Mese: luglio 2016

Ottone in villa

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Antonio Vivaldi, Ottone in villa

★★★☆☆

Copenhagen, Teater Republique, 30 luglio 2014

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Vivaldi al circo

Nella nuova sala dal palcoscenico circolare del Teater Republique, teatro destinato a un repertorio d’avanguardia, il Concerto Copenhagen diretto da Lars Ulrik Mortensen presenta la prima opera di Vivaldi, quell’Ottone in Villa (RV 729) dramma in tre atti su libretto di Domenico Lalli (tratto dalla Messalina del Piccioli intonata dal Pallavicino nel 1680) rappresentato il 17 maggio 1713 nel piccolo teatro vicentino delle Garzerie. Rispetto alla Messalina il testo è ampiamente ridotto, i personaggi passano da otto a cinque, i numeri musicali da 65 a 28. È un lavoro in scala ridotta, senza coro, senza elaborati effetti scenici e con una piccola orchestra – 2 flauti, 2 oboi, 2 cembali, tiorba e archi.

Come era consuetudine al tempo, alcuni pezzi musicali furono riutilizzati da Vivaldi in altre composizioni: ad esempio, la musica dell’aria di Caio del primo atto «Chi seguir vuol la costanza» ritornerà nell’Orlando furioso (Venezia 1714), nel Tito Manlio (Mantova 1719), in alcune versioni del Laudate pueri Dominum (RV 602, 602a, 603) e nel concerto per violino RV 268. Per non dire del finale che sarà ripreso tre anni dopo nella Juditha triumphans.

Vivaldi scrisse quest’opera quando aveva trentacinque anni, era già un celebre compositore di musica strumentale (il suo Estro armonico op. 3 è di due anni prima) e poteva ormai contare su una lunga attività di violinista presso i teatri d’opera di Venezia. Tutto questo gli permise più agevolmente di debuttare in questo nuovo genere musicale, ma decise prudentemente di dare il suo primo spettacolo teatrale in provincia, a Vicenza appunto, lontano dall’ambiente musicale veneziano, in modo che un imprevisto insuccesso non potesse compromettere la sua carriera d’operista.

Atto I. L’opera si svolge nella villa di campagna dell’imperatore romano Ottone (1). Questi è follemente innamorato della bella Cleonilla la quale confessa che, sebbene amata dall’imperatore, trova impossibile resistere al fascino di qualche attraente giovanotto. Uno dei suoi vecchi amori era Caio Silio, ma egli è stato recentemente rimpiazzato nei suoi favori dal suo nuovo paggio Ostilio. Cleonilla proclama a Caio di amarlo ancora, anche se a parte rivela che adesso trova Ostilio ancora più avvenente! Ottone arriva, anticipando il piacere di dimenticare onerosi affari di Stato in questo leggiadro ambiente, ma Cleonilla lo provoca affermando che egli non può amarla veramente poiché passa così poco tempo con lei. Ottone chiede a Caio di aiutarlo a curarla della sua gelosia e Caio si stupisce della credulità dell’imperatore. A questo punto entra Tullia. Un tempo fidanzata di Caio lo ha seguito in spoglie maschili e altro non è che Ostilio. Ostilio chiede a Caio se ricorda ancora di aver tradito la sfortunata Tullia. Caio, pur notando che il paggio somiglia straordinariamente a Tullia, non indovina la verità; egli dichiara che il suo nuovo amore per Cleonilla ha scacciato Tullia dai suoi pensieri, mettendo in dubbio i meriti della costanza, giacché l’amore diviene un peso senza varietà. Ostilio medita di vendicarsi. La scena si sposta alle terme dove Cleonilla è appena emersa dal bagno. Sta ancora stuzzicando Ottone ma vengono interrotti da Decio, fedele consigliere di Ottone, il quale dice all’imperatore che Roma lamenta la sua assenza. Ottone non se ne cura ma dopo che egli è uscito Cleonilla interroga Decio per sapere cosa si dice di lei a Roma. Decio non vede di buon occhio la sua impudicizia e le dice che essa si illude se crede che l’amore di un re possa supplire alla mancanza dell’onore vero. Partito Decio, arriva Ostilio e Cleonilla dichiara il suo amore per lui. Ostilio s’impossessa di questa dichiarazione per vendicarsi di Caio, incoraggiando Cleonilla a giurare la sua fedeltà amorosa a lui e la sua avversione per Caio. Quest’ultimo, che ha ascoltato di nascosto, è inorridito e risolve di rivelare all’imperatore la slealtà di Ostilio.
Atto II. In un ridente giardinetto, Decio avverte Ottone che Cleonilla sarà la sua rovina giacché Roma disapprova i suoi numerosi e ben noti amori. Ottone cade dalle nuvole e paragona il suo turbolento stato d’animo alle onde violente di un mare in tempesta. Decio rivela che si è deliberatamente trattenuto dal dire all’imperatore che Caio è il suo rivale ma non vuole spiegare a Caio cos’è che ha tanto sconvolto Ottone. Caio, apparentemente lasciato solo, riflette sulla sua infelicità ma viene ascoltato di nascosto da Tullia che gli risponde a guisa d’eco. L’eco, affermando di essere la voce di uno spirito infelice, tormenta Caio. A questo punto Ostilio si scopre e canta del conflitto nel suo cuore fra i «due tiranni», indignazione e amore. La scena si sposta in un padiglione rustico dove Cleonilla si sta ammirando allo specchio. Entra Caio, ma le sue dichiarazioni d’amore vengono respinte con noncuranza. Caio le dà una lettera che proclama i suoi sentimenti, ma mentre Cleonilla sta per leggerla arriva Ottone e gliela strappa di mano. Ottone legge che Caio è suo rivale, ma Cleonilla gli dice che Caio le ha semplicemente consegnato la lettera da passare alla persona a cui è effettivamente indirizzata, Tullia, che lo ha tradito. Il credulo Ottone le presta fede ed ella rinforza l’inganno scrivendo una seconda lettera – il suo personale appello a Tullia – che chiede a Ottone di consegnare. Giunge Decio con ulteriori notizie di congiure a Roma, ma Ottone tuttora si rifiuta di ascoltare una parola contro Cleonilla e fa chiamare Caio. Rimprovera il fedifrago Caio che dapprima crede di essere stato scoperto, ma poi si accorge, con suo gran sollievo, che Ottone è in collera non perché ha scoperto la sua relazione con Cleonilla,  ma semplicemente perché Caio ha sollecitato l’aiuto di Cleonilla invece di rivolgersi direttamente al suo imperatore. Rimasto solo Caio è colpito dalla furbizia di Cleonilla, mentre nella scena finale dell’atto il desolato Ostilio chiede ad Amore di porgerle aiuto.
Atto III. Su un sentiero ombroso e appartato Decio nuovamente cerca di persuadere Ottone del pericolo che lo aspetta a Roma, ma l’imperatore nella sua aria dichiara che nulla gli importa del trono o dell’impero pur di trovare felicità nell’amore. Decio profetizza l’imminente caduta di Ottone giacché l’amore in un regnante è segno di debolezza, ma viene interrotto dall’arrivo di Cleonilla e Caio. Ella continua a ignorare gli approcci di quest’ultimo, e quando appare Ostilio indirizza alternativamente parole d’amore a lui e di ripulsa a Caio. Caio pretende di seguire il suo consiglio e di allontanarsi, ma in realtà si cela. Cleonilla continua a dichiarare il suo amore per Ostilio che la incoraggia nella sua aria, allo stesso tempo rivelando a parte che Cleonilla sta facendo uno sbaglio. La vista dei due che si abbracciano manda in furia Caio che si precipita su Ostilio con un pugnale. Le grida di Cleonilla richiamano Ottone e Decio che al loro arrivo esigono da Caio una spiegazione. Egli descrive la scena cui ha appena assistito – Cleonilla e Ostilio che si baciano e abbracciano – e lo scandalizzato imperatore gli ordina di portare l’azione a compimento e di uccidere il traditore. Ostilio offre di giustificarsi e togliendosi il travestimento si rivela come la tradita Tullia. Nella sua vera veste Tullia adesso protesta l’innocenza di Cleonilla e accusa Caio di essere il vero traditore. Tutti restano meravigliati anche se Ottone si ricompone con straordinaria rapidità, esprimendo il suo desiderio di vedere Caio e Tullia sposi e chiedendo perdono a Cleonilla. L’opera termina con un concertato di giubilo generale.

Decio, che per tre atti ha vanamente tentato di avvertire Ottone delle varie tresche, è l’unico personaggio serio in questo dramma che, sulla scia dell’Incoronazione di Poppea, prevede che a trionfare non sia la virtù, ma il vizio.

«L’opera si apre con una Sinfonia in tre movimenti. Il primo e più esteso deve al Concerto grosso le contrastanti sezioni di piena orchestra con passaggi per un paio di oboi in terze e ulteriori sfoggi di virtuosismo per i due violini solisti. Il secondo movimento è in forma binaria, ogni metà essendo prima suonata dagli oboi accompagnati dai violini e poi da tutti gli archi con raddoppio degli oboi. La stessa prima sezione di otto battute è poi trasportata dal do minore al do maggiore per l’Allegro conclusivo (pure in forma binaria); queste battute, in effetti, ricordano un passaggio dell’oboe nel primo movimento, con ciò producendo un’inconsueta congiunzione tematica fra tutti e tre i movimenti. L’aria di Caio nell’atto primo, scena quinta, “Chi seguir vuol la costanza”, sembra sia stata fra le preferite da Vivaldi. Inizia con un canone fra violini e basso, in ovvio motteggio al testo nel suo significato letterale, che deve essere piaciuto al compositore che riadopera la musica in molte altre opere.  […]. L’aria di Ottone nell’atto primo, scena settima, “Frema pur, si lagni Roma contiene molta scrittura in unisono per voce e archi, con note fortemente ripetute, figurazioni balzanti e fioriture di biscrome che descrivono la determinazione dell’imperatore. Poi questa scrittura è in contrasto con diversi brani di teneri Adagi in cui il suo pensiero si volge all’adorata Cleonilla. L’aria di Ottone, “Come l’onda”, all’inizio dell’atto secondo, presenta un tipico quadro musicale vivaldiano di tempesta di mare, mentre l’aria di Caio, “Gelosia tu già rendi l’alma mia”, descrive la violenza della sua gelosia in un pezzo di brillante virtuosismo con il quale termina il primo atto. Anche qui c’è una sezione più lenta, questa volta al centro dell’aria tripartita da capo, in cui impreviste armonie cromatiche ritraggono il dolore del suo amore respinto. Quest’idea di tempi contrastanti per conflitti emotivi è portata al suo estremo nell’aria di Tullia nell’atto secondo, “Due tiranni ho nel mio cor”, nella quale i due tiranni nel suo core, indignazione e amore, sono rispettivamente espressi da una musica vivace per tutti gli archi e gli oboi, e da passaggi più lenti e sospiranti per i soli archi superiori. Sebbene molte delle arie siano strumentate per i soli archi, l’atto secondo, scena terza contiene una tradizionale aria in eco, in cui Tullia, dal suo nascondiglio, ripete in eco le parole di Caio, le sue ripetizioni delle sillabe finali giocando con l’italiano per alterare il significato del testo, il tutto accompagnato da coppie trillanti di violini e flauti dolci in scena. L’atto terzo è inusitatamente breve, in quanto contiene solo cinque arie e un breve coro conclusivo per tutti i solisti. L’aria di Decio, “L’esser amante”, mostra l’influenza francese e con i suoi croccanti ritmi puntati anticipa svariate arie composte da Vivaldi in stile francese durante i primi anni della sua carriera d’operista. L’aria finale di Caio comprende un assolo di violino che raddoppia la linea vocale all’ottava superiore. Nel ritornello finale dell’aria l’orchestra ha l’ordine di fare una pausa, per permettere al violino solista (che a Vicenza fu probabilmente lo stesso Vivaldi) d’improvvisare una cadenza. Questa sarà stata certamente un pezzo elaborato, giacché abbiamo la descrizione di un tedesco che assistette all’opera veneziana nel 1715, il quale dichiarò di essere stato strabiliato alla vista di Vivaldi che eseguiva una “fantasia” posando le dita ad un capello dal ponticello cosicché c’era appena spazio per l’arco, suonando su tutt’e quattro le corde con fugati a rapidità incredibile». (Eric Cross)

Sonia Prina, che aveva inciso la parte nel 2010 col Giardino Armonico, ritorna in questo allestimento della regista Deda Christina Colonna che evidenzia, con costumi clowneschi,  l’atmosfera circense suggerita dal luogo accentuando però leziosità e aspetti burleschi nella recitazione dei cantanti con effetti talora fastidiosi. Non si oppone il direttore Lars Ulrik Mortensen che partecipa al gioco scenico dal suo clavicembalo di fianco alla pista.

(1) Marco Salvio Otone Cesare Augusto fu imperatore per pochi mesi nel 69 d.C. «Indolente fin dall’adolescenza e turbolento in gioventù, caro a Nerone perché suo emulo in dissolutezze» secondo Tacito, la sua indifferenza per la politica esibita nel libretto mal si intona col desiderio di potere che lo portò ad assassinare Galba per prenderne il trono.

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Les caprices de Marianne

Les Caprices de Marianne

Henri Sauguet, Les caprices de Marianne

★★★☆☆

Avignon, Opéra, 14 aprile 2015

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«Une gracieuse mélancolie»

Arriva sulle scene dell’Opéra d’Avignon, uno dei sedici teatri coproduttori, l’allestimento del lavoro creato nel 1954 per il Festival di Aix-en-Provence dal compositore bordolese Henri Sauguet. Su un libretto di Jean-Pierre Grédy molto fedele al drame romantique di Alfred De Musset del 1833 da cui è tratto, Les caprices de Marianne è un’opera in cui una musica di grande delicatezza, sensibilità e quasi evanescente accompagna una badinerie amorosa disseminata di arguzie letterarie. Un Debussy esile ma con qualche tocco di umorismo, come nel caso della vecchia dueña che accompagna Marianna, baritono en travesti.

La giovane napoletana Marianna è stata sposata da sua madre a Claudio, un vecchio magistrato autoritario e geloso. La sua unica distrazione è quella di recarsi più volte al giorno in chiesa. Un giorno incontra il buontempone Ottavio che perora la causa dell’amico Celio, innamorato troppo timido per dichiararsi. Dapprima Marianna lo rimprovera, ma poi si diverte all’idea di un amante per vendicarsi della brutalità del marito e offre il… posto a Ottavio, inutilmente. Nonostante questa esile plaisanterie l’opera finisce tragicamente con l’uccisione di Celio da parte del marito geloso.

Per questo allestimento il regista Oriol Tomas sceglie l’Italia degli anni ’50 con la Galleria Umberto I di Napoli deformata dalla prospettiva come sfondo ai due atti (scenografia di Patricia Ruel), una gabbia dal tetto di vetro, allegoria della vita e metafora del fragile destino dei personaggi: Marianna prigioniera di Claudio, lui della sua gelosia, Celio della sua folle passione, Ottavio doppiamente schiavo dell’amore per Marianne e della fedeltà a Celio. Nel bel finale, dopo l’uccisione di Celio, sull’addio di Ottavio alla vita spensierata, il regista fa piovere la cenere del Vesuvio sulla delusa speranza di Marianna di fuggire dal marito tra le braccia di Ottavio che le confessa: «Je ne vous aime pas, Marianne. C’était Cœlio qui vous aimait».

Sotto la direzione orchestrale di Claude Schnitzler i giovani interpreti, scelti dopo un’audizione di 230 candidati, dimostrano già buona presenza scenica e promettenti qualità vocali. La bella Zuzana Marková, soprano lirico, è Marianne; Cyrille Dubois è un Cœlio patetico e sognatore dalla chiara voce tenorile; Philippe-Nicolas Martin un Octave bon vivant; Thomas Dear Claudio, un marito geloso da commedia.

Les Caprices de Marianne

ZÁMECKÉ DIVADELKO

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Zámecké Divadelko

Litomyšl (1797)

200 posti

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Il castello di Litomyšl, costruito negli anni 1567–1581, è tra i più alti esempi di architettura rinascimentale della Repubblica Ceca. Nell’ala nord est fu costruito nel 1767 un primo teatro che però andò  distrutto da un incendio già l’anno successivo. Il teatro esistente fu edificato al piano terra dell’ala nord ovest e completato nel 1797. Le dimensioni della sala sono di 10 m per 20 mentre la scena misura 6 m di larghezza per 8 di profondità. L’orchestra è separata dalla sala da una partizione di legno, un’altra partizione separa le ultime file.

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La decorazione della sala è del pittore classicista Dominik Dvořák nei toni chiari del verde, grigio e rosa come il resto del castello. Drappi rossi dipinti danno un tocco di vivacità. L’illuminazione è affidata unicamente a candelieri a due braccia sulle colonne e i banchi originali sono stati conservati. I macchinari in legno di Václav Bonaventura per i cambi scena sono ancora funzionanti, così come la “macchina della pioggia” o l’illuminazione a lampade. Il teatro conserva una magnifica collezione di scene dipinte da  Josef Platzer, uno dei più rinomati scenografi del XVIII secolo. Elettrificato nel 1957 e dopo approfonditi restauri nel 2000, il teatro è ora sporadicamente utilizzato per rappresentazioni, mentre è incluso nella visita al castello.

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Ernani

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★★★★☆

Trentacinque anni dopo

Di questo spettacolo, che aveva inaugurato la stagione della Scala nel 1982, abbiamo non solo la accurata analisi di Elvio Giudici del DVD che lo contiene, ma anche una pungente cronaca di Massimo Mila.

Tratto dalla pièce di Victor Hugo Hernani ou l’Honneur castillan (1830), il lavoro di Verdi è sempre stato il preferito delle sue prime opere, anche dall’autore. «Il cocco bello di mamma, il figlioletto sano, vivace e un po’ stupido. Perciò ha avuto fortuna, e c’è chi non lo può soffrire». La critica di Mila non risparmia il libretto, definito «sgangherato» – e aggiungiamo lambiccato: «rugiada al cespite, bronzo ignivomo, cimbe natanti» sono alcune delle chicche letterarie messe in campo dal Piave in questo lavoro presentato alla Fenice il 9 marzo 1844.

L’epoca è l’anno 1519. L’azione si svolge in Spagna e ad Aquisgrana. Parte I, Il bandito. Ernani (in realtà dietro questo nome si nasconde Don Giovanni d’Aragona) è a capo di un gruppo di banditi con i quali vuole sollevare una rivolta contro il re Carlo per spodestarlo e vendicare l’uccisione del padre. Si reca di nascosto al castello di Silva per incontrarne la nipote Elvira della quale è innamorato e ricambiato, nonostante essa sia già promessa allo zio. Qui si trova già in incognito Carlo, anch’egli innamorato di Elvira. Essa lo riconosce, ma lo respinge e di fronte alla sua insistenza non esita a prendergli il pugnale per difendere il proprio onore. Ernani irrompe in scena per proteggere Elvira, ma il re lo riconosce e lo esorta alla fuga. Anche Silva entra all’improvviso sdegnato per l’attentato al suo onore da parte di Carlo, ma lo riconosce e gli rende omaggio. Carlo infine concede ad Ernani di scappare.
Parte II, L’ospite. La rivolta capeggiata da Ernani è fallita ed egli chiede ospitalità travestito da pellegrino al castello di Silva, il quale gli comunica che sta per sposare Elvira. Ernani sconvolto si rivela ed offre come dono nuziale la sua testa. All’inseguimento di Ernani giunge al castello anche Carlo, ma Silva legato al vincolo dell’ospitalità lo nasconde affinché non sia trovato. Non riuscendo a scoprire Ernani, Carlo lascia il castello intimando ad Elvira di seguirlo. Ernani quindi decide di rivelare a Silva che anche Carlo è innamorato di Elvira, esortandolo a vendicare l’offesa recata al suo onore. I due stringono un patto, Ernani consegna un corno a Silva, il quale quando vorrà la sua morte non dovrà far altro che suonarlo.
Parte III, La clemenza. I due congiurati si recano ad Aquisgrana sulla tomba di Carlo Magno, ma sono stati preceduti da Carlo, il quale rivendica il trono imperiale. Ernani e Silva decidono di ucciderlo e tirano a sorte su chi debba eseguire la sentenza, ed esce Ernani. Dopo che Ernani e Silva hanno nuovamente giurato, appare Carlo – ora imperatore – con il suo seguito e decreta la morte di Ernani e Silva. L’intervento di Elvira fa cedere Carlo, che la concede in sposa ad Ernani oltre a salvargli la vita. Silva intanto medita vendetta.
Parte IV, La maschera. Nel castello di Don Giovanni d’Aragona fervono i preparativi per le nozze. Mentre tutti si abbandonano alla gioia si sente risuonare il corno. È Silva, che fa valere il giuramento stipulato con Ernani. Egli cerca di commuoverlo e di farlo ritornare sui suoi passi, ma alla fine si toglie la vita e sul suo corpo esanime si accascia anche Elvira.

Nel grandioso allestimento di Luca Ronconi il palcoscenico è tutto un saliscendi di scale, praticabili e trincee scavate nel suolo da cui emergono a mezzo busto i coristi, mentre i cantanti per spostarsi da A a B devono zigzagare lungo un percorso irto di ostacoli. Nessuno è libero, sembra dire il regista, in questo mondo dominato dal destino e dall’onore inteso fino alle sue più crude conseguenze.

Gli interpreti sono gli stessi dell’incisione su disco dello stesso anno, ma qui in scena sembrano impacciati e la vocalità ne risente, ma col senno di poi il macchinoso impianto scenico di Ezio Frigerio non sembra così impervio: è che i cantanti di allora non erano avvezzi alle acrobazie cui ormai sono abituati nelle regie di oggi.

Mirella Freni, che ha sostituito la prevista Caballé, si fa apprezzare se non con la presenza scenica («sarebbe stato meglio insegnarle a recitare, come Ronconi sa fare così bene quando vuole» suggerisce Mila), con la sontuosa vocalità e gli acuti squillanti. Plácido Domingo, qui alla sua prima inaugurazione scaligera, porge il meraviglioso colore della sua voce e la sua presenza fascinosa riuscendo a dare significato a un ruolo assurdo nel libretto.

Ghiaurov sforza negli acuti, ma è Silva, l’«odiato veglio», fin dalla prima frase. Il prudenziale taglio della sua cabaletta «Infin che un brando vindice» è però severamente criticato dal Mila: «Ghiaurov è stato ‘scippato’ della robusta e truculenta cabaletta. È vero che non c’è nel manoscritto originale e non c’era nella prima esecuzione a Venezia, ma né Muti né il musicologo Degrada sono in grado di portare una sola prova concreta della sua inautenticità. Essi trascurano, invece, o ignorano le ferree consuetudini del melodramma ottocentesco alle quali il primo Verdi è ancora supinamente soggetto. Silva non aveva cabaletta a Venezia perché l’artista che sosteneva quella parte era un ‘basso comprimario’ trovato nella piazza quasi casualmente. Impossibile dare anche a lui un’aria doppia, cioè il complesso di cavatina e cabaletta, come hanno nel primo atto il ‘primo tenore’ e il ‘primo soprano’, allo stesso modo che è impossibile per un caporale portare i galloni di sergente […] A quei tempi contava soltanto la rigorosa graduazione gerarchica dei cantanti e il giovane Verdi dovrà ancora mangiare molte pagnotte per liberarsi da questa e altre servitù teatrali […] La soppressione di quella cabaletta […] spezza un po’ le reni al personaggio, fiero tutore dell’onore castigliano: tanto l’esecuzione musicale quanto la regia ce lo mostrano nei primi due atti come un vecchio frale e piagnucoloso, sì che poi non sappiamo spiegarci come mai lo troviamo così aitante e arzillo nell’atto della congiura. Sembra quasi che nel lungo intervallo abbia fatto una cura Voronov (come del resto Bruson che recupera lo smalto della voce)». Nel secondo atto infatti il baritono aveva avuto un lieve abbassamento di voce alla prima, ma come interprete si dimostra il migliore di tutti.

Muti sale baldanzoso sul podio che ancora parte del pubblico del teatro deve accomodarsi e da quel momento l’orchestra è tutt’uno con la sua lettura trascinante, ispirata, «appassionata e vibrante», giustamente enfatica. Precisa nella concertazione dei grandi pezzi di insieme e dei magnifici finali, non ci sono momenti di stanchezza in un’opera che di certo non brilla per coerenza e omogeneità.

All’epoca l’allestimento fu piuttosto criticato. Non furono risparmiati né la regia di Ronconi né la conduzione di Muti, ma neppure il quartetto di cantanti scampò alla recensione grondante fiele di Rodolfo Celletti all’uscita del CD. Visto trentacinque anni dopo questo Ernani si rivela, invece, come un grande spettacolo radicato nella “tradizione verdiana” del teatro milanese, ma proiettato verso il futuro delle moderne proposte.

  • Ernani, Armiliato/De Ana, Roma, 3 giugno 2022

Œdipus Rex

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Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Œdipus Rex

★★★★☆

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 17 luglio 2016

(live streaming)

Un dittico stravinskiano per Peter Sellars

Una messa in scena estremamente minimalista quella di Peter Sellars per l’Œdipus Rex di Stravinskij, quinto spettacolo lirico al Festival di Aix-en-Provence quest’anno.

Sula scena bianca e vuota sono disposti sette sedili-sculture di Elias Sime che firma anche le belle maschere stilizzate che accompagnano i personaggi. Dopo un momento di raccoglimento per le vittime dell’attentato terroristico di Nizza, entra in silenzio il coro maschile (tre insiemi vocali svedesi) in abiti moderni in varie tonalità di azzurro. Poi arriva Edipo e si siede sul trono centrale mentre la figlia Antigone diventa la narratrice con un ruolo più ampio di quello previsto dal libretto. Con il primo intervento del magnifico coro vediamo il gioco recitativo di Sellars che impone ai coristi una precisa gestualità. Più sobria ma altrettanto intensa la recitazione dei cantanti: Joseph Kaiser presta la sua voce chiara all’infelice monarca, il timbro grave e profondo  di Sir Williard White è affidato alle parti di Creonte, Tiresia e del messaggero, Giocasta di lusso è quella di Violeta Urmana, mentre della bravissima Pauline Cheviller è la parte recitante.

La serata al Grand Théâtre de Provence è completata nella seconda parte dalla Sinfonia di Salmi dello stesso Stravinskij, che Sellars allestisce su una scena ancora più scarna (un solo quadrato luminoso per terra) con Edipo e le due figlie tra il coro, questa volta misto, che dipana uno dei pochi pezzi sacri del compositore russo.

In buca Esa-Pekka Salonen conduce con lucidità e precisione chirurgica la Philharmonia Orchestra.

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Le malade imaginaire

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Marc-Antoine Charpentier, Le malade imaginaire

direzione di William Christie

regia di Jean-Marie Villagier & Christophe Galland

scene di Carlo Tommasi, costumi Patrice Cauchetier

coreografie di Francine Lancelot

16 marzo 1990, Théâtre du Châtelet, Parigi

Ultima commedia di Molière, che morirà nel corso della quarta rappresentazione, Le malade imaginaire, «comédie mêlée de musique et de danse», è frutto della collaborazione con Marc-Antoine Charpentier dopo anni di sodalizio con Jean-Baptiste Lully con cui Molière si era guastato. La prima rappresentazione avvenne il 10 febbraio 1673 al Théâtre du Palais Royal con la parte di Argan recitata dallo stesso Molière, gravemente ammalato e in preda a una tosse convulsa. Il debutto non era avvenuto a Versailles in seguito alle restrizioni – non più di sei cantanti e dodici strumentisti – volute da Lully che aveva ottenuto dal re l’esclusiva degli spettacoli musicali di corte. Il re la vedrà solo nel luglio 1674 durante sei giornate di festeggiamenti per una vittoria militare e con questo breve prologo:

Votre plus haut savoir n’est que pure chimère,
Vains et peu sages médecins,
Vous ne pouvez guérir par vos grands mots latins
La douleur qui me désespère.
Votre plus haut savoir n’est que pure chimère.
Hélas! hélas! je n’ose découvrir
Mon amoureux martyre,
Au berger pour qui je soupire,
Et qui seul peut me secourir.
Ne prétendez pas le finir,
Ignorants médecins, vous ne sauriez le faire,
Votre plus haut savoir n’est que pure chimère.
Ces remèdes peu sûrs, dont le simple vulgaire
Croit que vous connaissez l’admirable vertu,
Pour les maux que je sens n’ont rien de salutaire,
Et tout votre caquet ne peut être reçu
Que d’un MALADE IMAGINAIRE.

La commedia si apre con Monsieur Argan, ipocondriaco che pondera il prezzo delle ricette e dei medicinali a lui prescritti dal Dottor Fleurant e dal Dottor Purgon. L’uomo vuole dare in sposa la sua bella figliola Angélique a Thomas Diafoirus, figlio del noto medico della cittadina che potrebbe prendersi cura così anche della sua malattia. Ma Angélique si sarebbe invaghita del giovane Cléante e rifiuta la proposta del padre, che minaccia di mandarla in convento. Ad approfittare delle situazione c’è poi la perfida moglie Béline, che vorrebbe impossessarsi di tutte le ricchezze possedute da Argan e lo asseconda continuamente. Argan, pensando di essere gravemente malato, decide di stendere un testamento in presenza del notaio, il Signor Bonnefoy. Béline spera di diventare ereditiera al più presto; intanto Angélique chiede alla fidata Toinette (la governante) di informare il suo amato Cléante della terribile decisione del padre. Toinette decide di affidare tale incarico di messo al suo fidanzato Polichinelle, l’usuraio. Il primo intermezzo vede come protagonista Polichinelle, che è disperato perché sa che il suo grande amore per Toinette non è corrisposto. Il secondo atto si apre con l’arrivo del supplente del maestro di musica della figlia, interpretato dall’innamorato Cléante, ma proprio in quel preciso istante arrivano anche il futuro sposo Thomas Diafoirus e il padre. Angélique è invitata a mostrare le sue doti canore davanti al futuro sposo e improvvisa un’operetta incentrata sulla storia d’amore con Cléante. Il finto maestro di musica viene cacciato e la ragazza ribadisce la sua ferma volontà di non voler diventare la moglie di Thomas. La perfida Béline discute con Angélique mentre il dottor Diafoirus e il figlio visitano il povero Argan, diagnosticandogli una malattia immaginaria. Il fratello di Argan, Béralde, lo invita a non credere a nessuno: né a medici, né a farmacisti e nemmeno alla stessa moglie, che lo prendono in giro al solo scopo di impossessarsi delle sue ricchezze. Nel secondo intermezzo, il fratello Béralde invita Argan ad assistere ad una mascherata per alleviare i suoi mali e per farlo divertire. Nell’ultimo atto si ha la risoluzione di tutti i problemi. Béralde, insieme alla governante, escogita un piano per far capire ad Argan le reali intenzioni dalla perfida moglie Béline. In primis, fa sì che Argan si rifiuti di farsi curare dal farmacista Fleurant e dal Dottor Purgon, che escono definitivamente di scena. Poi mette in scena la morte del fratello Argan. Dopo questa notizia la perfida moglie Béline confessa di essere sollevata. Toinette convince Argan ad allestire la stessa scena con Angélique, la quale si dispera della morte di suo padre. Argan, quindi, si alza in piedi e abbraccia la figlia acconsentendole di sposare Cléante, a patto che quest’ultimo diventi medico. Nell’ultima parte, Béralde invita lo stesso fratello Argan a diventare lui stesso medico; la sera stessa ingaggerà dei comici travestiti che insceneranno la proclamazione di Argan come nuovo medico, con grande allegria e divertimento generale. Nell’ultimo intermezzo, viene rappresentata la cerimonia burlesca nella quale un uomo viene proclamato medico.

Dopo un lunghissimo prologo in cui si esalta il monarca, «LOUIS est le plus grand des rois. | Heureux, heureux, qui peut lui consacrer sa vie!», si sviluppano le vicende di Monsieur Argan che, ossessionato dalla salute, non cessa di consultare medici e speziali. Alle sue ipocondrie si mescolano le vicende amorose della figlia Angélique e i lazzi delle maschere della Commedia dell’Arte. Gli interventi musicali di Charpentier comprendono l’ouverture, la egloga cantata e danzata del prologo, i tre intermezzi, la piccola opera improvvisata (scena quinta del secondo atto) e la burlesca cerimonia finale dei medici.

La partitura, creduta perduta, è stata trovata negli archivi della Comédie-Française alla fine degli anni 1980 e a William Christie con Les Arts Florissants l’onore di eseguirla per la prima volta nella sua interezza dopo quasi 350 anni, direttore e strumentisti tutti quanti bardati in fastosi e ingombranti costumi d’epoca. Per la messa in scena filologica ci si affida a quel Jean-Marie Villégier che aveva portato in scena l’Atys di Lully nel 1987.

Tra i cantanti Monique Zanetti (Flore) e Dominique Visse (la vecchia, ma anche come recitante Monsieur Fleurant). L’attore Jean Dautremay è Monsieur Argan, Alain Tretout Polichinelle.

Così fan tutte

COSI FAN TUTTE - 2016 Aix Ab

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Aix-en-Provence, Thèâtre de l’Archevêché, 2 luglio 2016

★★☆☆☆

(live streaming)

Quanto m’attizza il moro…

Alta è la temperatura erotica sul palco della corte dell’Archevêché per l’inaugurazione del Festival di Aix-en-Provence quest’anno.

Per denunciare le nefandezze compiute dagli italiani in Eritrea all’epoca delle conquiste coloniali Christophe Honoré, cineasta prestato alla regia lirica, sceglie l’opera buffa Così fan tutte e trasferisce la vicenda delle coppie fedifraghe dalla Napoli del Settecento ai territori d’oltremare del nostro perduto Impero.

Certo, perché no, ma non mancavano spunti di attualità più bruciante per stigmatizzare il razzismo e il maschilismo che non l’avventura fascista in Africa? E perché non il passato coloniale francese? Non siamo appunto in Francia? E perché proprio l’opera di Mozart? Solo perché vi si parla italiano?

Una volta eluse tutte queste domande e superato lo shock brutale dell’intervento del regista, non si possono non ammirarne comunque la logica dell’operazione, la cura attoriale nel confronto degli interpreti, la loro disinibita abnegazione, le crude scenografie di Alban Ho Van e le luci perfette di Dominique Bruguière – lo stesso dell’Elektra di Chéreau che qui ad Aix nel 2005 aveva proposto il suo Da Ponte.

Questo Così fan tutte inizia con la voce di un gracchiante 78 giri che canta «l’oro, l’oro dell’Africa che intende rubare Mussolini, quel cane di dittatore che vuole un impero per i suoi 45 milioni di bocche da sfamare». Siamo in una piazzetta di fronte a quella che potrebbe essere una guarnigione militare. In un angolo un uomo è appeso per i piedi mentre legionari infoiati si trastullano ai danni degli eritrei, uomini e donne, che subiscono la loro annoiata brutalità e tra questi c’è Guglielmo che durante l’ouverture, che qui acquista un colore quasi sinistro, costringe a un atto sessuale la ragazza di colore che prima ballava alla musica della mesta rumba. Dopo la cinica scommessa i due bellimbusti vengono trasformati in dubat, i mercenari arruolati nelle forze di occupazione, gli “Arditi neri” che dovevano sorvegliare lo sterminato confine etiopico. Così il travestimento è certamente più verosimile e soprattutto scatena l’eros represso delle due ragazze nei confronti dei maschi di colore. Le allusioni di Da Ponte qui diventano espliciti atteggiamenti sessuali, palpeggiamenti e ogni duetto è un coito condito di mugolii di piacere. Per raffreddare le smanie di Dorabella a un certo momento Despina deve ricorrere a una doccia fredda, per quelle di Guglielmo basta una secchiata d’acqua.

La direzione brusca di Louis Langrée con le sue strappate e i suoni sgraziati della Freiburger Barockorchester è se non altro coerente con quanto avviene in scena. I recitativi sono brutalmente esposti e le voci si adattano al clima, non c’è tempo per raffinatezze e sentimentalismi. Il terzetto è desolatamente asciutto e le arie più che furiose. Kate Lindsey è la Dorabella che cede per prima, Lenneke Ruiten la Fiordiligi qui abbandonata da Guglielmo la quale alla fine si suicida (forse) col suo fucile. Questa non sembra l’edizione più adatta a mettere in mostra le loro qualità vocali.

Despina è una zitella consumata dalla vita, ma ancora piena di voglie e l’unica a godersela col suo mandingo, ma Sandrine Piau è forse la meno convinta della produzione e comunque non ha lo spirito della servetta di opera buffa.

Del Don Alfonso di Rod Gilfry si ammira la presenza scenica, poiché dal punto di vista vocale è la voce meno adatta al teatro di Mozart in cui l’intonazione ha ancora significato. Di testa e nasale la voce del Ferrando di Joel Prieto e un po’ grezzo il Guglielmo di Nahuel di Pierro.

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COSI FAN TUTTE - 2016 Aix Cb

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Dvě vdovy (Le due vedove)

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Bedřich Smetana, Dvě vdovy (Le due vedove)

direzione di František Preisler jr.

regia di Jana Kališová

20 giugno 1996, Stavovské Divadlo, Praga

Le otto opere teatrali di Smetana si possono suddividere in 3 gruppi distinti: il primo è costituito dai tre melodrammi di argomento serio e storico I Brandeburghesi in Boemia, Dalibor, Libuše; il secondo dalle due opere di carattere comico La sposa venduta, Le due vedove; il terzo infine dalle tre opere romantico-comiche Il bacio, Il segreto, Il muro del diavolo.

Le due vedove riprende la vena leggera e sentimentale della precedente Sposa venduta, ma si arricchisce di un’ironia più salottiera ed elegante e di una ricchezza melodica spumeggiante e piena di invenzioni.

Smetana presentò l’opera in due atti il 27 marzo 1874 senza esito favorevole. Fu ripresentata quello stesso anno a ottobre con i recitativi cantati invece dei dialoghi parlati e questa volta ebbe grande successo. Una terza versione seguì nel 1878 e un’ultima nel 1882, in tre atti e con l’aggiunta di un trio nel primo atto e un finale diverso per l’aria di Agnes nel secondo.

Il libretto di Emanuel Züngel si basa sulla pièce Les deux veuves (1860) di Félicien Mallefille. Siamo in un castello in Boemia. Atto I. Le due vedove che vi abitano, Carolina e Agnes, sono molto diverse. Carolina, la padrona di casa, è una vedova saggia e piena di energia che non ha rinunciato al mondo e vorrebbe che la cugina, vedova anch’essa ma chiusa nel proprio dolore apparentemente impenetrabile, tornassee a vivere e persino ad amare. Carolina è pressata dal suo corteggiatore, il possidente Ladislao. Ma lei non vuole sposarlo e cospira perché Agnes se ne innamori. Fa in modo che Ladislao venga arrestato da Mumlal e condannato per un giorno agli arresti domiciliari nel castello. Ma neanche così Agnes riesce a interessarsi a lui, mentre i giovani Lidka e Toník cantano il loro amore. Atto II. In prigione Ladislao canta una canzone d’amore che risveglia i sentimenti di Agnes. Ma la donna non riesce a confessarli. È solo quando Carolina inizia a flirtare con Ladislao che Agnes ammette il suo affetto per lui. L’invidioso Mumlal non riesce a distogliere Lidka e Toník dall’amarsi l’un l’altra e al ballo finale entrambe le coppie si sposano.

Un allestimento recente è stato quello del 2008 al Festival di Edimburgo. Qui siamo invece a Praga nel ’96 allo Stavovské. Carolina è Zdena Kloubová e Agnes Pavla Aunická.

TEATRO DI PALAZZO YUSUPOV

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Teatro di Palazzo Yusupov

San Pietroburgo (1830)

180 posti

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L’imponente palazzo Yusupov che si affaccia sul canale della Moika a San Pietroburgo ha al suo interno un delizioso teatrino rococo (il palazzo è del 1776 e venne riadattato dai ricchi proprietari nel 1830) perfettamente conservato e ancora utilizzato.

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Osud

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Leoš Janáček, Osud (Destino)

Brno, Narodní Divadlo, 16 novembre 2012

(registrazione video)

Il triste destino di Osud

Per la sua quarta opera Janáček non si ispira a un testo letterario, bensì alla vicenda di una giovane che il compositore aveva incontrato alle terme di Luhačovice, Kamila Urválková. Proveniente da una ricca famiglia, sotto la pressione dei genitori fu costretta a rompere con il suo fidanzato povero. Il giovane abbandonato non credette che lei lo amasse davvero, la accusò di superficialità e volubilità, e siccome era un compositore, si vendicò scrivendo un’opera sulla loro storia chiamata Kamilla, che fu rappresentata a Praga nel 1897. Il giovane era il direttore d’orchestra e compositore Ludvík Čelanský. Comprensibilmente, la parte della storia che attraeva di più Janáček era il fatto che il personaggio principale fosse un compositore, l’unica cosa che sarebbe rimasta della storia originale nella trama dell’opera. Janáček stesso scrisse la storia che fu versificata in forma di libretto dalla giovane insegnante Fedora Bartošová. La sua inesperienza come librettista e il fatto che Janáček le inviasse la storia in parti e non le permettesse nemmeno di conoscere l’intera storia in anticipo fecero sì che il libretto non risultasse di grande qualità.

Atto I. Quindici anni fa. Una stazione climatica in Slovacchia, agl’inizi del Novecento. Il compositore Živný sta componendo un’opera il cui soggetto è un giovane amore. Míla e il compositore Živný una volta erano amanti, ma la madre di Míla pose fine alla relazione nella speranza di un partito più vantaggioso per sua figlia. Ahimè, Míla era già incinta e ora è una madre single, improbabile che sposerà qualcun altro. Lei e Živný si incontrano di nuovo nella città termale e si riaccende il loro amore, ma la madre li rintraccia tra la folla e predice il disastro.
Atto II. Undici anni fa. L’appartamento di Živný. Il compositore vive con Míla, ma senza essere sposato con lei. Manca ancora l’ultimo atto dell’opera, che tratta della vita e del grande amore di Živný per Míla. Mentre lui ricorda i dolci momenti del loro amore, si sente la madre che si lamenta della figlia. Živný cerca di distogliere l’attenzione di Míla, ma la madre entra nella stanza con una scatola di gioielli in mano e comincia una lite con Živný, poi impazzita completamente fa per gettarsi dal balcone. Tentando di trattenere sua madre, anche Míla viene trascinata ed entrambe muoiono.
Atto III. Oggi. L’auditorium del Conservatorio di musica. L’opera di Živný sta per essere finalmente rappresentata, sebbene rimanga incompiuta. Si prova un coro dell’opera con i suoi studenti, tra i quali Doubek, ora un giovane. Un altro studente, Verva, ipotizza che l’eroe dell’opera sia il compositore stesso. Attraverso la musica, Živný rivive di nuovo il suo amore per Míla e la sua crudeltà nei suoi confronti. Tormentato dal rimpianto, chiede a Doubek di andargli a prendere un bicchiere d’acqua e sviene. Si chiama un medico. Živný rinviene, si mette a canticchiare una melodia e sente il pianto di Míla. Il direttore d’orchestra comprende que questo era l’ultimo atto dell’opera. Živný muore.

«Questo libretto, gioco continuo fra ambiguo realismo e simbolismo onirico, fu steso su precise indicazioni di Janáček da Fedora Bartošová, una scrittrice appena ventenne. La giovane non seppe rendere la sconcertante modernità del soggetto, con quel suo sfuggente alternarsi di fantasia e di realtà, di poesia e di memoria, cosi vicini alla problematica della proustiana Recherche, altra autobiografia sui generis di un artista. Non seppe tradurre in narrazione drammatica quel continuo intersecarsi di esperienza vissuta e fantasia creativa che avrebbe permesso a Destino di diventare una specie di Fellini Otto 1/2 operistico. L’originalità geniale del soggetto di Destino resta purtroppo solo al livello delle intenzioni giacché il libretto è poco chiaro e pieno d’incongruenze, a meno di considerarlo un testo di teatro dell’assurdo. […] Ben altro valore ha la musica, rispetto all’inefficacia del libretto. La scrittura è abile e magistrale, e ciò che stupisce è il divario stilistico rispetto alla precedente Jenůfa. Nel passare da un soggetto realistico-contadino ad uno borghese-sentimentale, la musica si è saputa adattare alle nuove esigenze espressive. Le ‘melodie parlate’, che avevano reso così bene la franca rusticità popolare, senza eccedere in sguaiatezze veristiche, generano in Destino un leggero stile di conversazione salottiera. L’atmosfera un po’ smorta e annoiata dei bagni termali – e proprio per questo predisposta all’eros – è ricreata con un tempo di valzer che ha in sé qualcosa d’inquietante e annoiato. L’opera abbonda di un lirismo che sta a metà strada tra Massenet e Čajkovskij». (Franco Pulcini)

Janáček lavorò all’opera per oltre un anno (1904-05, con revisioni nel 1906, 1907, 1914), e creò un lavoro unico e interessante dal punto di vista musicale affidandone la prima all’appena aperto Teatro Vinohradý, anche se per vari motivi la direzione ritardò la produzione e poi nel 1914 la rifiutò del tutto. Fu solo nel 1934 che l’allievo di Janáček, Břetislav Bakala, organizzò la prima radiofonica. La prima rappresentazione scenica di Osud fu al teatro di Brno nel 1958.

Nel 2002 Bob Wilson aveva messo in scena Osud a Praga e negli anni seguenti completerà la sua trilogia janačekiana con Kabanová e Makropulos. Questa del Teatro Nazionale di Brno di dieci anni dopo è una delle edizioni più recenti di questo particolare lavoro. La direzione è di Jakub Klecker, la regia di Angar Haag e le scene di Kerstin Jacobssen.

  • Osud, Ivanović/Carsen, Brno, 27 novembre 2020