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Giuseppe Verdi, Nabucco
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Parma, Teatro Regio, 29 settembre 2019
Il Nabucco a Parma! Di Ricci/Forte!
Uno dei meriti maggiori del Festival Verdi di Parma è di presentare una scelta di spettacoli in allestimenti tradizionali e altri in allestimenti attuali. Appartiene al primo caso la ripresa della storica Aida che Zeffirelli aveva adattato agli esigui spazi del teatro di Busseto; al secondo il Nabucco di Ricci/Forte andato in scena al Teatro Regio, ultimo titolo dei quattro in programmazione. Ma, come aveva detto in mattinata Alberto Mattioli sotto la tenda del Verdi Circus assieme al direttore e ai due registi, non dovrebbe neppure esserci questa distinzione: il teatro è sempre contemporaneo e va fatto con mezzi contemporanei per il pubblico contemporaneo. Certo che scegliere proprio questo titolo per far debuttare a Parma la coppia di registi più discussi al momento in Italia è stata considerata una sfida per alcuni loggionisti che hanno risposto rumorosamente alla proposta, ma sono stati coperti dagli applausi della grande maggioranza del pubblico presente.
Dopo la Turandot di Macerata di due anni fa e il dittico Die glückische Hand / Il castello del duca Barbablù a Palermo, questo è il terzo approccio all’opera lirica del duo di artisti visivi e il loro spettacolo è il più atteso. Ovviamente, la vicenda biblica per loro è una opportunità per parlare del presente: il presente del 1842 per Verdi, il nostro presente per noi. A torto o a ragione il Nabucco è stato letto in chiave risorgimentale ancora poco tempo fa mentre altre letture hanno messo al centro il destino degli ebrei vittime della Shoah, altre ancora quello dei palestinesi vittime degli ebrei di oggi…
Stefano Ricci e Gianni Forte dichiarano di aver voluto ambientare il loro spettacolo nel futuro prossimo, in particolare nell’anno 2046, anche se i costumi e le scenografie propendono per il 1946: il passato peggiore, con i suoi autoritarismi, ci aspetta dopodomani, se non ci diamo da fare oggi per cambiarlo.
Il ferrigno sipario si apre dunque sull’interno di una nave, ma potrebbe essere anche un’astronave che rastrella civili per assoggettarli o magari trasferirli su un pianeta inospitale. Unico accenno alla modernità sono gli scooter elettrici su cui scivolano silenziose le guardie dal volto semicoperto, disumanizzato. Uno schermo dall’alto trasmette l’immagine impassibile della faccia del dittatore come in un “video portrait” di Robert Wilson in cui nel tempo si notano solo impercettibili movimenti. Il popolo che entra nel “tempio” è formato da gente come noi, chi con pellicce chi in abiti più dimessi, a cui viene tolto il giubbotto salvagente arancione e incollato un numero con cui venire registrato in una foto segnaletica. La claustrofobia dell’ambiente si ritroverà anche nelle altre scene: il cielo e la natura sono completamente assenti su questo vascello che trasporta una triste umanità. Anche la reggia di Nabucco è rinchiusa all’interno e degli «orti pensili» c’è solo un albero di Natale, simbolo della nostra superficiale religiosità, attorno al quale si muove una Abigaille ora regina (e il suo viso ha sostituito quello di Nabucco sull’onnipresente schermo) che assomiglia a Eva Perón, indaffarata a distribuire regali e onorificenze al popolo per farsi riprendere da una sempre presente televisione. Il culto dell’immagine è parallelo alla cancellazione della cultura e del passato: nella pausa tra la prima parte (“Gerusalemme”) e la seconda (“L’empio”) davanti al sipario macchine trita documenti vengono messe in azione per distruggere pagine di libri. Altri libri saranno nelle mani dei giovani performer per poi diventare colombe che cercano di prendere il volo e la libertà – da Fahrenheit 451 al finale con l’aquila ferita di Da una casa di morti questi sono solo alcuni dei rimandi visivi di cui abbonda la visione di Ricci/Forte. Come l’altro “interludio” tra la terza parte (“La profezia”) e la quarta (“L’idolo infranto”): una corda azzurra rappresenta la superficie del mare in cui annegano dei giovani. Qui i giubbotti salvagente non ci sono.
«Oh chi piange?» chiede Zaccaria dopo il coro. E sembra additare tutto il pubblico che, commosso, ha cantato fra sé le parole di «Va’, pensiero, sull’ale dorate». In scena non c’è il coro del teatro, ci siamo tutti noi e le parole che cantano all’unisono soprani contralti tenori bassi sono quelle che cantiamo noi, bianchi neri alti bassi. L’umanità intera si scopre in questo momento dolente che viene bissato a furor di popolo da un pubblico finalmente unanime. Fino a quel momento il maestro Francesco Ivan Ciampa aveva tenuto l’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini sotto pressione con ritmi incalzanti e colori brillanti, ma qui le acque dell’Eufrate scorrono lente e dolorose come le lacrime degli oppressi. Ma non è questo il solo momento di commozione di una resa musicale che spesso tocca le corde del cuore con le finezze strumentali che il giovane compositore inseriva nella sua prima vera partitura – con Nabucco nasceva il Verdi che poi è diventato tale.
Nonostante il clima da bagarre della serata, il direttore avellinese ha mantenuto la calma e con mano ferma ha concertato magistralmente interpreti di livello tale da tacitare definitivamente anche chi era dubbioso sullo spettacolo, facendolo terminare tra le ovazioni. Già si conosceva l’immane forza sonora di Amartuvshin Enkhbat, ma qui col suo Nabucco dimostra non solo una linea di canto continua e piena, nota dopo nota, ma anche di essersi appropriato della parola, lui che viene dalla lontana Mongolia. Le fattezze da orientale aggiungono poi un quid inquietante in più alla figura del despota orientale. Gli fa da controcanto con eguale forza e sicurezza vocale Saioa Hernández che rende impavida la spericolata parte di Abigaille, «umil schiava» assurta al trono. Col suo timbro d’acciaio sa però assumere toni patetici alla fine quando muore impiccata nell’alias della ragazza ebrea. Terzo vertice del triangolo di eccellenza vocale di questo spettacolo è lo Zaccaria di Michele Pertusi, forse il personaggio più aiutato dalla regia, ma non ce ne sarebbe stato neanche bisogno vista la presenza scenica e la vocalità, se non intatta comunque sempre ragguardevole, del basso di Parma. Ad un altro livello si pongono la soddisfacente Fenena di Annalisa Stroppa e il meno convincente Ismaele di Ivan Magrì, dalla linea di canto discontinua. Assieme al festeggiatissimo coro, tutti hanno ricevuto la meritata dose di applausi.
Qualche dissenso per i registi era scontato, ma possiamo dire con sicurezza che uno spettacolo come questo dieci o quindici anni fa non sarebbe stato possibile vederlo a Parma. Ottimo segno dei tempi.
foto © Roberto Ricci
⸪