Fëdor Dostoevskij

Z mrtvého domu / Glagolská Mše

 Leoš Janáček

Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Glagolská mše (Messa glagolitica)

Brno, Janáčkovo divadlo, 2 novembre 2022

★★★☆☆

(live streaming)

A Brno un connubio poco convincente

Non è facile trovare che cos’abbiano in comune due lavori così diversi come la Messa glagolitica, che Janáček aveva scritto per celebrare l’indipendenza della allora Cecoslovacchia nel 1926, e Da una casa di morti, presentata postuma nel 1930. Lavori che appartengono sì all’ultimo periodo creativo del compositore moravo, ma non convince che Jakub Hrůša e Jiří Heřman, rispettivamente direttore e regista, accostino le due musiche nello spettacolo che inaugura l’ottava edizione del Festival Janáček di Brno, la città natale di Janáček. La serata si divide in due parti: nella prima il primo e secondo atto di Da una casa di morti, dopo l’intervallo il terzo atto e la Messa.

Janáček non ebbe il tempo di terminare la sua ultima opera: nell’estate del 1928 portò la partitura del terzo atto a Hukvaldy, ma si ammalò di polmonite e morì il 12 agosto. Il suo lavoro rimase così incompiuto e gli allievi direttori d’orchestra Břetislav Bakala e Osvald Chlubna si occuparono del completamento della strumentazione e di piccoli adattamenti delle parti cantate. Fu apportata una modifica anche alla cupa conclusione, quando dopo la partenza di Goriančikov le guardie ricacciano i prigionieri e la vita nella casa dei morti continua implacabile. Negli anni successivi si è tornati al finale originario e, per la prima volta nella Repubblica Ceca, la produzione del festival presenta una nuova edizione critica a cura di John Tyrrell, che ricostruisce l’opera il più fedelmente possibile vicina alla forma che Janáček aveva previsto.

Come nel caso de L’affare Makropulos di Čapek, a prima vista Memorie da una casa di morti di Dostoevskij non sembra un tema adatto per un’opera: lo scrittore russo aveva trascorso quattro anni in una prigione siberiana in compagnia di assassini, rapinatori e persone semplicemente traviate da una sfortunata congiuntura e aveva attinto dalle sue esperienze in quel luogo per creare quest’opera letteraria, una cupa sequenza di racconti sulla vita quotidiana e sui destini dei singoli detenuti, con analisi psicologiche e riflessioni filosofiche, ma quasi senza dialoghi, senza un eroe centrale né personaggi femminili. Nonostante tutti gli orrori descritti, Dostoevskij scrisse al fratello: «Credimi, c’erano tra loro nature profonde, forti e belle, e spesso mi dava grande gioia trovare l’oro sotto una scorza ruvida». Anche Janáček vedeva qualcosa di più profondo e umano nei singoli personaggi. Questa volta lavorò direttamente con l’originale russo di Dostoevskij e la sua copia è piena di note e parti del testo sottolineate. Il libretto non è mai stato trovato, tranne una breve bozza, e si ritiene che Janáček lo abbia scritto direttamente sulla partitura. E questo non fu un compito facile e gioioso, come si può intuire dalle sue lettere a Kamila Stösslová: «Mi sembra di scendere dei gradini sempre più in basso, fino al fondo, dove abitano i più poveri dell’umanità. Ed è un cammino difficile».

L’origine della Messa glagolitica si intreccia in parte con la sua ultima opera: «Ho voluto catturare qui la fede nella sicurezza della nazione non su base religiosa, ma su base morale». Nelle intenzioni degli autori della produzione la versione teatrale della Messa glagolitica, come continuazione dell’opera, impregna entrambe le opere di una nuova testimonianza sulla forza della fede nell’uomo anche se il compositore fu un ateo convinto e fortemente critico della chiesa organizzata ceca che considerava «una chiesa piena di morte». Sulle note finali dell’opera si sente una campana suonare e attacca la fanfara del primo movimento, Úvod (Introduzione). Seguono cinque numeri cantati secondo il tradizionale “Ordinarium missæ” – Gospodi pomiluj (Kyrie), Slava (Gloria), Věruju (Credo), Svet (Sanctus), Agneče Božij (Agnus Dei) – un postludio per organo solo e un ultimo brano puramente strumentale a conclusione di un lavoro molto particolare non solo per la scelta della lingua, lo slavo arcaico, ma soprattutto per la peculiare cifra stilistica della materia sonora messa in campo dal Musorgskij moravo, secondo la definizione di Fedele D’Amico. Un organico atipico (soli, coro misto, orchestra e organo) e un’espressione terrena, quasi pagana caratterizzano questa «Sagra del cristianesimo, per parafrasare un altro tributo della modernità alla ritualità arcaica. […] Il contrasto tra asciutta trasparenza e tesa massa sonora in alcuni punti è di tagliente violenza. La scultorea essenzialità delle line fa pensare a profondi “intagli” nel vuoto o alla “costruttività del colore” nei pittori Fauve e al loro disinteresse per il chiaroscuro». (Franco Pulcini)

Se sulla carta non convince del tutto l’operazione di abbinamento dei due lavori, è la realizzazione che desta le maggiori perplessità: mentre Da una casa di morti ha una sua drammaturgia ben sfruttata dal regista che mette in scena uno spettacolo di grande forza drammatica e con idee teatrali efficaci – come le catene che scendono dall’alto, la presenza del Cristo/aquila simbolo di libertà, i fluidi movimenti scenici di Tomáš Rusín, i congrui costumi di Zuzana Štefunková-Rusínová – si rivela problematica quella della Messa, pezzo di natura oratoriale, consistente negli artificiosi movimenti delle masse e dei solisti vestiti di bianco che si muovono in processione sul palco. Qui il coro femminile e le cantanti soliste, che abbiamo visto nell’opera come i muti personaggi di Akulina, la moglie ammazzata nel racconto di Šiškov, e della prostituta, si trasformano in voci angeliche dispensanti il perdono e la redenzione eterna ai criminali incontrati prima. Nel finale il giovane Aljeja corre verso il fondale che da paesaggio ghiacciato si è trasformato in un verde e idilliaco panorama: libertà qui sulla terra o pace nell’aldilà? Sia Dostevskij che Janáček non propendono per una visione così ottimistica come quella prospettata dalla spiritualità di Jiří Heřman.

Musicalmente le cose vanno molto meglio con Jakub Hrůša, moravo anche lui e che diventerà Direttore Musicale della Royal Opera di Londra nel ’25, che qui si dimostra perfettamente a suo agio con un’orchestra che dirige per la prima volta con risultati eccellenti: i toni rabbrividenti degli archi, gli scoppi degli ottoni, i timpani che diventano personaggi in scena, con i percussionisti vestiti come le guardie carcerarie, tutto concorre a esaltare al meglio la musica di Janáček. Anche tra i cantanti vi sono delle eccellenze: Pavol Kubaň (Šiškov), Peter Berger (Skuratov), Kateřina Kněžíková (soprano), Jarmila Balážaková (Aljeja). Particolare il caso di Gianluca Zampieri (Luka/Filka), tenore veneziano di casa nei teatri della Repubblica Ceca.

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Le joueur

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Ouverture du Festival della Valle d’Itria avec la version française du Joueur de Prokofiev

Près de 450 ans se sont écoulés depuis ce 14 janvier 1573 où la Camerata de’ Bardi s’est réunie pour la première fois à Florence pour expérimenter une nouvelle forme d’art alliant musique et scène. Ainsi est né l’opéra tel que nous le connaissons aujourd’hui.

Sebastian Schwarz, le nouveau directeur du Festival della Valle d’Itria (qui fête cette année sa 48e édition) se propose d’offrir un tour d’horizon de quatre siècles d’opéra, lequel s’ouvre par un opéra du XXe siècle, Le joueur de Sergueï Prokofiev, présenté ici dans la version française dans laquelle l’œuvre a vu le jour à la Monnaie de Bruxelles le 29 avril 1929, treize ans après sa composition : la première prévue au théâtre Mariinsky de Saint-Pétersbourg en 1917 avait en effet été annulée et le compositeur avait quitté son pays peu après…

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Il giocatore

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Inaugurazione del Festival della Valle d’Itria con la versione francese de Il giocatore

Quasi 450 anni sono passati da quel 14 gennaio 1573 in cui per la prima volta a Firenze si riuniva la Camerata de’ Bardi per sperimentare una nuova forma d’arte che riuniva musica e scena. Nasceva così l’opera come la conosciamo noi oggi.

E una carrellata di quatto secoli d’opera è quella approntata da Sebastian Schwarz, nuovo direttore del Festival della Valle d’Itria giunto quest’anno alla sua 48esima edizione. Inaugura la manifestazione un’opera del Novecento, Le joueur (Il giocatore) di Sergej Prokof’ev, presentata qui nella versione in francese con cui il lavoro aveva visto la luce alla Monnaie di Bruxelles il 29 aprile 1929, ben tredici anni dopo la sua composizione: il previsto debutto al Mariinskij di San Pietroburgo nel ’17 era infatti saltato e poco dopo il compositore avrebbe abbandonato il suo paese. Questa seconda versione de Il giocatore non poteva non risentire delle esperienze compiute da Prokof’ev con L’amore delle tre melarance e soprattutto con L’angelo di fuoco che nel frattempo aveva composto. «L’esperienza dell’Angelo di fuoco ebbe anche una benefica influenza sull’andamento delle parti vocali, che divennero nella seconda versione del Giocatore più liriche, flessibili, agili, spontanee, nel momento in cui prendevano le distanze dalle asperità del modernismo gratuito e alla moda», scrive Franco Pulcini sul programma di sala, «la coscienza dello stile e dell’espressione drammatica portarono Prokof’ev ad attenuare il peso dell’orchestra e a disegnare con maggior precisione lirica i profili di un canto sempre più protagonistico».

Un’umanità disperata – amanti non riamati, solitudini, cambiali incombenti, debiti di gioco, carriere interrotte – pone tutte le sue speranze sulla fortuna al gioco, ma non nelle carte com’è nella Dama di Picche di Puškin/Čajkovskij, bensì nell’ancora più aleatorio movimento della pallina della roulette che però non salva dal fallimento amoroso con un’inaspettata enorme vincita, mentre produce il tracollo finanziario della vecchia nonnetta che si è lasciata tentare dal gioco, ne è rimasta prigioniera e ha definitivamente deluso le aspettative di chi contava sulla eredità che avrebbe lasciato alla sua morte per risolvere i propri problemi finanziari.

Il racconto di Dostoevskij da cui è tratto il libretto si sarebbe potuto intitolare “La giocatrice”, essendo la figura della vecchia al centro della vicenda. Ed è anche la figura di svolta nell’opera: è infatti con il suo ingresso che cambia anche la musica, fino ad allora sviluppata sull’accompagnamento di un generico declamato. È come se Prokof’ev avesse bisogno di uno stimolo per rinnovare il tono del suo lavoro e da quel momento è tutta un’altra musica, un crescendo inarrestabile fino alla fragorosa fanfara che accompagna l’apparizione in scena della fantomatica roulette, fino a quel momento evocata ma sempre assente dalla nostra vista. Il motivo del gioco diventa puro vitalismo ritmico che tocca qui un vertice di pura follia musicale, scandito dal movimento inesorabile della pallina, dai richiami del croupier, dal nervoso commento dei giocatori.

Tutto è reso con efficacia da Jan Latham-Koenig alla guida dell’ottima orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari. Le linee febbrili e talora dissonanti scaturiscono con sicurezza e fluidità, i momenti grotteschi si alternano felicemente a quelli lirici, i colori acidi e gli spigoli della complessa partitura sono resi con maestria e la non facile concertazione dei cantanti in scena non ha intoppi. La voce migliore di tutti è quella del soprano Maritina Tampakopoulos, una Pauline di bel timbro, bella proiezione vocale e sicura presenza scenica. L’interprete più in tono con l’aspetto satirico e caricaturale dell’opera è invece il tenore Paul Curievici, un Marquis che sembra uscito da una farsa di Labiche. Ottima anche la Grande-Mère di Silvia Beltrami, poi anche la donna che sospetta frodi al tavolo da gioco. Sergej Radčenko, l’Agrippa dell’L’angelo di fuoco della Dante a Roma, qui è un Alexis talora in difficoltà vocali, ma bisogna dire che la parte è veramente impegnativa. Manca di sonorità nel registro grave il Général/Directeur di Andrew Greenan e incomprensibile è la Blanche di Xenia Chubunova, ma in generale la dizione del francese non si può certo dire sia il punto di forza di questa produzione. Tra i tanti altri personaggi ricordiamo almeno il Mr. Astley di Alexander Ilvakhin e il Croupier di Joan Folqué.

Come rendere visivamente l’ossessione del gioco che domina quest’opera? Sir David Pountney e la scenografa Leila Fteita costruiscono un ambiente a cuneo le cui pareti convergenti riportano la gigantografia di una roulette. Uno specchio a 45° riflette la scena e i personaggi che si muovono nervosamente, come burattini, tutti vittime della ludopatia. Belli i costumi e i tessuti delle sedie disegnati dalla stessa Fteita che gioca con motivi del futurismo russo mentre le luci di Alessandro Carletti che inonda la scena di colori primari – rosso, blu, verde. Il successo della serata, oltre che dalla parte musicale, è stato garantito anche dall’aspetto visivo dello spettacolo.

  

Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

★★★☆☆

Florence, Teatro del Maggio, 13 julliet 2021

 Qui la versione italiana

L’opéra Siberia de Giordano rencontre un joli succès à Florence, grâce à une interprétation musicale inspirée

Pour la deuxième fois en peu de temps, la scène du Teatro del Maggio Musicale Fiorentino accueille les steppes glaciales de Russie, mises en musique par des compositeurs du début du XXe siècle : l’année dernière, c’était avec Risurrezione (1904) de Franco Alfano, aujourd’hui c’est au tour de Siberia (1903) d’Umberto Giordano, l’opéra qui devait ouvrir la saison du Regio de Turin alors que Gianandrea Noseda en était encore le directeur musical. Les choses se sont passées autrement, mais c’est cependant le même chef qui propose à Florence cet opéra auquel il semble tenir beaucoup…

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Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio, 13 luglio 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Siberia di Giordano a Firenze. Un’occasione riuscita a metà.

Per la seconda volta in poco tempo il palcoscenico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ospita le gelide lande russe messe in musica da compositori dell’inizio del XX secolo: l’anno scorso fu il caso di Risurrezione (1904) di Franco Alfano, ora è la volta di Siberia (1903) di Umberto Giordano, l’opera che doveva inaugurare la stagione del Regio di Torino quando ancora Gianandrea Noseda ne era direttore musicale. Poi le cose sono andate diversamente e ora è lo stesso direttore a riproporre qui a Firenze un’opera a cui sembra tener molto.

Dopo il successo di Fedora (1998) Giordano cerca di replicare con un altro dramma di ambientazione russa. C’è Dostoevskij alla fonte del libretto che gli appresta Luigi Illica, sia per il tema dei deportati in Siberia (Memorie da una casa di morti) sia per quello della donna perduta che si redime col sacrificio – e qui sono le varie Katjuša, Anna, Sonja, Grušenka degli altri suoi romanzi a offrire il modello per Stephana. Illica spinge sul tema politico e sociale, Giordano propende invece per il dramma passionale e il testo proposto dal librettista viene sforbiciato per raggiungere una concisione drammatica che sarà ancora maggiore nella seconda versione del 1927 – quella scelta da Noseda – che seguirà a quella della prima del 10 dicembre 1903 alla Scala di Milano.

Atto I. La donna. A Pietroburgo, all’alba della festa di S. Alessandro. Mentre in lontananza si ode un malinconico canto di mugiki, nella “Rotonda”, la palazzina che il principino Alexis ha regalato a Stephana, sua amante, la fedele Nikona e il servo Ivan attendono con ansia la loro padrona, che non è ancora rincasata. Giunge Gléby, primo amante di Stephana che ha fatto di lei una cortigiana: Nikona prova a convincerlo che la giovane è indisposta, ma questi insiste, deve assolutamente parlarle di un affare d’oro. Bussa alla porta della camera e poiché Stephana non gli risponde comprende che ha passato la notte fuori di casa. Avrà trovato “un amante del cuore”, commenta sarcastico. In quel momento Ivan annuncia l’arrivo di Alexis, seguito da una schiera di amici, fra cui il capitano Walinoff e il banchiere Miskinsky. Nikona è disperata, ma Gléby non perde la calma e si dice sicuro di salvare la situazione. Quando Alexis chiede di Stephana, Nikona risponde che sta dormendo: allora Gléby propone di intonare, invece che una serenata, una “mattinata”, così da dare il tempo alla giovane di prepararsi: il principe e i suoi amici accompagneranno il canto col tintinnio delle loro spade, Gléby con quello di due rubli. Finita la canzone, Gléby propone una partita di baccarà e tutti entrano nella sala da gioco. Giunge Stephana, che ha sentito tutto, e rivela a Nikona ciò che l’angoscia: il suo nuovo amante non deve mai sapere chi sia in realtà e quale genere di vita abbia condotto fino ad allora. L’amore che prova per lui l’ha fatta rifiorire a nuova vita, finalmente libera dal suo passato. Ritorna Gléby e svela alla giovane l’affare che intende combinare: nella sala da gioco c’è un ricco cliente, disposto a pagar bene per i favori di Stephana, la quale però rifiuta decisamente: non si venderà più per danaro. Gléby ribatte che per gente come loro, nati poveri, non c’è altra via per raggiungere una vita agiata. Poi insinua cinicamente che “l’amante del cuore”, se povero, non l’ami davvero, ma calcoli i vantaggi che può ottenere dalla loro relazione. Giunge Alexis: il suo amore per Stephana, dice, è ogni giorno più intenso e ardente e le offre uno splendido braccialetto. In quel mentre Ivan annuncia che un giovane ufficiale chiede di Nikona: è Vassili, il figlioccio della donna, da poco giunto a Pietroburgo e in procinto di partire per la guerra contro i Turchi. Le confessa di essersi innamorato di una ricamatrice, povera ma onesta, come lui. Mentre sta per andarsene, entra Stephana. Vassili è stupito riconoscendo in lei il suo grande amore. La donna, sgomenta nel vederlo nella ricca casa in cui abita, lo aggredisce, ripensando alle parole di Gléby: dunque Vassili sapeva chi era e aspettava l’occasione per entrare a casa sua. Mentre Nikona tenta di farlo andar via, Vassili dichiara nuovamente il suo amore per Stephana: è lei il suo “destin soave” che deve amare. Quando Nikona rivela che il giovane è il suo figlioccio venuto a trovarla, Stephana commossa, comprendendo di averlo accusato ingiustamente, gli chiede perdono, ma lo invita ad andarsene e a dimenticarla. La  passione di Vassili però è troppo forte: non potrà mai scordarla, perché nel suo cuore è scolpito l’amore per lei e l’amerà anche sapendo chi è in realtà. Alexis sorprende i due abbracciati e Stephana gli confessa che si tratta del suo amante: il principino l’insulta e Vassili si scaglia su di lui. I due si battono e Alexis viene ferito.
Atto II. L’amante. Alla frontiera fra Siberia e Russia. Alla poloo-tappa (tappa della fame) da Omsk a Kolyan, contadini e rivenditori attendono l’arrivo della colonna dei forzati per tentare di vendere i loro prodotti. Vi è anche una fanciulla che chiede se i condannati siano vicini: insieme al fratellino spera di poter vedere per l’ultima volta il padre, destinato alle miniere. Un cosacco la rassicura: i forzati stanno per arrivare. Per riconoscenza, la fanciulla offre al cosacco qualche moneta, ma questi, commosso, rifiuta: “Tienle per tuo padre”, le dice. Da lontano si ode un canto triste: è la catena vivente dei condannati che si avvicina. Appare poi una troika sulla quale sta una donna sola: è Stephana, che chiede del condannato 107. Ma subito lo scorge, è Vassili, deportato in Siberia per aver ferito Alexis. La donna prorompe in esaltate frasi d’amore: è decisa a rimanere sempre accanto a lui, per redimersi dalla sua vita dissoluta. Ha donato ai poveri la sua ricca casa e adesso vuol condividere la sorte del suo amato, non lasciarlo più. Invano Vassili tenta di dissuaderla, descrivendole gli orrori della “maledetta” Siberia: Stephana ribatte che il suo destino è vivere vicino a lui e che il suo amore l’ha redenta. Vassili, commosso, le confessa che credeva finita la vita e la speranza, ma l’amore di lei gli dà nuova forza. I due tacciono all’udire il canto disperato dei forzati, dopo essersi promessi di rimanere sempre insieme.
Atto III. L’eroina. L’interno della “Casa di forza” nelle miniere del Trans-Baikal. È il Sabato Santo e un coro di donne saluta la luce primaverile che concede un po’ di calore. Un vecchio invalido, dopo aver scambiato qualche parola con le donne, che si preparano allo spettacolo teatrale di Pasqua, riferisce a Stephana che un condannato la sta cercando, ma la donna ribatte che non vuol parlare con nessuno. Poi dà qualche moneta all’invalido. Di nuovo il coro di donne si rallegra per una giornata che darà sollievo al loro soffrire, quando Stephana e Vassili intrecciano un duetto d’amore: sognano la libertà e inneggiano all’amore che, pur nella sofferenza, allevia le loro sciagure. Dopo l’arrivo del Governatore, Gléby si presenta a Stephana: è caduto in disgrazia ed è stato condannato anche lui alla Siberia. Ha trovato un modo di evadere, attraverso un pozzo: ha provato il percorso, ma il ricordo di lei l’ha riportato indietro. Le propone dunque, con parole appassionate, di fuggire insieme. Stephana rifiuta recisamente, ma Gléby insiste: se tornerà con lui, riavrà una vita gioiosa, piena di feste e di splendore. La donna ribatte che egli le ricorda un passato di vergogna, mentre nella Siberia, colma di miserie e dolori, ella respira “il trionfo dell’amore”. Ama Vassili e rimarrà con lui. Gléby se ne va minacciandola, mentre il Governatore annuncia un giorno di riposo dal lavoro. Ma Gléby torna ben presto e dopo aver schernito Vassili, racconta agli altri forzati la storia sua e di Stephana: l’aveva conosciuta quando aveva appena quindici anni ed era povera ma bellissima. L’aveva dunque avviata ad una vita da cortigiana, piena di feste e avventure. Vassili vuole avventarsi contro di lui, ma Stephana lo trattiene. Però le parole di Gléby lo hanno ferito: il ricordo del passato dell’amata, le sue relazioni con altri uomini lo torturano. Quel passato torna per volere di Dio, che nega il perdono, e la sua sola speranza è la morte. Stephana reagisce chiamandolo falso amante: anche se avesse in fronte tutto il fango del mondo, aggiunge, per il suo pianto Dio la perdonerà. Vassili si pente delle sue parole e le chiede perdono, mentre Stephana afferra Gléby per il collo e rivolta a Vassili prorompe in un grido: Gléby è stato il suo primo amante e l’ha venduta; un amore puro l’ha redenta, ma ecco ritornare con lui il “vile destino” della sua vita. Il vero nome di Gléby? Usura e falso! Mentre Stephana sviene, il Governatore e i forzati inneggiano a Cristo risorto; quindi iniziano i preparativi dello spettacolo teatrale. Stephana propone allora a Vassili di fuggire attraverso il pozzo; il giovane è perplesso ma viene convinto a tentare dall’amata. Si odono grida di “All’armi” e colpi di fucile: Stephana è riportata dai cosacchi ferita a morte, mentre Vassili è arrestato. Il Governatore lo fa liberare, mentre Stephana si rivolge affettuosamente all’amato: la sublime parola “libertà” le nasce finalmente in cuore; muore felice di sentirsi redenta e sarà sempre con lui, sul suo cuore. Mentre i forzati intonato un triste coro, Vassili chiama disperato Stephana.

Giordano ha sempre considerato Siberia il suo capolavoro, in effetti il lavoro ha un taglio moderno e teatrale, soprattutto il secondo atto. La partitura impiega temi popolari russi tra cui la canzone dei battellieri del Volga che torna a più riprese a mo’ di Leitmotiv. Diversamente dall’Andrea Chénier non ha ariosi orecchiabili, si sviluppa in un’alternanza di declamato e cantabile con momenti più melodici come la “mattinata” a 4 voci o la “quasi romanza” di Stephana «Io l’amai | per l’esistenza | rinnovata: | pura in me» dell’atto primo o le «Orride steppe» con cui Vassili mette in guardia la donna da quello che la aspetterà in Siberia. L’opera inizia in maniera insolita: la voce di un mugiki nel silenzio e fuori scena canta il fatalistico dolore di vivere, il vero tema di Siberia: «Godi dunque il suo sole, se c’è sole; | godi la luna, se la luna c’è; | è vita anche la tua ché, se Dio vuole, | c’è ultima la morte anche per te».

Il libretto di Luigi Illica, qui senza l’essenziale collaborazione di Giuseppe Giacosa – che era il vero versificatore della rinomata ditta Illica&Giacosa dei capolavori pucciniani – gioca con rime («fondo-tondo-mondo, malori-dolori, languire-soffrire, penare-tremare, Siberia-miseria), allitterazioni consonantiche che sono quasi degli scioglilingua («bara mesta di tetri scheletri») e copiosità di attributi (difficilmente un sostantivo è accompagnato da meno di tre aggettivi), senza arrivare a una efficace drammaturgia.

Gianandrea Noseda, che finalmente realizza il suo progetto, legge la partitura come se fosse di uno degli autori russi da lui prediletti. Non c’è finezza strumentale che non sia messa in evidenza, che siano i toni cupi degli ottoni e dei bassi del tema di «Volga, Volga» o l’orchestra di balalaike del terzo atto, qui ricreate con cetra, mandolini e… pianoforte preparato! Il vigore e l’entusiasmo con cui Noseda dirige l’orchestra del teatro trovano i momenti migliori nelle pagine sinfoniche, come lo splendido preludio al secondo atto. Il volume sonoro, le dimensioni dell’immensa buca orchestrale e la non ottimale acustica del teatro fanno sì però che spesso le voci siano coperte dagli strumenti anche se in scena ci sono voci ragguardevoli. Così è perlomeno quella di Sonya Yoncheva, non cantante “verista” ma interprete di temperamento per la figura di Stephana, «la bella orientale». Il soprano bulgaro, che da Händel e Monteverdi è passata a Verdi e Puccini, debutterà alla Scala l’anno prossimo nei panni di un’altra russa maliarda, la Fedora, sempre di Giordano. Qui oltre al bel timbro e ai facili acuti fa mostra anche di una buona dizione e una magnetica presenza scenica. Acuti invece un po’ al limite per Giorgi Sturua, ma la parte di Vassili, creata per il particolare strumento di Giovanni Zenatello, cantante all’epoca dai mezzi vocali smisurati, è tutt’altro che agevole, ma il tenore georgiano ne esce con onore. Più a suo agio nel suo ruolo è il rumeno George Petean, che si trova a dover rendere plausibile una parte come quella di Gléby senza caricarla di eccessiva malignità. Di buon livello i comprimari, dal principe Alexis di Giorgio Misseri alla Nikona di Caterina Piva e tutti gli altri.

Visivamente l’allestimento di Roberto Andò parte bene: la scena altoborghese e realistica all’apertura di sipario di Gianni Carluccio si trasforma in uno studio cinematografico dove si girano le pellicole del realismo socialista di epoca staliniana: un finto operatore e un finto microfonista intervengono a tratti e talora gli interpreti si cambiano costume o aspettano la loro battuta ai lati della scena. Su due schermi che scendono dall’alto vengono proiettate le immagini degli attori che interpretano la vicenda nel mezzo filmico, o spezzoni di cinegiornali d’epoca – compresa la faccia di Stalin stesso che appare alle parole «Cristo è risorto» nella scena della Pasqua del terzo atto. Ma l’idea non ha un’effettiva necessità e la mancanza di regia attoriale trasforma la performance in una esecuzione tradizionale con i cantanti al proscenio rivolti al pubblico e con i soliti gesti. Ci voleva probabilmente un regista come Livermore per sfruttare la lettura cinematografica con maggior convinzione. Peccato, così la riproposta di Siberia è stata un’occasione riuscita a metà.

Il giocatore

Sergeij Prokof’ev, Il giocatore

★★★☆☆

Vilnius, Lietuvos nacionalinis operos ir baletos teatras, 12 febbraio 2020

(video streaming)

Nevrosi in musica a Vilnius

Non è il giardino del Grand Hôtel di Roulettenburg quello che vediamo in scena a  Vilnius nel Teatro Nazionale Lituano in questa coproduzione con Basilea, bensì il locale lavanderia di un condominio (come nel Fidelio di Graham Vick del 2002): generali e marchesi qui sono borghesi in felpa e brache camouflage nella messa in scena del giovane Vasily Barkhatov. Non siamo ai tavoli di una roulette reale, ma a quelli virtuali del gioco on line. Polina è una ragazza madre, il marchese un giovane balordo prestasoldi, il generale un pensionato e la “baboulinka” (nonnetta) una tipa vispa che sembra più giovane del nipote.

La vicenda di baroni, baronesse, principi, ranghi, duelli, scandali, eredità si adatta con difficoltà agli ambienti moderni e popolari e i personaggi stilizzati e straniati di Prokof’ev qui hanno un realismo incongruo con il grottesco della vicenda di Dostoevskij (lui stesso un giocatore sul lastrico al momento della scrittura del romanzo), grottesco vieppiù esaltato dal compositore russo. Ben risolto è comunque il secondo quadro del quarto atto, «la sala da gioco fortemente illuminata» che abbacina Aleksej, qui un insieme di schermi video con i vari giocatori mentre all’ultimo piano dei tre della scenografia disegnata da Zinovy Margolin ci sono i croupier reali.

Nome di richiamo della produzione è Asmik Grigorian, moglie del regista e gloria locale, che ritorna in patria dopo i trionfi all’estero. Il soprano lituano affronta con profonda convinzione l’ardua parte di Polina, ardua non per le difficoltà vocali, ma perché non ha mai una linea melodica, non diciamo un’aria, in cui prorompere, però è quasi sempre in scena e quindi deve far valere le doti di attrice. Il timbro magnifico e la personalità rendono il personaggio empaticamente umano, l’unico personaggio positivo della vicenda.

Incomparabilmente più impegnativo è il ruolo tenorile di Aleksej, qui uno splendido Dmitrij Golovnin la cui gamma vocale è ben padroneggiata dal cantante russo che si dimostra anche scenicamente sorprendente e a suo agio nei tantissimi primi piani del viso. Efficaci gli altri interpreti, chi più chi meno.

Il direttore Modestas Pitrėnas dimostra buona padronanza del materiale musicale alla guida dell’orchestra del teatro dipanando l’ansiogena partitura fino al travolgente quarto atto in un crescendo implacabile.

 

Z mrtvého domu

 

Leos Janacek, Z mrtvého domu  (Da una casa di morti)

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 26 maggio 2018

(live streaming)

L’opera profetica di Janáček nel collage surreale di Castorf

Per l’ultima opera di Leoš Janáček i superstiziosi avrebbero materia per le loro ossessioni: a parte il titolo, c’è il fatto che dopo averci lavorato per due anni il compositore morì all’improvviso nell’agosto 1928 senza poter rivedere l’orchestrazione del terzo atto, così che l’opera fu rappresentata postuma a Vienna nel 1930 in una versione piuttosto rimaneggiata da Břetislav Bakala e Osvald Chlubna. Alla stesura originale si arriverà solo quarant’anni dopo: se ancora nelle edizioni discografiche di Bohumil Gregor (1965) e Václav Neumann (1980) vennero mantenute alcune delle pesanti interpolazioni dei revisori, è solo nel 1974 che Václav Nosek dirige l’opera a Brno senza aggiungere nulla a quanto già esisteva nei manoscritti originali. Analogamente si sono comportati John Tyrrel e Charles Mackerras per l’edizione digitale del 1980. «Se l’opera è stata avvolta per decenni nel morbido involucro della romantica revisione Bakala-Chubna – come il Boris Godunov di Musorgskij nella versione di Rimskij-Korsakov – qualche ragione vi sarà stata, e non è stato un gran male: il nostro tempo è molto più adatto di quello passato ad accogliere Da una casa di morti nella sua scheletrica ferocia e nel suo scabro e spietato espressionismo», scrive Franco Pulcini.

Autentico testamento artistico e potente messaggio di pietà per quel frammento di umanità civilmente morta – oltre che opera profetica dei gulag staliniani e dei lager nazisti – Da una casa di morti è talora messa a confronto col Wozzeck di Berg (1926) che però Janáček non vide mai né poté studiarne la partitura; ebbe solo la possibilità di ascoltarne i frammenti eseguiti in concerto da František Neumann a Brno il 3 aprile 1927. Il lavoro di Janáček è molto più realisticamente crudo e spietato di quello di Berg, anche se entrambi danno dignità operistica alle voci di diseredati e oppressi.

E sia ai gulag sia ai lager si ispira la scenografia di Aleksandar Denić qui al Teatro Nazionale di Monaco di Baviera, anche se poi la sua struttura rotante, una vera macchina infernale, utilizza poster cinematografici e un’insegna luminosa della Pepsi oltre a una caotica giustapposizione di oggetti di varie epoche. Conigli in gabbia rispecchiano quella di filo spinato in cui è racchiuso questo microcosmo maschile di criminali, grandi e piccoli, ma tutti degni di compassione, se non di cristiano perdono.

Il sessantaseienne regista Frank Castorf non frequenta molto l’opera lirica, essendo i suoi interessi volti maggiormente al cinema (ha girato tra l’altro I demoni di Dostoevskij, autore di cui si confessa ossessionato) e al teatro di prosa (ha in scena quasi in contemporanea il Don Giovanni di Molière, lo stesso del siparietto del secondo atto nell’opera di Janáček). Il regista tedesco nei suoi spettacoli fa sempre grande uso della musica, ma qui l’horror vacui della sua messa in scena contrasta troppo con l’essenzialità di suoni dell’opera e col suo messaggio etico. Come se tutto ciò non bastasse, a tratti scende uno schermo su cui vengono proiettate immagini di film o scene captate in vari altri punti della struttura, dialoghi sono aggiunti come pure un passaggio del Vangelo in spagnolo. Più che un carcere siberiano il palcoscenico sembra un affollato rifugio di anime perse.

A capo dell’orchestra del teatro l’australiana Simone Young si dimostra un’esperta janáčekiana nella sua lettura drammaticamente livida di questa intensa partitura che viene eseguita senza soluzione di continuità.

Cantato in quella lingua meravigliosamente concisa («abbiamo ottenuto il resto della giornata libera e il permesso di fare teatro questa sera» è la traduzione in italiano di «bude prazdnik, i těatr»!) che Janáček aveva condito di espressioni russe o dialettali, il testo è magistralmente reso da interpreti di varie nazionalità. Citiamo almeno i tre personaggi a cui si devono i tre grandi monologhi: il Luka di Aleš Briscein, lo Skuratov di Charles Workman e lo Šiškov di Bo Skovhus, tutti eccellenti in modo diverso. Gorjančikov è Peter Rose e Aljeja il soprano Evgeniya Sotnikova, che nella lettura di Castorf veste le piume dell’aquila su un costume scintillante di lamé che la trasformano in una paradisea. La costumista Adriana Braga Peretzki si sbizzarrisce con calzemaglie che imitano pelli tatuate o gli scheletri del día de Muertos, piuttosto incongrui nella steppa siberiana e che sembrano avanzati dalla precedente produzione de Les vêpres siciliennes sempre qui alla Bayerische Staatsoper.

Foto © Wilfried Hösl

Il giocatore


★★★★☆

L’ossessione del gioco da Dostoevskij a Prokof’ev

Ennesima conferma: Dmitrij Černjakov nelle opere russe è molto più convincente che in quelle non russe. Anche questo Giocatore di Prokof’ev segue la regola, finora dimostrata senza eccezioni.

Prima vera opera del compositore ucraino, è basata sull’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij Игрок (Igrok), pubblicato nel 1866, il cui testo viene fedelmente citato, soprattutto i dialoghi, nel libretto del compositore stesso. Composto negli anni 1915-16 sarebbe dovuto andare in scena al Mariinskij nel febbraio del ’17, ma vari problemi e poi la Rivoluzione d’Ottobre ne cancellarono la presentazione e nel maggio 1918 Prokof’ev abbandonava il suo paese. Ritornato in patria dieci anni dopo vi aveva trovato un clima non più favorevole alla sua musica, tacciata di eccessivo modernismo, e il debutto avvenne quindi in una nuova versione alla Monnaie di Bruxelles il 29 aprile 1929 dopo L’amore delle tre melarance, il suo primo trionfo come operista, e L’angelo di fuoco. «La seconda versione, più essenziale, non si limita solo a ripulire e alleggerire l’orchestrazione, facendone emergere con piena lucentezza la continuità di strutture armoniche, ritmiche e sinfoniche, ma incide anche, se non soprattutto, sul canto. Qui le esperienze compiute nel frattempo, massimamente nell’Angelo di fuoco, si dimostrano decisive: nel senso che alla uniformità della declamazione intonata subentrano una più marcata accentuazione lirica, una più fluida e insieme penetrante espansione melodica, una più soddisfacente e intensa ariosità. L’esigenza di dare all’azione scenica una articolazione fluida, sciolta e all’orchestra una funzione di caratterizzazione drammatico-musicale si salda così con l’evidenza, il rilievo plastico del canto. È proprio questo impulso a fare del canto il veicolo centrale dell’espressione, quasi il polo magnetico che attira su di sé il complesso degli elementi scenico-compositivi, costituisce il tratto distintivo del teatro di Prokof’ev nel contesto dell’opera novecentesca». (Sergio Sablich)

La vicenda è ambientata in Germania nella fittizia località Roulettenburg il cui casinò attira molti giocatori. Atto primo. Il giovane precettore Aleksej, incaricato di giocare una certa somma dall’amata Polina, figliastra del generale, presso il quale egli presta servizio, le confessa di aver perso tutto. Nel frattempo giunge il generale, accompagnato da Mademoiselle Blanche, dal marchese e da Mister Astley: sono tutti in attesa di un telegramma da Mosca che finalmente annunci la morte dell’anziana e facoltosa nonna del generale, da tempo ammalata. Il generale infatti è fortemente indebitato con il marchese e vorrebbe sposare Blanche, di cui è innamorato. Aleksej, rimasto solo con Polina, le dichiara il proprio amore appassionato, ma la donna, indifferente, per capriccio gli impone di deridere pubblicamente la moglie del barone Wurmerhelm. Aleksej obbedisce e in modo grossolano apostrofa la baronessa, suscitando l’ira del barone.
Atto secondo. Indignato per la bravata di Aleksej, il generale decide di licenziarlo ma alla decisa reazione del giovane, che minaccia un pubblico scandalo, assume un tono di inspiegabile moderazione. In seguito Aleksej apprende da Mister Astley che il generale non desidera in alcun modo irritare il barone in prossimità delle sue nozze con Blanche, accusata proprio dalla baronessa di aver corteggiato il marito. Soltanto un biglietto di Polina, consegnato dal marchese ad Aleksej (che lo sospetta amante di Polina), ha il potere di dissuadere il giovane dai suoi propositi. Del tutto inattesa, con un seguito di valige e servitori, compare la nonnetta, più energica che mai anche se portata a braccia su una poltrona: si rende subito conto dello scompiglio provocato dalla sua comparsa, disereda il generale e con l’aiuto di Aleksej si appresta a recarsi alla sala da gioco.
Atto terzo. In una piccola sala adiacente alla roulette il generale si aggira sconvolto: la nonna sta perdendo una fortuna. Con l’aiuto di Blanche cerca di ottenere invano l’aiuto di Aleksej, unica persona in grado di distogliere la nonna dal tavolo da gioco. Ma Aleksej rifiuta. La nonna, dopo aver perduto una somma enorme, riparte per Mosca e invita senza successo Polina a seguirla. Blanche, vista la sfortuna del generale, decide di abbandonarlo e si allontana con il principe Nil’skij.
Atto quarto. Scena prima. Polina compare nella camera di Aleksej e gli rivela di essere stata volgarmente abbandonata dal marchese, che si sta recando a Mosca a riscuotere i suoi crediti con il generale e le ha lasciato una somma di denaro per ripagarla dei favori ricevuti. Aleksej, indignato, giura a Polina di vendicare l’affronto. Scena seconda. In preda a un febbrile agitazione, Aleksej gioca e vince senza sosta, fino a sbancare il casinò. Un gruppo di accaniti giocatori assiste incredulo alla scena. Scena terza. Aleksej, esausto e pieno di soldi, torna in camera e offre a Polina la vincita. Ma la giovane rifiuta con violenza il denaro e si allontana.

Il giocatore è la descrizione di un’ossessione patologica essendo «incentrato sul gioco d’azzardo, che è autodistruzione, e ha un solo grande protagonista: la roulette, che gira con un vitalismo metallico, incessante come incessante è il movimento della ruota. Culmine drammatico dell’opera è proprio il quarto atto […] nella scena della sala da gioco, mentre la musica mima i vortici della pallina nel piatto (una pagina di straordinaria veemenza ritmica e vocale), i personaggi intorno sono un campionario di macchiette, straniati e rigidi come burattini. D’altra parte tutta l’opera è intrisa di satira amara sul mondo dei giocatori, un mondo dove tutto è falso, convenzionale, esagitato, inautentico. Solo il personaggio della nonna si stacca da questo mondo di fantocci: e la musica che la accompagna ha un sussulto di vitalità autentica, di imperiosa, categorica sincerità. Poi, quando la devastante passione divora anche lei, la sua musica si fa inquietante, più pacata, più sorda. (Fausto Malcovati)

L’allestimento è della Staatsoper under den Linden di Berlino, dove viene registrato il DVD, e coprodotto con la Scala dove sarà rappresentato lo stesso anno, 2008. La messa in scena di Černjakov non ricorre a un particolare konzept: il tema del gioco d’azzardo è già abbastanza forte. Il regista russo si limita ad aggiornare l’ambientazione: un hotel moderno, con la sua lobby, la sala da gioco, un salottino, alcune camere. Nella scenografia dello stesso Černjakov i vari ambienti, in cui predominano i colori bianco e blu, scorrono da destra a sinistra molto lentamente nei quattro atti in cui si dipana la vicenda. Aleksej, in parka e scarpe da ginnastica, è un disadattato senza futuro baciato per una volta dalla fortuna, ma i soldi che vince non gli portano la felicità e Polina, di cui è innamorato, in fondo lo disprezza e dopo essersi concessa a lui lo abbandona. Dopo una prima verbosa parte con gli astratti furori di Aleksej, l’arrivo della «nonnetta» imprime un ritmo all’azione che diverrà forsennato nella sala da gioco.

Interpreti di grande livello: Kristīne Opolais è una fascinosa Polina dalla vocalità sontuosa, Vladimir Ognovenko è il Generale in rovina finanziaria, Stefania Toczyska l’improvvida e avventata nonnetta. Aleksej è un intrepido Mischa Didyk che affronta con onore l’estenuante ruolo sebbene le continue occhiate al direttore (inconvenienti dei primi piani della ripresa televisiva!) tolgano un po’ di efficacia alla sua prestazione. (Da notare invece la maggior sicurezza della Opolais che in nessun istante sembra sbirciare verso l’orchestra).

E in orchestra abbiamo un valente Barenboim che mette bene in luce la dura e talora grottesca musica di un compositore osteggiato in Russia perché troppo occidentale e moderno, e non abbastanza apprezzato in Occidente perché troppo russo!

  • Il giocatore, Pitrėnas/Barkhatov, Vilnius, 12 febbraio 2020
  • Le joueur, Latham-Koenig/Pountney, Martina Franca, 24 luglio 2022

Z mrtvého domu

Leoš Janáček, Z mrtvého domu  (Da una casa di morti)

★★★★★

New York, Metropolitan Opera House, 14 novembre 2009

Boulez e Chéreau ancora una volta insieme

Al buon vecchio Leoš dovevano piacere le imprese ardue. Le sue ultime tre opere sono tratte da testi che sembrano impossibili da portare in scena e musicare: una storia d’amore tra volpi (!), un intricato caso giuridico e infine il diario/romanzo di Fëdor Dostoevskij sulla sua detenzione in Siberia. Da una casa di morti (Z mrtvého domu, rappresentata postuma nel 1930) è il titolo dell’opera del compositore moravo, Memorie da una casa di morti (Записки из Мёртвого дома, Zapiski iz Mërtvogo doma1862) quello da cui è stato tratto.

Il valore profetico dell’ultima opera di Janáček è stato messo ben in evidenza dallo scrittore ceco Milan Kundera: «I tre maggiori monumenti d’arte che il mio paese ha creato in questo secolo rappresentano le tre pale del quadro dell’inferno futuro: il labirinto burocratico di Kafka, la stupidità militare di Hašek [Il buon soldato Švejk], la disperazione concentrazionaria di Janáček. Sì, dal Processo a Da una casa di morti, a Praga era stato detto tutto e la Storia non aveva che da entrare in scena per mimare ciò che la finzione aveva già immaginato».

«La trama è di fatto senza evoluzione, praticamente inesistente o informale: rappresenta la successione narrata di tante storie, indipendenti e diverse, a ognuna delle quali è riservato uno spazio differente nella partitura. Fatale che da un non-romanzo nascesse una non-opera. Il protagonista, Alexandr Petrovič Gorjančikov, giovane aristocratico condannato per le sue idee libertarie, svolge in gran parte dell’opera una funzione di spettatore. […] La vicenda inizia con il suo arrivo al campo e si conclude con la sua liberazione, esattamente come avviene a un’aquila ferita che, guarita alla fine dell’opera, spiccherà un volo verso la libertà negata agli ergastolani. Al destino del prigioniero politico è anche legato quello del malvagio comandante del campo, che interviene al suo arrivo, facendolo frustare senza alcun motivo, e alla sua liberazione, congedandosi da lui con una certa rozza caricatura di umanità, dovuta alla sua ubriachezza e al fatto di avere ormai perso la sua autorità. La poetica intercorrispondenza fra aquila e prigioniero politico è un’intuizione di Janáček. Nel romanzo L’aquila se ne va dal campo ancora ferita sbatacchiando l’ala sana. […] Inoltre in Dostoevskij non si fa menzione di maltrattamenti a forzati di origine nobile internati per i loro ideali libertari. Certamente la diversa e più moderna ottica del musicista verso la pratica della punizione corporale, lo ha portato a ricreare da spunti del romanzo una situazione nuova, ponendola strategicamente all’inizio dell’opera, in modo da rappresentare in tutto il suo orrore l’ottusità capricciosa dell’uso della violenza dell’uomo sull’uomo» (Franco Pulcini)

Per un’attenta lettura musicale dell’opera è sempre di riferimento il vecchio testo di Erik Chisholm sulle opere di Janáček che comprende anche una dettagliata analisi del monologo di Šiškov nel terzo atto.

Trent’anni dopo la memorabile impresa del Ring del centenario a Bayreuth, Boulez e Chéreau si incontrano di nuovo in occasione delle Wiener Festwochen del 2007 per uno spettacolo che sarà ripreso con successo ad Aix-en-Provence, Amsterdam, New York e Milano (qui con la magistrale direzione di Esa-Pekka Salonen).

Mettere in musica la spaventosa monotonia della vita carceraria tra mura opprimenti senza suscitare noia, anzi avvincere e commuovere è la scommessa vinta dal compositore prima e dal regista poi. Per quanto riguarda Janáček la musica della sua ultima opera entra in perfetta sintonia con la concretezza e il realismo della recitazione che qui tocca i massimi vertici con la guida del regista francese. Questo è uno dei pochi casi in cui non si riesce a distinguere l’apporto del compositore e del direttore d’orchestra da quello di chi ha messo in scena lo spettacolo, tanto sono dipendenti e intricati fra di loro.

Il regista francese esalta la solitudine, il dolore, l’umiliazione, la crudeltà, l’affetto, la nostalgia, l’alienazione, l’abbrutimento di queste anime morte alla libertà. Il finale dell’opera nella sua messa in scena è di quelli che ti tolgono il fiato per l’emozione. Assistere dal vivo alla rappresentazione al MET è stato un evento,  sconvolgente e indimenticabile. Come la lettura del testo di Dostoevskij.

Il maestro Boulez, accusato talora di analitica freddezza, qui bilancia magnificamente i momenti drammatici della vicenda musicale con una concertazione attenta dei ritmi incalzanti, spesso reiterati, alternati alle oasi di puro lirismo della splendida partitura resa molto bene dalla giovanile Mahler Chamber Orchestra.

Magnifici gli interpreti, praticamente tutti maschili, che toccano le varie corde espressive. Citiamo solo per brevità Peter Mattei (Šiškov), il delicato Aljeja di Eric Stoklossa, il possente Willard White come Goriančiko, ma è un far torto a tutti gli altri cantanti-attori. Contributo non trascurabile nelle due pantomime quello del coreografo Thierry Thieû Niang.