Die tote Stadt (La città morta)

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Erich Wolfgang Korngold, Die tote Stadt

★★★☆☆

Berlino, Komische Oper, 28 giugno 2019

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Il Korngold glitter-and-be-gay di Carsen

Il tema del superamento della morte della persona amata e della venerazione del passato trovava un pubblico sensibile nell’atmosfera luttuosa di una società ancora ferita dagli eventi della Grande Guerra. Per questo Die tote Stadt ebbe il risultato di consolidare la fama precoce di Korngold, giovane prodigio espresso dall’ambiente musicale austro-germanico di Richard Strauss e di Gustav Mahler. Quest’ultimo, che l’aveva conosciuto a dieci anni, lo aveva dichiarato «un genio musicale», mentre Puccini, che aveva ascoltato a Vienna una riduzione per pianoforte dell’opera, aveva definto il compositore «la più forte speranza della nuova musica tedesca». Il suo secondo nome, Wolfgang, sembrava giustificava la sua nomea di «nuovo Mozart».

L’opera aveva debuttato contemporaneamente ad Amburgo e a Colonia nel 1920 e quatto anni dopo arrivava a Berlino diretta da Georg Szell con Lotte Lehmann e Richard Tauber. L’enorme successo ebbe bruscamente termine con l’arrivo al potere dei Nazisti: etichettato come esponente dell’arte degenerata per le sue origini ebraiche, Korngold si trasferì a Hollywood dove divenne autore di successo di colonne musicali per film.

Dopo un periodo d’oblio, Die tote Stadt fu riproposta a Vienna nel 1967: era finalmente venuto il momento di apprezzare di nuovo il neo romanticismo di quegli anni ’20. Ai giorni nostri il lavoro di Korngold gode di un rinnovato interesse: dopo l’allestimento visionario di Pier Luigi Pizzi a Venezia (2009), quello intrigante di Kasper Holten a Helsinki (2010), quello cerebrale di Mariusz Treliński a Varsavia (2017) e il recente Graham Vick alla Scala, il Komische Oper Festival riprende la produzione di Robert Carsen dell’autunno passato.

Lo scenografo Michael Levine disegna una stanza borghese che immaginiamo affacciata su un luminoso viale di Vienna o Berlino, non su una buia stradina di Bruges. Nella messa in scena di Robert Carsen la città morta è assente, mentre è ben presente una donna uccisa: nella sua lettura non ci sono ambiguità o elementi onirici, Paul è un omicida e Franz è uno psichiatra che arriva sul luogo del delitto col taccuino a prendere appunti durante il racconto di Paul. Nel finale, col cadavere di Marietta sul tappeto, Franz arriva in camice bianco assieme all’infermiera Brigitta per portare via l'”amico”. Per Carsen l’omicidio è avvenuto realmente e la voce di Marietta, che nel libretto ritorna perché ha dimenticato i guanti, è questa sì immaginazione della mente di Paul. Una soluzione forse troppo facile alle ambiguità del lavoro. Anche Mariusz Treliński aveva interpretato la vicenda di Paul come conseguenza dell’uccisione di una donna, là la moglie. Ma mentre il direttore artistico del Welki di Varsavia dava una lettura quasi da horror, qui invece il tono è molto più leggero e Paul è quasi inconsapevole di quello che ha fatto e non prova quindi alcun rimorso: «Ora sì che assomigli a Marie» dice sul cadavere di Marietta. La scena del balletto di Robert le diable è ironicamente realizzata con le lenzuola del letto e i borghesi di Bruges assistono agli scoppi di gelosia della coppia applaudendo alla fine: anche in questo spettacolo il tocco di Carsen è evidente.

Come sempre nei suoi allestimenti ha grande rilievi il gioco luci, affidato al fidato Peter van Praet oltre che a Carsen stesso. La camera ruota su sé stessa oppure si scompone per far entrare il funerale di Marie o la processione della Madonna, due momenti di grande suggestione visiva, quasi cinematografica. La scena della commedia dell’arte è qui un numero di cabaret e Marietta scende dall’alto a cavallo del lampadario in una pioggia di paillettes dorate. I costumi di Petra Reinhardt e Rebecca Howell si richiamano all’epoca della Repubblica di Weimar.

Aleš Briscein è vocalmente e scenicamente convincente come Paul. Il tenore lirico ha una linea di canto luminosa, ma senza la voluttà vocale che ci si aspetta da una musica che confina con l’operetta – Richard Tauber, uno dei maggiori interpreti del ruolo di Paul, era anche un meraviglioso cantante d’operetta – e la ripresa finale di «Glück, das mir verblieb» è correttamente intonata, ma dovrebbe suscitare brividi di struggimento, cosa che invece qui non avviene. In parte si può dire la stessa cosa anche per la Marietta di Sara Jakubiak, soprano dalla voce sensuale, ma che non lascia un ricordo indelebile. Günter Papendell è autorevole come Frank, molto meno convincente come Pierrot Fritz per il tono stentoreo e legnoso con cui porge la celebre pagina «Mein Sehnen, mein Wähnen».

Nella fossa orchestrale il giovane direttore lèttone Ainārs Rubiķis dimostra una personalità da tenere d’occhio. Della partitura offre una lettura opulenta con tempi dilatati nei momenti lirici e sa giocare abilmente con i timbri strumentali, come nei momenti in cui le percussioni danno un colore straniante a quanto avviene in scena. Grande importanza ha il suono evocativo delle campane, quelle che Rodenbach nel suo romanzo Bruges-la-morte dall’alto dei campanili della città «sèment dans l’air des poussières de son, la cendre morte des années» (Seminano nell’aria la polvere dei suoni, la cenere spenta degli anni). Ma qui sembra che seminino il glitter sui mobili e sugli abiti.

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