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Mark Grey, Frankenstein
★★★☆☆
Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 15 marzo 2019
(diretta streaming)
«Farewell, Doctor Frankenstein»
In alto, sul boccascena dell’iperdecorata sala della Monnaie di Bruxelles campeggia БУЭЛУДЖА. La scritta in cirillico si riferisce alla località bulgara di Buzludža, un’altura su cui sorge la Casa Monumento del Partito Comunista Bulgaro, una costruzione futuristica in cemento di forma circolare inaugurata nel 1981. Al levarsi del sipario se ne vedrà la forma sotto la neve e un video ci porterà dentro la struttura. Dall’alto si calano delle persone, i sopravvissuti alla nuova era glaciale in cui è piombata l’umanità in un lontano futuro. Da un foro del pavimento viene issato un blocco di ghiaccio trovato nel permafrost in un luogo dalle precise coordinate spaziali (quelle appunto del monumento in Bulgaria) e temporali (1816, l’anno in cui Mary Shelley scrive il romanzo Frankenstein, or the Modern Prometheus).
La presunzione dello scienziato è la stessa: qui non si tratta di pezzi di cadaveri assemblati in una “creatura” come nel romanzo ottocentesco, ma del recupero di un corpo inanimato sepolto nel ghiaccio per secoli a cui ridare vita e, ahimè per lui, memoria: «When science allows, we recompose whatever the ice chose for us to see» dice nel libretto di Júlia Canosa i Serra il dottor Walton, «mysterious hints from bygone gods». (1)
Come nel film Metropolis di Lang, anelli di luce avvolgono il blocco e alla fine rimane il corpo nudo di un uomo rimasto ibernato. Scariche elettriche lo riportano in vita. Arriva il dottor Frankenstein eccitato dal successo ma deluso dalla mostruosità della creatura. A lui si unisce la moglie Elisabeth e insieme inneggiano all’amore eterno. La creatura nel frattempo si è nascosta mentre uomini con le torce gli danno la caccia e non sarà l’ultima volta che verrà cacciato per la sua deformità. O forse è solo un suo incubo, o meglio un flashback della sua memoria: realtà e ricordi si mescolano in modo indecidibile. Poi la creatura acquista con fatica la parola. Solo un cieco che non lo vede ha pietà di lui e una ragazza accusata di un omicidio (chissà, forse commesso dal mostro) viene giustiziata. La creatura viene di nuovo sedata e il coro discute sull’utilità dell’operazione di recupero: «We will still be alone in these plains of ice. His tale a fading echo in this infinite white». (2) Nella scena seguente vediamo che la creatura rinfaccia a Frankenstein quello che ha fatto e gli chiede di dargli una compagna. Già prima il libretto aveva inneggiato al rapporto di coppia: «I seek for fellowship […] in pair, as its [sic] combined. Not bird with beast, nor fish with fowl. Man with woman. Not man alone». (3) Il dottore acconsente purché i due si allontanino per sempre dal consorzio umano e in una scena di truculenta macelleria inizia a costruirgli una fidanzata, ma poi si arresta e si rifiuta di procedere: la creatura allora gli uccide la moglie Elisabeth. Il tutto sempre sotto lo sguardo degli altri scienziati. Frankenstein si dispera. Scende la neve e la creatura muore.
Chi se non La Fura dels Baus poteva mettere in scena questa rilettura in forma fantascientifica del classico della Shelley? Àlex Ollé crea un allestimento molto tecnologico, cinematografico e spettacolare grazie alle scene di Alfons Flores, le luci di Urs Schönebaum, i costumi di Lluc Castells e soprattutto i video di Frank Aleu. Ma è solo spettacolare, senza una vera drammaticità – difficile da ottenere con un libretto verboso e filosoficamente “pesante”come questo, con personaggi senza spessore e senz’anima. Il tema delle possibilità e dei limiti della scienza rimane qui una discussione accademica che non sembra prestarsi molto, in questa forma, al teatro in musica. Altri ci sono riusciti in maniera più convincente, come ad esempio John Adams con Doctor Atomic per citare un’altra opera contemporanea.
Frankenstein era stato concepito già nel 2011 dallo stesso collettivo catalano e la scrittura della partitura era stata affidata a Mark Grey, sound engineer che aveva collaborato con Philip Glass, Steve Reich e John Adams e infatti in questa sua prima opera si avverte in parte l’influsso minimalista dei tre compositori americani. La musica si accontenta di sottolineare le tensioni drammatiche della vicenda stendendo un tappeto sonoro strumentalmente elaborato ma senza pathos sotto la monotona declamazione su gradi contigui dei personaggi. Se i primi minuti dell’opera sono promettenti, poi però subentra un senso di stanchezza appena scosso dai momenti in cui in orchestra affiora una certa originalità strumentale.
Alla voce quasi bianca di Topi Lehtipuu è affidato il personaggio della creatura, l’unico con un minimo di complessità. Il ruolo di Victor Frankenstein è stato scritto appositamente per Scott Hendricks dal suo amico compositore, mentre Eleonore Marguerre (Elisabeth) intona in maniera ossessiva i suoi peana all’amore. Supplente quasi all’ultimo momento del maestro concertatore originariamente previsto, Bassem Akiki sembra dominare con efficacia l’orchestra. Spesso presente è il coro diretto da Martino Faggiani.
Il lavoro doveva vedere il debutto nel 2016, nel bicentenario della pubblicazione del romanzo, ma problemi col primo librettista e poi con la riapertura della Monnaie dopo i restauri hanno fatto rimandare ad oggi la presentazione. In questo senso l’opera sembra risentire di una certa mancanza di freschezza di ispirazione a otto anni dal concepimento.
(1) «Quando la scienza lo consente, ricomponiamo tutto ciò che il ghiaccio ha scelto di farci vedere. Indizi misteriosi di deità passate».
(2) «Noi saremo ancora soli in queste pianure di ghiaccio. Il suo racconto un’eco che si affievolisce in questo bianco infinito».
(3) «Cerco una comunione in coppia, come deve essere. Non uccello con belva, né pesce con pollo. Uomo con donna. Non uomo solo».

⸪