Novecento

Da una casa di morti

 

Leos Janacek, Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Roma, Teatro dell’Opera, 23 maggio 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’Opera di Roma cerca di recuperare la lunga latitanza di Janáček dai suoi cartelloni 

Metti un’opera di enorme violenza espressiva, un vero pugno nello stomaco per la brutalità di vite che scontano nella più crudele delle situazioni – punizioni corporali, umiliazioni, solitudine, paura – la loro colpa, grande o piccola che sia.

Metti un regista che della forza espressiva, del pugno nello stomaco dello spettatore, ha fatto la sua cifra stilistica. Sembrerebbe il più adatto a mettere in scena l’ultima opera di Leoš Janáček. Invece… in questi casi less is more, la semplicità è preferibile alla complessità. Infatti, è proprio questo a creare la debolezza di questa produzione: per l’eccesso di iperattività e distrazioni visive i personaggi diventano indistinti, si perdono i dettagli degli individui, soprattutto si perde la concentrazione per la musica. E la musica merita molta attenzione, mai come in questo caso.

Janáček inizia a comporre Da una casa di morti quando ha 72 anni, lavorandoci intensamente per un anno e mezzo spinto da una premonizione: nel 1927 scrive in una lettera «sto terminando un grande lavoro e a dire il vero mi sembra che possa essere la mia ultima opera». Il compositore morrà infatti nell’agosto 1928 lasciando in parte incompleto il terzo atto e il lavoro verrà rappresentato postumo nel 1930 in una versione rimaneggiata. Il valore profetico dell’ultima opera di Janáček è stato messo ben in evidenza dallo scrittore ceco Milan Kundera: «I tre maggiori monumenti d’arte che il mio paese ha creato in questo secolo rappresentano le tre pale del quadro dell’inferno futuro: il labirinto burocratico di Kafka, la stupidità militare di Hašek [Il buon soldato Švejk], la disperazione concentrazionaria di Janáček. Sì, da il Processo a Da una casa di morti, a Praga era stato detto tutto e la Storia non aveva che da entrare in scena per mimare ciò che la finzione aveva già immaginato».

Con la sovrintendenza di Francesco Giambrone e la direzione musicale di Michele Mariotti, il vecchio Leoš riprende il posto che gli è dovuto nei cartelloni del teatro romano: prima della Káťa Kabanová dell’anno scorso bisogna risalire infatti al 1972 e prima ancora al 1952 per trovare un altro suo titolo, Jenůfa, l’unica sua opera eseguita nella capitale. La produzione ora in scena per sei rappresentazioni è quella nata a Londra nel 2018 e poi trasferita a Bruxelles. La messa in scena è affidata a uno dei registi del momento, Krzysztof Warlikowski per la prima volta in Italia, di cui si ricordano buone prove – il Wozzeck di Amsterdam, la Lady Macbeth del distretto di Mcenskdi Parigi – ma anche tante altre produzioni molto meno convincenti. Con la drammaturgia di Christian Longchamp e la scenografia e i costumi di Małgorzata Szczęśniak, Warlikowski ambienta la vicenda in una prigione dei nostri giorni. 

La critica del filosofo francese Michel Foucault al sistema carcerario – che a suo dire, non solo non educa il delinquente, ma è economicamente improduttivo, ma viene mantenuto perché aumenta la delinquenza e la minaccia di questa è un fattore di accettazione dei controlli polizieschi nelle nostre democrazie – è espressa in un’intervista del 1976 che vediamo proiettata durante la ouverture. Tra sottotitoli in due lingue e immagini si perdono le note che Janáček predispone al suo dramma e le cose non migliorano nella prima scena, con l’arrivo di Gorjančikov e la sua prima gratuita salva di frustate – quante frustate! si contano a migliaia nell’originale di Dostoevskij Memorie dalla casa di morti da cui deriva il libretto dell’opera. Si percepisce appena che cosa succede in quell’angolo della gabbia che funge da ufficio del direttore della prigione, distratti come si è da quello che avviene nel resto della scena occupata da un campo da pallacanestro in cui un giovane si sta allenando mentre gli altri detenuti bighellonano. Anche al monologo di Skuratov nessuno presta ascolto, se non il pubblico. 

Il pietismo cristiano di Dostoevskij è del tutto assente nella lettura del regista polacco. Non c’è speranza di redenzione per i personaggi che vediamo in scena. Il messaggio di libertà affidato all’aquila che alla fine riesce a spiccare il volo, un’invenzione bellissima di Janáček, qui è affidato a un pallone che un giovane, dopo la convalescenza in carrozzella, riesce a mettere nel canestro. Un finale del tutto coerente con la lettura del regista e a suo modo efficace, ma lontano sia dal messaggio dello scrittore russo sia da quello del compositore moravo. Cosa lecita, certo, nella lettura di un testo teatrale, ma in questo caso è più quello che si perde di quello che si acquista. 

È poi difficile immedesimarsi nelle inumane condizioni di carcerazione che sia Dostoevskij che Janáček volevano condannare se la prigione in cui avviene la vicenda è a suo modo ariosa, ben riscaldata, le tute sono pulite, c’è la televisione sempre accesa sui programmi sportivi, ci si distrae con la breakdance. La triste pantomima del secondo atto diventa qui uno spettacolo di burlesque con costumi sgargianti, una prostituta scosciata, degli acrobati, del travestimento, delle bambole gonfiabili e fiumi di champagne. La stessa prostituta sarà poi sempre presente anche durante il racconto di Šiškov trasformando questo allucinato e angoscioso monologo in un’altra, inutile, pantomima.

Se la rappresentazione visiva dello spettacolo soffre di questo realistico iper-immaginario, l’esecuzione musicale è invece da lodare. La concertazione del giovane direttore Dmitrij Matvienko, per la prima volta alle prese con la musica di Janáček, è di grande efficacia nel ricreare la straordinaria invenzione timbrica e i colori di una partitura di cui si conosce la vera versione solo da pochi anni. L’esecuzione è vigorosa ma precisa e attenta ai dettagli e cerca di equilibrare al meglio il volume della buca orchestrale con le voci in scena, voci di grande livello per tutti i numerosi interpreti. Come il nobile Mark S. Doss, l’aristocratico imprigionato per le idee politiche che conserva la sua umanità insegnando a leggere al giovane tartaro Aljeja, il disinvolto Pascal Charbonneau. Štefan Margita è Filka Morozov, che col nome di Luka Kuzmič muore con la maledizione del rivale Šiškov, un intenso Leigh Melrose. Skuratov ha la voce e la presenza scenica di Julian Hubbard, mentre Erin Caves è il Grande Prigioniero. Il detestabile direttore della prigione trova la giusta rappresentazione con Clive Bayley. Uno dei pochi cantanti italiani del cast è Marcello Nardis, indiavolato Kedril. In Da una casa di morti le uniche donne sono quelle del passato dei detenuti, le infelici Luiza e Akulka, ma Janáček ha voluto inserire le poche battute di una anonima prostituta, qui Carolyn Sproule.

I novanta ininterrotti e intensi minuti sono stati accolti dal pubblico romano con favore. Sono addirittura mancati i dissensi nei confronti del regista. L’Opera di Roma ha così finalmente recuperato la lunga assenza dal suo palcoscenico di uno dei maggiori autori del teatro moderno. Gli altri sette titoli della sua produzione aspettano di trovare ora nuova vita anche qui.

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The Decision

Hanns Eisler, The Decision (Die Maßnahme)

Birmingham, Great Hampton Works, 5 marzo 2023

★★★☆☆

(video streaming)

L’eredità di Graham Vick nel Lehrstück di Brecht

Die Maßnahme (Il provvedimento) è un Lehrstück (pezzo didattico), una cantata agitprop di Bertolt Brecht creata in collaborazione con il compositore Hanns Eisler. Si compone di otto sezioni in prosa e versi liberi, con sei canzoni. Una nota al testo, redatta da tutti e tre i collaboratori, lo descrive come un «tentativo di utilizzare un Lehrstück per rendere familiare un atteggiamento di intervento positivo».

Quattro agitatori di Mosca tornano da una missione di successo in Cina e un comitato centrale (chiamato Il Coro di Controllo) si congratula per i loro risultati. I quattro agitatori, tuttavia, informano il comitato che durante la loro missione sono stati costretti a uccidere un giovane compagno perché la loro missione avesse successo. Chiedono il giudizio del comitato sulle loro azioni. Il comitato rinvia il suo verdetto fino a quando i quattro agitatori non avranno rievocato gli eventi che hanno portato alla morte del giovane compagno e allora essi raccontano di essere stati inviati in missione per educare e aiutare a organizzare i lavoratori in Cina. In una casa di partito (l’ultima prima di raggiungere le frontiere della Cina) incontrano un giovane compagno entusiasta, che si offre di unirsi a loro come guida. Gli agitatori devono nascondere la loro identità perché educare e organizzare i lavoratori in Cina è illegale. Il direttore della casa del partito aiuta i quattro agitatori e il giovane compagno a cancellare le loro vere identità. Tutti indossano delle maschere per apparire come cinesi. Viene detto loro di tenere nascosto che sono comunisti. La loro missione deve rimanere segreta. Se dovessero essere scoperti, le autorità attaccheranno l’organizzazione e l’intero movimento e non solo le vite dei quattro agitatori e del giovane compagno saranno messe in pericolo. Gli agitatori e il giovane compagno accettano tutti queste condizioni. Tuttavia, una volta in Cina, la vista dell’ingiustizia e dell’oppressione fa infuriare il giovane compagno che non riesce a contenere la sua passione e agisce immediatamente per correggere i torti che vede intorno a sé. Non mostra discrezione nell’insegnare agli oppressi come aiutarsi da soli e non ha tatto nel trattare con i piccoli oppressori per aiutare il bene superiore della rivoluzione. Di conseguenza, alla fine espone sé stesso e i quattro agitatori strappandosi la maschera e proclamando gli insegnamenti del partito. Viene identificato, smascherato, proprio mentre scoppiano i disordini e inizia una rivolta rivoluzionaria tra gli operai. Le autorità inseguono il giovane compagno e i suoi amici. Continuando a gridare contro il partito, il giovane compagno viene colpito alla testa da uno degli agitatori, che lo portano il più lontano possibile, fino alle vicine cave di calce. Lì gli agitatori discutono su cosa fare di lui. Se lo aiutano a fuggire non potranno aiutare la rivolta, e comunque la fuga è quasi impossibile dalla loro posizione attuale. Se viene lasciato indietro e catturato, la sua sola identità tradirà involontariamente il movimento. I quattro agitatori si rendono conto che deve sparire. Per salvare il movimento, concludono che l’unica soluzione è che il giovane compagno muoia e venga gettato nelle fosse di calce dove verrà bruciato e diventerà irriconoscibile. Gli chiedono il suo consenso. Il giovane compagno accetta il suo destino nell’interesse della rivoluzione mondiale e del comunismo. Chiede ai quattro agitatori di aiutarlo a morire. Gli sparano e gettano il suo corpo nella fossa della calce. Il comitato centrale, a cui i quattro agitatori hanno raccontato la loro storia, è d’accordo con le loro azioni e li rassicura di aver preso la decisione giusta. «Avete contribuito a diffondere gli insegnamenti del marxismo e l’ABC del comunismo», assicurano i quattro agitatori. Ma sottolineano anche il sacrificio e il costo che il successo più ampio ha comportato: «Allo stesso tempo il vostro rapporto mostra quanto sia necessario per modificare il nostro mondo».

Die Maßnahme doveva essere eseguita al Neue Musik Festival di Berlino nell’estate del 1930. La direzione del festival (composta tra gli altri da Paul Hindemith) chiese a Brecht di sottoporre il testo a un controllo, preoccupata per il suo argomento radicalmente politico. Brecht rifiutò e suggerì a Hindemith di dimettersi, protestando per la censura e il pezzo fu rifiutato per «la mediocrità artistica del testo». Brecht e Eisler scrissero una lettera aperta ai direttori del festival in cui proponevano un luogo alternativo per il loro nuovo lavoro e la cantata ebbe quindi la sua prima rappresentazione teatrale al Großes Schauspielhaus di Berlino il 10 dicembre di quello stesso anno e lo spettacolo fu diretto dal regista bulgaro Slatan Dudow. L’opera fu prodotta anche a Mosca intorno nel 1934.

Alcuni critici hanno visto l’opera come un’apologia del totalitarismo e dell’omicidio di massa, mentre altri hanno sottolineato che si tratta di un’opera sulle tattiche e sulle tecniche di agitazione clandestina. Nei suoi diari tuttavia Brecht racconta come avesse respinto esplicitamente tale interpretazione, rimandando gli accusatori a un esame più attento del testo vero e proprio: «respingo l’interpretazione che il soggetto sia l’omicidio disciplinare» ma sta di fatto che l’opera sia stata lodata come fonte di ispirazione da Ulrike Meinhof, una delle leader dell’organizzazione terroristica tedesca di sinistra Rote Armee Fraktion e ne citava spesso uno dei passaggi che, a suo parere, serviva da giustificazione per gli atti di violenza: «È una cosa terribile uccidere. Ma non uccideremo solo gli altri, ma anche noi stessi, se necessario, perché solo la forza può modificare questo mondo assassino, come sa ogni creatura vivente lo sa».

Brecht si dovette presentare davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane il 30 ottobre 1947. Non volle un avvocato e si dimostrò apparentemente collaborativo. La commissione cercò di ingannarlo leggendogli alcune delle sue opere teatrali e poesie più rivoluzionarie, ma lui riuscì a respingere le domande dicendo che si trattava di cattive traduzioni. Alcune delle sue risposte furono abilmente evasive, come quando gli fu chiesto dell’agente del Comintern Grigory Kheifets. A un certo punto, dichiarò di non essersi mai iscritto al partito comunista: nonostante l’ampio sostegno di Brecht al comunismo, infatti, in realtà non aderì mai ufficialmente al partito. Quando gli furono poste domande specifiche su Die Maßnahme disse che si trattava di un adattamento di un antico dramma religioso giapponese. Quando gli fu chiesto se il dramma riguardasse l’omicidio di un membro del partito comunista da parte dei suoi compagni «perché era nell’interesse del partito comunista», rispose che ciò non era del tutto corretto, sottolineando che la morte del membro è volontaria, quindi si trattava sostanzialmente di un suicidio assistito piuttosto che di un omicidio, un tradizionale hara-kiri: «Questo lavoro è l’adattamento di un’antica opera del teatro Nō giapponese e segue molto da vicino questa vecchia storia che mostra la devozione per un ideale fino alla morte. 

Brecht obiettò anche al titolo inglese – l’FBI l’aveva tradotto col titolo The Disciplinary Measure descrivendolo come un’opera che promuoveva «la rivoluzione mondiale comunista con mezzi violenti» – sostenendo che una traduzione più corretta sarebbe stata Steps to Be Taken (Passi da compiere). Il giorno dopo, lo scrittore lasciò definitivamente gli Stati Uniti e tornò in Europa, per poi stabilirsi nella Germania dell’Est.

Brecht e la sua famiglia vietarono la rappresentazione pubblica di Die Maßnahme, ma in realtà il governo sovietico non gradì l’opera e anche altri governi la vietarono. Le rappresentazioni furono riprese solo nel 1997 (41 anni dopo la morte del suo autore) con la messa in scena storicamente rigorosa di Klaus Emmerich al Berliner Ensemble.

La Birmingham Opera Company, orfana del suo creatore Graham Vick, continua la sua missione per creare da oltre un ventennio un memorabile teatro musicale – con dilettanti e senza un teatro d’opera! – con questa produzione della cantata di Brecht/Eisler. Nella traduzione inglese di John Willett diventa The Decision e viene messa in scena da Anthony Almeida in uno dei malandati spazi post-industriali di cui la città inglese abbonda. All’ingresso al pubblico vengono offerti berretti, sciarpe e giacche rosse per dimostrare la loro adesione al “Partito” di cui stanno per varcare i quartieri generali. Lo spettacolo è inquadrato come la ripresa televisiva del comitato politico per festeggiare i quattro protagonisti al loro ritorno dalla Cina. La messa in scena di Almeida porta il pubblico direttamente nell’azione attorno a pedane mobili. Il coro di 60 elementi allineati sulla galleria in alto riflette lo spettro dei partecipanti mentre altri in basso reagiscono e coinvolgono i presenti. I quattro protagonisti principali sono qui interpretati dal mezzosoprano Wendy Dawn Thompson e tre attrici con una recitazione naturalistica. Alpesh Chauhan alla testa della smilza orchestra di ottoni e pianoforte rende la sonora e ritmica partitura di Eisler senza particolari raffinatezze.

Il pubblico presente partecipa con convinzione, ma visto su schermo il lavoro ha dimostrato le sue debolezze di pezzo didattico che manca di una drammaturgia coinvolgente, cosa che era avvenuta invece con le altre produzioni della BOC. Resta comunque l’entusiasmo dei partecipanti e l’importanza di tale realtà per la città di Birmingham.

 ⸪

Daphne

Richard Strauss, Daphne

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 25 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

La ninfa assiderata

Per Daphne, l’op. 82 di Richard Strauss messa in scena da Romeo Castellucci per la prima volta a Berlino, altro che assolata Grecia classica! Sul palcoscenico della Staatsoper unter den Linden nevica in continuazione anche se il Secondo Pastore afferma che «Die Herde trieb ich zum Fluß. | Nach des Tages Glut» (ho portato il gregge al fiume dopo il giorno assolato»! Invece del sole («sole, fecondo splendor» canta ancora Daphne) c’è una nebbia raggelante e i pastori sono dei cacciatori in giacche a vento e cappucci di pelliccia. L’enigmatica installazione rende raggelante la “tragedia bucolica” che Strauss scrive nei suoi ultimi anni, la sua tredicesima opera.

Basata sulla figura mitologica della Dafne delle Metamorfosi di Ovidio e con elementi tratti da Le Baccanti di Euripide, era stata inizialmente intesa dal compositore come parte di un dittico comprendente Friedenstag, l’op. 81 in un atto anch’essa su libretto di Joseph Gregor, ma la lunghezza che aveva nel frattempo assunto la Daphne gli fece cambiare idea e l’opera vide la luce da sola nell’ottobre 1938 alla Semperoper di Dresda diretta da Karl Böhm a cui era stata dedicata mentre Friedenstag fu preceduta dal balletto Le creature di Prometeo con musiche di Beethoven nel luglio di quello stesso anno.

La casta Dafne canta un inno di lode alla natura: ama la luce del sole come gli alberi e i fiori, ma non ha interesse per le storie d’amore umane. Non vuole ricambiare l’amore dell’amico d’infanzia Leukippos e si rifiuta di indossare gli abiti da cerimonia per l’imminente festa di Dioniso, lasciando a Leukippos l’abito che ha rifiutato. Il padre di Dafne, Peneios, dice agli amici di essere certo che gli dèi torneranno presto tra gli uomini. Consiglia di preparare un banchetto per accogliere Apollo. Proprio in quel momento appare un misterioso mandriano. Peneios manda a chiamare Dafne perché si occupi del visitatore. Lo strano mandriano dice a Dafne di averla osservata dal suo carro e le ripete le frasi dell’inno alla natura che aveva cantato prima. Le promette che non dovrà mai separarsi dal sole e lei accetta il suo abbraccio. Ma quando lui inizia a parlare d’amore, lei si spaventa e scappa. Alla festa di Dioniso, Leukippos indossa il vestito di Dafne e la invita a ballare. Credendolo una donna, la ragazza accetta, ma lo strano mandriano interrompe la danza con un tuono e dice che è stata ingannata. Dafne risponde che sia Leukippos che lo straniero sono travestiti e lo straniero si rivela il dio del sole Apollo. Dafne rifiuta entrambi i pretendenti e Apollo trafigge Leukippos con una freccia. Dafne piange con Leukippos morente. Apollo è pieno di rammarico. Chiede a Zeus di dare a Dafne una nuova vita sotto forma di uno degli alberi che lei ama. Dafne si trasforma e gioisce della sua unione con la natura.

«Con il suo candore, l’aggraziata figura di Dafne aggiunge un ennesimo ritratto di ulteriore varietà alla galleria straussiana di personaggi femminili. Dalle morbosità di Salome ai dubbi di Madeleine, Strauss pone sempre al centro dei suoi interessi drammaturgici lo scandaglio dei misteri della psicologia femminile. La lunga consuetudine con Hofmannsthal lo aveva abituato a rileggere i miti classici in chiave simbolica, intridendoli di quelle sfumature introspettive che suonano sempre moderne per la loro inedita verità umana. La Fremdheit, ossia il senso di estraneità provato da Dafne verso le persone che la circondano, è una nozione propria del pensiero contemporaneo, che viene qui a intrecciarsi alle riflessioni sul rapporto natura-civiltà, fin dal primo monologo della protagonista. Sorella di fiori, vento e alberi, anelante a una fusione panica con la natura che la circonda, Dafne conosce in questa libera rivisitazione del mito classico una metamorfosi interiore che precorre quella fisica. Dall’inconsapevole egoismo con cui respinge Leucippo, giungerà a provare un’infinita pena per la sofferenza inflittagli, cogliendo il mistero dell’amore dall’abisso della morte. I temi della rinuncia e della compassione, già cari a Schopenhauer, si riallacciano anche al precedente teatro straussiano, che Hofmannsthal aveva saputo intridere di spunti filosofici, ora dissimulandoli come nel Rosenkavalier, ora trasfigurandoli in un alone fiabesco come nella Frau ohne Schatten. Dafne irradia sugli altri personaggi il fascino della sua personalità, racchiusa nel tema di esordio, luminoso e insieme sfuggente: una sorta di fregio liberty, le cui linee sinuose preconizzano il destino arboreo della fanciulla. L’intera partitura è intessuta delle frequenti riproposizioni di questo motto, così come il testo è percorso da allusioni premonitrici (“La tua bocca di fiore”, dice Leucippo a Dafne; e la madre Gea: “Sei un fresco germoglio”). E quando Apollo si commuove al dolore della fanciulla, abbandona il suo tono abituale – fra l’eroico e il parsifaliano – per adottare l’arabesco melodico dell’amata, a riprova della consonantia cordis tardivamente acquisita. Nelle intenzioni di Gregor, Daphne avrebbe dovuto concludersi con un grande coro di commento alla metamorfosi; ma Strauss giudicò che un simile finale da ‘cantata scenica’ non sarebbe stato pertinente al clima spirituale dell’opera, e preferì suggellarla nel segno della purezza liliale di Dafne, la cui voce lascia riecheggiare il tema curvilineo dissolvendolo in vocalizzi, con l’arcana fissità dell’avvenuta metamorfosi. La cornice pastorale lascia risplendere finezze di strumentazione: i legni si intrecciano in impasti sempre rinnovati, con una gentilezza di tono che fa pensare alla spuma delle onde cui le due ancelle dicono di assomigliare. Con Leucippo penetra nell’opera una componente faunesca: il suo furore dionisiaco e il suo flauto pastorale sembrano davvero usciti da un quadro di Böcklin; eppure anch’egli sarà risucchiato nell’universo vegetale di Dafne, accettando per amor suo di fingere movenze femminili. Del resto la scena del travestimento ripropone un tema caro a tutto il teatro straussiano, ereditato dal modello delle stuzzicanti ambiguità delle Nozze di Figaro. Un elemento naturalistico molto ben caratterizzato è quello del calpestio degli armenti, ritratto da un brontolìo dei timpani e da increspature cromatiche degli archi; in tal modo si introduce una nota di concreta quotidianità in una vicenda di minimi trasalimenti psicologici, di sentimenti in boccio, tanto fragili e inconfessati da non venire riconosciuti se non quando la tragedia li annienta con prepotenza. Nei declamati, l’arte di Strauss consolida gli esiti di Arabella; e se nelle parti affidate a Dafne si percepisce ancora un profumo Jugendstil (le volute che ornano la conclusione della prima aria della protagonista), la danza bacchica rievoca la ritmica fremente di Elektra. Alla scrittura sostanzialmente diatonica della partitura (soprattutto nelle frasi innodiche e distese di Apollo, in specie quando svela la propria natura divina con l’arioso “Jeden heiligen Morgen”) si sovrappone a poco a poco un cromatismo trepidante, che culmina nella metamorfosi, nel compimento dell’anelito arboreo di Dafne, trasfigurazione in volute sonore del febbrile attorcersi di vegetazioni liberty». (Elisabetta Fava)

Anche se i bucolici fiati del preludio annunciano l’imminente “Festa della vite fiorita”, in questa produzione noi vediamo un’Arcadia sconvolta dai cambiamenti climatici, dove nevica ininterrottamente mentre l’aurora boreale brilla all’orizzonte. L’orgiastica danza tra i principi contrastanti dell’apollineo e del dionisiaco qui è una battaglia a palle di neve dei ballerini nelle loro tute da dopo sci. Ma per Dafne fa ancora troppo caldo e si libera degli abiti per rimanere in indumenti intimi agitandosi intorno al magro scheletro di un albero, l’ultimo esemplare che stenta a sopravvivere in questo ambiente desolato. Non desta sorpresa che la ninfa sia così attratta da lui, ma lei alla fine lo sradica e questo pende tristemente nell’aria come il frontespizio di The Waste Land di T.S. Eliot, uno dei pochi elementi, assieme a un bassorilievo, che facciano riferimento alla storia, al tempo che passa, perché altrimenti qui tutto è congelato in un tempo immoto. Nel finale la ninfa non si trasforma in alloro, ma si spalma di fango e scompare nella buca in cui stava la pianta. E sul pilastro a sinistra, su cui troneggia un contenitore di sangue finto, la scritta LUI si è nel frattempo trasformata in LEI. Come negli spettacoli di Castellucci non pochi sono gli enigmi posti e non risolti, rimanendo sempre primario l’aspetto visivo qui esaltato dal mirabile gioco luci curato dallo stesso regista che disegna anche la magra scenografia. Castellucci porta il mito antico nella realtà di oggi sconvolta dai cambiamenti climatici, ma il lavoro di Gregor/Strauss sembra andare da tutt’altra parte.

Cacciata dal palcoscenico, la rigogliosità della natura trova sfogo nella buca dell’orchestra con la direzione di Thomas Guggeis che rende la lussureggiante partitura con mano esperta anche se non con risultati trascinanti: l’aspetto dionisiaco non emerge e la lenta metamorfosi strumentale finale non è esaltata dalla sua bacchetta.

Cinque i personaggi in scena: René Pape, il padre Peneios, utilizza al meglio strumenti vocali non ancora usurati; Anna Kissjudit, la madre Gaea, è una sorta di Erda wagneriana dalla profonda voce di contralto; per i due ruoli tenorili di Apollo e Leukippos Strauss richiede una tessitura e una tenuta vocale impervie e sia Magnus Dietrich che Pavel Černoch, ma soprattutto quest’ultimo, non si dimostrano del tutto all’altezza della prova; Vera-Lotte Böcker ha una fresca voce lirica che esalta la giovanile presenza del personaggio ma meno il suo risvolto drammatico.


Arabella

Richard Strauss, Arabella

Madrid, Teatro Real, 9 febbraio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Un bicchiere d’acqua invece di una rosa d’argento

Per la prima volta a Madrid va in scena l’opera con cui Strauss conclude la sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal. Iniziato con Der Rosenkavalier, il sodalizio ebbe termine per la morte del librettista nel 1929: Arabella fu poi presentata nel 1933 e ingiustamente criticata di voler ripetere la ricetta di successo del Rosenkavalier. Se nel lavoro del 1910 era una rosa d’argento offerta alla futura sposa il fulcro della vicenda, qui è un bicchiere d’acqua fresca che lo sposo offre alla sua futura moglie secondo le consuetudini della Croazia, il paese da cui proviene il personaggio di Mandryka. Ma a parte l’ambientazione viennese – là la Vienna settecentesca di Maria Teresa, qui la Viena di Franz Joseph I negli anni 1860 – Arabella è una cosa completamente diversa, a cominciare dallo stile musicale che mescola motivi popolari slavi con passaggi di scrittura molto moderna. 

Quello di Madrid è il recupero della produzione nata all’Opera di Francoforte del 2009, la stessa che fu presentata nel 2013 al Liceu di Barcellona e acclamata come il miglior spettacolo e Christof Loy miglior regista di quella stagione. Lo stesso Loy anche a Madrid ha mietuto successi con le sue Ariadne auf Naxos (2006), Lulu (2009), Capriccio (2019) e Rusalka (2020). Ambientata negli anni 1950, la lettura del regista tedesco punta ai sentimenti dei personaggi che fa risuonare in una scenografia, di Herbert Murauer, depurata e scarna quanto mai: una scatola bianca il cui fondo scorre per mostrare gli altri ambienti realisticamente ricostruiti della casa dei Waldner assediata dai creditori, o della scalinata della sala da ballo con gli ospiti tramortiti dall’alcool. Loy toglie alla “commedia lirica in tre atti” qualsiasi aspetto anche solo lontanamente operettistico e si occupa di qualcosa di molto diverso: vuole mostrare come Arabella, l’àncora di salvezza della famiglia sull’orlo della rovina economica e che per questo deve maritare un ricco sposo, scopre sé stessa e diventa una donna indipendente, con una personalità distinta. E questo nella totale incomprensione dei genitori, ma certamente anche della sorella Zdenka, che qui abbandona l’esistenza da ragazzo per diventare una donna matura e piena di sentimenti quando solo allora potrà aprirsi a Matteo in modo più significativo rispetto al superficiale trucco della chiave nella stanza di Arabella. In primo piano nella messa in scena di Loy c’è ancora una volta l’elaborazione dei personaggi in tutti i loro dettagli e nelle loro fasi di sviluppo. Per questo non ha bisogno di una sfarzosa scenografia e la scatola bianca, inizialmente chiusa, mette magnificamente in evidenza l’azione dei cantanti in primo piano.

Grande sembra sia l’intesa del regista con il direttore David Afkham che padroneggia la difficile partitura con grande comprensione per le sfumature e i veloci cambi di tempo che Strauss adotta in alcune scene come il finale secondo. Esemplare il momento della rivelazione della sua identità da parte di Zdenka, quando Afkham ferma la musica per una piccola eternità, in modo che tutta la potenza emotiva di questo punto decisivo sia rivelata con tutta la sua forza, un momento certamente voluto da Christof Loy.

Nella serata trasmessa in streaming da mezzo.tv la protagonista è stata sostituita dal soprano americano Jacquelyn Wagner, che ha reso con sensibilità la bellissima dichiarazione d’amore nel duetto del secondo atto «Und du wirst mein Gebieter sein und ich dir untertan | dein Haus wird mein Haus sein, in deinem Grab | will ich mit dir begraben sein | so gebe ich mich dir auf Zeit und Ewigkeit» (Tu sarai il mio signore e io la tua suddita; mia sarà la tua casa; nella tua tomba sarò sepolta così da darmi te per la vita e per l’eternità). Voce fresca e timbro gradevole, non mostra però una grande varietà di colori e l’espressione finisce per rivelarsi un po’ monotona. Come Mandryka si ascolta il baritono olandese Josef Wagner di sicura vocalità e buona presenza scenica. Ottime doti attoriali necessarie a delineare i caratteri da commedia dei due genitori Waldner sono quelle di Martin Winkler e Anne Sofie von Otter, quest’ultima purtroppo in condizioni vocali piuttosto precarie. Splendida voce lirica e luminosa quella di Matthew Newlin (Matteo), scoppiettante di agilità alla Zerbinetta quella di Elena Sancho Pereg (Fiakermilli). Sarah Defrise connota una Zdenka trepidante e intensa mentre efficaci sono gli altri tre pretendenti di Arabella: l’Elemer di Dean Power, il Dominik di Roger Smeets e il Lamoral di Tyler Zimmerman. 

Guerra e pace

Sergej Prokof’ev, Guerra e pace

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 5 marzo 2023

★★★★★

(video streaming)

Due russi e la guerra

Il 5 marzo 1953 morivano nello stesso giorno Sergej Prokof’ev e Josif Stalin. Esattamente 70 anni dopo va in scena a Monaco di Baviera l’ultima sofferta opera di Sergej Prokof’ev, lasciata incompiuta e con almeno quattro diverse versioni con cui avere a che fare. Iniziata nel 1940 al suo ritorno in Russia dagli Stati Uniti, Guerra e pace fu destinata in parte a compiacere il paese che lo riaccoglieva e a esaltarne il patriottismo ispirando i russi a difendere la patria e a farli credere nella forza militare della nazione: soprattutto la seconda parte ai suoi tempi fu un mezzo di efficace propaganda stalinista.

Quella stessa esaltazione patriottica è ora altamente problematica adesso che la Russia da vittima dell’invasione nazista è diventata l’invasore di un altro paese. Molto sofferta è stata quindi la scelta di produrre questo lavoro: il sovrintendente Serge Dorny, il diretto Vladimir Jurovskij e il regista Dmitrij Černjakov hanno dovuto affrontare problemi esterni – gestione di un cast che proviene da tutte le repubbliche ex-sovietiche, Ucraina compresa – e ripensamenti personali, sollevando preoccupazioni riguardo alla presentazione di un’opera che ha al centro il militarismo russo mentre le bombe russe cadono sull’Ucraina. Jurovskij, moscovita ma con nonni ucraini, è arrivato ad affermare che la produzione è una denuncia dell’attuale regime russo e che non lavorerebbe mai con chi sostiene apertamente la guerra, ma che «ci sono molte persone che si trovano in una zona grigia, tra l’opporsi pubblicamente alla guerra e la paura della loro vita, del benessere delle loro famiglie, di perdere il lavoro». Alcuni degli artisti russi temono che la loro carriera possa essere danneggiata all’estero o che esibendosi in una produzione contro la guerra possano avere problemi in patria. Per questo gli artisti hanno rifiutato ogni intervista per non cadere nella trappola tesa dai giornalisti. Meno che mai viene loro richiesto di fare una pubblica denuncia contro la guerra.

In questa produzione il team creativo ha apportato modifiche per attenuare qualsiasi senso di patriottismo russo o di sentimento a favore della guerra, affermando che è importante continuare a mettere in scena opere russe anche quando la guerra continua. Nella seconda parte, la più problematica, sono accorciate le scene più nazionalistiche, eliminato il finale trionfalistico e sostituito con una musica senza parole: una sardonica fanfara di ottoni in scena subito dopo le parole di Kutusov per dare un diverso tono alla conclusione dell’opera. 

L’impianto scenografico di Černjakov è costituito da un elegante salone, un luogo fortemente iconico per la Russia: la “Sala delle colonne” della Casa dell’Unione – sede di cerimonie ufficiali, funerali, balli, processi, concerti, sfilate di moda… Jurovskij racconta di aver ascoltato qui il padre dirigere la Prima Sinfonia di Prokof’ev! È un ambiente chiuso in cui tutti i personaggi sono vittime di una qualche situazione tragica: non si tratta di rifugiati o di sfollati, bensì di un insieme di persone inserite in un esperimento sociale. Vestiti nei modi più vari, dormono accampati su materassi per terra, lettini da campo, sedie pieghevoli. Dall’esterno si sentono scoppi, sparatorie, grida. In alto uno striscione augura “Buon anno nuovo” ma nella seconda parte, quando i grandi lampadari di cristallo sono coperti da un velo nero, questo viene sostituito da un altro sbilenco e con lettere mancanti su cui si riesce a leggere a malapena “Lunga vita al grande invincibile Stalin…” affiancato da un didascalico “La battaglia di Borodino. Gioco di guerra patriottico”. Si tratta infatti di giochi, di finzione: i balli della prima parte hanno come personaggi gli stessi sfollati che si sono costruiti ventagli e tiare con la carta di giornale e giocano a fare gli aristocratici; la battaglia di Borodino è simulata con armi finte e finte esecuzioni. Ma se le vicende sono ricostruite nella finzione, così non è delle emozioni, che qui hanno la stessa intensità e Černjakov riesce come sempre a gestire in maniera esemplare i personaggi con le loro psicologie così come i movimenti delle masse. 

Con oltre 70 personaggi Guerra e pace è una formidabile sfida per chi la mette in scena. Le 9 settimane di prova, in confronto alle usuali sei, lo dimostrano, ma hanno avuto come risultato uno spettacolo di eccezione, dove la direzione di Jurovskij a capo dell’Orchestra di Stato Bavarese ha reso al meglio la musica fascinosa di Prokof’ev, che alterna momenti di intima liricità a scoppi tellurici a languidi e tristi valzerini. Una colonna sonora di grande qualità per un autore di fortunate musiche per il cinema. Assieme al fantastico coro del teatro, praticamente sempre in scena, un cast sterminato di altissima qualità in cui si fa fatica a identificare almeno le eccellenze più evidenti come ad esempio il tenore moldavo Andreij Žilikhovskij, tormentato principe Andreij Bolkonski; il soprano ucraino Olga Kulchynska, sensibile Nataša; l’armeno Arsen Soghomonyan, dal bellissimo timbro tenorile, nella sofferta parte di Besukhov; l’autorevole basso russo Dmitrij Ul’ianov, Kutusov; il Napoleone del basso-baritono islandese Tómas Tómasson; il basso rumeno-ungherese Bálint Szabó nella doppia parte del generale Belliar e del maresciallo Davout; il seducente mezzosoprano russo Victoria Karkacheva come contessa Elena; il giovane e sfrontato Kuragin del tenore uzbeco Behzod Davronov e poi glorie di ieri quali Violeta Urmana, Marija Dmitrijevna Akhrossimova e Sergej Leiferkus, principe Bolkonskij.

Ora che lo spettacolo è andato in scena i timori sembravano infondati: nella lettura del regista la denuncia della guerra di invasione è chiara oltre ogni dubbio. E il pubblico lo ha capito e salutato lo spettacolo con grandiose meritatissime ovazioni.

 

Œdipe

George Enescu, Œdipe

Parigi, Opéra Bastille, 14 ottobre 2021

★★★☆☆

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L’unica opera di Enescu torna a Parigi

Lunga e tormentata la gestazione dell’unica opera di George Enescu: nel 1909 il compositore rumeno assiste a Parigi a una rappresentazione dell’Edipo re di Sofocle e l’anno successivo ne stende un primo abbozzo musicale. Edmond Fleg – Flegenheimer, brillante scrittore ebreo francese autore di una Anthologie juive – nel 1913 porta a termine una prima versione del libretto in due parti, da eseguirsi in due diverse serate. Negli anni successivi attraverso progressive modifiche Enescu giunge a dare al lavoro la veste definitiva, ma il sopraggiungere della guerra e altre incombenze lo distolgono a lungo dal suo Œdipe e solo nell’estate 1921 Enescu riesce a riprendere il lavoro. A novembre esegue al pianoforte l’intero spartito. L’orchestrazione si conclude nel 1931, ma la prima rappresentazione all’Opéra di Parigi ha luogo solo cinque anni dopo nella forma che conosciamo oggi in quattro atti, con il primo e l’ultimo che fungono rispettivamente da prologo e da epilogo. Poche le produzioni da allora, quasi tutte nei cartelloni dell’Opera di Bucharest. L’edizione su disco del 1968 è cantata infatti in rumeno.

Atto primo.Presso il palazzo di Laio si festeggia la nascita di Edipo. Tiresia profetizza che ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Inorridito, Laio affida il bambino a un pastore perché lo uccida.
Atto secondo.Salvato dal pastore, Edipo è cresciuto alla corte del re Polibo e di Merope, a Corinto, ma l’oracolo gli ha rivelato il suo destino. Per sfuggire a una tale sorte, decide di lasciare tutto e partire, dirigendosi a Tebe. Sulla via incontra Laio che, dopo avergli chiesto di farlo passare con brutalità, lo insulta e lo percuote. Edipo, per difendersi, lo uccide. Risolto l’enigma della Sfinge, Edipo entra nella città vittorioso e ottiene la mano di Giocasta.
Atto terzo.Sono passati vent’anni. Tebe è oppressa da una pestilenza. Interrogato, l’oracolo risponde che il flagello durerà sino a quando l’assassino del re Laio non sarà smascherato e punito. Edipo promette di ottenere giustizia. Creonte chiama a corte il pastore che ha assistito all’omicidio e Tiresia. Questi, pur conoscendo i fatti non parla; ma quando Edipo lo accusa di essere l’assassino, è costretto a raccontare la verità. Sospettando un complotto di Creonte, Edipo scaccia l’indovino e il cognato, ma Giocasta gli rivela il luogo e le circostanze della morte di Laio e il re sente affiorare dentro di sé un presentimento. Il pastore conferma e Phorbas, giunto da Corinto dopo la morte di Polibo, dichiara che quest’ultimo e la regina Merope erano solo i suoi genitori adottivi. Compresa l’orribile verità, Giocasta si uccide; Edipo si acceca e lascia Tebe accompagnato dalla figlia Antigone.
Atto quarto.Giunto ad Atene presso Teseo, Edipo sente di essere giunto al termine della sua vita. Ma Creonte gli chiede di ritornare sul trono di Tebe. Allo sdegnato rifiuto di Edipo, Creonte cerca di rapire Antigone, ma Teseo interviene e ottiene giustizia per l’ormai vecchio Edipo, che può così ribadire con orgoglio la sua innocenza e la sua fierezza di fronte al destino. Poi si allontana con Teseo per morire in pace.

«Nello stile di Enescu [1881-1955] entrano in uguale misura la sua formazione francese con Gabriel Fauré, suo maestro (ravvisabile nelle musiche che descrivono la corte di Laio e nei festeggiamenti per la nascita di Edipo e, nell’epilogo, nella descrizione del mondo austero e pacifico di Teseo), come le acquisizioni più recenti del linguaggio neoclassico, fiorito nel periodo tra le due guerre; la tradizione delle sue origini rumene, così presenti al compositore e ravvisabili nelle melodie del pastore, il cui flauto evoca le ancestrali suggestioni della doïna e i lamenti del cîntec lung; gli sperimentalismi, impiegati a fini espressivi, dei quarti di tono (nella scena della Sfinge), anch’essi ravvisabili nella tradizione popolare rumena; una scrittura vocale varia e mobilissima, che passa con disinvoltura dal canto puro allo Sprechgesang, al grido e al bisbiglio; un contrappunto rinnovato attraverso l’impiego dell’eterofonia, di tradizione bizantina, anch’essa tipica del folklore rumeno. Enescu utilizza anche un certo numero di motivi ricorrenti, primo fra tutti quello del Destino, dal profilo discendente, modale, già presente nella Sonata per pianoforte in fa diesis op. 24 n. 1 (1924), che udiamo nel preludio iniziale, all’inizio del terzo atto e nei momenti più significativi della tormentata vicenda del protagonista». (Antonio Polignano)

Dopo un primo atto tutt’altro che esaltante, con il lungo rituale della nascita e dei festeggiamenti per il regale neonato, il lavoro prende quota con la partenza da Corinto di Edipo e il suo incontro con il padre sconosciuto e la sfinge, episodi seguiti dal tragico scoprimento della verità. Il lavoro si affloscia nuovamente nel quarto atto con la professione di innocenza di Edipo, vicenda assente nell’Edipo re di Sofocle, che condensa, in quelli che sono i due atti centrali del lavoro di Enescu, il conflitto tra volontà divina e responsabilità individuale. Le vicende dell’ultimo atto sono invece tratte con una certa libertà dall’Edipo a Colono, tragedia postuma dello stesso Sofocle.

Il direttore Ingo Metzmacher, che aveva diretto l‘Œdipe di Salisburgo con la regia di Achim Freyer nel 2019, trae il meglio dalla rigogliosa partitura che elabora le esperienze musicali dei primi decenni del secolo con le sue sofisticate armonie, i ritmi sfuggenti e la raffinata strumentazione. Qualche pagina ricorda la Pénélope del maestro Fauré o le atmosfere magiche del coetaneo Szymanowski. Enescu è ancora oggi ricordato principalmente per la sua produzione sinfonica (5 sinfonie) e cameristica (varie sonate per pianoforte e altri strumenti). Anche la vocalità sembra nascere dall’esperienza del suo tempo: siano il Pelléas di Debussy o il primo Schönberg nei momenti di canto parlato o parlato ritmico.

Quasi sempre presente in scena il personaggio del titolo non sembra porre particolari difficoltà tecniche se non per la tenuta dovuta alla fatica, ma Christopher Maltman riesce a superare lodevolmente la prova. La parte vocale più impegnativa è quella della Sfinge qui resa con grande tecnica da Clémentine Margaine. Ekaterina Gubanova è un’intensa Giocasta. Folta la schiera degli altri interpreti tra cui alcuni fuoriclasse: Clive Bayley (Tiresia), Brian Mulligan (Creonte), Laurent Naouri (alto sacerdote), Anne Sophie von Otter (Merope), Vincent Ordonneau (pastore), Nicolas Cavallier (Phorbas/guardia notturna), Anna-Sophie Neher (Antigone). Molto presente anche il coro debitamente istruito da Ching-Lien Wu.

Œdipe apre la prima stagione completa dopo la chiusura per pandemia del teatro francese ed è anche la prima produzione dell’era Neef, il direttore artistico dell’Opéra National che ha scelto il commediografo Wajdi Mouawad il quale aveva prodotto come prima opera lirica un Ratto dal serraglio all’Opera di Toronto come suo ultimo spettacolo alla guida del teatro canadese. Ora direttore del Théâtre National de la Colline di Parigi, Mouawad affronta il lavoro di Enescu con spirito didascalico, si sente infatti in dovere di narrare gli antefatti della vicenda in un pre-prologo, in cui racconta dalla fondazione di Tebe da parte di Cadmo alla serie di re che hanno governato su questa città, un tempo felice, fino a Laio, maledetto da Apollo perché aveva violentato un fanciullo. Il regista libanese aveva già affrontato in teatro l’Edipo di Sofocle tre volte e legge questo di Enescu in maniera molto lineare, privilegiando l’aspetto visivo con i fantasiosi costumi di Emmanuelle Thomas con copricapi fitomorfi a Tebe, piumati a Corinto. Le scenografie di Emmanuel Clolus sono essenziali ma suggestive e la recitazione, non particolarmente curata, è accompagnata da una gesticolazione stilizzata. Ne esce fuori uno spettacolo che appare datato e che non sembra esaltare le qualità di questo lavoro dimenticato.

  

Doktor Faust

   

Ferruccio Busoni, Doktor Faust

Firenze, Teatro del Maggio Fiorentino, 7 febbraio 2023

★★★★☆

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Il Faust di Busoni per la terza volta a Firenze, ma il pubblico è latitante

Onnipresente Davide Livermore! In questo periodo era a Torino con la sua Maria Stuarda di Schiller, ha presentato l’Aida all’Opera di Roma, tra pochi giorni ci sarà la sua Tosca al Carlo Felice di Genova seguita subito dopo da Les contes d’Hoffmann alla Scala. E fino a pochi giorni fa si poteva assistere al suo Barbiere di Siviglia al Petruzzelli di Bari.

Della sua irrefrenabile attività fa parte anche questo Doktor Faust, uno dei maggiori eventi che Firenze ha voluto dedicare al Faust e a Goethe, un festival inaugurato dalla Faust-Symphonie di Franz Liszt eseguita dall’orchestra del teatro del Maggio diretta da Marc Albrecht. Ma è di qualche mese fa Schauspiel Faust, lo spettacolo che la compagnia Venti Lucenti ha presentato al Teatro Goldoni per gli studenti delle scuole mentre anche il quartiere di Rifredi ha voluto ricordare il leggendario personaggio con lo spettacolo La tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe.

Ora nella sala grande del Teatro del Maggio, come secondo titolo della stagione lirica va in scena quest’ultima opera di Ferruccio Busoni, compositore diviso tra due identità, quella tedesca e quella italiana: la prima segnata dalla musica strumentale, la seconda dall’opera. Il Doktor Faust è la sintesi delle sue due personalità e il lavoro più ambizioso che lo ha impegnato negli ultimi dodici anni di vita fino alla morte nel 1924 quando l’opera viene lasciata incompiuta. Sarà terminata dal suo allievo Philipp Jarnach l’anno dopo e presentata al pubblico il 21 maggio 1925 a Dresda diretta da Fritz Busch. Il ritrovamento di schizzi che si pensavano perduti ha permesso al musicologo Antony Beaumont nel 1982 di completare l’opera aggiungendo altri sei minuti di musica agli ultimi due quadri. Delle due versioni però è ancora più utilizzata la prima, come avviene ora a Firenze.

La fonte letteraria primaria non è costituita tanto dal poema di Goethe o dal dramma di Marlowe, da cui deriva comunque il titolo, bensì da quegli spettacoli di marionette (Faustpuppenspiele) popolari in area tedesca e passione di Busoni fin dall’infanzia, come dichiara l’autore stesso ne “Il poeta agli spettatori”, il testo recitato dopo la Sinfonia. In questo testo il musicista indica anche la sua estetica che si oppone al Verismo dominante in quel momento nel teatro musicale: «La musica rifugge l’ordinario, il suo corpo è fatto d’aria […] il meraviglioso è la sua patria», il teatro dunque come svago spiritualizzato, campo di finzioni e artifici. La scelta del teatro di marionette permette a Busoni non solo di sottrarsi al rischioso confronto con il testo di Goethe, ma di muoversi con maggior libertà formale e narrativa, inserendo nella vicenda personaggi fantastici e situazioni grottesche inquadrate tra pagine strumentali di grande impegno. Il compositore abbandona una narrazione lineare a favore di una struttura a pannelli disgiunti e contrastanti: ecco infatti la singolare sequenza con cui si dipana questa “Dichtung für Musik”: Sinfonia, Ostervesper und Frühlingskeimen (Vespro di Pasqua e germogli di primavera) con coro; testo recitato, Der Dichter an die Zuschauer (Il poeta agli spettatori); Primo Prologo; Secondo Prologo; Intermezzo scenico; Azione principale, Primo quadro; Intermezzo sinfonico; Secondo quadro; Ultimo quadro.

Nel Primo Prologo Faust riceve da tre misteriosi studenti di Cracovia, in verità dei messi infernali, il libro esoterico Clavis Astarti magica con il quale può piegare la magia ai suoi voleri. Nel Secondo Prologo Faust evoca gli spiriti infernali ma scaccia, perché troppo lenti, Gravis, Levis, Asmodus, Belzebù, Megaros e sceglie Mefistofele con il quale firma un patto per «abbracciare il mondo […] comprendere le azioni umane […] avere il genio e il suo dolore, così da essere felice come nessun altro». Tutto in cambio del suo asservimento alla morte. Con l’intermezzo scenico, sulle minacciose note dell’organo entriamo in una chiesa dove il fratello della ragazza sedotta da Faust prega per la sua vendetta. Mefistofele si sbarazza di lui come aveva fatto prima con i creditori e i gesuiti che vogliono mandare Faust sul rogo. L’azione principale si dipana in tre quadri in cui vediamo l’ascesa e la caduta di Faust: a Parma con la seduzione e rapimento alato della Duchessa; quindi la taverna di Wittemberg con la disputa tra gli studenti; infine la strada innevata dove Faust ha le sue visioni e dove si consegna, cadavere, a Mefistofele.

I dubbi filosofici, i tormenti esistenziali, il dualismo perdizione-redenzione sono i nodi secondo i quali viene vissuta la vicenda di Faust, che diventa alter-ego del compositore, con i suoi problemi relativi all’atto creativo. La mancata conclusione del lavoro aggiunge un ulteriore elemento di dubbio sulla possibilità dell’artista di poter completare la sua opera di conoscenza e tradurla in modo creativo: «Che il compimento proceda con il desiderio, che l’atto si compia nella vita insieme all’intenzione! Che cosa volere di più? Posso sperare così tanto?» aveva esclamato nella sua richiesta di pienezza ed assoluto alla comparsa di Mefistofele, lo spirito «veloce come il pensiero umano».

Firenze era stata nel 1942 la sede della prima esecuzione italiana del Doktor Faust nella traduzione di Oriana Previtali, la stessa in cui venne ripresa nel 1964 con le stesse scene di Mario Sironi. Questa è dunque la terza produzione fiorentina dell’opera, finalmente nel testo originale tedesco. La concertazione è affidata a un grande sperto di musica moderna quale Cornelius Meister, stimato interprete del teatro wagneriano – è suo l’ultimo Ring di Bayreuth – ed entusiasta propositore di opere raramente eseguite. Della densa partitura di Busoni, Meister mette in evidenza la straordinaria personalità che unisce l’invenzione armonica della musica germanica con la ricchezza di temi melodici tipici dell’opera italiana. E non c’è nulla di post-wagneriano in questa musica che si proietta invece verso il futuro con i suoi colori scuri, le audacie timbriche e una certa torbida sensualità del suono che diventa sontuoso nelle pagine strumentali quali il bellissimo intermezzo sinfonico in forma di sarabanda, un pezzo che ha trovato talora la via dei concerti sinfonici. L’orchestra del teatro risponde con un’esecuzione di grande livello, come se la musica di Busoni fosse ormai entrata nel suo DNA e così avviene anche per il coro istruito dal Maestro Lorenzo Fratini. Un po’ squilibrato il rapporto tra scena e orchestra, con le voci che talora si perdono dietro il muro fonico degli strumenti, ma il problema è che il particolare stile del canto mette a dura prova i cantanti, sia che si tratti del baritono Faust sia del tenore Mefistofele. Dietrich Henschel è un interprete abituato ai repertorii più estremi, si tratti di Monteverdi o di musica d’avanguardia, Lieder o Oratorii, e come Faust ha già cantato nella produzione di Kent Nagano a Lione e a Parigi. La parte è impegnativa perché il personaggio è sempre in scena e la vocalità ardua. A parte alcuni acuti, le difficoltà sono agevolmente risolte da Henschel, ma la sua performance non brilla per particolare varietà di colori. Anche Mefistofele è massicciamente presente e la tessitura estremamente impervia è causa di qualche sbandata per Daniel Brenna che porta comunque a conclusione l’oneroso impegno anche se non lascia il segno dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio. Non meno difficile ma senza intoppi la resa del basso Wilhelm Schwinghammer (Wagner e Maestro di Cerimonie), e del tenore Joseph Dahdah (Duca di Parma e Soldato), entrambi eccellenti nelle loro parti, così come efficaci sono i tanti altri interpreti maschili. Unica voce femminile è quella del soprano ucraino Olga Bezsmertna, Duchessa di Parma di bel timbro, grande proiezione vocale e fermezza negli acuti, oltre che preziosa presenza scenica.

In uno dei corridoi del labirintico teatro fiorentino è esposto il progetto di realizzazione del nuovo palcoscenico, una complessa macchina scenica che prevede «4 elevatori centrali, 8 carri mobili, 1 carro girevole» per realizzare grandiosi effetti teatrali quali la «comparsa e scomparsa rapida di un’intera scenografia» e analogamente una «piattaforma con un disco girevole per creare movimenti rototraslanti». Davide Livermore non sembra voler utilizzare queste possibilità nella sua messa in scena realizzata con mezzi tecnologici che riprendono, con spirito moderno, le scenografie storiche sette- e ottocentesche con fondali dipinti per ricreare lo spazio tridimensionale: qui ovviamente con ci sono vernici e sagome di cartone, ma un enorme led wall che occupa il fondo della scena chiusa ai lati da pareti a specchio nella scenografia dello studio Giò Forma. Ecco quindi le immagini video in continuo movimento della D-Wok formanti architetture in prospettive vertiginose e la sterminata biblioteca di Faust si trasforma così con ipnotica fascinazione in ambienti virtuali abitati da forme infernali, fiamme, immagini erotiche, quadri rinascimentali per evocare le figure richiamate dal libretto, e poi Elena che ha preso il posto di Cristo sulla croce in una delle visioni di un Faust che non distingue più il sacro dal profano: «Oh, pregare, pregare! Dove trovare le parole? Esse danzano nel mio cervello come formule cabalistiche».

Pochi gli elementi reali in scena: sedie, tavoli, un pianoforte su cui Faust si esibisce da pianista – come Busoni! – per ammaliare la Duchessa tramite un satiro cornuto che uscito dallo strumento diventa il mezzo di seduzione: la magia si mescola alla sessualità – un altro Doktor F. (Sigmund Freud) non è distante nel tempo e nello spazio all’epoca della composizione del Doktor Faust –, e il patto non è firmato col sangue su una pergamena, ma è suggellato da un bacio tra Faust e Mefistofele. Vestiti allo spesso modo, i due protagonisti si rispecchiano l’uno nell’altro e come gli  altri personaggi maschili tutti sono controfigure del compositore stesso e portano la stessa maschera: il volto di Busoni.

Uno spettacolo di grande impatto visivo come sempre sono quelli di Livermore che qui argina le sue idee in maniera felice. Peccato che il pubblico fiorentino non sia accorso in massa: alla prima erano molto più numerosi i posti liberi di quelli occupati e si spera che nelle prossime repliche il tam tam di chi c’era e ha applaudito con convinzione convinca quelli che sono rimasti a casa. Lo spettacolo vale la pena, fosse anche solo per la rarità della proposta.

On purge Bébé

Foto © Jean-Louis Fernandez

Philippe Boesmans, On purge Bébé

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 20 dicembre 2022

★★★☆☆

(diretta video)

Estrosa, delirante, irriverente e fuori dagli schemi l’ultima opera di Boesmans

La lingua francese ha peculiarità fonetiche e grafiche tali per cui “Les Hébrides”, ossia le isole Ebridi, a causa della liaison hanno la stessa pronuncia di “Les Zébrides”, ma anche di “Les Ébrides”, essendo l’h muta. Il bambino deve fare una ricerca per la scuola e il papà non si dimostra di grande aiuto, ma la mamma ha in serbo un altro dramma che vira verso lo scatologico: «Le bébé n’a pas été» canta in un’aria carica di mestizia, ossia non è andato al gabinetto: il bambino soffre di costipazione.

Solo i francesi possono scherzare su un argomento come questo, loro che per augurarsi buona fortuna dicono “Bonne merde!” e usano il verbo emmerder (annoiare, dare fastidio) senza urtare la sensibilità dell’ascoltatore. Non stupisce quindi che la lepida vicenda, che fu oggetto del primo film sonoro di Jean Renoir nel ’31, sia anche quello dell’ottava e ultima opera del compositore belga Philippe Boesmans scomparso pochi mesi fa a 86 anni.

Vi si narrano dunque le tribolazioni dei coniugi Follavoine, il cui insopportabile e stitico figlio Toto si rifiuta categoricamente di prendere il purgante che gli libererebbe l’intestino. Il signor Follavoine – che di mestiere fa il fabbricante di porcellana – deve ricevere il signor Chouilloux, funzionario del Ministero della Guerra, del quale spera di avvalersi per aggiudicarsi un lucroso contratto per 300.000 vasi da notte destinati all’esercito francese. La vicenda si trasforma in una tragi-comico per il padrone di casa, i cui vasi da notte, presentati come infrangibili, si rompono alla prima e alla seconda dimostrazione. Quando la signora Follavoine parla dei tormenti causati dal figlio di 7 anni, il signor Chouilloux mostra grande interesse e persino entusiasmo per la questione, essendo lui stesso piuttosto sensibile all’intestino. I genitori continuano a incitare il ragazzo infernale che si rifiuta ancora di bere la sua pozione. La signora Follavoine si lascia poi sfuggire per caso che Chouilloux è cornuto. Lo sfortunato ragazzo si consola svuotando per errore metà del purgante. Le cose non migliorano quando Mme Chouilloux e il suo amante Truchet, che lei presenta come suo cugino, arrivano per il pranzo e tutti brindano con il purgante, con le conseguenze che possiamo immaginare.

On purge Bébé è tratta dall’omonima pièce in un atto di Georges Feydeau del 1910 qui adattata da Richard Brunel che firma anche la messa in scena di questa produzione de La Monnaie. Trattando tutto questo con grande leggerezza, Boesmans opta per un approccio sillabico al testo per privilegiarne l’intelligibilità, ma si avvale di gustose citazioni dalle Ebridi di Mendelssohn (ovviamente), dalla “Méditation” della Thaïs e dal Parsifal, allorché il pitale «indistruttibile» assurge a coppa mistica. I suoni si accordano alla scena e ai rumori diventando un personaggio complementare in una logica teatrale inesorabile. Lasciata incompiuta dalla morte dell’autore, la decima e ultima scena è stata completata da Benoît Mernier

La pungente satira che vuole mettere in ridicolo le smanie di arrivismo della piccola borghesia in questa produzione viene attualizzata agli anni ’60, ma i temi trattati sono irrimediabilmente non contemporanei e nonostante le innumerevoli gag, la scelta come spettacolo per famiglie e “natalizio” denuncia i suoi limiti. Pregevole è la scenografia di Étienne Plus a mezza strada tra casa di bambole e cartoon con i suoi colori vivi e giusti i costumi di Bruno de Lavenère. Sugli interpreti non si è lesinato: madame Julie Fallavoine, la cui tessitura è acutissima, trova nel soprano coloratura Jodie Devos la cantante ideale. Nella parte di Bastien Fallavoine si impone Jean-Sébastien Bou, con agio nel suo fraseggio baritonale come nella sua presenza attoriale mentre Denzil Delaere interpreta con ironia la parte di Aristide Choullioux, funzionario del ministero della guerra. Il ruolo parlato del bambino è affidato all’inizio a un ragazzino che diventa presto un giovanottone alto due metri per un ulteriore effetto comico. Energica e precisa la direzione di Bassem Akiki alla testa di un ridotto ensemble di 27 strumentisti – sette archi, fiati a due, percussioni, arpa, pianoforte e celesta.

Der Rosenkavalier

Richard Strauss, Der Rosenkavalier

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 16 novembre 2022

★★★★☆

(video streaming)

Mais où sont les neiges d’antan!

Lo spettacolo coprodotto con Bologna avrebbe dovuto inaugurare la stagione 2023 del Comunale, ma la chiusura del teatro per restauri ha fatto saltare l’avvenimento in quanto il palco del locale fiera in cui verranno rappresentati i primi spettacoli nei previsti lunghi quattro anni di chiusura non è adatto. Peccato, perché il Rosenkavalier creato a Vilnius nel settembre 2020 e che arriva ora sulle tavole de la Monnaie è uno dei migliori di Damiano Michieletto.

Lo scorrere del tempo è il tema principale dell’opera di Strauss e il regista veneziano lo rende visivamente evidente grazie a Paolo Fantin che costruisce le scatole cinesi della sua scenografia, tre spazi ora distinti ora interconnessi: come ne Il viaggio a Reims sul palcoscenico c’è una cornice in cui si apre un sipario bianco dietro il quale appare la camera da letto di Marie-Thérèse von Werdenberg, la Marschallin, ma nel fondo di questa un’altra cornice e un altro sipario bianco danno sulla camera da letto di una Marschallin più giovane. Una terza, invecchiata, la vedremo su una sedia a rotelle spinta dal marito in pensione e carico di medaglie che canta l’aria del tenore. Ma ce n’è poi anche una quarta, bambina questa volta: quasi un’allegoria delle età nei quadri degli antichi pittori. Le diverse età della vita si succedono così con infinita malinconia in questo voyage autour de la chambre della donna in una giornata che era iniziata col suo risveglio tra le braccia di un giovane e finisce con l’addio del giovane che la lascia per una ragazza della sua età.

«Aber wie kann das wirklich sein, | daß ich die kleine Resi war, | und daß ich auch einmal die alte Frau sein werd… | Die alte Frau, die alte Marschallin!» (ma come può essere vero che io sia stata la piccola Resi, e che poi sarò un giorno una signora vecchia… la vecchia Marescialla!) canta la donna quando rimane sola nel primo atto. Guardandosi allo specchio Marie-Thérèse non vede più la fanciulla appena uscita dal convento a cui furono imposte le nozze e si chiede: «Wo ist die jetzt? Ja, such’ dir den Schnee vom vergangenen Jahr» (E dov’è ora? Sì, cerca la neve dell’anno passato). Ed ecco allora che nella stanza a un certo punto comincerà a scendere la neve i cui fiocchi la donna cerca di raccogliere in un bicchiere, ma nel bicchiere alla fine ci sarà solo acqua: l’innocenza e la freschezza dei primi amori si sono tristemente sciolti e restano solo rimpianti e desideri inappagati. Simboli della spensieratezze sono dei palloni bianchi che poi verranno rimpiazzati dai lugubri corvi neri delle allucinazioni di Ochs, uno gigantesco come quello che si vedrà nell’Archèus di Venezia.

Il tono onirico impronta la scena della levée della contessa, quasi un incubo popolato da grotteschi personaggi e una miriade di orologi a pendolo riempiono la scena. Il tema della neve si ritrova anche nella sfera con cui gioca il nanetto tutto vestito di bianco che rimpiazza Mohammed, il paggio nero della donna. E bianche sono anche le scenografie così come bianchi sono i costumi di Agostino Cavalca. Le luci antinaturalistiche di Alessandro Carletti sono efficacissime nel rendere il tono onirico della storia. Questa simultaneità dei piani temporali è il tratto più intrigante di questa produzione che rende ancora più chiaro il messaggio dell’opera.

Ma non è tutto solo rimpianto e malinconia e gli aspetti ilari della vicenda non sono affatto trascurati: il personaggio di Ochs è comicamente sottolineato e i servitori si muovono secondo un comico balletto, mentre Valzacchi e Annina, gemelli in ghette e occhio bendato, sono due personaggi d’avanspettacolo.

Trasparenza, dolcezza e un magistrale equilibrio dei piani sonori sono le doti della lettura che Alain Antinoglu fa della partitura. Sally Matthews è talora un po’ manierata e dal timbro un po’ troppo chiaro e leggero per il ruolo della Marschallin, ma risulta comunque convincente. Vocalità non esaltante con limiti nel registro acuto quella di Martin Winkler, un Ochs dalla decisa presenza scenica. Michèle Losier è un Octavian perfettamente credibile e di bella voce. La vocalità richiesta dalla parte del Cantante non riesce a mettere in difficoltà un belcantista come Francisco Gatell che qui aggiunge di suo la sensibilità nelo breve ma particolare ruolo creatogli dal regista. Dietrich Henschel (Faninal) e Ilse Eerens (Sophie) esibiscono entrambi un timbro poco gradevole.

Dialogues des Carmélites

  

Georges Poulenc, Dialogues des Carmélites

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2022

★★★★★

(live streaming)

La donna crocefissa

La stagione del Teatro dell’Opera di Roma si inaugura coraggiosamente con uno dei maggiori titoli del Novecento, Dialogues des Carmélites  di Georges Bernanos messo in musica da Francis Poulenc e rappresentato la prima volta, in versione italiana, alla Scala il 26 gennaio 1957 mentre un anno dopo arrivava al Costanzi. L’opera manca da Roma dal 1991 e appartiene alla fase finale di una creatività marcata da un ripiegamento sulla spiritualità da parte di un compositore che fino a quel momento si era dimostrato tutt’altro, spiritoso e irriverente.

La lettura di Emma Dante oltre che sull’aspetto religioso, punta sulla violenza di cui sono vittime le donne: che cosa è se non un caso di femminicidio quello consumato a Compiégne nel 1794 negli ultimi tempi del Terrore quando sedici Carmelitane vengono espropriate del convento e ghigliottinate perché accusate di aver formato «una riunione di ribelli, di sediziose che mettono nel loro cuore il desiderio e la speranza criminale di vedere il popolo francese rimesso in catene dai suoi tiranni e la libertà inghiottita nei fiotti di sangue che le infami macchinazioni hanno fatto diffondere in nome del cielo», come recita l’editto del Tribunale Rivoluzionario letto dal carceriere. Ma la violenza la subiscono anche nel convento, quando le novizie vengono sottoposte dalle consorelle al supplizio masochistico/penitenziale dello schiacciamento di un piede con pesanti blocco di pietra, rendendole così sempre claudicanti. Prima ancora di essere monache, sono state «sorelle, amanti, corpi desiderati, donne sensuali» dice la regista, ed ecco allora sedici seducenti ritratti femminili di David, il pittore della Rivoluzione Francese, uno per ogni vittima, in cornici dorate nel salone del marchese De La Force, che poi nel corso dell’opera diventano grate del parlatorio del Carmelo, porte delle celle, o formano un “corridoio della morte” e infine rappresentano la ghigliottina, quando una tenda bianca scende al raccapricciante suono metallico previsto in partitura, a simulare la caduta della lama, cancellando la figura femminile che racchiudeva. Il crocefisso che vediamo fin dall’inizio ha un corpo femminile, «Dio è padre, ma più ancora madre» aveva detto Giovanni Paolo I. Su quello stesso crocifisso apparirà alla fine, per unirsi alle consorelle nel martirio, Blanche: la riconosciamo dal piede fasciato anche senza i primi piani della regia televisiva. E per la prima volta vediamo sorridere Corinne Winters, fino a quel momento sempre imbronciata, nella beatitudine del martirio. La parabola cristologica in cui Emma Dante ha trasformato, forzando un po’ la mano, certo, Dialogues des Carmélites è così completa.

Atemporale ed essenziale è l’ambientazione nella scenografia di Carmine Maringola: due lampadari di cristallo per la biblioteca «sontuosa ed elegante» del marchese De La Force, una enorme grata traforata per il convento. Nel breve momento in cui le suore assaporano la libertà, le vediamo girare in palcoscenico pedalando biciclette gialle, ma tutto lo spettacolo è pervaso dalla complice intimità delle donne intente ai lavori. Senza particolari riferimenti storici anche i costumi di Vanessa Sannino, sontuosi, dorati. Per le monache sono armature di guerriere, le “soldatesse di Cristo”, con elmi che richiamano le aurole dei santi dipinti da Giotto..

A capo dell’orchestra del teatro, il suo direttore musicale Michele Mariotti restituisce in tutta la sua bellezza una partitura ricca di richiami musicali che da Monteverdi si spingono fino a Puccini e l’orchestra risponde in maniera eccellente con un suono trasparente, morbido ma all’occorrenza tagliente. Omogeneo, e non dovrebbe essere altrimenti, l’insieme delle voci in scena seppure con le punte di Corinne Winters, una Blanche intensamente espressiva pur nella purezza della sua vocalità e grande attrice, e Anna Caterina Antonacci che veste sontuosamente i panni di Madame de Croissy, la priora morente, con un canto/recitazione di grande pregnanza. Ewa Vesin è la voce potente di Madamde Lidoine; Ekaterina Gubanova la tormentata Mère Marie de l’Incarnation; Emöke Baráth la giovanile Soeur Constance de Saint-Denis. Ottimi il Marquis De La Force del baritono Jean-François Lapointe e il figlio Chevalier di Bogdan Volkov. Pregevole l’apporto degli altri interpreti tra cui i diplomati della “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro.

Si temeva che Emma Dante riproponesse qualcosa di già visto, ma invece, pur senza rinunciare alla sua cifra stilistica, ha costruito uno spettacolo di grande forza immaginifica e profondità di pensiero che il pubblico ha dimostrato di apprezzare. Quella che sembrava la meno adatta a una inaugurazione mondana si è rivelata una scelta vincente. Chapeau al Teatro dell’Opera di Roma.