò pena di morte se più scritto avesse di simili lettere. Il misero Doge ottuagenario, che con romana fermezza assistito aveva ai giudizi ed alle torture del figlio, poté privatamente vederlo pria che partisse, e consigliarlo alla obbedienza e rassegnazione ai voleri della repubblica. Accadde in seguito, che Nicolò Erizzo, nobile veneziano, venuto a morte, si palesò uccisore di Donato, e volle si pubblicasse tal nuova a discolpa dell’innocente Jacopo Foscari. Alcuni autorevoli senatori erano già disposti a chiederne la grazia, ma l’infelice era frattanto di cordoglio spirato nel suo carcere di Candia. Afflitto il misero padre per tante amarezze, vivea solitario, e poco frequentava i consigli. Jacopo Loredano frattanto, che nel 1457 era stato elevato alla dignità di decemviro, credette allora giunta l’ora di sua vendetta, e tanto occultamente adoprò, che il Doge fu astretto a deporsi. Altre due volte, nel corso del suo dogado, il Foscari desiderato aveva abdicare, ma non si era accondisceso alle sue brame non solo, ché anzi lo si era costretto a giurare che morto sarebbe nel pieno esercizio del suo potere. Malgrado tal giuramento, fu astretto a lasciare il palazzo dei dogi, e tornarsene semplice privato alle sue case, rifiutato avendo ricca pensione ch’eragli stata offerta dal pubblico tesoro. Il 31 ottobre 1457 udendo suonar le campane, annuncianti la elezione del suo successore Pasquale Malipiero, provò sì forte emozione, che all’indomani morì. Ebbe splendidi funerali, come se morto fosse regnando, a’ quali intervenne il Malipiero in semplice costume di senatore. Si è detto che Jacopo Loredano scrivesse allor ne’ suoi libri, di contro alla partita che abbiam sopra citato, queste parole: I Foscari mi hanno pagato. È questo il brano di storia sul quale è basata la mia tragedia. Per l’effetto e per le esigenze inseparabili a questo genere di componimenti ho dovuto dar passo ad alcune licenze che scorgervi facilmente si possono, e per le quali spero indulgenza dal culto lettore».

Poco più che un’esecuzione in costume, è questa la cifra della produzione di Leo Muscato. La mancanza di regia attoriale abbandona i cantanti a loro stessi in atteggiamenti stucchevoli e nelle solite pose convenzionali. Le scene stilizzate di Andrea Belli hanno una certa eleganza e costruiscono un ambiente claustrofobico delimitato da un semicerchio di lamelle su cui sono dipinti i ritratti dei Dieci come appaiono nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale mentre in una piattaforma circolare è intagliata un’altra piattaforma che ci si aspetta si metta a ruotare e invece non succede. Eleganti i costumi risorgimentali di Silvia Aymonino (ma il senso quale sarebbe?) ed efficaci le luci radenti di Alessandro Verazzi, ma l’esito è uno spettacolo in cui il teatro è abbastanza latitante e che non nasconde la debolezza del sesto lavoro di Verdi e la sua immobilità drammaturgica.

Visto che non c’è da aspettarsi una grande interpretazione scenica dai singoli cantanti, che non riscattano la staticità di personaggi inesorabilmente patetici o perfidi, l’attenzione è puntata tutta sulla vocalità. Di ottimo livello quella di  Vladimir Stoyanov, Francesco Foscari misurato ma di bell’accento mentre Stefan Pop delinea uno Jacopo Foscari dalla voce ampia e dal carattere sensibile.  Maria Katzarava esibisce voce consistente ma poco adatta alle agilità e alla estensione richiesta dall’impegnativa parte di Lucrezia Contarini. Come vendicativo Jacopo Loredano Giacomo Prestia riesce a utilizzare efficacemente uno strumento vocale talora affaticato, ma è la presenza scenica che non è aiutata dalla regia, che gli poteva evitare certi momenti addirittura ridicoli. Buoni i comprimari e ottimo il coro del Teatro Regio di Parma istruito dal Maestro Martino Faggiani. A capo della Filarmonica Arturo Toscanini e dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, che forniscono un’ottima prova, Paolo Arrivabeni dà una lettura vigorosa della partitura già pienamente romantica con qualche taglio ai recitartivi e l’espunzione della scena terza dell’atto primo. Il taglio quarantottesco di alcune pagine contrasta giustamente con la «tinta uniforme» di cui è stata sempre accusata quest’opera degli “anni di galera”.

Pubblicità

Maria Stuarda

Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 27 settembre 2020

(live streaming)

Due regine, un trono: la grottesca Totentanz di Alden

Terzo appuntamento della trilogia della speranza lanciata dall’Opera di Zurigo: tre grandi opere messe in scena in tre serate consecutive e trasmesse in live streaming. Un segno di vitalità del teatro in musica in tempo di pandemia. Dopo Die Csárdásfürstin e Boris Godunov, si affronta il belcanto italiano con Maria Stuarda, a sua volta il secondo pannello pannello della “trilogia Tudor” di Donizetti.

L’Opera di Zurigo ha voglia di fare e ha a disposizione dei budget che consentono ingaggi come quelli di questa produzione di due anni fa. La messa in scena si vede che non è stata progettata per le limitazioni dovute alla pandemia, ma il problema dell’assenza del coro in scena è risolto con dei figuranti che hanno la mascherina protettiva e quindi non si capisce se cantano oppure no – ovviamente no, essendo il coro a un chilometro di distanza, come l’orchestra. Purtroppo si sente la mancanza di un direttore fisicamente a ridosso dei cantanti, soprattutto nei concertati che denunciano qualche scollatura. Enrique Mazzola alla testa della Philharmonia Zürich stacca tempi molto rilassati, forse un ritmo più incalzante avrebbe messo in difficoltà i cantanti in questa situazione, così che la preghiera di Maria nell’ultima parte ha meno risalto di quanto avrebbe, anche se Diana Damrau, una delle interpreti della produzione del 2018 assieme a Nicolas Testé, fa di tutto per renderla toccante. Il colore scuro della partitura è bene realizzato dal direttore italo-spagnolo che punta ai dettagli orchestrali, ai suoni ovattati dei legni e a quelli metallici degli ottoni stesi sul sontuoso tappeto degli archi. Frequenti sono piccoli tagli ai recitativi.

Al debutto nella parte Diana Damrau esibisce le sue risorse migliori: fiati immensi, legati, mezze voci e una grande intensità espressiva. Mancano i sopracuti alla fine delle arie, ma la performance si incide nella memoria per il temperamento esibito nel duello verbale con Elisabetta, qui Salome Jicia, anche lei al debutto in Donizetti. Il soprano georgiano dimostra una notevole presenza vocale ma la dizione è quasi incomprensibile. Ahimè, una grande delusione è il Roberto di Paolo Fanale, esangue e dagli acuti tirati, un Nemorino fuori posto. Nicolas Testé non è mai stato particolarmente convincente dal punto di vista vocale e neanche questa volta lo è: il suo è un Talbot spento e grigio. André Courville è un Cecil vocalmente grezzo e rovinato dalla regia.

La regia, dunque. Alden enuncia fin da subito il tema: durante la sinfonia iniziale le due regine si affrontano nel vuoto dello spazio marmoreo di Gideon Davey che firma anche i costumi. Al centro il baluginio delle pietre preziose di una corona su una sedia: due regine, un solo trono. La lettura di Alden e la drammaturgia di di Fabio Dietsche sono estremamente semplicistiche e con scelte al limite del grottesco, come lo scheletro dorato che scende dall’alto o il Cecil dall’aria truce che si aggira minaccioso con una scure per tutta la durata dell’opera fino a farla scendere con sadica soddisfazione sulla testa della Stuarda nel finale. I personaggi sono in abiti che mescolano elementi di varie epoche, costumi non molto comodi in cui spesso gli interpreti inciampano o non riescono a levarsi di dosso quando è l’ora. Bello invece il finale, con il popolo che porta i ritratti della regina, fiori e candele sul luogo dell’esecuzione, come abbiamo visto in televisione dopo gli attentati terroristici.

Boris Godunov

Modest Musorgskji, Boris Godunov

★★★★★

Zurigo, Opernhaus, 26 settembre 2020

(diretta streaming)

Un Boris senza coro in scena cambia la storia della rappresentazione

Un Boris Godunov senza coro in scena! L’opera in cui il coro è forse il personaggio principale! Sì, anche a questo ci ha portato il Covid-19. Ma qui a Zurigo non è che manchi del tutto: il coro è a un chilometro di distanza assieme all’orchestra nella sala prove di Kreuzplatz e come per La principessa della Czarda di ieri, cavi in fibra ottica portano i suoni in teatro dove sono emessi da altoparlanti di ultima generazione posizionati nella buca orchestrale e regolati da un tecnico in tempo reale con sofisticate apparecchiature. Forse si sfiora l’effetto karaoke, ma è una soluzione, una delle fattibili.

Ovviamente la messa in scena deve tener conto di questa peculiarità e chi meglio di Barrie Kosky poteva trasformare questa paradossale limitazione in possibilità espressiva? Con la drammaturgia di Kathrin Brunner la sua regia affronta genialmente la sfida e in scena non vediamo il popolo, ma la follia del potere nella sua cruda solitudine. Ispirato dalla figura del monaco Pimen, Kosky esplora il problema di come scriviamo la storia, come la ricordiamo e come la strumentalizziamo.

Nella scenografia di Rufus Didwiszus in quello che è il prologo abbiamo un enorme archivio dove un giovane apprendista – che rivedremo come muto osservatore e poi Innocente – ascolta le voci dai libri accatastati che si aprono in sincrono con il coro. L’effetto, a dire il vero, fa un po’ Muppett Show, ma questo da Kosky ce lo potevamo aspettare. Grossi faldoni custodiscono la Storia e chissà quali e quante storie personali: la loro presenza è minacciosa soprattutto nella scena successiva, quella al Cremlino, dove le scaffalature sono particolarmente incombenti e opprimenti, così da creare un ambiente claustrofobico – altro che «Piazza tra le cattedrali dell’Assunzione e dell’Arcangelo, i sagrati delle quali si scorgono sulla scena, il primo sulla destra, il secondo in lontananza davanti agli spettatori. La piazza è riempita dal popolo in ginocchio». Le luci di Franck Evin creano la magia delle scene che formano quest’opera di modernissima concezione.

L’unico con un ricco costume d’epoca è Boris, un attore che recita la parte dello zar, o un folle che crede di essere zar a cui l’apprendista pone la corona tra le acclamazioni del popolo invisibile e lo scampanio di otto grosse campane fuori scena. Le stesse scaffalature formano la vivace scena della locanda sul confine lituano dove Kosky si diverte con le sapide figure dei monaci e dell’ostessa. Le scaffalature formano ancora gli appartamenti del Cremlino con i giovani figli Ksenia e Fëdor, uno dei Tölzer Knabenchors – quindi intonatissimo.

L’inizio del quadro polacco sembra presagire un’oasi di pace col suo ambiente tutto in oro, ma con l’ingresso del viscido Rangoni suoni sinistri risuonano in orchestra. Con il ricupero di questo quadro si mette molto più in luce il personaggio del pretendente Grigorij e il Boris riacquista il tono di affresco storico che aveva perduto nelle concise versioni che ultimamente sono state preferite dai registi. È proprio un’altra opera.

Negli ultimi due quadri i pochi libri sono sparsi per terra e i cittadini di Mosca ci camminano sopra. Un’enorme campana incombe sulla scena sopra una voragine circolare in cui cadono i personaggi alla fine della loro esposizione. La campana si cala nel foro e ne riemerge con il battaglio formato dal cadavere insanguinato di un uomo: la morte di Boris ha scatenato tutta la crudeltà latente e la sete di vendetta tra le fazioni. L’Innocente sale sulla campana e intona il suo lamento sul copeco rubato e i libri finiscono nella voragine anche loro. La scena rimane vuota.

Barrie Kosky e Kirill Karabits hanno deciso di presentare al pubblico zurighese – e a quello mondiale che segue lo spettacolo in streaming – tutta la musica che Mussorgsky ha scritto, ossia le quasi quattro ore della seconda versione del 1872, compreso l’atto polacco quindi. Per Karabits la limitazione di non essere fisicamente in teatro non sembra aver avuto conseguenze, tanto è intensa l’interpretazione della partitura del direttore ucraino che riesce nell’impresa di dar un’unità di intenti alle sconnesse scene del dramma.

Lo sterminato cast è composto da eccellenze, primo fra tutti Michael Volle che debutta nella parte eponima lasciando il suo segno autorevole; John Daszak è Šujskij; Konstantin Šušakov è Ščelkalov; Brindley Sherratt è Pimen; Edgaras Montvidas è il falso pretendente Grigorij Otrepev; Oksana Volkova la figlia del Voivoda Marina Mniszech; Johannes Martin Kränzle il gesuita Rangoni; Alexei Botnarciuc il monaco beone Varlaam; Iain Milne il secondo monaco Misail; Katia Ledoux l’ostessa; Spencer Lang l’Innocente.

Mentre teatri chiudono, altri stentano ad aprire e produzioni vengono cancellate una dopo l’altra, a Zurigo viene l’esempio di come il teatro possa reagire e dimostrarsi quanto mai vivo nelle avversità. Qui si è fatta la storia della rappresentazione, unendo tecnologia e genio artistico. L’approccio di Kosky sottolinea la necessità per i creatori d’opera e per il pubblico di abbracciare possibilità e pratiche teatrali più creative, quelle la cui realizzazione è stata, per alcuni, attesa da tempo. Come scrive Catherine Kustanczy su “The Opera Queen”: «l’era del Covid-19 ha suscitato reazioni fortemente contrastanti; un’amnesia culturale in alcune sfere – con l’ostinata trascuratezza del ruolo delle arti nell’elevare il discorso e nell’ispirare una riflessione tanto necessaria – insieme a un profondo desiderio di una consolante familiarità attaccata a una presentazione dal vivo decadente, una forma intransigente di nostalgia che aderisce agli stessi cliché che rendono impossibile la presentazione dal vivo in una simile forma. L’attuale nostra era pandemica sta chiedendo (e in alcuni luoghi, esigendo) di dimenticare completamente i bottoni d’oro e le tuniche di velluto, le corone dorate e gli imponenti copricapi, le gonne con la crinolina e le parrucche. Cosa diventerà l’opera, cosa vuole il pubblico e come queste possibilità e desideri possono cambiare, sono domande in continua evoluzione, attualmente in fase di esplorazione in una varietà di ambienti all’interno di un contesto intenzionalmente dal vivo, e in particolare non solo digitale. […] . C’è spazio per la sorpresa e la scoperta tra paura e incertezza? Dove c’è una volontà, potrebbe benissimo esserci un modo».

Die Csárdásfürstin

Emmerich Kálmán, Die Csárdásfürstin

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 25 settembre 2020

(diretta streaming)

Un valzer tra i rifiuti

Il pubblico in sala, ben distanziato e con la mascherina, i cantanti sul palcoscenico, l’orchestra e il coro a un chilometro di distanza nella sala prove di Kreuzplatz. Da lì cavi in fibra ottica trasmettono il suono in tempo reale, quindi in perfetta sincronia, nella sala. E in casa migliaia di persone possono seguire in live streaming non solo lo spettacolo sul palcoscenico, ma anche la vista del podio del direttore o dell’orchestra nella sala prove. Il Covid-19 e la tecnologia aprono nuove strade alla produzione d’opera.

Questo succede a Zurigo per Die Csárdásfürstin (La principessa della Czarda), operetta di Emmerich (Imre) Kálmán, compositore vissuto in tempo per vedere il disfacimento dell’Impero Austro-Ungarico, la Prima Guerra Mondiale e anche la Seconda. Nato in Ungheria nel 1882 sul lago Balaton da famiglia ebrea, fu compagno di studi di Béla Bartók e Zoltán Kodály, ma indirizzò presto i suoi interessi verso l’operetta di cui fu il principale compositore assieme a Franz Lehár nell’“età d’argento” del genere, il primo quarto del XX secolo (1). Dopo il successo nel 1908 di Tatárjárás (che in tedesco ha titolo Ein Herbstmanöver e in inglese The Gay Hussars), ne scriverà un’altra ventina conquistando la fama mondiale con Gräfin Mariza (1924) e Die Zirkusprinzessin (1926). Come molti ebrei dovette lasciare l’Europa per sfuggire alle persecuzioni naziste e si trasferì in California. Ritornato in Europa nel 1949, morì a Parigi quattro anni dopo.

Die Csárdásfürstin, tre atti di Leo Stein e Béla Jenbach, andò in scena a Vienna il 17 novembre 1915. Fu una delle più popolari del repertorio operettistico, ma solo sporadicamente è stata presentata negli ultimi decenni. Ingiustamente, perché in questa operetta Kálmán – un ungherese profondamente radicato nella cultura viennese – combina leggerezza e sentimenti malinconici con lo slancio del valzer. La trama racconta la storia di un triangolo amoroso che coinvolge Sylva Varescu, un’artista di umili origini, e l’aristocratico principe Edwin, già promesso a un’altra donna. L’ostacolo al loro amore è la differenza di status sociale.

L’allegria di fronte al disastro imminente e la danza sull’orlo dell’abisso sono due dei temi centrali del pezzo: «Wo man tanzt und küsst und lacht, pfeif ‘ ich auf der Welt Misere» (Ovunque ci siano balli, baci e risa, me ne infischio della miseria del mondo) cantano i protagonisti all’inizio del pezzo. L’amore diventerà l’ancora di salvezza di fronte alla distruzione: «Si inabissi pure il mondo, io ho te».

Atto primo. All’Orpheum, locale mondano di Budapest, regna incontrastata la bellissima canzonettista Sylva Varescu che, chiamata la Principessa della czarda, dà il suo addio agli amici, in procinto di partire per una trasferta artistica negli Stati Uniti. Il Principe Edwin Ronald Karl Maria von Lippert-Weylersheim, innamorato dd Sylva, si impegna davanti ad un notaio a sposarla entro otto settimane. Edwin viene però richiamato a Vienna dai genitori che lo hanno promesso sposo alla Contessa Stasi. Edwin, controvoglia, è costretto a tornare nel palazzo paterno.
Atto secondo. Nel palazzo del Principe Lippert-Weylersheim si celebra il fidanzamento fra Edwin e Stasi. Sylva, ritornata dagli Stati Uniti, lo viene a sapere e si presenta al ricevimento assieme al Conte Boni, amico di famiglia, spacciandosi per sua moglie. L’arrivo improvviso suscita prima la gelosia di Edwin che si tramuta in dolcezza verso l’amata. Boni, su ordine di Sylva, corteggia Stasi non lasciando indifferente la fanciulla. Sylva, dopo aver ricevuto una nuova dichiarazione d’amore da parte di Edwin, mostra ai convitati l’impegnativa scritta davanti al notaio e annuncia di essere una principessa, la Principessa della czarda. È lo scandalo, i genitori di Edwin non potrebbero mai tollerare che il discendente della gloriosa casata di Lippert-Weylersheim sposi una canzonettista. Sylva, fra le lacrime, abbandona la festa.
Atto terzo. In un albergo di Vienna si trova Feri, un aristocratico amico di Edwin, che ha accompagnato da Budapest la troupe in procinto di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Nello stesso albergo, arriva anche la famiglia di Edwin: Feri riconosce nella principessa, la madre di Edwin, una famosa cantante che anni prima si era ritirata dalle scene. Viene così a cadere il motivo dello scandalo di un matrimonio tra un principe e una canzonettista: Edwin e Sylva coronano il loro sogno d’amore e Boni fa lo stesso con Stasi. Mentre la guerra si avvicina dopo l’assassinio del principe ereditario a Sarajevo, la compagnia teatrale, inconsapevole del pericolo, si mette in salvo partendo per gli Stati Uniti insieme alle due felici coppie di novelli sposi.

Questa la trama. Ma qui a Zurigo – con la drammaturgia di Claus Spahn, la regia di Jan Philipp Gloger, la scenografia di Franziska Bornkamm e i costumi di Karin Jud – la vicenda si svolge a bordo di uno yacht di riccastri cafoni che gettano i rifiuti in mare e hanno sempre il bicchiere in mano. Edwin qui è il proprietario della “Csárdás Fürstin” ed è già sposato, Sylva appartiene all’equipaggio. La crociera in giro per il mondo è occasione per far comparire a bordo prostitute balinesi, danzatrici hawaiane, orsi polari e pinguini e altra fauna assortita, tutti quanti travolti al ritmo dei valzer. Quando lo yacht ha un incidente e si minaccia il naufragio gli incoscienti non hanno di meglio da fare che danzare gettando via i giubbotti di salvataggio. E il piccolo Titanic in effetti si incaglia in un mare pieno di plastica. Il momento dell’arrivo dei soccorsi è anche il momento della verità: sull’elicottero del padre di Edwin non c’è posto per una ballerina. La salvezza definitiva per i nostri eroi avviene con la prua dello yacht che intraprende un viaggio interplanetario mentre la martoriata Terra esplode. Il brindisi finale avviene davanti agli sguardi esterrefatti degli extraterrestri.


Con la sua lettura Jan Philipp Gloger vuole dimostrare che il genere dell’operetta apparentemente antiquato è in realtà l’opposto, a condizione che lo si avvicini con un occhio moderno per la drammaturgia. Intento lodevole e coraggioso, qui solo in parte risolto: l’operetta ha una sua leggerezza che mal si adatta alla critica sociale e alla contemporaneità. Qui poi si sente la mancanza del tocco irriverente di Kosky e del suo coreografo e lo spettacolo non sempre ha il ritmo che dovrebbe avere.

Sul podio a distanza Lorenzo Viotti, che aveva affermato essere più difficile dirigere un’operetta che un’opera, dimostra di aver superato brillantemente la prova con la leggerezza, le suadenti melodie e i rubati di questa musica. E il tutto fatto con molto gusto.

Sylva Varescu è una Annette Dasch dalla voce talora voce aspra, meglio l’Edwin di Pavol Breslik. Buoni caratteristi sono il Boni di Spencer Lang e il Feri di Martin Zysset. Rebeca Olvera dà voce a Stasi.

(1) Intendendo per “età d’oro” quella francese di Offenbach e Hervé e quella viennese di Strauss jr. e von Suppé.

Euryanthe

Carl Maria von Weber, Euryanthe

★★★★☆

Vienna, Theater an der Wien, 12 dicembre 2018

(video streaming)

Il baritono messo a nudo

Il demoniaco non è presente solo nel Freischütz, anche in Eurianthe Carl Maria von Weber affronta il tema nel personaggio di Lysiart nel primo quadro del secondo atto. La scena “Giardino del castello. Cielo tempestoso. Notte” echeggia alla lontana quella della gola del lupo della novella di Kind e anche qui c’è un giuramento, altrettanto terribile: «Potenze vendicatrici, io mi consacro a voi, che mi chiamate a un nero misfatto! Il seme del Male si è sparso, il germe della maledizione sboccerà!».

Secondo tradizione, del quartetto di voci il più malvagio è il baritono, seguito dal mezzosoprano. Assieme essi complottano contro l’amore del soprano e del tenore. Il problema infatti è che il baritono ama il soprano e il mezzosoprano il tenore, le persone sbagliate insomma. Da qui il dramma. In Eurianthe Lysiart è il baritono, Eglantine il mezzo soprano e assieme formano la coppia diabolica, Adolar ed Euryanthe sono invece la coppia di innamorati infelici. Nella lettura di Christof Loy c’è poi la coppia del re e della duchessa di Borgogna, qui personaggio muto e infine la coppia di Udo ed Emma, questi nell’aldilà.

Ogni regista ha un suo caratteristico approccio e di Christof Loy sappiamo che ogni suo allestimento prende la piega di un dramma psicologico. La “große romantische Oper” del Theater an der Wien non fa eccezione con la drammaturgia di Klaus Bertisch e la scenografia di Johannes Leiacker: un’alto soffitto con lucernario, quattro grandi finestre a sinistra e un magnifico gioco, di luci di Reinhard Traub, che ricrea l’atmosfera dei diversi ambienti previsti dalla vicenda, qui ambientata in un’unica lunga stanza con un pianoforte, un letto, un alberino scheletrico in vaso. Tutto quanto sparisce nel quadro primo del terzo atto, “Notte di plenilunio. Rocce di aspetto sinistro, ricoperte da cespugli. Un ripido sentiero scende da un’altura. In primo piano una sorgente con attorno salici piangenti”. Non c’è nessuna concessione al decorativismo nella lettura di Loy,  contano soltanto i sentimenti dei personaggi messi a nudo –  e non solo metaforicamente: nel secondo atto Andrew Foster-Williams, l’interprete di Lysiart, mostra le sue non gloriose nudità per i dieci minuti buoni della scena prima, dal recitativo «Dove nascondermi? Dove ricuperare i miei spiriti?» all’aria che termina con «Se egli muore, il mio cuore sarà colmato, il mio cuore agitato dalla tempesta».

Non ci sono rocce, foreste, sorgenti qui e sarà la stessa Eglantine ad apparire al posto del serpente quando Adolar sta per uccidere Euryanthe – salvo poi uscire con Adolar stesso e lasciare il pubblico in dubbio su quanto possa succedere fuori scena mentre Euryanthe è lasciata sola a disperarsi.

Nella lettura di Loy non c’è ovviamente posto per il balletto, qui sostituito da una pantomima con Eglantine e Lysiart mentre la canzone di Berthe è cantata dal coro femminile ed è tagliata la scena del corteo nuziale, passando subito alla confessione di Eglantine. Assente è anche la scena del duello. I costumi di Judith Weihrauch suggeriscono gli anni ’60 del secolo scorso

Superba direzione quella di Constantin Trinks che restituisce tutti i colori di un’opera che prefigura il Wagner che verrà – siamo nel 1823, L’olandese volante è di vent’anni dopo, ma in Eurianthe,  il penultimo lavoro di Weber che concluderà la sua carriera operistica nel 1826 con Oberon pochi mesi prima di morire a soli quarant’anni, ci sono già molti degli elementi che formeranno le opere di Wagner. Gli strumenti fuori scena danno spazialità e i vari stili musicali impiegati dal compositore sono perfettamente resi dalla Radio-Symphonieorchester Wien. Ottimo come sempre l’Arnold Schönberg Chor.

Di eccellenza il cast, a iniziare dalla Euryanthe di Jacquelyn Wagner che riesce a dare spessore a un personaggio idealizzato: vocalità sicura e timbro chiaro e nobile. In preda ad angosce segrete, indeciso e turbato dalla sensualità di Eglantine, Adolar trova in Norman Reinhart interprete scenicamente convincente e dalla voce luminosa. Il Lysiart di Andrew Foster-Williams Lysiart è vocalmente tutt’altro che raffinato con sbandamenti di intonazione e asprezze, ma il personaggio c’è tutto. Così per l’Eglantine di Theresa Kronthaler, dove i suoni duri sono coerenti con la doppiezza della figura combattuta interiormente. Come Re Luigi VI Stefan Cerny completa con pacata autorevolezza il quintetto di interpreti – i personaggi di Berthe e Rudolf qui sono soppressi.

Il Theater an der Wien conferma la sua lodevole vocazione a presentare titoli meno scontati in allestimenti di grande interesse: un prezioso contraltare alla polverosa programmazione della maggiore Staatsoper.

INK

Dimitris Papaioannou, INK

Torino, Teatro Carignano, 23 settembre 2020

Il teatro di Papaioannou, una mitologia contemporanea

È sempre molto difficile catalogare uno spettacolo di Dimitris Papaioannou. Per la rassegna “Torinodanza” l’artista greco ha portato una performance ideata durante il confinamento da Covid-19 e il suo progetto sfugge a una semplice definizione: lo spettacolo riprende i temi del corpo umano, della fisicità, della materia utilizzando questa volta in maniera invasiva l’acqua che esce dai tubi di irrigazione scendendo a pioggia su una scena spoglia riparata sul fondo da teloni impermeabili che fungono anche da “sipario” verso un altro mondo.

In scena due uomini: uno è Dimitris, tutto vestito di nero, l’altro è Šuka Horn, giovane, nudo, apparentemente fragile, una creatura marina che sbuca da sotto le lastre trasparenti che coprono il palcoscenico. Inizialmente è visto come una minaccia che il primo uomo cerca di contenere schiacciandolo sotto le lastre. Poi il rapporto fra i due evolve fino a diventare come quello tra un padre e un figlio, ed è quest’ultimo che alla fine sembra avere la meglio sul “vecchio” genitore. I due corpi agiscono in un mondo fantastico per luci e rumori – e qui l’acqua con i suoi suoni e le sue rifrazioni luminose gioca un ruolo quasi magico. Lo spettacolo sfiora la fantascienza, l’horror, con il buio, il bambolotto del neonato o quella piovra (spero finta!) che a un certo punto funge anche da cache sex

Il suo è un teatro visivo, di citazioni pittoriche, di forme plastiche, di intense relazioni fisiche che portano il corpo umano al limite delle possibilità, temi spesso incontrati negli spettacoli precedenti di Papaioannou che per l’occasione ha scritto: «Avevo pensato di creare un’installazione con alcuni interventi performativi e alla fine ho realizzato uno spettacolo, che è nato da un profondo e personale flusso emotivo, creando uno stato emozionale molto diverso dai miei lavori precedenti. Io cerco di capire la vita e di materializzare sul palcoscenico il mio sentire e le mie domande sulla vita e allora incontro gli archetipi. E quando inciampi sugli archetipi, incontri il Mito. Perché questo è ciò che i Miti fanno, visualizzano e raccontano temi universali».

La Parigi musicale del primo Novecento

Flavio Testi, La Parigi musicale del primo Novecento

2003 EDT, 433 pagine

Non mancano certo testi su questo argomento, ma La Parigi musicale del primo Novecento si discosta per il sottotitolo “Cronache e documenti”, infatti l’autore, il compositore Flavio Testi, raccoglie recensioni giornalistiche, articoli delle riviste specializzate, programmi di sala dei teatri d’opera o dei luoghi dei concerti per illustrare una delle stagioni artistiche più ricche di una città al culmine del suo sviluppo economico e sociale.

Ecco quindi la creazione e il “fallimento” del Pelléas et Mélisande di Debussy nelle corrispondenze del compositore con Maeterlink, Louÿs, Chausson; nelle pagine della “Revue d’histoire e critique musicales”; nelle critiche dei giornali del tempo. Oltre a Debussy nel libro troveremo i nomi di Maurice Ravel, Richard Strauss con la sua Salome, il Boris Godunov appena arrivato da San Pietroburgo, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler, Erik Satie, il Wagner del Parsifal, La vida breve di De Falla e le tante stagioni dei balletti russi.

Parigi è a quel tempo una città «in cui il piacere diventa un’industria nella quale un’immensa folla brulica ansiosa, in cui l’eleganza è un’inesausta rincorsa e il fascino una fiamma di breve durata. Ma la Parigi del primo Novecento non è solo la città dei 100 teatri, delle 1000 feste mondane, dei primi cinematografi e dei famosi café-chantant; è anche l’immenso atelier a cielo aperto in cui una moltitudine di artisti e intellettuali lavora alla costruzione di ciò che oggi definiamo modernità». Tutto avrebbe avuto termine il 1° agosto 1914 quando i giornali annunciano l’imminente guerra. Sarà il tramonto definitivo di un’epoca.

Artaserse

Johann Adolph Hasse, Artaserse

Sydney, City Recital Hall, 7 dicembre 2018

(registrazione audio)

Teatro barocco in Australia

Che si debba andare agli antipodi per assistere a spettacoli di teatro musicale italiano del Seicento e Settecento è una delle tante stranezze del mondo dell’opera.

A Sydney la Pinchgut Opera, compagnia d’opera da camera nata nel 2002, presenta ogni anno titoli barocchi con un’orchestra di strumenti d’epoca, opportunamente chiamata Orchestra of the Antipodes, e un cast di interpreti specializzati in questo repertorio. Ci sono stati quindi Monteverdi (L’Orfeo, 2004; L’incoronazione di Poppea, 2017; Il ritorno di Ulisse in patria, 2019), Cavalli (Ormindo, 2009; Giasone, 2013), Purcell (The Fairy Queen, 2003), ma anche Charpentier (David et Jonathan, 2008), Rameau (Dardanus, 2005; Castor et Pollux, 2012; Anacréon et Pigmalion, 2017), Grétry (L’amant jaloux, 2015) e ovviamente Händel (Semele, 2002; Theodora, 2016; Athalia, 2018), Vivaldi (Juditha triumphans, 2007; Griselda, 2011; Bajazet, 2015; Farnace, 2019), il giovane Mozart (Idomeneo, 2006), Haydn (L’anima del filosofo, 2010; Armida, 2016), Salieri (Lo spazzacamino, 2014) e Gluck (Iphigénie en Tauride, 2014).

Nel 2018 è la volta di Hasse con il suo Artaserse (1730, Venezia), uno dei lavori più conosciuti del compositore italo-tedesco, nella versione di Dresda di dieci anni dopo ma con molti tagli. La drastica riduzione dei recitativi può essere dettata dal fatto che la lingua è sconosciuta in quelle lande, ma così si perdono elementi essenziali del lavoro di Metastasio, come il quasi svelamento dell’assassinio di Serse nel primo atto, un momento culminante della vicenda:

Artabano – Ma il nome?
Semira – Ogn’un lo tace, | abbassa ogn’uno a mie richieste il ciglio.
Mandane – (Ah fosse Arbace!)
Artabano – (È prigioniero il figlio?)
Artaserse – Dunque un empio son io! Dunque Artaserse | salir dovrà sul trono d’un innocente sangue ancora immondo, | orribile alla Persia, in odio al mondo.
Semira – Forse Dario morì?
Artaserse – Morì Semira. | Lo scellerato cenno uscì da i labbri miei. Fin ch’io respiri | più pace non avrò. Del mio rimorso | la voce ogn’or mi suonerà nel core.
Mandane – Troppo eccede, Artaserse, il tuo dolore. | L’involontario errore | o non è colpa o è lieve.
Semira – Abbia il tuo sdegno | un oggetto più giusto. In faccia al mondo | giustifica te stesso | colla strage del reo.

Qui è tutto tagliato! Come poco dopo nella scena undicesima il breve e attonito istante:

Artaserse – L’amico!
Artabano – Il figlio!
Semira – Il mio german!
Mandane – L’amante!

Ancora meno comprensibile l’omissione delle arie di Artabano («Su le sponde del torbido Lete»), Arbace («Lascia cadermi in volto»), Mandane («Mi credi spietata”), Semira («Non è ver, che sia contento»). Altre sono prive del da capo e intere scene tagliate. Nella direzione senza particolari raffinatezze, a tratti furiosa, di Erin Helyard è il ritmo più che il colore strumentale o l’eleganza melodica a dominare: le selvagge strappate degli archi e i pesanti accompagnamenti lasciano poco spazio alle sottigliezze e alla cantabilità “italiana” della partitura.

Nel ruolo eponimo il tenore Andrew Goodwin ha una vocalità con asprezze soprattutto negli acuti, per non dire della dizione. Perfetta stilista, Vivica Genaux (Mandane) compensa il timbro un po’ metallico con una tecnica superlativa. Nell’impervia aria che conclude il primo atto («Che pena al mio core») dimostra un agio prodigioso, ma è dopo che lascia stupefatti in «Se d’un amor tiranno», undici minuti di espressive colorature in cui il personaggio estrinseca tutti i suoi dubbi e tormenti: «lasciami nell’inganno, | lasciami lusingar, | che più non amo». Carlo Vistoli è Artabano, uno dei caratteri più complessi: in «Non ti son padre» i salti di registro e le raffinate variazioni rivelano la grande maturità dell’interprete che rifulge ancora in «Pallido il sole», finale atto II. Tutto il pubblico è però per l’eroe di casa, David Hansen (Arbace) e gli perdona i suoni artificiali e intubati, l’intonazione talora fantasiosa. Ma in «Parto qual pastorello» il controtenore australiano fa sfoggio di una esibizione di agilità che fa ricordare quanto originariamente la parte fosse stata scritta per il Farinelli. Sgradevole voce chioccia è quella di Emily Edmons (Semira), efficace Russell Harcourt (Megabise), il terzo controtenore.

Ambientato in epoca edoardiana con le belle scene di Charles Davis, la regia di Chas Rader-Shieber non ha entusiasmato la critica. Scrive Justine Nguyen di “Limelight”: «I valori musicali sono alti, quindi è un peccato che elementi così promettenti vengano delusi da una produzione poco convinta che fa poco per approfondire il dramma. Artaserse è un’opera innegabilmente statica ricca di arie con da capo che il regista deve trovare il modo di animare al meglio in modo organico. In questo caso Chas Rader-Shieber e ha adottato un approccio sconcertante. Ci sono registi che sanno come rendere convincenti anche i cantanti più inerti sul palco, ma Rader-Shieber non sembra essere un tipo così raro. L’impressione costante è che troppo poco tempo sia stato speso sui personaggi e sulla scenografia, il che significa che la maggior parte di loro si impegna a fare gesti di maniera: irrompere attraverso le porte, crollare sulle sedie e picchiare sui muri invece di muoversi con un intendimento drammaturgico. […]. Una mano registica più ferma sarebbe stata di grande beneficio».

Houdini the Great


Andy Pape, Houdini the Great

Alessandria, Cortile di Palazzo Cuttica, 19 settembre 2020

Un’“opera da cortile” laurea gli studenti del Conservatorio Vivaldi

Mettere in pratica quanto hanno imparato. Ecco l’intento principale di Scatola Sonora, Festival Internazionale di opera e teatro musicale di piccole dimensioni giunto quest’anno alla XXIII edizione. Sotto la guida dei loro insegnanti gli allievi del Conservatorio Vivaldi di Alessandria per la prima vera volta affrontano le gioie e le fatiche del palcoscenico per esibirsi nella messa in scena ed esecuzione di un’opera aperta al pubblico mettendo a profitto quello che hanno studiato.

Quest’anno a causa del Covid-19 le cose non sono andate come si voleva: l’interruzione dell’attività didattica in primavera non solo ha impedito lo svolgersi del festival a fine anno accademico come da sempre è stato, ma ha messo in forse anche la possibilità di farne una versione autunnale per la mancanza di tempo per le prove. Ma la determinazione e la passione di insegnanti e studenti hanno permesso di allestire in pochissime settimane uno spettacolo che ne corona la fatica e che quest’anno costituisce anche l’esame finale di tre allievi che vengono ufficialmente laureati alla fine della rappresentazione.

 

Organizzatore instancabile delle varie edizioni è Luca Valentino, direttore artistico della rassegna e regista. Ogni anno ha stupito per la scelta di titoli desueti da portare alla conoscenza del pubblico: sono state a loro modo memorabili le riscoperte di Ernelinda di Leonardo Vinci nel 2015, Il paratajo di Nicolò Jommelli nel 2016, Hin und zurück di Paul Hindemith nel 2017, I due timidi di Nino Rota nel 2018 e La liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina di Francesca Caccini nel 2019, per rimanere agli ultimi anni.

Quest’anno tocca a un vecchio amore di Valentino da lui scoperto oltre vent’anni fa e finalmente messo in scena: un’opera del 1988 del compositore americano naturalizzato danese Andy Pape. Houdini den store (Houdini il grande) è il titolo originale in danese di quest’“opera da strada” in otto scene, quattro cantanti e sei musicisti su testo di Erik Clausen, qui rappresentato nella versione inglese tradotta dallo stesso Pape e da Mariane Børch, per la prima volta in Italia.

Prologo. A Brooklyn, New York, un Agente di Polizia dà un ironico benvenuto ai nuovi immigrati appena sbarcati in America pieni di speranze. Fra essi, il giovane Houdini e la bella Kowalski che, affamata, ruba una mela. Scena I. L’Agente cerca di arrestare Kowalski per il furto, ma Houdini riesce a farla scappare distraendo il poliziotto con i suoi trucchetti di magia. Scena II. Houdini riflette su quanto accaduto e intuisce che la libertà è il sentimento più importante per il Nuovo Mondo e decide di incarnarlo attraverso i suoi numeri di magia. Ripensa alla Mama, rimasta in Italia, a Napoli, che disapprova la partenza del suo unico figlio verso l’ignoto temendo che possa fare la fine del padre. Scena III. A distanza, Mama e Kowalski parlano del loro amore per Houdini. Scena IV. L’Agente ha perso il suo posto di lavoro per essersi lascia-to sfuggire Kowalski, e per di più con le manette d’ordinanza. Scena V. Houdini convince l’Agente a diventare il suo manager/imbonitore e incontra nuovamente Kowalski che gli dichiara il suo amore. Scena VI. Attraverso le lettere che Mama riceve, seguiamo il crescere dei successi di Houdini prima in America e poi in Europa, dove si esibisce persino davanti alla Regina Vittoria e al Papa. Troppo preso dalle sue invenzioni il mago però trascura Kowalski che finisce per avere una tresca con l’Agente. Scena VII. Houdini torna a casa da Mama e le annuncia un nuovo in-credibile numero di escapismo: cercherà di fuggire dalle profondità del porto di New York. Finale. L’esibizione ha luogo, ma Houdini non risale dalle acque. Al cordoglio degli altri si unisce la consapevolezza che Houdini ha raggiunto ciò che cercava: l’immortalità.

L’opera da strada diventa opera da cortile nella corte del Conservatorio: tra due distinti palcoscenici – espediente per salvaguardare il distanziamento e per definire i due diversi luoghi, Brooklyn e Napoli, in cui si immagina la vicenda – si collocano i musicisti: Francesco Barbagelata ai sintetizzatori, Ivano Buat tromba, Stefano Arato fisarmonica, Terens Sotiri chitarra, Thomas Petrucci chitarra basso mentre Matteo Montaldi e Giulio Murgia si occupano delle percussioni, in totale sette musicisti invece di sei, sotto la precisa guida di Giovanni Battista Bergamo.

 

La musica di Pape fa a meno delle sperimentazioni e delle avanguardie del XX secolo. Preferisce utilizzare procedimenti armonici e melodici di collaudata e rassicurante tonalità e fa del colore strumentale il suo maggior mezzo espressivo: ecco quindi i toni di ballad affidati alla chitarra, i temi abbaglianti della tromba e gli spunti nostalgici della fisarmonica sugli sfondi atmosferici delineati dalle tastiere e dalle sornione percussioni. Tutto un mix di mondi sonori variegati quanto varie sono le nazionalità degli immigrati sbarcati a Ellis Island.

I tre neo-dottori in canto lirico sono il tenore Xu Zhe, il soprano Fabiola Salaris e il mezzosoprano Luo Zixin, rispettivamente impegnati nelle parti di Houdini, Kowalski e Mama. Il giovane baritono Roberto Romeo presta voce e corpo al poliziotto Legge-e-Ordine.

Sono soprattutto le due interpreti femminili a evidenziare un precoce temperamento vocale e scenico. Nel personaggio istintivo della giovane e avvenente Kowalski, la ragazza spinta dalla fame e dalla sensualità, che si innamora prima di Houdini e poi dell’ex-poliziotto, Fabiola Salaris dimostra notevole volume sonoro e ottimo dosaggio delle sue capacità canore. Con la sua performance il suo diventa il personaggio meglio definito. Sapida la caratterizzazione della Mama da parte di Luo Zixin, che dal suo basso napoletano ripete la litania di un arcano grammelot: «Oh bello, bello bambino. Amore! Mama velino Torino. Amore, lavoro. Allora artista, oh bella la vista. Bambini Vincini, oh papa Houdini el morte finale, el morte finito. Oh bello…». Mama è il personaggio che più si avvicina all’idea espressa dal compositore sul sapore di commedia dell’arte della sua opera. Spigliata presenza scenica quella dei due interpreti maschili a cui fa difetto per entrambi una dizione inadeguata – e qui la lingua inglese non è stata certo di aiuto.

Luca Valentino aveva già invitato Andy Pape ad Alessandria con il suo spettacolo The Secret Life of Harry Wallberg per uno dei primi appuntamenti di Scatola Sonora, ma quest’anno il regista realizza finalmente il sogno di mettere in scena il suo Houdini. Valentino fa miracoli con il poco a disposizione: un semplice spazio scenico (quasi un carro di Tespi anche questo ispirato alla commedia dell’arte) e una scenografia minimalista che comprende una foto d’epoca della Statua della Libertà e una del Vesuvio. Una bandiera a stelle e strisce è l’unico oggetto di scena assieme a una carta da gioco gigante che riporta sulle due facce le immagini di Queen Victoria e papa Benedetto XV, gli illustri spettatori delle imprese dell’illusionista. I suoi trucchi scandiscono la seconda parte dell’operina, mentre l’ultimo, quello tragico, lo consegna all’immortalità tanto desiderata: «La mia ultima fuga è riuscita, vincere la vita dalla morte: questa è la vera magia! Io sono morto, lunga vita a Houdini! Ora sono felice». Nel paese della libertà Houdini aveva coronato il suo ultimo sogno di fuga.

I curatissimi costumi storici danno il tocco di realismo alla storia mentre uno sparuto gruppo di comparse (il maledetto virus non ha permesso di più) forma la folla di immigrati e spettatori: la straniante mascherina sul volto ne cancella le individualità, ma ognuno si ritaglia un ruolo efficace nella vicenda.

Se si pensa che tutto questo è stato concepito, provato e realizzato in due settimane c’è da gridare al miracolo. Sì, la magia del teatro si è ancora una volta compiuta, ma dietro ci sono la passione e la dedizione di persone molto reali.

La settimana prossima si replica a Milano presso la Società Umanitaria in via Solari 40.

MITO

MITO Settembre Musica

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 16 settembre 2020

Antonio Vivaldi
Concerto in re per archi e basso continuo RV 127
Nisi Dominus, salmo per contralto, archi e basso continuo RV 608
Sonata in Si bem per archi e basso continuo RV 130 Al Santo Sepolcro
Longe mala, umbræ, terrores, mottetto per contralto, archi e basso continuo RV 629

Vivaldi sacro e sensuale

Non bastava il Covid-19: un’infiltrazione dal tetto con conseguente rischio di caduta di stucchi dal soffitto ha costretto a transennare una buona parte dei posti di platea della sala del Conservatorio, posti già decimati dal distanziamento, e i suoni rimbombano molto più del solito in una sala quasi vuota. È il secondo turno serale dei concerti di Mito, unica possibilità di raddoppiare gli esigui posti a disposizione, così però i musicisti devono ripetere dopo poco tempo l’esecuzione e la stanchezza può farsi sentire. Per non dire dell’uscita del pubblico quasi a mezzanotte.

“Spiritus Dei” è il titolo del concerto del Venice Baroque Consort, un ensemble formato dalle prime parti dell’Orchestra Barocca di Venezia nata dall’incontro di Andrea Marcon con l’Accademia di San Rocco. Sul palco due violini, una viola, un violoncello, un contrabbasso, un liuto e un clavicembalo (qui organo) per eseguire quattro composizioni del prete rosso. Dopo il breve e vivace concerto a quattro parti RV 127 – “sbrigativo” è definito da Marco Emanuele nel programma di sala – si entra nel sacro vivaldiano, un sacro di carne e sensualità in cui la voluttà degli abbellimenti vocali trascende il testo per diventare puro piacere sonoro. Sono un salmo e un mottetto: il Nisi Dominus, cantata in nove sezioni che alternano l’estatico incanto ipnotico di “Cum dederit dilectis suis somnum”, il presto di “Sicut sagitta in manu potentis” e l’acrobatico “Amen” finale. Quasi un esorcismo musicale il Longe mala, umbræ, terrores, due arie separate da un recitativo e un “Alleluia” finale. Un pezzo spiritato non legato a una particolare occasione liturgica com’è invece la sonata Al Santo Sepolcro, una sonata da chiesa, pensata per la Settimana Santa, in due movimenti: un largo solenne con asprezze e dissonanze e un allegro ma poco in cui il compositore evidenzia la sua abilità contrappuntistica.

Il Venice Baroque Consort dimostra una grande pulizia di suono e la presenza delle prime parti garantisce della qualità dell’esecuzione. Vivaldi è il compositore di elezione per questa compagine affiatata e si sente in ogni nota. Il sontuoso timbro del mezzosoprano Romina Basso, interprete ideale di questo repertorio che frequenta con acclamato successo, si lega perfettamente al suono dell’ensemble e non c’è difficoltà tecnica che la cantante non affronti e risolva in maniera eccellente. Qualche sbandamento di intonazione è compensato dalle fluide agilità e dall’intensità dell’espressione.

Il pubblico forzatamente esiguo non lesina negli applausi così da ottenere il bis dell'”Amen” del Nisi Dominus.