Mese: Maggio 2018

Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

Leoš Janáček, Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

★★★★☆

Praga, Národní Divadlo, 29 maggio 2018

«Che opera ci si potrebbe fare!»

I primi problemi Rudolf Těsnohlídek, l’autore del romanzo da cui è tratta l’opera di Janáček, li aveva avuti con la dattilografa cui dettava le bozze della vicenda, in quanto l’allegra franchezza di alcune pagine toccavano la pruderie della signorina. Poi ci fu la tipografia, che cambiò l’originale Bystronožka (piè veloce) in Bistrouška (orecchi aguzzi). Comunque alla fine grande fu il successo per le puntate pubblicate nell’edizione pomeridiana del “Lidové noviny” (Il giornale del popolo) di Brno tra il 7 aprile e il 23 giugno del 1920, con le illustrazioni di Stanislav Lolek, raccolte l’anno seguente in volume. Il 6 novembre 1924 l’opera debuttava al Teatro Nazionale di Brno.

Sembra che sia stata la governante di casa Janáček a suggerire la storia al padrone di casa: «Signore, lei conosce bene il linguaggio degli animali, sta sempre ad annotare il canto degli uccelli. Che opera ci si potrebbe fare!». Il compositore prima aveva sorriso alle illustrazioni, poi si era interessato alla vicenda e così nacquero Le avventure della volpe orecchi aguzzicome suona in originale il titolo. Le ore passate sulle alture di Hukvaldy ad ascoltare i rumori della natura – il brusio degli insetti, il cinguettio degli uccelli, il fruscio degli alberi – gli suggerirono i suoni di questa “favola per anziani”.

Opera di routine al Teatro Nazionale Praghese, questa produzione di qualche anno fa si avvale della ingegnosa scenografia di Martin Černý: un piano inclinato in cui sono ritagliate quattro sezioni circolari, con pali conficcati che suggeriscono gli alberi del bosco, che ruotando creano le tane degli animali, ma servono anche a creare il suolo instabile sotto i piedi degli ubriachi che tornano a casa. Nella parte anteriore, come nei libri pop-up, si aprono gli ambienti della taverna e della fattoria.

Kateřina Štefková innesta sugli abiti anni ’20 code e orecchi per i personaggi animali, oppure esilaranti costumi per le galline di cui fa strage la volpe. Il regista Ondřej Havelka illustra con linearità la vicenda del ciclo della natura tramite l’intrecciarsi delle vite del guardacaccia e della volpe. Quella dell’animale segue un arco drammatico ben definito che manca a quella dell’umano e alla sua infelice storia d’amore con Terynka, qui un personaggio in carne ossa.

Gli eccellenti interpreti non hanno problemi con la lingua e sono abituati al teatro di Janáček che qui è di repertorio, i cori di bambini sono perfettamente intonati e si muovono in scena con grande agio, le coreografie sono essenziali ma di gusto e il direttore, Robert Jindra, di ineccepibile professionalità.



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Z mrtvého domu

 

Leos Janacek, Z mrtvého domu  (Da una casa di morti)

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 26 maggio 2018

(live streaming)

L’opera profetica di Janáček nel collage surreale di Castorf

Per l’ultima opera di Leoš Janáček i superstiziosi avrebbero materia per le loro ossessioni: a parte il titolo, c’è il fatto che dopo averci lavorato per due anni il compositore morì all’improvviso nell’agosto 1928 senza poter rivedere l’orchestrazione del terzo atto, così che l’opera fu rappresentata postuma a Vienna nel 1930 in una versione piuttosto rimaneggiata da Břetislav Bakala e Osvald Chlubna. Alla stesura originale si arriverà solo quarant’anni dopo: se ancora nelle edizioni discografiche di Bohumil Gregor (1965) e Václav Neumann (1980) vennero mantenute alcune delle pesanti interpolazioni dei revisori, è solo nel 1974 che Václav Nosek dirige l’opera a Brno senza aggiungere nulla a quanto già esisteva nei manoscritti originali. Analogamente si sono comportati John Tyrrel e Charles Mackerras per l’edizione digitale del 1980. «Se l’opera è stata avvolta per decenni nel morbido involucro della romantica revisione Bakala-Chubna – come il Boris Godunov di Musorgskij nella versione di Rimskij-Korsakov – qualche ragione vi sarà stata, e non è stato un gran male: il nostro tempo è molto più adatto di quello passato ad accogliere Da una casa di morti nella sua scheletrica ferocia e nel suo scabro e spietato espressionismo», scrive Franco Pulcini.

Autentico testamento artistico e potente messaggio di pietà per quel frammento di umanità civilmente morta – oltre che opera profetica dei gulag staliniani e dei lager nazisti – Da una casa di morti è talora messa a confronto col Wozzeck di Berg (1926) che però Janáček non vide mai né poté studiarne la partitura; ebbe solo la possibilità di ascoltarne i frammenti eseguiti in concerto da František Neumann a Brno il 3 aprile 1927. Il lavoro di Janáček è molto più realisticamente crudo e spietato di quello di Berg, anche se entrambi danno dignità operistica alle voci di diseredati e oppressi.

E sia ai gulag sia ai lager si ispira la scenografia di Aleksandar Denić qui al Teatro Nazionale di Monaco di Baviera, anche se poi la sua struttura rotante, una vera macchina infernale, utilizza poster cinematografici e un’insegna luminosa della Pepsi oltre a una caotica giustapposizione di oggetti di varie epoche. Conigli in gabbia rispecchiano quella di filo spinato in cui è racchiuso questo microcosmo maschile di criminali, grandi e piccoli, ma tutti degni di compassione, se non di cristiano perdono.

Il sessantaseienne regista Frank Castorf non frequenta molto l’opera lirica, essendo i suoi interessi volti maggiormente al cinema (ha girato tra l’altro I demoni di Dostoevskij, autore di cui si confessa ossessionato) e al teatro di prosa (ha in scena quasi in contemporanea il Don Giovanni di Molière, lo stesso del siparietto del secondo atto nell’opera di Janáček). Il regista tedesco nei suoi spettacoli fa sempre grande uso della musica, ma qui l’horror vacui della sua messa in scena contrasta troppo con l’essenzialità di suoni dell’opera e col suo messaggio etico. Come se tutto ciò non bastasse, a tratti scende uno schermo su cui vengono proiettate immagini di film o scene captate in vari altri punti della struttura, dialoghi sono aggiunti come pure un passaggio del Vangelo in spagnolo. Più che un carcere siberiano il palcoscenico sembra un affollato rifugio di anime perse.

A capo dell’orchestra del teatro l’australiana Simone Young si dimostra un’esperta janáčekiana nella sua lettura drammaticamente livida di questa intensa partitura che viene eseguita senza soluzione di continuità.

Cantato in quella lingua meravigliosamente concisa («abbiamo ottenuto il resto della giornata libera e il permesso di fare teatro questa sera» è la traduzione in italiano di «bude prazdnik, i těatr»!) che Janáček aveva condito di espressioni russe o dialettali, il testo è magistralmente reso da interpreti di varie nazionalità. Citiamo almeno i tre personaggi a cui si devono i tre grandi monologhi: il Luka di Aleš Briscein, lo Skuratov di Charles Workman e lo Šiškov di Bo Skovhus, tutti eccellenti in modo diverso. Gorjančikov è Peter Rose e Aljeja il soprano Evgeniya Sotnikova, che nella lettura di Castorf veste le piume dell’aquila su un costume scintillante di lamé che la trasformano in una paradisea. La costumista Adriana Braga Peretzki si sbizzarrisce con calzemaglie che imitano pelli tatuate o gli scheletri del día de Muertos, piuttosto incongrui nella steppa siberiana e che sembrano avanzati dalla precedente produzione de Les vêpres siciliennes sempre qui alla Bayerische Staatsoper.

Foto © Wilfried Hösl

Der fliegende Holländer

Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’olandese volante)

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 24 maggio 2018

(esecuzione in forma di concerto)

L’islandese volante

Unica opera eseguita in forma concertistica per la corrente stagione dell’Orchestra Sinfonia Nazionale della RAI. Una tradizione che purtroppo diviene sempre più rara anche presso le fondazioni liriche italiane, mentre all’estero è molto più frequentata, permettendo di risparmiare un po’ di soldi sull’allestimento scenico e dando modo di concentrarsi, per una volta, solo sull’aspetto puramente musicale.

Il programma della serata è incentrato sulla romantische Oper di Richard Wagner Der Fliegende Holländer (L’Olandese volante), qui nella versione in tre atti voluta dall’autore stesso dopo quella originale in un atto unico presentata a Dresda il 2 gennaio 1843 – ma da allora seguiranno innumerevoli altre versioni da parte di un compositore mai pienamente soddisfatto del suo lavoro.

Alla guida dell’orchestra RAI c’è il suo direttore principale e neo-Commendatore della Repubblica Italiana, James Conlon. Dopo un’ouverture che non convince pienamente – a parte certi interventi degli ottoni non proprio impeccabili, la lettura del direttore americano è concentrata molto sull’aspetto teatrale e drammatico della partitura, ma mancano un po’ la profondità e il respiro oceanico di questa pagina – le cose si mettono per il meglio con l’ingresso degli interpreti, concertati abilmente e con un attento equilibrio con le massicce sonorità orchestrali. Conlon sembra però prediligere i momenti di danza e di maggior cantabilità di un lavoro che funge da cerniera tra il Wagner immerso nella tradizione musicale tedesca di Weber e Schubert e il “nuovo” Wagner.  Il direttore riesce comunque a evidenziare la mirabile unità di questo lavoro che immerge tradizionali numeri chiusi (recitativi, arie, duetti, terzetti, concertati) in un flusso musicale travolgente.

Merito del successo della serata è anche degli eccellenti cantanti. Il giovane Wagner non ha paura a costruire un intero primo atto sulle voci gravi di un basso e di un basso-baritono, qui entrambi islandesi e dalla sicura vocalità: Tómas Tómasson e Kristinn Sigmundsson. Il primo è un Olandese autorevole dal timbro scuro la cui apparizione è quasi da brivido. Il personaggio è sapientemente scolpito con solo qualche piccolo segno di stanchezza vocale nell’ultima parte. Il secondo è un Daland che dopo l’ingresso possente come comandante della nave si trasforma in padre amorevole ma anche interessato al denaro, come il Rocco del Fidelio beethoveniano, con l’espressione che denuncia la sostanziale meschinità del personaggio che vende la figlia abbagliato dai tesori esibiti dallo straniero. Bellezza di timbro, espressività e grande forza della parola sono le doti di Sigmundsson. Ancora nel primo atto ammiriamo la terza voce maschile prevista da Wagner, il Timoniere, questa volta un tenore, il brillante Matthew Plenk.

Sarà una lontana erede del compositore Amber Wagner che qui veste i panni di Senta? Il soprano americano stupisce per la bellezza del colore della voce – non le stridule e metalliche voci che talora si sentono in questa parte – e dai mezzi vocali prodigiosi che le permettono di completare l’esecuzione senza la minima smagliatura. Un Eric di grande smalto è quello di Rodrick Dixon, tenore squillante e dalla tecnica dispiegata abilmente nei passaggi drammatici come nelle trascinanti pagine liriche esibite nel suo ruolo. Il mezzosoprano Sarah Murphy ha completato come Mary il cast.

Ma L’Olandese volante è anche e soprattutto opera corale. Al nostro Coro Maghini viene aggiunto il Coro Filarmonico Slovacco e il risultato è eccellente sia negli interventi maschili sia in quelli femminili.

Un pubblico non numerosissimo ma prodigo di applausi ha festeggiato con particolare entusiasmo l’orchestra e gli artisti. Speriamo sia di stimolo a far presentare più spesso in questa forma altre opere, anche quelle meno conosciute o di difficile allestimento. Così sarà tra poche settimane con L’ange de Nisida, rarità donizettiana, in concerto al Covent Garden di Londra.

La moglie di Frankenstein

La moglie di Frankenstein

drammaturgia di Rosa Mogliasso

regia alTREtracce e Sax Nicosia

Torino, Teatro Baretti, 23 maggio 2018

Costruzione di una femmina

In attesa del remake hollywoodiano del classico Bride of Frankenstein, gothic horror del 1935, al Teatro Baretti ritorna lo spettacolo che due anni fa rileggeva teatralmente il film di James Whale che fu un sequel del più famoso Frankenstein del 1931.

Al mezzo filmico si ispira la sequenza iniziale, con il gioco di ombre in bianco e nero e acconcia colonna sonora di pioggia e tuoni, per portarci in un cimitero dove avviene il trafugamento di cadaveri da parte del solito scienziato più o meno pazzo, interpretato qui da Sebastiano di Bella. Entrati nel laboratorio, scopriamo che l’esperimento di collage di pezzi di corpi – “spezzatino di cadaveri” verrà poi definito  – riesce perfettamente, a parte il leggero difetto di una creatura anche troppo ciarliera nelle intenzioni del suo creatore.

Tra ironia e humour nero veniamo a contatto con le moderne ossessioni per la bellezza e la giovinezza a tutti i costi, ma come l’Elina Makropulos di Čapek, anche la signora F. è stufa della sua bellezza, della sua immortalità, cui manca però “un’infanzia normale”. In un esilarante monologo si lamenta anche della fiamma della passione a cui il suo creatore non ha saputo dare sufficiente risposta.

Se la pettinatura si rifà a quella di Elsa Lanchester del film originale e anche l’abito è simile, qui il corpo è quello maschile di Sax Nicosia per evidenziare l’artificialità di un essere costruito pezzo dopo pezzo. L’attore si cala perfettamente nella parte e il gioco di espressioni vocali e gestuali – mirabile il gioco delle mani – costruisce con sapienza il perturbante “mostro” che tanto ci rispecchia.

Il segreto di Susanna / La voix humaine

Ermanno Wolf-Ferrari, Il segreto di Susanna
Francis Poulenc, La voix humaine

★★★★☆

Torino, Teatro Regio, 16 maggio 2018

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Della condizione femminile in due atti unici del ‘900

Esattamente cinquant’anni separano queste due composizioni, 1909 e 1959 le date dei rispettivi debutti. I due personaggi femminili sono donne che più diverse non potrebbero essere: una, quella di Il segreto di Susanna, cerca l’emancipazione nel fumo, vizio principalmente maschile; l’altra, quella di La voix humaine, dall’uomo non riesce invece a emanciparsi ed è preda della disperazione per l’abbandono dell’amato. Due diverse declinazioni dell’universo femminile: la prima, quella di inizio secolo è del tutto inattuale, la seconda, quella di Poulenc, una sua attualità invece ce l’ha, con i casi di violenze sulle donne che costellano la nostra cronaca.

Avendo a modello La serva padrona, con cui infatti è talora abbinata, Il segreto di Susanna è la sesta opera di Ermanno Wolf-Ferrari, compositore nato a Venezia da padre tedesco e madre italiana dai quali ha preso i rispettivi cognomi e che ha diviso la sua carriera tra la città natale e Monaco di Baviera. Gioiello di teatro da camera dalla raffinata partitura, fu presentato nella capitale bavarese in tedesco come Susannes Geheimnis e da allora è il lavoro più eseguito di un compositore il cui stile rimane lontano sia dalle coeve esperienze atonali della scuola di Vienna sia dal dominante Verismo del teatro musicale italiano dell’epoca.

Come nell’intermezzo di Pergolesi, anche qui c’è una coppia maschio-femmina, due sposini: lui è il conte Gil e lei è la contessa Susanna (la strizzata d’occhio a Mozart non è certo non voluta). A questi si aggiunge un servitore muto che ha una parte determinante nell’azione. Gli stessi litigi domestici, scoppi d’ira, fraintendimenti e l’immancabile riappacificazine finale formano l’esile trama dell’operina. La vicenda aveva un significato a inizio secolo con le prime rivendicazioni femministe, ma risulta meno rilevante nel 2018.

Lo spettacolo, ora al Regio di Torino, era stato creato all’Opéra Comique di Parigi nel 2013. Peggiora le cose l’ambientazione al giorno d’oggi scelta dal regista Ludovic Lagarde, con le scene di Antoine Vasseur: un ambiente moderno e minimalista tutto bianco ma colorato dalle luci di Sébastian Michaud. Il regista fa poi l’errore di svelare il “segreto” della donna, mostrandocela fin da subito attaccata alle sigarette fornite dal troppo zelante servitore. Tutta la performance si trasforma così in una specie di esaltazione del tabagismo, mentre in musica il messaggio è molto più leggero e a un certo momento affidato a un delicato tema cromatico che passa dal flauto al violino al clarinetto per alludere alle volute di fumo che si innalzano dalla proibita sigaretta di madame.

Alla direzione dell’orchestra del teatro il giovane Diego Matheuz mette in evidenza l’equilibrio tra la preziosità strumentale “tedesca” e la melodicità del belcanto italiano presente nella partitura: temi che anticipano il tema di Zerbinetta nella Ariadne auf Naxos di Richard Strauss si alternano a volate liriche che non sarebbero dispiaciute a Puccini. In scena assieme all’attore Bruno Danjoux, il domestico Sante, con i suoi interventi sul filo dell’umorismo, ci sono Vittorio Prato, baritono dal bel timbro chiaro, che presta la voce al marito geloso ma dall’olfatto sensibile, e Anna Caterina Antonacci, dalla presenza vocale fin troppo importante per la mogliettina in ambasce, per tradizione soprano leggero.

La stessa Antonacci è molto più credibile nella tragédie lyrique in un atto di Francis Poulenc, opera sul testo di Cocteau che è stato il cavallo di battaglia delle più grandi attrici del secolo scorso nel teatro di prosa – giusto per fare due nomi: Ingrid Bergman e Anna Magnani –, al cinema e sulle scene dell’opera lirica a partire dal soprano Denise Duval che creò il personaggio a Parigi. L’Antonacci da tempo ha scelto questo ruolo che ha portato in giro per il mondo in produzioni diverse.

Anche il lavoro di Lagarde si dimostra molto più convicente in questa seconda parte. Dopo l’intervallo, all’apertura di sipario siamo nello stesso ambiente di prima, però inondato da luci bianche, e rotante, così da poter seguire gli andirivieni di Elle al telefono, qui ovviamente un moderno cordless, da una camera all’altra del suo appartamento: la camera da letto dominata da un frigorifero pieno solo di bottiglie di acqua minerale (!), il bagno con l’acqua che scorre dentro una vasca che non si riempie mai, il soggiorno. Alle pareti grandi video-quadri mostrano dettagli di occhi femminili rigati dalle lacrime.

La performance della Antonacci si dimostra ancora una volta come un riuscito esercizio di bravura: la musicalità sembra uscire dalle parole stesse, articolate con un’immedesimazione e un’espressività che non alterano mai la perfetta dizione del suo francese mentre l’orchestra di Matheuz asseconda magistralmente questa successione abilmente dosata di pause e scoppi di disperazione alternati a momenti di struggente abbandono. Il pubblico torinese ha risposto con calore alla performance della cantante e del direttore a cui si sono uniti il baritono Vittorio Prato e l’attore Bruno Danjoux negli applausi finali.

TEATRO LUIGI PIRANDELLO

Teatro Luigi Pirandello

Agrigento (1881)

582 posti

La decisione della costruzione di un teatro ad Agrigento risale al 1863. Dopo l’inizio dei lavori fu chiamato come consulente l’architetto Basile, già progettista del Teatro Massimo di Palermo, e l’edificio fu finalmente aperto al pubblico il 12 gennaio 1881, presente la sovrana in visita alla città. Le autorità municipali diedero al teatro il suo nome e divenne quindi Teatro Regina Margherita. Solo nel 1946, in occasione delle celebrazioni per il decennale della morte dell’illustre drammaturgo agrigentino, il nome mutò in quello di Teatro Luigi Pirandello.

Vi si accede attraverso l’atrio del Palazzo dei Giganti, sede del Comune di Agrigento, in piazza Pirandello. Il prospetto su due livelli, in perfetto stile neoclassico, si caratterizza per tre coppie di colonne in stile ionico poste ai lati di tre ampie vetrate, mentre nella parte più alta si distinguono sei bassorilievi a medaglione raffiguranti altrettanti autori dell’arte teatrale. Il primo livello presenta un porticato ad arco con al centro lo stemma della città: i tre giganti che sorreggono le tre torri medievali del colle. Nell’interno, il teatro fu decorato da pittori tra i più noti dell’Ottocento i quali dipinsero il soffitto e il frontale dei palchi. Una delle decorazioni più significative del teatro era certamente il sipario, rappresentante La vittoria di Esseneto dipinto dal pittore messinese Luigi Queriau. L’opera andò perduta o distrutta durante il lungo periodo di chiusura, ma nel 2007 il produttore agrigentino Francesco Bellomo ha donato un nuovo sipario, realizzato con le stesse tecniche dell’epoca, che riproduce l’originale.

Adibito a cinematografo durante la Seconda Guerra Mondiale, dagli anni ’50 ha ospitato riviste famose. Ora la programmazione riguarda spettacoli di prosa e operette.

 

 

Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

Wolfgang Amadeus Mozart, Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

direzione di Peter Hirsch

regia di Hans Hollmann

1983 Teatro di Baden-Baden

Dopo il libello di Benedetto Marcello su Il teatro alla moda, la satira del mondo musicale era diventata il soggetto di innumerevoli lavori: dal metastasiano L’impresario delle Canarie intonato dal Sarro (1724) fino a L’opera seria del Gassmann (1769).

Con il numero d’opus K480, la commedia con musica Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale) di Johann Gottlieb Stephanie junior (già librettista del Ratto dal serraglio) è contemporanea delle Nozze di Figaro: venne infatti messa in scena nel carnevale 1786. Fu commissionata a Mozart dall’imperatore Giuseppe II e presentata assieme all’atto unico di Antonio Salieri Prima la musica e poi le parole con l’intento esplicito di mettere a confronto i due compositori, il tedesco e l’italiano. Le due opere furono infatti eseguite l’una dopo l’altra la sera del 7 febbraio 1786 nella tenuta imperiale di Schönbrunn. Le due prime donne del pezzo di Mozart furono Aloysia Weber e Caterina Cavalieri, il ruolo da attore dell’impresario fu recitato dallo stesso Stephanie.

Ecco la cronaca della serata fornita dalla “Wiener Zeitung”: «Il ricevimento si è tenuto all’Orangerie che è stata addobbata in moto sontuossimo e attraente per la colazione offerta gli invitati. Il tavolo, sistemato sotto gli aranci, era decorato in modo graziosissimo con fiori, boccioli, frutti locali e anche esotici. […] Dopo il banchetto, è stata rappresentata una nuova commedia con arie, dal titolo Der Schauspieldirektor che vedeva impegnati gli attori del Teatro Nazionale su un palcoscenico montato a un’estremità dell’Orangerie. Quando questa è terminata, la Compagnia dell’Opera di Corte ha dato un’opera buffa, anch’essa composta per questa circostanza, intitolata Prima la musica poi le parole sul palcoscenico innalzato all’altra estremità. Dopo le nove l’intera compagnia è ritornata in città nello stesso ordine».

Quattro giorni dopo il doppio spettacolo veniva presentato al pubblico del Kärtnertor Theater ma qui usciva favorito il lavoro di Salieri che aveva uno sviluppo drammatico che mancava all’opera d’occasione di Stephanie/Mozart. Il compositore vi ritornò in seguito con varie revisioni e famosa è rimasta la versione di Goethe allestita a Weimar nel 1791 col titolo Teatralische Abendteuer (Avventura teatrale).

Un impresario teatrale deve formare una compagnia per uno spettacolo a Salisburgo, ma la scelta di attori e cantanti si rivela più difficile del previsto. In particolare sorge una accesa rivalità tra i due soprani Frau Herz (madama Cuore) e Fräulein Silberklang (signorina Timbro argentino), che pretendono entrambe il ruolo di primadonna, mentre il tenore Vogelsang (canto d’uccello) tenta invano di conciliarle. Sarà l’impresario Frank a riportare l’armonia sul palcoscenico.

Dopo l’ouverture quattro numeri musicali punteggiano la seconda parte della commedia, quella delle audizioni: un’arietta di Frau Hertz che dall’iniziale carattere patetico e sentimentale passa a una conclusione brillante e ricca di virtuosismi; un rondò di Fräulein Silberklang altrettanto ricco di agilità; un terzetto cui si unisce il tenore Vogelsang, un brano con notevoli difficoltà quando le due interpreti si rincorrono nel registro acuto cercando di avere l’ultima parola e infine un vaudeville conclusivo in cui viene presentata la morale: gli artisti devono mirare all’eccellenza, senza però rendersi meschini con le proprie ambizioni.

«Le due “arie di parata” delle cantanti, nel consueto stile virtuosistico dell’opera seria, sono finemente differenziate per struttura inventiva: un affettuoso larghetto la prima, velato di lieve sentimentalità; più scorrevole la seconda, nello stile delle gavotte di origine francese. Il delizioso terzetto caratterizza con vivacità veramente mozartiana i singoli personaggi pur senza scostarsi dal tono del concertato consueto». (Bernhard Paumgartner)

L’unica edizione in DVD esistente è quella, fuori catalogo, della collezione Unitel del 2006 delle opere complete del Festival di Salisburgo. Qui abbiamo la produzione televisiva svizzero-tedesca girata nel vecchio teatro di Baden-Baden in cui la commedia è condensata in poco più di venticinque minuti. Dorothea Wirtz e Dagmar Lindenberg sono le due cantanti rivali.

Semele

Georg Friedrich Händel, Semele

★★★★☆

Berlino, Komische Oper, 12 maggio 2018

(live streaming)

Troppo oratoriale per essere un’opera, troppo profana per essere un oratorio. Ma non per Kosky

Si temeva per la voce della protagonista che fino all’ultimo non era sicura di poter cantare per un virus che aveva preso di mira le sue corde vocali. Una sostituta era pronta nella buca dell’orchestra nel caso fosse successo qualcosa, invece non è stata necessaria per questa prima alla Komische Oper di Berlino dell’oratorio Semele di Händel, oramai comunemente messo in scena come le altre “vere” opere del sassone.

Il sipario si alza su un mucchio fumante, quello lasciata da Semele incenerita dai raggi del nume che la giovane, istigata dalla vendicativa Giunone, aveva insistito per vedere in tutto il suo letale splendore. E dal mucchio esce la sventurata fenice che in un flashback rivive la sua vicenda da quando intrappolata in una stanza da cui non può uscire è costretta a sposare il goffo Athamas, principe della Beozia. Le ceneri sono però anche quelle dei doni sacrificali grati alla dea cui si riferisce il sacerdote del tempio: «Behold! Auspicious flashes rise, | Juno accepts our sacrifice; | the grateful odour swifts ascendes | and see, the golden image bends». (Ecco! vampe propizie s’alzano, Giunone accetta il nostro sacrificio; il grato odore rapido si leva e guarda: la dorata immagine si china!).

Tra frequenti scoppi di tuono, in una ricca sala carbonizzata dal fuoco divino (bellissima la scena di Natacha Le Guen den Kerneizon in cui un ruolo importante ha il caminetto) la storia è vista dagli occhi della ragazza rapita dal nume e da lui amata ma la quale, in preda a un’ambizione smisurata (la brama di immortalità, prerogativa degli dèi), è portata alla distruzione.

Con i costumi di Carla Teti e il fantastico gioco di luci di Alessandro Carletti, Barrie Kosky riesce a muovere i personaggi con grande efficacia dal punto di vista teatrale e drammatico e con una fluidità scenica che lega i pezzi chiusi in un continuum drammaturgico. Numerosi sono gli effetti teatrali di cui è costellata la lettura di questo lavoro che nella sua astrattezza lascia molta libertà al metteur en scène. Ne è un esempio la scena di Somnus realizzata in maniera spudoratamente erotica.

Con alcuni tagli ai recitativi e un’aria di Semele in meno, la direzione musicale di Konrad Junghänel si dimostra vigorosa ma con un attento equilibrio delle dinamiche e delle preziosità strumentali. Buono il coro, guidato da David Cavelius, che ha nell’oratorio un ruolo determinante ed è pienamente integrato da Kosky nella drammaturgia.

Nessuna particolare eccellenza vocale nel cast, ma un grande gioco di squadra in cui ognuno dà il meglio con le qualità che si ritrova a possedere. E se le colorature non sono sempre eseguite a regola d’arte, i volumi sonori e i fiati non sono al massimo, tutto è compensato dalla presenza scenica e dall’impegno. Ecco l’elenco degli interpreti: Philipp Meierhöfer (Cadmus), Nicole Chevalier (la Semele indisposta che ha omesso il da capo di un «Myself I shall adore» non memorabile, ma che non si risparmia negli acuti), Katarina Bradić (Ino), Eric Jurenas (Athamas), Ezgi Kutlu (Juno), Nora Friedrichs (Iris) e Evan Hughes (Somnus). Il nome più conosciuto è quello di Allan Clayton dal bellissimo timbro, Jupiter efficace nella dolcezza seduttiva di «Where’er you walk» e di «Come to my arms» o nel drammatico recitativo accompagnato finale. In definitiva, una Semele soprattutto da vedere.

photo © Frank Wesner

Cardillac

Paul Hindemith, Cardillac

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 12 maggio 2018

L’arte è al di sopra della morale? Un esordio deludente nella regia lirica.

Aveva inaugurato la stagione del Maggio Musicale nel 1991 e ora ritorna a dare il via all’81° Festival Fiorentino. Si tratta del Cardillac, lavoro di Paul Hindemith del 1926 poco frequente in Italia. Se allora erano stati Liliana Cavani e Dante Ferretti a metterla in scena, oggi è un attore/regista prestato per la prima volta alla lirica, Valerio Binasco, a rileggere questa storia della ossessione omicida di un artista incapace di staccarsi dalle proprie creazioni.

L’epoca scelta per l’ambientazione non è la Parigi di Luigi XIV prevista dalla novella di E.T.A.Hoffmann, ma gli anni della composizione dell’opera, con i costumi di Gianluca Falaschi, memorabili come sempre, che rimandano agli anni ’20, ma con un tocco felliniano. Le scene di Guido Fiorato hanno come sfondo palazzi le cui facciate sono sostenute da ponteggi: una via di mezzo tra una città “che sale” e una scampata a un bombardamento, mentre gli interni sono invece anche fin troppo realistici.

A sipario aperto, prima ancora che parta il puntuto tema del preludio, il regista inscena la pantomima di una coppia di genitori che appena rientrata a casa viene uccisa da Cardillac per riprendere il gioiello che il marito aveva regalato alla moglie per Natale. Una scelta non solo ingiustificata ma che rovina la tensione del successivo omicidio, come invece avviene nella novella da cui è tratto il libretto, in cui non si vede mai l’assassino in azione. Molto più azzeccata era stata resa la scena nella produzione parigina del 2005 dove Cardillac era stato trasformato dal regista André Engel in un Fantômas mascherato che agiva nell’oscurità. Malamente risolta è anche la scena della visita del re al laboratorio di Cardillac con un gruppo di gaudenti ubriachi. Anche qui il confronto a un precedente allestimento, quello di Jean-Pierre Ponnelle del 1985 in cui la venuta di Luigi XIV venne rappresentata come un sogno dell’orafo, non gioca a favore della scelta attuale.

Il problema di questa lettura di Binasco è che il regista non si schiera con decisione con la tesi dell’opera: nell’ambiguo finale l’arte è messa al di sopra di tutto, anche della morale. La cosa non era certo sfuggita ai censori nazisti, quegli stessi che avrebbero commesso le loro atrocità al grido di «Gott mit uns» e in nome di un’ideologia basata su una logica che non indietreggia di fronte all’omicido o addirittura allo sterminio. Questa preoccupazione fu colta in seguito da Hindemith, che nel 1952 a Zurigo rappresentò una versione in quattro atti, rivista anche nel libretto, in cui nel finale Cardillac risonosce la sua colpevole arroganza omicida. Qui nella versione del 1926 invece, dopo che la folla accecata e assetata di giustizia sommaria si è gettata su Cardillac e lo ha ucciso, l’ufficiale, vestito in un pastrano nero cui manca solo la svastica, intona una inquietante eulogia dell’assassino: «Ein Held starb. | Menschenangst war ihm unbekannt. | Liegt er auch hier, | ist er doch Sieger, | und ich beneide ihn» (Morì un eroe. Umana paura gli era ignota. Pur se qui giace, è lui il vincitore, e io lo invidio). Una conclusione che lascia piuttosto di ghiaccio.

In qualità di direttore musicale del Maggio, Fabio Luisi affronta la partitura con sapienza, dipanando lucidamente il contrappuntismo neobarocco che costella questa musikoper – opera cioè basata su una logica puramente musicale e scandita in 18 numeri chiusi in cui vecchie forme quali l’aria, il duetto, il quartetto (mirabilmente polifonico quello del numero 15) e il concertato con coro utilizzano un linguaggio musicale moderno che guarda però a Bach come riferimento. I particolari strumentali di cui è costellata la partitura sono chiaramente messi in luce da Luisi: l’oboe che precede la notte degli sfortunati innamorati, l’assolo di violino, oboe e corno dell’aria della Figlia, il sax tenore ombra di Cardillac. Le musichette volgari della taverna hanno le sonorità stridule, appuntite di un’orchestra la cui sezione degli archi è volutamente ridotta rispetto a quella dei fiati ed essenziali sono le percussioni. Il coro, che ha gran parte nell’azione assieme a numerosi figuranti in questa edizione, sotto la guida di Lorenzo Fratini si è dimostrato eccellente per precisione e colore.

Cardillac è l’unico ad avere un nome nel libretto di Lion, tutti gli altri sono semplicemente personaggi anonimi denotati dal loro ruolo sociale – la Dama, il Cavaliere, la Figlia, l’Ufficiale, il Commerciante d’oro, il Comandante della Prévôté. Nel ruolo titolare c’è Martin Gartner, vocalmente autorevole ma caratterizzato da un fraseggio piuttosto monocorde. Gun-Brit Barkmin è la Figlia, timbro lucente e un acuminato registro acuto sono i punti di forza della sua performance. A suo agio sia vocalmente sia scenicamente è risultato l’Ufficiale di Ferdinand von Bothmer. Nella coppia di innamorati si fa notare il cammeo di Jennifer Larmore, Dama non di primo pelo ma di personalità; meno rilevante il Cavaliere di Johannes Chum; più efficace scenicamente che vocalmente il Mercante di Pavel Kudinov.

Il pubblico fiorentino, non particolarmente folto alla recita pomeridiana, una delle quattro previste, ha decretato un buon successo agli artefici dello spettacolo.

Lohengrin

 

Richard Wagner, Lohengrin

★★★★★

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie19 aprile 2018

(live streaming)

Lohengrin anno zero

Non succede spesso che un regista d’opera salga sul palcoscenico prima dell’inizio per parlare delle sue intenzioni. È successo per la riapertura della sala de La Monnaie di Bruxelles dopo due anni di restauri. Prima delle note dell’ouverture del Lohengrin Olivier Py ha sentito la necessità di indirizzarsi al pubblico in questo termini: «Questo lavoro ci pone delle domande: c’è un nesso tra il romanticismo tedesco e l’avvento del nazionalsocialismo? E perché tirare in ballo Wagner, che certo non è contemporaneo di Hitler? Tra le possibili risposte ci sono i violenti scritti antisemiti del compositore, i legami tra i suoi eredi e il regime del Terzo Reich, ma soprattutto il fatto che in Lohengrin, parlando del medioevo tedesco, Wagner ci dà la struttura della Germania futura, futura per lui: una Germania unificata, nazionalista, imperialista e politicamente legittimata dall’arte. Ma nello stesso tempo Wagner racconta anche la disfatta di questo Reich futuro: Lohengrin non è un’opera nazionalista, bensì sul nazionalismo». Un incubo premonitore.

Con questa premessa Py prepara il pubblico alla sua ambientazione nella Germania sconfitta, in un teatro semidistrutto dai bombardamenti. A un cadavere steso in terra qualcuno ruberà le scarpe: siamo del 1945, in una Germania anno zero, il film in bianco e nero di Rossellini. Ma qui c’è solo il nero, una visione cupa che si aggiunge a quelle a cui ci aveva abituato il regista francese – ricordiamo solo i suoi Contes d’Hoffmann. Non solo Rossellini però, anche il cinema di Leni Riefenstahl è richiamato da un atleta seminudo che simboleggia il culto del corpo da parte dell’ideologia nazista.

Una grande torre rotante con finestroni dai vetri rotti forma la prima immagine ad apertura di sipario. Lentamente, durante l’ouverture si passa dalla facciata convessa alla concavità dell’interno: un teatro. Nei palchi devastati nobili, cavalieri e popolo della Sassonia, Turingia, Brabante – i popoli dell’ex Impero Carolingio. Tutti i personaggi strisciano fuori da sotto il palco come se uscissero da un rifugio, solo Lohengrin arriva solennemente, un lungo cappotto bianco e qualche piuma a evocare il cigno. La corona di re Enrico è di cartone e a un certo punto verrà scambiata da un bambino irriverente (il fratellino di Elsa?) con un cappello di giornale, quello dei muratori di un tempo. La sorte della donna è decisa da una partita a scacchi al proscenio (Lohengrin ovviamente ha le pedine bianche), mentre sul fondo due fazioni, una bianca e una nera, fanno a cazzotti. Le damigelle di Elsa sono Trümmerfrauen, le donne che con i secchielli liberavano le strade dalle macerie delle case.

Il terzo atto, che inizia con la marcia nuziale più sfortunata della storia della musica, vede in scena la giovane coppia di sposi immersa nella quintessenza dell’anima tedesca: l’albero con la spada di Wotan piantata dentro, i busti di Goethe e Beethoven, un cigno, un cavallo (il destriero di Brunilde?), un veliero (l’Olandese volante?) e così via. Mentre Elsa tormenta Lohengrin con le sue domande assillanti, essi si muovono in nove sezioni dove figurano appunto i “responsabili” delle origini mitiche della Germania, della sua grecomania e del suo culto della morte: i Grimm, Novalis, Hegel, Hölderlin, Friedrich, Schiller, Heine ecc., i cui nomi sono scritti su cartelli in caratteri gotici.

Ma non è solo una tesi messa in scena quella di Py. Lo spettacolo ha momenti di intensa teatralità grazie alla bella scenografia e ai costumi di Pierre-André Weitz, che fortunatamente evitano le croci uncinate (inflazionate in tanti altri allestimenti), alle luci di Bertrand Killy e soprattutto all’esecuzione musicale affidata a un direttore e a interpreti di eccellenza.

Alain Altinoglu tocca tutte le dinamiche possibili con grande perizia: dai preludi alle intense scene corali, alle fanfare impeccabilmente intonate dagli ottoni dell’orchestra del teatro, è un flusso continuo di suoni che preannuncia la “melodia infinita” del Tristano o i motivi conduttori del Ring.

Quasi tutti debuttanti nei rispettivi ruoli gli interpreti. Re autorevole quello del magnifico basso Gábor Bretz. Timbro splendido quello del Lohengrin di Eric Cutler a suo agio nella tessitura impervia della parte e tutto una tavolozza di sfumature. Da manuale il suo attacco di «In fernem Land» di una dolcezza che non sfiora mai l’affettazione. Ingela Brimberg è Elsa von Brabant dal timbro metallico e duro, non ideale per la parte, così come non lo è la voce di  Andrew Foster-Williams (Friefrich von Telramund), baritono leggero, dagli acuti tirati e con problemi di intonazione. Ortrud trova invece in Elena Pankratova sicura presenza scenica e vocale. Ottimo l’Araldo di Werner van Mechelen.