Libri

I figli di Boris

Rubens Tedeschi, I figli di Boris

253 pagine, EDT, 1990

Boris ovviamente è il Boris Godunov in quanto vi si tratta dell'”Opera russa da Glinka a Šostakovič”, una storia complessa e ricca che si affianca a quella dell’opera francese e tedesca per quantità e qualità.

Il testo è strutturato in maniera molto semplice. Un primo capitolo riassume le vicende dell’opera in Russia a partire dal 1731 quando dopo la morte di Pietro il Grande, per il quale l’unica musica ammessa era quella dei canti liturgici e delle fanfare militari, alla corte dell’imperatrice Anna Ivanovna viene accolta una smilza compagnia d’opera – tre cantanti e alcuni attori – per presentare un repertorio di intermezzi buffi. Poco dopo Francesco Araja rivelerà ai russi l’opera seria con le sue composizioni e la moda dilagherà presto per tutto lo sterminato paese, soprattutto col repertorio italiano. La Russia di Elisabetta e di Caterina II diventa la mecca per i compositori più celebrati: Galuppi, Traetta, Paisiello, Salieri, Cimarosa… e l’opera italiana diviene il divertimento favorito dell’aristocrazia russa che, anche senza conoscere la lingua, riesce ad apprezzare le vicende storiche e mitologiche, sempre le stesse, che vengono intonate in differenti vesti musicali.

Bisogna arrivare all’Ottocento però perché sotto la spinta dell’orgoglio nazionale alimentato dalle vittorie sulle armate napoleoniche, nasca il desiderio di un “colore russo”. Da Glinka in poi si sviluppa la scuola nazionale russa e i nomi sono quelli che conosciamo, a cui Tedeschi dedica la gran parte del libro, ogni capitolo incentrato su un grande compositore: Glinka, Dargomyžškij, Musorgskij, Borodin, Rimskij-Korsakov, Čajkovskij, Prokof’ev, Šostakovič e Stravinskij dei quali analizza con acutezza e profondità le maggiori opere per il teatro.

Il limite del libro sta nella sua data: nel 1990 ancora non erano pienamente affermate le figure della musica russa di oggi che l’autore si limita a citare, e parliamo di Edison Denisov, Al’fred Šnitke e Sofija Gubaidulina. Manca quindi anche quello di Aleksandr Raskatov di cui recentemente è stato molto apprezzato Animal Farm.

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

124 pagine, numero tre, marzo 2024

Salome, proibito

Contemporaneamente alla produzione della Salome di Richard Strauss dell’Opera di Roma nel disturbante allestimento di Barrie Kosky, esce il nuovo numero di Calibano dedicato al tema del proibito.

«Chi rompe un tabù crea uno scandalo, chi supera il confino del proibito viene marginalizzato. Da sempre però chi afferma la sua libertà a dispetto dell’appiattimento sulle norme, delle implicite censure, della ricerca di approvazione, suscita negli altri stupore ma anche ammirazione. Ce lo ricorda la figura di Salome, che rifiuta di sottomettersi al potere disciplinare», scrive Paolo Cairoli. «Certo superare il limite del proibito può essere pericoloso. La principessa di Giudea finisce schiacciata sotto gli scudi dei soldati del suo patrigno Erode. Ogni profanazione comporta un rischio, perché è la libertà stessa a essere rischiosa. […] Ma le grandi trasgressioni non conducono solo a una maggiore libertà personale o una piacevole pienezza vitale: agiscono come sfide in grado di rompere equilibri consolidati, portando trasformazioni sociali utili per costruire mondi più aperti e inclusivi».

Come sempre ricco di interessanti interventi, questo numero si segnala per gli scritti di Vera Gheno e Fabiana Giacometti rispettivamente sulle “Parole proibite” e sul “Fashion taboo” mentre Dominic Pettman indaga sulla presenza della figura di Salome sugli schermi, anche quelli degli smartphone. Sergio Trombetta invece scrive dei corpi non conformi nella danza. Il racconto è affidato questa volta a Carmen Barbieri, “Fuori fuoco”, mentre sulla censura nell’opera scrive argutamente Giuliani Danieli. Questo l’elenco dei nomi degli altri contributori: Andrea Peghinelli, Alberto Piccinini, Emanuele Senici, Chiara Adorisio, Claudio Strinati, Rossano Baronciani, Giuliano Danieli.

Come sempre le immagini sono una parte intrigante della rivista: con un programma di intelligenza artificiale Emilia Trevisani illustra i diversi scritti mentre la copertina è opera nientemeno che di Giulio Paolini.

The Operas of Antonio Vivaldi


Reinhard Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi

790 pagine, Leo S. Olshki ed., novembre 2008

 

Nei due poderosi tomi promossi dalla Fondazione Giorgio Cini per l’Istituto Italiano Antonio Vivaldi, il musicologo tedesco Reinhard Strohm, nato nel 1942 e laureato a Berlino con la tesi Italienische Opernarien des frühen Settecento (1720–1730), affronta la difficilmente districabile matassa delle opere di Antonio Vivaldi, epitome della disinvolta attitudine dei compositori settecenteschi a utilizzare per le loro opere pezzi musicali tratti da opere precedenti o addirittura di altri autori. Pratica diffusa cui non si sottrasse certo il compositore veneziano sempre in affanno nella scrittura di nuove pagine. 

A questo si aggiunga la disgrazia dei tanti manoscritti andati perduti e la singolare storia del ritrovamento di quelli che ora formano l’archivio vivaldiano della Biblioteca Nazionale di Torino con i fondi Foà e Giordano, vicenda raccontata tra gli altri da Federico Maria Sardelli e prima ancora da Orlando Perera.

L’opera dello Strohm è praticamente un unicum per ricchezza di informazioni e profondità di analisi. A una prima parte dedicata alla storia dei lavori di Vivaldi, all’ambiente in cui ha operato e alla sua estetica, segue una succosa seconda parte in cui vengono analizzate tutte le opere di cui è rimasto il libretto o la partitura o entrambi, nelle varie e numerose versioni: 47 titoli, ognuno compreso di dedica, argomento, personaggi, trama e analisi musicale.

Preziosissime sono le tavole con la cronologia, la lista dei “pasticci” e la struttura musicale di ognuna, strumento indispensabile per cercare di comprendere un mondo così incredibilmente ricco a affascinante qual è quello dell’opera barocca e del Prete Rosso in particolare.

 

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

142 pagine, numero due, novembre 2023

Mefistofele, postumano

«Egli vorrebbe quasi | trasumanar e nulla scienza al cupo | suo delirio è confine» dice Mefistofele di Faust, deridendone il desiderio di trascendere la finitudine dell’essere.

Un modo di «trasumanare» è riuscito al «postumano», a cui è dedicato il terzo numero (quindi il 2) di Calibano, la rivista dell’Opera di Roma che prende ogni volta l’occasione di un suo titolo in cartellone per approfondire un argomento.  In questo caso si parte dal Mefistofele di Arrigo Boito.

Nelle pagine della pubblicazione, illustrata come il solito dalle intriganti/inquietanti immagini create da un programma di intelligenza artificiale, sono numerosi e rilevanti gli interventi, tra cui quello di Serena Guarracino, “Trasumanare. Faust, Frankenstein e loro successori: prometei moderni nel segno del postumano” in cui si indagano le implicazioni filosofiche dell’argomento, o quello di Giuliano Danieli su “Opera e postumano”, ossia dei personaggi e dei soggetti dei libretti d’opera legati al mito di Faust nelle sue varie declinazioni – ed ecco il Doktor Faust di Busoni, L’affare Makropulos di Janáček con la sua ultracentenaria protagonista o il recente Frankenstein di Mark Grey – o anche della messinscena – e qui vengono citati gli spettacoli de La Fura dels Baus.

L’utilizzo dell’immagine (ologramma) o della voce di un artista che non c’è più è l’ultima tendenza: in 7 Deaths of Maria Callas di Marina Abramović la voce registrata della cantante crea un’apparizione fantasmatica che si confonde con la performer stessa. «Il fatto che proprio la figura di Maria Callas, simbolo per eccellenza dell’arte lirica, abbia ispirato esperienze come queste la dice lunga su quanto forte sia il potenziale postumano dell’opera. Non è escluso che i nuovi supporti tecnologici e l’affinamento dell’intelligenza artificiale e dell’universo digitale potranno un giorno permettere a un avatar di Callas di impersonare nuovi lavori, cantare nuove opere: le potenzialità della realtà aumentata, della realtà virtuale e soprattutto del metaverso applicati all’opera appaiono ancora per lo più inesplorate, promettenti e inquietanti a un tempo».

Opéra de Monte-Carlo

Alessandro Mormile, Opéra de Monte-Carlo

578 pagine, Liber Faber, 2022

Ci si può innamorare di un teatro? Pare di sì, per lo meno è quanto a successo al critico musicale e studioso di storia della vocalità Alessandro Mormile che in un poderoso libro di 578 pagine suddivise in due tomi editi da Liber Faber confessa la sua passione raccontando “storia e ricordi di un teatro leggendario”, come recita il sottotitolo. Stiamo parlando dell’Opéra de Monte-Carlo. Magari non si condivide pienamente l’entusiasmo che l’autore professa per tutto quello che avviene nel principato di Monaco, ma per quanto riguarda la sua istituzione lirica non si può non restare ammirati per le sue stagioni che dal 1879 sono ospitate in una sala progettata da Charles Garnier, lo stesso architetto dell’Opéra di Parigi, di cui questa è la versione minore per dimensioni ma non per opulenza.

Invertendo l’ordine cronologico, è il secondo volume a occuparsi della storia del teatro nato quale ampliamento dell’edificio del Casino costruito nel 1863: una sala da concerto di fianco ai tavoli da gioco allo scopo di ampliare l’offerta del turismo invernale nella città-stato monegasca. Da allora l’Opéra de Monte-Carlo ha ospitato numerose prime mondiali e sulle sue tavole si sono esibiti i maggiori artisti della lirica e del balletto. La serata inaugurale del 25 gennaio 1879 alla presenza del principe Charles III si era aperta con un monologo di Sarah Bernhardt ed era proseguita con l’avvicendarsi sul palcoscenico dei più grandi cantanti del momento. All’epoca, oltre alla esecuzione di opere intere si apprezzavano anche brani scelti di titoli diversi: la sera del 18 marzo 1884 si poteva ad esempio assistere all’atto V scena prima dell’Aida, all’atto IV di Hamlet, l’atto V del Faust e l’atto IV de Il trovatore… Con la stagione 1892 iniziava la guida di Raoul Gunsbourg, che sarebbe terminata dopo più di mezzo secolo nel 1951, una delle gestioni più lunghe del teatro d’opera, con una piccola interruzione durante la Seconda Guerra Mondiale per la fuga in Svizzera dai Nazisti essendo lui di origini ebraiche. Sotto la sua direzione si ebbe la prima messa in scena de La damnation de Faust (1893) e le prime assolute di opere di César Franck, Camille Saint-Saëns, di Amica di Mascagni (1905), de La rondine di Puccini (1917) e di ben sette lavori di Massenet: Le jongleur de Nôtre Dame (1902), Chérubin (1905), Thérèse (1907), Don Quichotte (1910), Roma (1912), Cléopâtre (1914) e Amadis (1922), queste ultime due postume. Purtroppo nel tempo le novità si sono fatte più rare nella programmazione, come riporta Mormile nelle tante pagine di appendice del suo libro ricco di informazioni.

Il primo volume riporta invece i ricordi personali dell’autore a partire dagli anni della direzione di John Mordler fino ad arrivare a quella di Cecilia Bartoli. Già da alcuni anni critico musicale del teatro, nel 1993 Mormile si era trovato coinvolto in un progetto sulla storia dei teatri d’opera e sale da concerto delle maggiori città europee e a lui era toccata proprio la Salle Garnier del principato. La sua sintesi storica veniva a coprire un vuoto che non era colmato da una poderosa pubblicazione di vent’anni prima di T.J.Walsh sulla storia del teatro monegasco che si fermava al 1951. In questo primo volume Mormile prende in rassegna, con dovizia di annotazioni e un ricco apparato iconografico, tutte le stagioni a partire da quella del 1989, aperta con un allestimento di Pier Luigi Pizzi de La traviata con Nelly Miricioiu, un poco più che debuttante Roberto Alagna e Piero Cappuccilli. Gli anni ’90 sono quelli del debutto monegasco di Cecilia Bartoli nel Barbiere di Siviglia, dell’Italiana in Algeri di Lucia Valentini Terrani (1990), di Hamlet di Thomas con Thomas Hampson (1993), dell’accoppiata Cavalleria rusticana e Pagliacci con Plácido Domingo, del Faust di David McVicar con la Marguerite di Angela Gheorghiu (2005), per nominare solo alcuni spettacoli della direzione Mordler (1984-2007). Poi era toccato a Jean-Louis Grinda (2007-2022), nato nel principato, figlio del baritono Guy Grinda e regista d’opera. Con lui i cartelloni si intensificano, la varietà di titoli in programma aumenta così come il numero di recite. È sua anche la prima apertura del teatro a un musical, Man of la Mancha (2012) basato sulla vicenda di Don Chisciotte. Del suo periodo ricordiamo il Cyrano de Bergerac di Alfano con Alagna (2008), il Mefistofele con Erwin Schrott (2012) e la Norma “filologica” della Bartoli (2016) la quale subito dopo rinforzava il suo legame con il Principato con la nascita dell’ensemble “Les Musiciens du Prince”. La sua assunzione a direttore dell’Opéra de Monte-Carlo nel settembre 2022 è cronaca attuale.

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

112 pagine, numero uno, giugno 2023

Madama Butterfly, l’orientale

Il numero uno della rivista Calibano rimane sul tema del razzismo affrontando questa volta i luoghi comuni sulla donna orientale. Spunto dell’analisi è la produzione all’Opera di Roma di Madama Butterfly, il capolavoro di Puccini «che naturalmente non deve in alcun modo essere messo in discussione, anche perché Puccini, con la sua immensa arte e la sua acutissima sensibilità, crea una figura femminile che nella sua tragicità smaschera l’ipocrisia del maschio occidentale. Pinkerton la vorrebbe come un trastullo servizievole, ma Butterfly si eleva su di lui di mille altezze con la sua umanità potentissima», scrive Paolo Cairoli direttore della pubblicazione.

Nei dotti interventi si parla del rapporto del compositore con le donne, del giapponismo, di geishe e prostitute, ma anche di manga, teatro kabuki e dell’influenza del Giappone sull’immaginario architettonico novecentesco, sulla moda, nel cinema.

Sempre intriganti le illustrazioni create con Text To Image, il software di intelligenza artificiale a cui sono fornite parole chiavi o brani contenuti nel testo degli articoli, oltre a specifiche indicazioni stilistiche, perché si generino immagini in un processo ripetuto più volte per ciascuna immagine fino a raggiungere il risultato desiderato: il frutto di una comunicazione ciclica fra persona e macchina.

Non si può mai stare tranquilli

 

Pier Luigi Pizzi, Non si può mai stare tranquilli

286 pagine, EDT, 2023

Un fiume in piena, dilagante, incontenibile. Non si possono definire altrimenti le memorie autobiografiche di Pier Luigi Pizzi raccolte da Mattia Palma durante varie conversazioni/interviste.

All’età di 93 anni, cosa difficile da credere per la prestanza e l’inesauribile vitalità del Maestro, lo scenografo-regista-costumista apre la stura dei suoi ricordi di oltre settant’anni di carriera. “Incontri di vita e di teatro”, dove vita e teatro formano un insieme inscindibile.

Con un labile ordine cronologico sempre interrotto da divagazioni, si dipana la catena dei suoi ricordi, che non hanno mai un tono nostalgico ma l’immediatezza del presente e riaffiorano i nomi dei personaggi che hanno fatto la storia del teatro e del cinema in Italia a partire dal 1950. Da Marta Abba – proprietaria dei diritti delle commedie di Pirandello, che Pizzi incontrò nella sua villa liberty chiamata “Trovarsi”, come la commedia che sarebbe andata in scena al Teatro Valle di Roma con la Compagnia dei Giovani nella sua seconda formazione, quella con Rossella Falk Ugo Pagliai, Elsa Albani e Nora Ricci: «Toccò a me andare a spiegarle il progetto. […] Aveva fama di essere scontrosa, quindi mi aspettavo il peggio; invece fu molto amabile. Guardò con interesse i bozzetti delle tre scene e si soffermò a lungo sui figurini, che le piacquero. Mi trattenne a colazione e mi incantò con il racconto del suo passato di attrice, di Pirandello, della sua vita in America tra il teatro a Broadway e gli agi di Cleveland, dove aveva vissuto con il marito miliardario. Era già sera quando ripresi la macchina per tornare a Roma. Durante tutto il viaggio, risentivo il suono della sua voce fascinosa. Aveva sedotto anche me» – a Valerio Zurlini, uno dei protagonisti di un’ilare vicenda: «Per Le fate di Bolognini chiesi a un mio assistente scenografo di fabbricare un falso Burri con un sacco e del catrame. Nessuno dubitò dell’autenticità del quadro, che ogni sera veniva messo scrupolosamente al sicuro. Alla fine delle riprese, divertito dagli unanimi apprezzamenti, decisi di appenderlo nel mio studio in via del Babuino. Ci cascò perfino Valerio Zurlini, esperto d’arte contemporanea. Un giorno una giornalista che mi aveva intervistato mi fotografò accanto a quel quadro. Dopo qualche tempo mi telefonò per dirmi che aveva mostrato la fotografia a Burri, il quale senza esitazioni aveva rifiutato la paternità dell’opera. Rimasi colpito e se possibile la mia stima per l’artista crebbe maggiormente. Ho fatto subito distruggere quel falso: mi ero divertito abbastanza».

Questi sono solo due esempi della verve del Maestro che con estrema nonchalance snocciola uno dopo l’altro aneddoti e giudizi sui personaggi che ha incontrato nella sua lunga carriera e di cui talora svela i lati nascosti, non sempre lusinghieri. Ed è nel raccontare gli aspetti meno edificanti dei personaggi più famosi l’aspetto più divertente dei suoi scritti.

Pizzi fa anche luce su elementi meno conosciuti, come quelli relativi al film mai realizzato di Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, progetto andato in fumo perché il regista, superstiziosissimo, si affidò al responso di Gustavo Rol, il veggente torinese: «Un giorno decise di andare a chiedergli un parere sul film, io aspettavo il verdetto con Giulietta nella loro casa di Fregene. Federico incontrò Rol, che disse di non aver bisogno di leggere la sceneggiatura: la conosceva già. Fece comparire il suo responso direttamente in una tasca della giacca di Federico, che non ebbe però il coraggio di aprire la busta fino al suo rientro a Roma, la sera. Quando finalmente arrivò a casa, divorato dall’ansia, lesse la lettera davanti a noi: Rol lo invitava categoricamente a rinunciare». E così fu.

“Non si può mai stare tranquilli” dice il titolo: è il tormentone con cui Pizzi commenta le sorprese e i capovolgimenti nei giochi della vita, quella vita di cui si considera un superstite in lista d’attesa: «Ma non mi pare giusto congedarmi in tono malinconico. Il sentimentalismo patetico non mi appartiene. Preferisco continuare a battermi, a restare in trincea. È curiosa la sensazione del sopravvissuto che, ancora in piena attività, firma contratti per gli anni successivi come se niente fosse, come se avesse davanti l’eternità. […] Ho ancora tante opere da interrogare, e intendo farlo aspettando nuove risposte. Il cielo può attendere».

Gran Teatro Italia

 

Alberto Mattioli, Gran Teatro Italia

186 pagine, Garzanti Editore, 2023

Io ho talora dato scandalo affermando che entrare in un teatro mi dà un’emozione più intensa di quando entro in una chiesa. E non è solo il fatto che non sono un credente e di un edificio religioso mi interessa principalmente l’aspetto architettonico o quello artistico dei suoi arredi.

Entrando in un teatro sento palpabile il senso del mistero di quello che avverrà e niente mi dà maggiormente il senso della comunità umana di quanto lo faccia il pubblico accorso per condividere con me un’esperienza dove la finzione – dichiarata tale – diventa l’unica realtà possibile. Attraverso lo specchio come Alice quando entro nel posto più strano di tutti, dove la luce naturale è bandita e nel buio può succedere qualunque cosa. Soprattutto nel teatro in musica, dove invece di parlare si canta su uno sfondo orchestrale.

Qualcosa del genere lo deve provare anche Alberto Mattioli, l’autore di questo testo che ha come sottotitolo “Viaggio sentimentale nel paese del melodramma”. Il Grand Tour che ci propone è infatti quello dei luoghi in cui si celebra il melodramma in Italia, il paese in cui i teatri sono stati, e sono, qualcosa di più di un semplice luogo d’incontro: «se in passato fra palchi e gallerie si indugiava per farsi notare, e nei ridotti si discuteva di politica e si giocava d’azzardo, ancora oggi i teatri si confermano il fulcro della vita civile e culturale – oltre che musicale – di ogni città».

Per me le città italiane, soprattutto quelle piccole, sono indissolubilmente legate all’immagine del loro teatro lirico: Piacenza, Parma, Macerata, Novara, Ravenna… sono quello che sta intorno al Municipale, al Regio, allo Sferisterio, al Coccia, al Comunale… Ma anche quelle grandi non sarebbero le stesse se Venezia non avesse La Fenice, Napoli il San Carlo, Genova il Carlo Felice, Milano La Scala…

E dalla Scala inizia necessariamente il viaggio di Mattioli. Il teatro milanese, il “Tempio della lirica”, costituisce la Sinfonia iniziale della sua opera che prevede anche un Intermezzo dedicato ai teatri mini – quelli con meno di 100 posti come il Concordia di Monte Castello di Vibio (PG), il Cittadino di Noicattaro (BA), il Rustici di Monteleone di Orvieto, il Comunale di Penna San Giovanni (MC) o il Salvini di Pieve di Teco (IM) da me scoperto per caso un anno fa – e si conclude con un Finale dedicato al Teatro Greco di Siracusa in cui non si fa opera, d’accordo, ma si fa quello che è il suo diretto antecedente, ossia la tragedia classica e che l’estate scorsa ha visto al lavoro sulle sue pietre due registi che generalmente fanno l’opera, ossia Davide Livermore, con l’Agamennone di Eschilo, e Robert Carsen, con l’Edipo re di Sofocle.

Il viaggio sentimentale di Mattioli lungo la penisola si svolge a zig zag da Nord a Sud: dopo Milano e Torino l’Emilia Romagna, la regione più ricca di teatri ancora in funzione. Quindi Venezia e Verona, con il caso sui generis dell’Arena, Firenze, le Marche, un’altra regione ricca di splendidi teatri, Roma, Napoli, Palermo in Sicilia. Manca l’altra isola, la Sardegna, e il Lirico di Cagliari forse avrebbe meritato una menzione.

Ma quello di Mattioli non è un elenco di luoghi dello spettacolo. È un elenco dei luoghi del cuore, della sua passione “smodata” (il termine è suo) per quello che è stato, fino a non molto tempo, fa l’evento culturale più importante e diffuso nel nostro paese. Quello che fin dalle origini a inizio Seicento, poi per tutto il Settecento e per buona parte dell’Ottocento ha fatto conoscere l’Italia all’estero – e agli italiani – : l’opera di Monteverdi, Vivaldi, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi. In ogni teatro l’autore rivive le passioni e le idiosincrasie che suscitano le differenti atmosfere. Ecco allora la Scala di Milano, Il primo teatro del mondo? Magari no, ma quello che in Italia maggiormente si identifica con la sua città e viceversa, con il suo rito della prima a Sant’Ambrogio che riesce a far parlare tutti, anche quelli che non vi hanno mai messo il piede dentro. Se passiamo alla capitale, l’Opera di Roma si rivela lo specchio dei vizi della sua città: «a irritarmi davvero fu il pubblico», scrive Mattioli, «non sembrava nemmeno di essere a teatro, anzi di starci, come si dice a Roma, semmai su qualche terrazza nei casi migliori o al mercato in quelli peggiori. Era tutta una chiacchiera, un arrivare in ritardo, un entrare e uscire dai palchetti sbattendone le porte». E poi gli abiti, con la sindaca Virgina Raggi presentatasi alla prima con «un incrocio tra la divisa di un ammiraglio sudamericano e i divani dei Casamonica». A Palermo ha invece una singolare vicenda con il green pass in tempo di Covid, una vicenda che conferma come «la Sicilia sia un’Italia all’ennesima potenza, dove le glorie e le miserie, le grandezze e le meschinità, i fasti e i disastri e insomma le contraddizioni nazionali vengono portate all’estremo, nel bene e nel male».

La pungente penna dell’autore non risparmia nessuno e nulla dell’ambiente dell’opera in Italia, ma ogni parola della sua brillante prosa trasuda l’incommensurabile amore per questa forma d’arte alla quale ha dedicato tanti suoi scritti e continua a dedicare molta parte della sua esistenza. Quello che esce fuori però non è un modello di teatro chiuso nel suo guscio autoreferenziale, ma un essere vivo e palpitante che si rinnova ogni giorno, con buona pace delle anime candide dei Melomani Medi che vorrebbero vedere sempre la stessa Bohème o Traviata. Possibilmente con le stesse voci di un tempo…

Il canto della scienza

 

Giulia Vannoni, Il canto della scienza

184 pagine, Bulzoni Editore, 2022

Non solo amori, passioni o imprese eroiche sono stati cantati nel melodramma. “Come il teatro musicale interpreta Galileo, Einstein e gli altri” è il sottotitolo di questo testo che tratta della musica che ha per oggetto uno scienziato, un argomento che è diventato importante solo nel XX secolo. Non è che prima fossero assenti nel melodramma, ma erano motivo di umoristica presa in giro, come il Mesmerismo di Despina del Così fan tutte o il medico imbroglione Dulcamara de L’elisir d’amore o inquietante presenza, come lo Spalanzani costruttore di automi di Les contes d’Hoffmann.

Come risulterà evidente dall’elenco troveremo solo compositori ancora viventi o comunque appartenenti al Novecento: l’Ottocento a questo proposito si comporta «quasi come un buco nero», com’è il titolo dell’ultimo capitolo del libro. Buon gioco ha avuto ovviamente l’elemento irrazionalista e antiscientifico del Romanticismo nel XIX secolo, ma è anche la mancanza di una sponda letteraria indispensabile la causa di una tale trascuratezza.

Nel suo testo Vannoni prende in considerazione tutte le opere musicali che hanno come soggetto uno scienziato, dal passato ai giorni nostri. Primi fra tutti i giganti dell’astronomia. Copernico e la sua rivoluzione eliocentrica nel Kopernikus, Rituel de la mort (1980) di Claude Vivier, Copernicus (2015) di Oliver Korte, la Seconda Sinfonia “Kopernikowska” (1973) di Henryk Górecki. Il misterioso Brahe entra come personaggio del Musikdrama Der Golem (1926) di Eugen d’Albert o nel Tycho (1987) di Poul Ruders. Keplero e la sua “Armonia delle sfere” in Die Harmonie der Welt (1952) di Paul Hindemith, Keplers Traum (1990) di Giorgio Battistelli e Kepler (2009) di Philip Glass. Lo stesso Glass aveva scritto Galileo Galilei sette anni prima. Sul dramma Leben des Galilei di Bertolt Brecht si basano il Galileo Galilei (1964) di Corneliu Cezar e il Galilei (2006) di Michael Jarrell. Newton si deve accontentare invece di essere menzionato nella Émilie (2010) di Kaija Saariaho che dedica il suo “monodramma in nove scene” alla marchesa Émilie du Châtelet a cui si deve la divulgazione, durante l’Illuminismo, dei Principia.

“La scienza conosce il peccato” è il titolo del capitolo dedicato da Vannoni agli scienziati del Novecento. Con Albert Einstein i compositori moderni prendono a modello il massimo fisico del secolo per parlare della problematicità della scienza e del suo rapporto con la politica, la società e l’ambiente, come nell’Einstein (1974) di Paul Dessau. Mentre Einstein on the Beach (1976), ancora di Philip Glass, è opera metafora della relatività di spazio e tempo in una composizione che ha rivoluzionato il teatro d’opera grazie alla regia e alla drammaturgia di Robert Wilson, le coreografie di Lucinda Childs, la poesia di Christopher Knowles, la recitazione di Samuel M. Johnson.

Al nostro passato prossimo appartengono anche le figure di Marie Curie, soggetto di Madame Curie (2011) di Elżbieta Sikora; Robert Oppenheimer, il personaggio tormentato di Doctor Atomic (2005) di John Adams; Ettore Majorana, figura emblematica della questione morale nella scienza moderna e carica di mistero irrisolto. Al fisico siciliano si è dedicato il compositore italiano Roberto Vetrano con la sua “opera in n variabili” Ettore Majorana, Cronaca d’infinite scomparse (2017).

Ma la figura scientifica che ha maggiormente stuzzicato la fantasia dei musicisti sembra sia al momento Turing: The Life and Death(s) of Alan Turing (commissionato nel 2005 ma andato in scena solo nel 2023) di Justine F. Chen; Enigma, The Life and Death of Alan Turing (2012) di Barry Truax; Code Breaker: the Alan Turing Story (2014) di James McCarthy, per soprano solo, coro e orchestra; Sentences (2015), monologo drammatico per controtenore e orchestra di Nico Muhly; Anathema: the Turing Opera (2017) di William Antoniou; Turing Machine (2008), lavoro multimediale composto da una trilogia e due installazioni dei finlandesi Eeppi Ursin e Visa Oscar. Ma forse il lavoro più intrigante è I am Turing (2020), progetto di Matthew Suttor e un team dell’Università di Yale: un dialogo tra macchine e un libretto generato tramite un modello di intelligenza artificiale.

La mappatura di Giulia Vannoni continua con le figure di Darwin, soprattutto i suoi conflitti famigliari come in Darwin (2017) del compositore danese Niels Marthinsen e On the Origin (2010), ancora di Justine F. Chen. Sulla figura di Tesla l’azione drammaturgica in tre scene Tesla (2009), dell’italiano Raffaele Grimaldi, o Les éclairs (2021) di Philippe Hersant.

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

128 pagine, numero zero, gennaio 2023

Aida, blackface

L’Opera di Roma ha deciso di creare una rivista che non sia strumento di promozione e diffusione delle sue attività, bensì mezzo di riflessione, approfondimento e dibattito prendendo lo spunto dagli spettacoli programmati dal teatro. «Viviamo tempi in cui troppo spesso si tende a banalizzare o semplificare fenomeni complessi. E invece la complessità va affrontata senza remore nella sua sfaccettata e talora anche ambigua ricchezza. Perché la scelta di un titolo o la scelta di un allestimento di quel titolo, oggi più di ieri, ha il senso di proposta progettuale e deve fare i conti con la necessità e la responsabilità di uno sguardo aperto e attento a tutte le sensibilità contemporanea. Perché bisogna osare, bisogna avere il coraggio di affrontare i problemi del nostro tempo piuttosto che sfuggirli o evitarli nel neutro tuo silenzio delle scelte più comode. Perché il pubblico deve interrogarsi con noi.perché il teatro è il luogo dove nascono tante domande e si ragiona (meglio se insieme) sulle risposte possibili» scrive il sovrintendente Francesco Giambrone. L’opera continua a raccontare anche oggi i grandi temi che ci riguardano.

In controtendenza alla resa ormai generale agli strumenti e alla comunicazione on line, la scelta di una rivista cartacea implica una scelta coraggiosa, ossia la creazione di uno spazio affascinante per ragionare insieme e per interrogarsi sulle scelte di programmazione di un teatro, scelte dettate dalla esigenza di proporre al pubblico temi di riflessione legati al nostro tempo. Nelle parole del direttore Paolo Cairoli: «Vogliamo fermarci. Per una volta vogliamo rallentare, approfondire e, perché no studiare. E vogliamo invitarvi a farlo insieme a noi. Allargando un po’ i confini e spingendoci più in là di quello che già sappiamo e pensiamo di un’opera, sfruttando quei temi e quelle idee con cui il teatro e la musica ci mettono a confronto. Ogni sei mesi circa produrremo quindi un volume, che sfiori anche solo tangenzialmente un nostro spettacolo. Un’occasione per scavare un po’ lì intorno. Agganciandoci alla nostra nuova produzione di Aida e alla problematica del blackface che oggi inevitabilmente essa porta con sé, abbiamo scelto di iniziare parlando di razzismo».

Questo numero zero ospita dunque interventi sull’argomento di vari autori (Neelam Sricastava, Sandro Portelli, Andrea Peghinelli, Ilaria Narici, Daniele Cassandro, Costanza Rizzacasa, Marialaura Agnello, Enrico Ferraris, Paolo Pecere…) illustrati da immagini digitali generate con tecnologia Text To Image, un software di intelligenza artificiale che elabora figure dopo che gli sono state fornite delle parole chiave o brani contenuti nel testo. Credo sia la prima volta che una rivista italiana utilizza un metodo di questo tipo. Un ulteriore motivo di interesse per questo inedito prodotto editoriale.