Ernani

 

Giuseppe Verdi, Ernani

★★★

Roma, 3 giugno 2022

(video streaming)

L’Ernani riproposto a Roma denuncia ben più degli anni che ha

È una capsula del tempo questa produzione di Hugo de Ana dell’Ernani che aveva inaugurato la stagione lirica romana nel 2013: regia, scene e costumi sembrano risalire non a nove anni fa, ma a un passato assai più remoto. Le incombenti scenografie – un richiamo alla facciata del palazzo di Carlo V a Granada col suo forte bugnato e le colonne – invece che tridimensionali potrebbero essere dipinte e non cambierebbe molto dell’efficacia drammatica, mentre così costringono a una scena unica. I pesanti arredi e i sontuosi costumi d’epoca connotano i personaggi ma sembrano inutilmente ingombranti e costosi: i bordi di pelliccia, i broccati e i ricami dell’ultima/o corista vanno del tutto persi nella affollata visione d’insieme. Le interazioni fra i personaggi sono prevedibili con il tenore che si piazza a gambe larghe al proscenio e il soprano che risponde alla descrizione di una cantante d’epoca con le forme abbondantemente generose e che solo un’altrettanto abbondante dose di suspension of disbelief può far passare per «aragonese vergine» giovinetta di cui tutti cadono innamorati cotti.

Vero è che la drammaturgia dell’Ernani di Francesco Maria Piave poco si presta a una lettura teatralmente contemporanea della vicenda, ma c’è un momento quasi da pochade in questo lavoro che un regista un po’ più disinibito avrebbe potuto sfruttare in modo intrigante: una donna è concupita da due diversi pretendenti e viene scoperta nel mezzo della notte e nelle stanze più intime del suo castello dal terzo pretendente, quello che conta di sposarla il giorno dopo. Il tenore (amato dalla donna), il baritono (qui addirittura il monarca) e il basso (il terzo e vecchio intruso) si affrontano e quest’ultimo crede di risolvere con le armi la questione prima di scoprire di avere di fronte a sé il proprio re. Poi la faccenda si sviluppa tra perdoni che hanno secondi fini, finte rese, scoppi d’ira e gelosie presto sedati, repentini cambiamenti di alleanze, patti sciagurati e congiure. Eppure Ernani aveva rappresentato un lavoro sperimentale per il Verdi 32enne qui alla sua quinta opera, presentata alla Fenice dopo le quattro alla Scala. Il compositore sembra voler superare il sistema della forma a numeri chiusi per dar vita a un teatro vivo e romanticizzato. Ecco allora la scoperta del ruolo archetipo del baritono o l’utilizzo dei terzetti per le strette in cui concentrare la tensione drammatica dopo lo slancio lirico degli incisi melodici.

Nove anni fa alla guida dell’orchestra del teatro c’era Riccardo Muti, ora è la volta di Marco Armiliato che dà buona prova realizzando una lettura quasi completa della partitura – manca la cabaletta della cavatina di Silva «Infin che un brando vindice» che Verdi non aveva potuto utilizzare a Venezia per la modestia del “basso comprimario” a disposizione – e con le riprese delle arie, che però talora mettono in difficoltà il tenore. I momenti migliori sono nelle impennate dinamiche degli ensemble finali e nel sostegno delle voci, anche se alcune, tenore e basso, risultano spesso sopraffatte dall’orchestra.

L’unico a ritornare nei panni titolari dopo il 2013 è Francesco Meli di cui si ammirano il colore e le intenzioni interpretative, anche se ora la voce manca a tratti di fermezza e gli acuti risultano sforzati. Per di più il suo è il personaggio a cui la regia ha reso il peggior servizio, sempre con la mano sulla spada anche nelle dichiarazioni d’amore. Non gioca poi a suo favore il confronto con il volume vocale dei colleghi Angela Meade (Elvira) e Ludovic Tézier (Carlo). Il soprano americano non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le insidie vocali del ruolo anche se dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio né una recitazione particolarmente coinvolgenti: resta il mirabile controllo della sua enorme voce, ma manca l’emozione. Tézier è invece il miglior Carlo disponibile, con un mezzo vocale altrettanto potente e controllato, ma con in più uno scavo sul personaggio che lo porta a ricevere il più caloroso applauso a scena aperta dopo il suo meraviglioso «O de’ verd’anni miei». Evgenij Stavinskij è un Don Ruy Gomez de Silva di non enorme voce ma elegante, autorevole ed espressivo. Bene i comprimari, usciti dalla Fabbrica-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: la Giovanna di Marianna Mappa, lo Jago di Alessandro Della Morte e il valido Rodrigo Ortiz, Don Riccardo.

Statico e impacciato scenicamente, non si può dire che compattezza e precisione siano le maggiori qualità vocali del coro dell’Opera di Roma istruito da Roberto Gabbiani, come si è sentito nell’iconico «Si ridesti il leon di Castiglia» reso con una certa fiacchezza. Definiti giustamente “movimenti mimici” gli strani gesti dei ballerini di Michele Cosentino.

  

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