Mese: ottobre 2017

Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★★★

Berlino, Komische Oper, 15 ottobre 2017

(video streaming)

Erotismo e horror nel Debussy di Kosky

Barrie Kosky, che ha fatto della Komische Oper di Berlino uno dei più innovativi e stimolanti teatri d’Europa, stupisce ancora una volta con un allestimento completamente differente da quanto aveva finora proposto. Niente di sgargiante o irriverente in questa produzione dell’unicum teatrale di Debussy. Davanti ai nostri occhi si sviluppa infatti una vicenda cupa e inquietante.

Ritagliata in un sipario azzurro dipinto, la scenografia è un diorama formato da una fuga di cornici en abîme che formano uno spazio chiuso ossessivo e raggelante le cui proporzioni sono quelle di un vecchio fotogramma. Il colore nero e i pallini rotondi, che ricordano le perforazioni di una pellicola, rafforzano l’idea che si confermerà nella scena della discesa alla grotta vissuta come in un vecchio film del terrore dalla pellicola rigata. Il richiamo al cinema espressionista tedesco, scopertamente voluto nel suo Flauto magico, qui è più filtrato e stilizzato da Kosky e dal suo scenografo Klaus Grünberg: un insieme di elementi rotanti permette ai personaggi di entrare e uscire senza mai quasi camminare, come fossero tanti Nosferatu in un incubo dalle evidenti valenze psicanalitiche.

In scena nessun oggetto, tutto è affidato al gioco luci, dello stesso Grünberg, che suggeriscono non tanto gli ambienti quanto gli stati d’animo dei personaggi, ognuno dei quali è caratterizzato da una particolare gestualità, un linguaggio di corpi costretti in una scatola angusta: Pelléas entra in scena come un ragazzone introverso, spalle curve, testa bassa; Golaud avrebbe un carattere più arrogante se anche lui non fosse angosciato fisicamente e psicologicamente, il che non giustifica la sua natura violenta; Arkel è un vecchio losco; Yniold un ragazzino nervoso che si mangia le unghie e ha un rapporto tormentato col padre Golaud; Geneviève sembra l’unica figura stabile in questa famiglia sconnessa. Mélisande è la giovinezza che sconvolge questo castello abitato da vecchi, è l’unica viva, con abiti colorati che cambia per sottolineare i cambiamenti del suo ruolo da adolescente sperduta a sposa, da amante a madre. Tutti gli altri personaggi sembrano già morti fin dall’inizio e non ci si stupisce quando nell’ultima scena anche Pelléas, appena ammazzato dal fratello, si unisce anche lui alla galleria di morti viventi che assistono alla morte – questa sì vera – di Mélisande.

La lettura cameristica e sensibilissima del direttore canadese Jordan de Souza dà grande spazio ai cantanti, come quando riduce al silenzio l’orchestra al momento del bacio dei due giovani per far sentire solo i loro respiri. La sua performance tocca i vertici della liricità negli interludi strumentali che mettono la voglia di ascoltare questo giovane concertatore anche in un altro repertorio.

Per una lettura così particolare e intensa occorreva un cast altrettanto particolare e intenso e qui, a cominciare dalla Mélisande di Nadja Mchantaf, l’abbiamo. Il suo sguardo perduto, la fisicità del corpo con le braccia che annaspano o si trasformano in ramo si alleano a una vocalità dal timbro particolare che si esprime in modi tormentati nel delineare una figura che cerca la luce, una via d’uscita, anche solo una finestra, che qui non c’è, per uscire da una condizione di vittima angosciata. Il giovane soprano tedesco ha come antagonista il nevrotico Golaud – sempre incerto tra la ricerca della verità e la gelosia irrazionale, l’amore disperato e la violenza gratuita – reso molto efficacemente da Günther Papendell. Dominik Köninger, il protagonista dell’Orpheus di Kosky di cinque anni fa, qui è un sensibile Pelléas dal chiaro timbro baritonale. Il basso Jens Larsen dà voce a un inquietante Arkel, mentre Nadine Weissmann è una sicura Geneviève. Eccellente il giovane interprete di Yniold, proveniente da uno dei tanti cori di voci bianche che qui al sud delle Alpi neanche riusciamo a concepire.

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Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 28 ottobre 2017

(diretta video)

Gli incubi di Figaro

Come aveva già fatto Claus Guth nelle sue Nozze di Figaro a Salisburgo, anche Christof Loy qui alla Bayerische Staatsoper legge la commedia in chiave psicologica.

Mentre il direttore Constantinos Carydis snoda a velocità frenetica le note dell’ouverture, in scena appare un minuscolo teatrino di marionette che riproduce esattamente la sala del Nationaltheater di Monaco. Alle due marionette che rappresentano Figaro e Susanna in abiti moderni si aggiunge un gigante umano che sbuca nel teatrino ma subito ne viene espulso e si trova spaventato in quell’altro teatro, ben più pericoloso, che è il teatro del mondo.

La stanza rococo in cui si dipana la vicenda, con la sua alcova che riproduce un giardino, ha porte piccolissime in cui i personaggi fanno fatica a passare. Le stesse porte si ingrandiranno nel corso della rappresentazione fino a diventare gigantesche: come in Alice nel paese delle meraviglie questa folle journée è un incubo nella mente di Figaro, un incubo in cui i ruoli si sono scambiati e i burattinai sono diventati burattini: ognuno si illudeva di poter manipolare gli altri, ma così non è stato e i rapporti di potere tra le classi non sono mutati e il Conte, anche se momentaneamente umiliato, rimarrà tale mentre Figaro rimarrà servo.

Non solo dal punto di vista visivo è sorprendente questa produzione, lo è anche musicalmente: la frenesia di Carydis nell’ouverture la ritroviamo ancora in alcune arie, ma altrove invece il respiro dell’orchestra si allarga fino quasi a un silenzio sospeso che forma delle pause nei recitativi che, come nei dialoghi del Ratto dal serraglio dello stesso Loy, hanno un’intensità teatrale inusuale in questa commedia. I recitativi sono qui accompagnati da un fortepiano che spesso improvvisa e divaga fin quasi dentro le arie che gli strumenti d’epoca dell’orchestra del teatro propongono in una luce inedita che rende le immortali melodie mozartiane come ascoltate per la prima volta, e ci si chiede se un certo effetto timbrico sia sempre stato presente nella partitura o sia un’invenzione di Carydis – il fatto che questi abbia la stessa nazionalità di quell’altro direttore greco, l’imprevedibile ed eterodosso Teodor Currentzis, fa sorgere talvolta questo dubbio. Ma a un primo ascolto non sembra che sia stato aggiunto nulla di quanto non previsto, tranne… ma ci arriviamo dopo.

Nel cast vocale le due figure maschili di Figaro e del Conte sono affidate a due interpreti diversissimi. Per Alex Esposito non è la prima volta di Figaro, ma il cantante riesce ancora ad affinare la sua interpretazione con colori ed espressioni che raggiungono la perfezione. Non c’è frase nel suo «Se vuol ballare signor Contino» che si ripeta allo stesso modo, il tono è ora sibilante ora mellifluo ora minaccioso, il timbro sempre pieno, la presenza scenica semplicemente strepitosa, l’uso del corpo e le espressioni del viso da manuale. Completamente diverso il Conte di Christian Gerhaher. Il baritono tedesco non è il Conte fascinoso e seduttore portato in scena da Fischer-Dieskau, Gilfry, Hampson, Spagnoli, Finley o Keenlyside tra i tanti. Il suo è un Conte introverso, immalinconito, vendicativo, rancoroso e piuttosto che alla apparenza fisica affida a un canto tutto finezze la definizione del personaggio.

Vocalmente efficace ma tutt’altro che brillante, anzi spesso inquieta e turbata è Olga Kulchyinska. La sua Susanna non dà l’idea che la relazione con Figaro possa durare molto. Fisicamente e vocalmente sontuosa è la Contessa di Federica Lombardi che ha destato i maggiori apprezzamenti del pubblico con il suo «Dove sono i bei momenti» tutto mezze voci e legati perfettamente realizzati e con variazioni intriganti. Timbro sgradevole invece quello del Cherubino di Solenn’ Lavanant-Linke la quale però ha giocato bene la carta della presenza scenica soprattutto quando delinea un Cherubino compiaciuto del suo ruolo di travestito. Molto bene il coro e gli altri comprimari, compreso il Basilio di Manuel Günther per il quale viene ripristinata l’aria «In quegl’anni in cui val poco».

Un po’ sprecato qui Paolo Bordogna come Don Bartolo, mentre da Anne Sofie von Otter ci saremmo aspettati una Marcellina dalla voce meno chioccia. Ma la cantante ci sorprende quando nel quarto atto invece de «Il capro e la capretta», per consolare Figaro, il figlio appena ritrovato, intona un lied di Mozart, Abendempfindung KV 523, questo sì impeccabilmente eseguito con accompagnamento del fortepiano. L’inaspettato canto – «Bald entflieht des Lebens bunte Szene. | und der Vorhang rollt herab. | Aus ist unser Spiel! Des Freundes Träne | fliesset schon auf unser Grab» (Presto trapassa la variopinta scena della vita e cala il sipario. È finita la nostra rappresentazione! Le lacrime dell’amico scorrono già sulla nostra tomba) – apporta un’ulteriore nota di mestizia alla lettura di questa “opera buffa”.

Stagione sinfonica RAI

Antonín Dvořák, L’arcolaio d’oro, poema sinfonico op. 109
Gustav Mahler, Das Klagende Lied, cantata in tre parti op. 1

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 26 ottobre 2017

Due macabre leggende per Conlon

In Dvořák da un arcolaio esce una voce magica che racconta della bella Dornička assassinata dalla matrigna. In Mahler l’osso di uno scheletro incavato a mo’ di flauto quando viene suonato rivela di un giovane assassinato dal fratello.

Le macabre fiabe della letteratura germanica sono alla base delle scelte dei due compositori. Per il primo il numero d’opus ci dice trattarsi di un lavoro della maturità scritto al rientro dall’America nel 1896 e facente parte di un ciclo di quattro poemi sinfonici ispirati alle ballate dello scrittore Karel Jaromír Erben.

Tratto dalle fiabe dei fratelli Grimm e scritto quando Mahler era diciottenne Das Klagende Lied (Il canto del lamento/della denuncia) fu eseguito solo nel 1901 e, anche se non si può considerare la sua Sinfonia zero, ha già tutte le caratteristiche del suo stile accanto a una dimensione teatrale – il taglio in tre parti, l’orchestra fuori scena, il trattamento degli interventi dei solisti e del coro – che sarà tipica delle sue sinfonie.

James Conlon dà una lettura lucida e vigorosa dei due lavori e in quello di Mahler impegna il valido quartetto di voci di Aga Mikolaj, Yulia Matochkina, Brenden Gunnell e Thomas Tanzl.

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★☆☆

Venezia, Teatro la Fenice, 20 ottobre 2017

(video streaming)

La furia distruttrice di Don Giovanni

Damiano Michieletto aveva allestito al Festival Mozart de La Coruña del 2006 un Don Giovanni un po’ particolare: il Dissoluto punito ossia Don Giovanni Tenorio del catalano Ramón Carnicer i Batlle. Poi a partire dal 2010 aveva presentato alla Fenice la trilogia dapontiana il cui primo allestimento fu questo Don Giovanni d.o.c. ora riproposto a chiusura della stagione lirica 2016-2017 del teatro veneziano. La sua lettura è l’elemento più interessante di questa ripresa.

Michieletto propone un Don Giovanni alle prese con le sue passioni nevrotiche e le sue pulsioni violente che investono tutti gli altri personaggi i quali diventano fantocci nelle sue mani. Nessuna coppia sopravviverà, neanche quella dei popolani Masetto e Zerlina, meno che mai quella di Don Ottavio e Donna Anna, la quale neanche finge di sopportare l’inetto fidanzato. Tutti cadranno a terra come marionette a cui hanno tagliato i fili. Il caotico avvicendarsi delle scene – questa sì che è un’altra “folle journée” – porta all’orgia finale (come nel suo Dissoluto punito) e dove il Commendatore più che personaggio dell’altro mondo è la materializzazione delle ossessioni del libertino, probabilmente nei confronti della figura paterna, ossessioni che esorcizza con una frenetica attività, non solo sessuale.

La macchina claustrofobica che stritola Don Giovanni e compagni è qui resa mirabilmente dalla geniale scenografia di Paolo Fantin: una struttura girevole che forma i diversi ambienti settecenteschi di un palazzo labirintico che ha il marchio della decadenza negli specchi anneriti dalle candele e nelle pareti damascate in un color verde che dà un tono di umido e ammuffito ai muri che immaginiamo sorgere dalle acque dei canali veneziani. Anche i bellissimi costumi di Clara Teti sono sontuosi, ma lisi, come se avessero dovuto sopportare scontri fisici di tutti i generi. Completano la geniale messa in scena le luci radenti di Fabio Barettin che con le loro ombre sembrano raddoppiare i personaggi. Accuratissima come sempre nelle regie di Michieletto la cura attoriale e le mille trovate talora sorprendenti come la bella scena tra Leporello e Donna Elvira del primo atto, o il rapporto tra Zerlina e Masetto, o il ballo in casa di Don Giovanni reso come un lugubre gioco di mosca cieca dopo che tutte le candele sono state spente.

Anche la direzione di Stefano Montanari ha un che di nevrotico, con ritmi secchi e nervosi che si alternano a momenti di rilassato abbandono, ma comunque il mai ortodosso maestro riesce a mantenere un buon equilibrio tra le voci e la fossa dell’orchestra. La versione da lui scelta è quella originale di Praga con l’aggiunta delle due arie dalla versione viennese «Dalla sua pace» e «Mi tradì quell’alma ingrata», come è prassi comune.

Due diversi cast si alternano nelle recite. In quella del 20 ottobre Carmela Remigio come nel 2010 è Donna Elvira. Il temperamento della cantante bilancia in parte il timbro non felice e l’emissione a dir poco peculiare del suono. La sua ultima aria («Mi tradì quell’alma ingrata») è resa in maniera quasi espressionistica mentre tutta la struttura scenografica ruota vertiginosamente a rispecchiare il suo delirante smarrimento. Francesca Dotto ha una voce un po’ troppo leggera per Donna Anna, ma è comunque intensa e precisa nel fraseggio. Deliziosa la Zerlina mai leziosa di Giulia Semenzato. Nel reparto maschile il ruolo del titolo è affidato ad Alessandro Luongo talora dai fiati un po’ corti ma con dizione espressiva e ben calibrata, sempre fisicamente infaticabile. Omar Montanari è un Leporello penalizzato dalla balbuzie imposta al suo personaggio (ma Alex Esposito nell’edizione originale era ben altra cosa…) e un Masetto particolarmente giovanile ma brusco è quello di William Corrò. Non sempre a suo agio l’inamidato Don Ottavio di Antonio Poli, così come il Commendatore di Attila Jun, anche lui già presente nella prima edizione ma qui con la voce più traballante.

La rondine

Giacomo Puccini, La rondine

★★★☆☆

648126338.png Qui la versione in italiano

Florence, Teatro del Maggio musicale, 22 October 2017

La rondine, a flimsy work in pastel colours

One hundred years after its debut in Montecarlo, a rarely performed work by the most famous Tuscan composer, Giacomo Puccini, arrived on stage in Florence. La rondine (The Swallow) is best known for a single song (“Doretta’s Dream”). It’s not a blessed opera.

Commissioned by Vienna Carltheater as an operetta, it became a true opera instead. Then there were problems with Ricordi, Puccini’s publisher’s, but above all La rondine was presented in 1917 at the high point of WW1…

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La rondine

Giacomo Puccini, La rondine

★★★☆☆

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Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 22 ottobre 2017

La rondine, «opera leggera, a tinte tenui»

Cento anni dopo il debutto a Montecarlo va in scena a Firenze un lavoro poco eseguito del più famoso compositore toscano, Giacomo Puccini: conosciuta al più per una sola aria (“Il sogno di Doretta”), La rondine non è stata un’opera fortunata.

Nata dalla commissione per un’operetta da parte del Carltheater di Vienna, diventò invece una vera opera lirica, ma ebbe poi problemi con Ricordi, l’editore di Puccini, e venne presentata nel 1917, ahimè, nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Il musicista ebbe numerosi ripensamenti sul finale, ma nessuna delle versioni esistenti riuscì mai a sfondare nei teatri che gli preferirono, e ancora preferiscono, il lavoro precedente, La fanciulla del West, o quello immediatamente successivo, Il trittico.

La rondine quindi non è un’opera giovanile, bensì della maturità pucciniana. Nonostante la grande qualità della scrittura musicale, l’esile vicenda, senza colpi di scena e morti strazianti, non è mai entrata nei cuori del pubblico. Il libretto di Adami, il futuro librettista della Turandot, è poi intriso di un cinismo che in quel momento storico non era gradito: Magda è una mantenuta parigina che lascia un’esistenza di lusso per mettersi con Ruggero, un giovane provincialotto che vorrebbe sposarla e portarsela a casa dalla mamma; l’idea la stuzzica, ma poi si rende conto che è meglio tornare alla vita di prima – come una rondine Magda è destinata a migrare verso altri lidi. Qui non c’è l’amore assoluto che redime la morte di Mimì o di Manon, Magda è una donna libera che sceglie la propria vita, una Violetta emancipata.

Come Richard Strauss, che pochi anni prima con i valzer del Rosenkavalieraveva posto un nostalgico sigillo su un’epoca (quella della Felix Austria), anche Puccini utilizza valzer e altri balli moderni – polka, fox-trot, tango, one-step – per esorcizzare il massacro della guerra che spazzava gli ultimi resti della Belle Époque. E come un altro Strauss, lo Johann del Fledermaus, Puccini e Adami ambientano il secondo atto in un ballo in cui la padrona e la domestica si scambiano gli abiti, prima di ritornare consapevolmente ai rispettivi ruoli originali.

Già nove anni fa Graham Vick nel suo allestimento a Venezia aveva ambientato La rondine non nella Parigi del Secondo Impero del libretto, bensì a metà del Novecento. Lo stesso fa Denis Krief qui a Firenze. Sul fondo una gigantografia dovrebbe suggerire gli scenari dei tre atti in cui è suddivisa la storia: l’elegante casa di Magda; Bullier, locale alla moda delle notti parigine; una casa nel sud della Francia con vista sul mare. Ma l’immagine del primo atto sembra suggerire i tetti di una città nordafricana, quella del secondo una qualunque città vista di notte, e la terza i galet della spiaggia di Nizza, per poi diventare il video di una rondine in volo – non fosse mai che qualcuno si fosse dimenticato il titolo dell’opera.

I coristi del secondo atto sono nei loro abiti neri da concerto, quelli delle donne ravvivati da scarpe e boa di struzzo colorati, e i solisti hanno abiti che sembrano acquistati al mercato. Se la regia è poi efficace nei confronti dei protagonisti principali, è invece inerte nei confronti del coro che si muove goffamente in scena.

La direzione di Valerio Galli mette in evidenza la modernità della scrittura pucciniana con i suoi effetti timbrici che diventano virtuosismi onomatopeici, ma non ci fa mancare i grandi slanci lirici di cui è costellata la partitura. La vastità della buca del nuovo teatro dell’opera fiorentino non ha però pietà delle voci dei cantanti e spesso il loro canto di conversazione arriva alle file di platea attutito dal muro orchestrale.

Il cast giovanile è dominato dalla sicura presenza di Ekaterina Bakanova. Il soprano russo ha dimostrato di padroneggiare perfettamente la parte con una vocalità elegante caratterizzata da un solido registro medio e da acuti precisi. Il bel timbro di Matteo Desole e un fraseggio un po’ rigido hanno connotato l’ingenuo Ruggero mentre il resto della compagnia si è rivelato adeguato – ma è troppo aspettarsi che l’interprete di Prunier suoni egli stesso la musica al pianoforte invece di mimarla?

Don Carlos

Giuseppe Verdi, Don Carlos

★★★★☆

Parigi, Opéra Bastille, 19 ottobre 2017

(live streaming)

A Parigi un cast stellare per la più bella opera di Verdi

Il più atteso spettacolo della stagione parigina è andato finalmente in scena dopo patemi dovuti a una possibile defezione dell’interprete titolare e poi di uno sciopero scongiurato all’ultimo momento. Tutto bene alla fine, con un tripudio di applausi.

All’Opéra Bastille c’è dunque Don Carlos, quello con la s in più, l’edizione originale del 1867 in cinque atti senza i ballabili – insomma come l’edizione di Modena dell’87, ma in francese. Nella lingua cioè in cui fu concepita l’opera da un compositore italiano che in Francia era rimasto folgorato dal grand opéra – la stessa cosa era successa quasi quarant’anni prima a Rossini che lì aveva generato il suo Guillaume Tell.

L’espunzione del primo atto, su cui il maestro si era pentito, non sembra avere utilità se non quella di abbreviare l’esecuzione – ma allora perché non tagliare anche Wagner? D’accordo che così, nella versione in quattro atti cioè, viene maggiormente evidenziato il tema politico, ma anche il tema amoroso è altrettanto presente nell’opera e l’atto di Fontainebleau riesce a rendere più evidente il dramma umano di Don Carlos infante di Spagna e di Élisabeth de Valois, prima promessa sposa e poi moglie del padre Filippo II.

Dalla messa in scena di Warlikoski ci si poteva aspettare di peggio, invece la sua lettura ha permesso di seguire senza problemi la vicenda, ambientata ovviamente nel XX secolo, i soliti anni ’50. Il primo atto, quello dell’incontro in Francia tra Carlo ed Élisabeth, è visto dal regista come un flashback cinematografico, comprese le rigature della pellicola. In altri punti della storia si ripeterà lo stesso espediente. La scenografia, questa volta bruttoccia, è della fidata Małgorzata Szczęśniak che confina claustrofobicamente i personaggi tra stanze con alte boiserie («sette metri!» precisa il regista nell’intervista trasmessa) dando quel senso di oppressione che il re già sente prima ancora di giacere «sous les voûtes de pierre des caveaux de l’Escurial». (Tra l’altro quella della tomba è un’ossessione per i protagonisti del Don Carlos: la parola tombeau viene nominata una decina di volte nei dialoghi e altrettante nelle didascalie del libretto).

Accanto a trovatine gratuite – il bacio lesbico di Eboli con la contessa di Aremberg o la palla da tennis con cui Carlos si trastulla in prigione – ci sono scelte non del tutto sbagliate nella regia di Warlikowski, come nella prima scena del quarto atto dove Filippo non è da solo e il suo non è quindi un monologo: accanto ha Eboli, con cui ha avuto un affare – Eboli stessa lo confesserà alla regina: «Le crime irrémissible | dont je vous accusais, je l’avais commis, moi… | une séduction… le roi!». Oppure la scena della morte di Rodrigue con Carlos in prigione (una specie di gabbia di polli, in verità): i due non si possono avvicinare e ciò rende ancora più straziante la situazione. Altre scelte lasciano invece a desiderare: la scena dell’autodafé e quella finale sono del tutto deludenti, e assente è anche la regia attoriale sugli interpreti lasciati a loro stessi e alla loro professionalità. Quasi nullo poi l’uso delle masse corali che si muovono senza indicazioni plausibili. Del tutto inutili sono infine le proiezioni video senza le quali sembra non si possa più fare un’opera lirica. La messa in scena è stata per di più peggiorata dalla pessima regia video con bruschi passaggi tra campi lunghi e dettagli, inquadrature incongrue e un uso irritante di sovrapposizioni di immagini.

Fortuna che in scena c’era un cast inarrivabile. Un applausometro alla fine avrebbe incoronato prima Elīna Garanča, Eboli superlativa per presenza e qualità vocale; secondo Jonas Kaufmann, un infante trepidante ed espressivo; poi la superlativa Élisabeth di Sonya Yoncheva; quindi il nobile marchese di Posa di Ludovc Tézier, beniamino del pubblico francese; infine, ma sul filo di lana, il sofferto Filippo di Il’dar Abdrazakov, dalla magnetica presenza scenica e dal timbro di velluto. La figura dell’Inquisitore ha trovato nel basso russo Dmitrij Beloselskij il giusto tremendo rilievo.

Nonostante fosse la quarta replica ci sono stati alcuni errori nelle proiezioni mentre inattesi rumori fuori scena hanno fatto sobbalzare gli astanti. Ma i guasti peggiori li ha fatti la ripresa del suono e la sua amplificazione nella sala cinematografica a livelli di decibel da discoteca che hanno deformato in più punti il suono e impedito di apprezzare gli equilibri sonori. Peccato, perché sia i cantanti sia la magnifica direzione di Philippe Jordan avrebbero meritato un maggior rispetto sotto questo punto di vista, ma fino a quando queste pur benemerite proiezioni d’opera saranno equiparate a livello fonico ai film d’azione non si otterrà mai una fruizione corretta e il più possibile vicina a quella che si ottiene dal vivo in teatro.

The Grand Duke

 

Arthur Sullivan, The Grand Duke


Altri tre anni sarebbero passati da Utopia, Limited perché il duo G&S si ricomponesse, ma questa sarà l’ultima volta.

Il quasi insuccesso della loro ultima fatica, The Grand Duke or The Statutory Duel, che debuttò al Savoy il 7 marzo 1896, pose termine definitivamente al loro sodalizio: Gilbert si ritirò come gentleman in campagna e Sullivan continuò a comporre balletti, opere comiche e drammi. Si ritrovarono insieme, ma senza scambiarsi una parola, solo alla fine del 1898 quando salirono sul palcoscenico di una ripresa di The Sorcerer per salutare il pubblico. Un ultimo tentativo di incontro fatto da Gilbert non ebbe esito per la cattiva salute di Sullivan che morì il 22 novembre 1900 mentre Gilbert era in Egitto per curare le sue febbri reumatiche. Il librettista visse ancora fino al 29 maggio 1911.

Curiosamente la vicenda di The Grand Duke riprendeva quella della loro prima esperienza, Thespis con gli attori di una compagnia teatrale che si trovano a recitare ruoli diversi da quelli previsti. La troupe di Ernest Dummkopf sta per debuttare nella tragedia greca Troilo e Cressida e per festeggiare, quella sera stessa, il matrimonio dei due commedianti Ludwig e Lisa. La mancanza di un prete non permette però la celebrazione: tutti i religiosi sono stati convocati dal Granduca Rodolfo per discutere del suo futuro matrimonio con la Baronessa von Krakenfeldt. L’odiato Granduca però non sa che c’è una cospirazione in atto per assassinarlo e mettere un altro sul trono. La trama si basa inoltre sull’erronea interpretazione di una legge di cento anni prima sui duelli decisa dalla sorte di un mazzo di carte. Prima che la vicenda sia risolta ben quatto donne donne aspireranno a diventare Granduchesse, quasi un’iperbolica parodia dell’opera di Offenbach, La Grande-duchesse de Gérolstein.

Il tema del teatro che rispecchia la vita e il ruolo sociale che mette in ombra la propria identità ritornava così per l’ultima volta in un lavoro di G&S.

In rete è disponibile la produzione del 1996 dei Washington Savoyards.

Utopia, Limited

Arthur Sullivan, Utopia, Limited


Gli attriti che avevano preceduto la composizione di The Gondoliers ritornarono a turbale la relazione tra G & S per una questione di spese che avevano urtato Gilbert al suo ritorno da un viaggio in India con la moglie. Per quasi tre anni compositore e librettista andarono per la propria strada. Il primo riuscì a soddisfare il suo desiderio di scrivere un’opera sera – e fu Ivanhoe su un libretto di Julian Sturgis basato sul romanzo di Sir Walter Scott – mentre il secondo scopriva le gioie della campagna dopo aver acquistato una grande casa nel Middlesex o collaborava a un musical (The Mountebanks) per il Lyric Theatre. In mancanza di lavori di Gilbert e Sullivan il Savoy dovette mettere in scena delle operette di Dance e Desprez (The Nautch Girl or The Rajah of Chutneypore) e di Grundy e Solomon (The Vicar of Bray).

Le pressioni di Richard D’Oyly Carte alla fine vinsero le resistenze dei due che si riconciliarono per un’opera ambientata su un’isola del sud e così Utopia, Limited or The Flowers of Progress poté andare in scena al Savoy il 7 ottobre 1893 dove fu replicata 244 volte. Satira delle istituzioni britanniche, il nuovo lavoro echeggiava opere precedenti come il personaggio del capitano (di H.M.S. Pinafore), la politica (Iolanthe) o l’educazione femminile (Princess Ida), ma aveva comunque una sua originalità e una trama ben congegnata.

Sull’isola immaginaria di Utopia King Paramount è un fervente ammiratore dei costumi britannici tanto da aver inviato la figlia Zara in un college in Inghilterra. Quando questa ritorna porta con sé sei gentlemen, i “fiori del progresso”, per migliorare il paese di Utopia. Tra i loro consigli c’è quello di trasformare l’isola in una “società a responsabilità limitata” e re Paramount accetta con entusiasmo. Ma presto si fa strada il malumore tra i sudditi: l’assenza di guerre ha reso inutili la marina e l’esercito, il sistema sanitario è così efficiente che i dottori si trovano disoccupati e li leggi così perfette che il crimine non esiste più e tribunali e avvocati sono senza lavoro. Ma nella creazione di questa società si erano dimenticati un elemento: il governo dei partiti. Nel sistema britannico ogni partito contraddice gli sforzi fatti dall’altro in modo che non ci sia progresso così da raggiungere il risultato propugnato da ognuno. Il popolo entusiasta canta le lodi di un piccolo gruppo di isole al di là del mare: la Gran Bretagna!

In rete è disponibile l’edizione del 2015 dei Durham Savoyards.

Fra Diavolo

Dennis King, The Devil’s Brother, photogram from the 1934 film

Daniel Auber, Fra Diavolo

★★★★☆

648126338.png Qui la versione in italiano

Rome, Teatro dell’Opera, 13 October 2017

Comedy and drama in Auber’s Fra Diavolo

Bandits in the 19th century have been topics of fascination for many operas: from Verdi’s I masnadieri to Ernani, from Offenbach’s Les brigands to Bizet’s Carmen, freebooters had arias and couplets of their own on stage.

No exception is Auber with his Fra Diavolo, inspired by one of the most feared robbers who fought against French domination in southern Italy, a hero of Bourbon resistance during the Napoleonic wars. In the libretto Scribe draws his model from other French bandits and paints him both romantically – Fra Diavolo steals only from aristocrats, bankers and merchants, leaves the poor and, from the young girls, he only takes “what they want to offer” – and with ruthless cruelty…

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