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Adolf Hasse, Siroe
Versailles, Opéra Royal, 28 novembre 2014
Riscoperta di un capolavoro sconosciuto
La stupefacente fioritura di voci di controtenore avutasi negli ultimi anni in tutto il mondo, dall’Argentina all’Australia, dal Marocco alla Corea oltre ovviamente all’Europa, Italia esclusa sia ben chiaro, non solo ha permesso la rappresentazione di opere altrimenti assenti dai palcoscenici, come ad esempio il recente Artaserse di Vinci con cinque controtenori su sei personaggi, ma addirittura la riscoperta di titoli pressoché inediti. È il caso del Siroe di Johann Adolf Hasse scovato, proposto, messo in scena e cantato da Max Emanuel Cenčić, punta emergente della moderna fucina di contraltisti.
Dopo il debutto a giugno al festival di Atene questo allestimento viene ripreso in una location prestigiosa, l’Opéra Royal di Versailles, per la stagione che il piccolo teatro inaugurato nel 1770 da Luigi XV per le nozze del Delfino dedica alla musica barocca e non. Sono concerti e rappresentazioni che fanno rivivere un periodo glorioso e rispolverano capolavori poco conosciuti del repertorio francese (Lully, Rameau, Couperin, Méhul, Leclair) e italiano (Monteverdi, Steffani, Falvetti, Vinci) oltre agli immortali Bach, Händel e Mozart.
Queste tre recite del Siroe fanno luce su un autore ben poco frequentato: Johann Adolf Hasse (1699-1783), compositore tedesco che fece dell’Italia la sua seconda patria e dove «il caro Sassone» fu allievo di Porpora e di Alessandro Scarlatti a Napoli prima di ritornare a Dresda alla corte di Federico Augusto II di Sassonia. Alla morte dell’Elettore passò a Vienna e poi a Venezia dove morì ottantaquattrenne dopo aver scritto quasi sessanta opere, la metà su testi del Metastasio, l’autore più frequentato nei libretti d’opera: secondo le dotte analisi di Piero Weiss infatti, sono più di ottocento le opere musicate su suoi testi. Non sfugge alla regola il Siroe re di Persia intonato, tra i tanti, da Vinci (1725), Porpora (1727), Vivaldi (1727) e Händel (1728). La versione di Johann Adolf Hasse aveva debuttato a Bologna nel 1733 con due tra i maggiori castrati dell’epoca, Farinelli e Caffarelli, nei ruoli di Siroe e Medarse.
La musica di Hasse ha la ricchezza e facilità melodica di un Pergolesi, ma la cura dell’orchestrazione e la drammaticità e lo spessore del suo trattamento armonico vanno più lontano ancora, prefigurando addirittura il teatro di Mozart come risulta evidente dalle arie scritte per il personaggio di Arasse (il Mitridate è del 1770). L’opera di Hasse può essere considerata l’anello di congiunzione tra il periodo barocco di Händel e Vivaldi e quello classico di Haydn e Mozart appunto.
Nella vicenda il re Cosroe (storicamente Cosroe II, che nel 628 d.C. decise di non passare la successione al figlio maggiore) è ingannato come Lear dall’ipocrisia del figlio minore Medarse e non riconosce la sincerità dell’altro figlio, Siroe, che condanna addirittura a morte per le false accuse che il fratello ha costruito contro di lui. A corte c’è anche Emira, innamorata di Siroe, la quale, travestita da uomo, vuole vendicare la morte del padre trucidato da Cosroe. Anche Loadice ne è innamorata e ciò non fa che complicare gli eventi che dopo prove crudeli per Siroe hanno comunque un lieto fine e l’ultima sua aria sembra il rondò della Cenerentola di Rossini con il trionfo della bontà che perdona tutti quanti.
Ma ecco la storia nelle parole del librettista: «Cosroe II, re di Persia, trasportato da soverchia tenerezza per Medarse suo minor figliuolo, giovane di fallaci costumi, volle associarlo alla corona defraudandone ingiustamente Siroe suo primogenito, principe valoroso ed intolerante, il quale fu vendicato di questo torto dal popolo e dalle squadre, che infinitamente l’amavano e si sollevarono a suo favore. Cosroe, nel dilatar con l’armi i confini del dominio persiano, si era tanto inoltrato con le sue conquiste verso l’oriente che avea tolto ad Asbite, re di Cambaia, il regno e la vita. Né dalla licenza de’ vincitori avea potuto salvarsi alcuno della regia famiglia fuori che la principessa Emira, figlia del sudetto Asbite, la quale, dopo aver lungamente peregrinato, persuasa alfine non meno dall’amore che avea già concepito antecedentemente per Siroe che dal desiderio di vendicar la morte del proprio padre, si ridusse nella corte di Cosroe in abito virile col nome d’Idaspe, dove, dissimulando sempre l’odio suo, incognita a ciascuno fuori che a Siroe, ed introdotta da lui medesimo, seppe tanto avvanzarsi nella grazia di Cosroe che divenne il di lui più amato confidente. Sopra questi fondamenti, tratti in parte dagli scrittori della storia bizantina ed in parte verisimilmente ideati, si ravvolgono gli avvenimenti del drama».
In questo allestimento è stata scelta la terza versione dell’opera, più concisa, eseguita a Dresda nel 1763. Cenčić regista affida scene e costumi a Bruno de Lavenere che ricostruisce la Persia di fiaba come poteva essere immaginata nel secolo dei lumi. Le scenografie sono costituite da leggeri schermi traforati mobili e tutto è affidato alle luci e alle proiezioni di una video grafica fantasiosa, anche se non sempre convincente. Belli e funzionali i costumi, ma è soprattutto la regia di Cenčić che ha soluzioni eleganti e funzionali all’azione e alla psicologia dei personaggi. I quali personaggi ricevono dal musicista una caratterizzazione esemplare nelle venti arie che compongono l’opera.
Nel primo atto ogni personaggio ha a sua disposizione un numero in cui presentare la sua personalità. Ecco quindi Cosroe giustificare con il suo «paterno amore» la scelta di non lasciare il trono al figlio cui è predestinato, Laodice affermare invece che «costanza è spesso il variar pensiero», Siroe lamentarsi de «la sorte mia tiranna», Medarse sfogare la sua terribile calma in «fra l’orror della tempesta» e così via per gli altri due personaggi Emira e Arasse. Il secondo atto, in cui si ha lo sviluppo maggiore della vicenda, è il più lungo e Siroe ed Emira hanno un numero doppio di arie per esprimersi. Nel terzo ognuno dei personaggi ha nuovamente a disposizione un’aria per sé fino al coro finale che unisce tutte le voci.
Siroe è interpretato dallo stesso Cenčić e il suo magico timbro costruisce alla perfezione il personaggio torturato tra l’affezione al padre e l’amore per Emira. Non ci sono difficoltà nella sua parte che il controtenore croato non sappia risolvere con la sua eccezionale tecnica vocale. L’aria «Vo disperato a morte» dal Tito Vespasiano dello stesso Hasse viene introdotta nel terzo atto per permettere al cantante di toccare le corde drammatiche della sua interpretazione.
Il ruolo del subdolo fratello Medarse è sostenuto dal mezzosoprano Mary-Ellen Nesi che dopo il Polinesso dell’Ariodante handeliano si cala nuovamente in un personaggio malvagio – è noto il fascino del male… Nella sua aria di bravura «Torrente cresciuto per torbida piena» il mezzosoprano greco-canadese mette in evidenza le sue ottime qualità vocali (anche se fa un po’ rimpiangere il Franco Fagioli nella stessa parte nell’edizione su CD appena uscito).
Ma è Julija Ležneva l’attrazione della serata. Hasse ha scritto per il ruolo della fatua, ma in fondo buona Laodice, le pagine di più strepitosa agilità e coloratura dell’opera e il soprano russo le esegue con estrema facilità inanellando una dopo l’altra tutte le tecniche della virtuosità vocale: trilli, roulades, picchettati, acuti e variazioni spettacolari. Per buona misura verso la fine del terzo atto viene inserita una pirotecnica aria dal Britannico di Graun in cui la Ležneva infaticabile inchioda il pubblico alla sedia fino a farlo esplodere di entusiasmo.
In quest’opera non ci sono personaggi minori e di gran livello sono anche l’Arasse di Lauren Snouffer e la vendicativa Emira di Roxana Costantinescu.
Il timbro infelice, la voce ingolata, gli eccessi espressivi di Juan Sancho servono per lo meno a caratterizzare la decrepitezza del vecchio re Cosroe, mummia assistita da due altrettanto fatiscenti maghe in nero, che ha il suo momento nel tragico «Gelido in ogni vena» (aria ben più famosa nell’intonazione di Vivaldi nel suo Farnace).
L’Armonia Atenea si dimostra una splendida orchestra barocca e il suo direttore George Petrou sa trarre da questa ridotta compagine suoni inusitati e colori sempre cangianti che mettono in risalto la magnifica partitura di questo capolavoro sconosciuto.
Esito trionfale per tutti e bis del coro finale con il maestro salito in scena a ricevere il diluvio di applausi di un pubblico attento e conscio di aver assistito a una serata speciale.
foto © Antoine Ramos
⸪