Mese: novembre 2014

Siroe

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Adolf Hasse, Siroe

★★★★★

Versailles, Opéra Royal, 28 novembre 2014

Riscoperta di un capolavoro sconosciuto

La stupefacente fioritura di voci di controtenore avutasi negli ultimi anni in tutto il mondo, dall’Argentina all’Australia, dal Marocco alla Corea oltre ovviamente all’Europa, Italia esclusa sia ben chiaro, non solo ha permesso la rappresentazione di opere altrimenti assenti dai palcoscenici, come ad esempio il recente Artaserse di Vinci con cinque controtenori su sei personaggi, ma addirittura la riscoperta di titoli pressoché inediti. È il caso del Siroe di Johann Adolf Hasse scovato, proposto, messo in scena e cantato da Max Emanuel Cenčić, punta emergente della moderna fucina di contraltisti.

Dopo il debutto a giugno al festival di Atene questo allestimento viene ripreso in una location prestigiosa, l’Opéra Royal di Versailles, per la stagione che il piccolo teatro inaugurato nel 1770 da Luigi XV per le nozze del Delfino dedica alla musica barocca e non. Sono concerti e rappresentazioni che fanno rivivere un periodo glorioso e rispolverano capolavori poco conosciuti del repertorio francese (Lully, Rameau, Couperin, Méhul, Leclair) e italiano (Monteverdi, Steffani, Falvetti, Vinci) oltre agli immortali Bach, Händel e Mozart.

Queste tre recite del Siroe fanno luce su un autore ben poco frequentato: Johann Adolf Hasse (1699-1783), compositore tedesco che fece dell’Italia la sua seconda patria e dove «il caro Sassone» fu allievo di Porpora e di Alessandro Scarlatti a Napoli prima di ritornare a Dresda alla corte di Federico Augusto II di Sassonia. Alla  morte dell’Elettore passò a Vienna e poi a Venezia dove morì ottantaquattrenne dopo aver scritto quasi sessanta opere, la metà su testi del Metastasio, l’autore più frequentato nei libretti d’opera: secondo le dotte analisi di Piero Weiss infatti, sono più di ottocento le opere musicate su suoi testi. Non sfugge alla regola il Siroe re di Persia intonato, tra i tanti, da Vinci (1725), Porpora (1727), Vivaldi (1727) e Händel (1728). La versione di Johann Adolf Hasse aveva debuttato a Bologna nel 1733 con due tra i maggiori castrati dell’epoca, Farinelli e Caffarelli, nei ruoli di Siroe e Medarse.

La musica di Hasse ha la ricchezza e facilità melodica di un Pergolesi, ma la cura dell’orchestrazione e la drammaticità e lo spessore del suo trattamento armonico vanno più lontano ancora, prefigurando addirittura il teatro di Mozart come risulta evidente dalle arie scritte per il personaggio di Arasse (il Mitridate è del 1770). L’opera di Hasse può essere considerata l’anello di congiunzione tra il periodo barocco di Händel e Vivaldi e quello classico di Haydn e Mozart appunto.

Nella vicenda il re Cosroe (storicamente Cosroe II, che nel 628 d.C. decise di non passare la successione al figlio maggiore) è ingannato come Lear dall’ipocrisia del figlio minore Medarse e non riconosce la sincerità dell’altro figlio, Siroe, che condanna addirittura a morte per le false accuse che il fratello ha costruito contro di lui. A corte c’è anche Emira, innamorata di Siroe, la quale, travestita da uomo, vuole vendicare la morte del padre trucidato da Cosroe. Anche Loadice ne è innamorata e ciò non fa che complicare gli eventi che dopo prove crudeli per Siroe hanno comunque un lieto fine e l’ultima sua aria sembra il rondò della Cenerentola di Rossini con il trionfo della bontà che perdona tutti quanti.

Ma ecco la storia nelle parole del librettista: «Cosroe II, re di Persia, trasportato da soverchia tenerezza per Medarse suo minor figliuolo, giovane di fallaci costumi, volle associarlo alla corona defraudandone ingiustamente Siroe suo primogenito, principe valoroso ed intolerante, il quale fu vendicato di questo torto dal popolo e dalle squadre, che infinitamente l’amavano e si sollevarono a suo favore. Cosroe, nel dilatar con l’armi i confini del dominio persiano, si era tanto inoltrato con le sue conquiste verso l’oriente che avea tolto ad Asbite, re di Cambaia, il regno e la vita. Né dalla licenza de’ vincitori avea potuto salvarsi alcuno della regia famiglia fuori che la principessa Emira, figlia del sudetto Asbite, la quale, dopo aver lungamente peregrinato, persuasa alfine non meno dall’amore che avea già concepito antecedentemente per Siroe che dal desiderio di vendicar la morte del proprio padre, si ridusse nella corte di Cosroe in abito virile col nome d’Idaspe, dove, dissimulando sempre l’odio suo, incognita a ciascuno fuori che a Siroe, ed introdotta da lui medesimo, seppe tanto avvanzarsi nella grazia di Cosroe che divenne il di lui più amato confidente. Sopra questi fondamenti, tratti in parte dagli scrittori della storia bizantina ed in parte verisimilmente ideati, si ravvolgono gli avvenimenti del drama».

In questo allestimento è stata scelta la terza versione dell’opera, più concisa,  eseguita a Dresda nel 1763. Cenčić regista affida scene e costumi a Bruno de Lavenere che ricostruisce la Persia di fiaba come poteva essere immaginata nel secolo dei lumi. Le scenografie sono costituite da leggeri schermi traforati mobili e tutto è affidato alle luci e alle proiezioni di una video grafica fantasiosa, anche se non sempre convincente. Belli e funzionali i costumi, ma è soprattutto la regia di Cenčić che ha soluzioni eleganti e funzionali all’azione e alla psicologia dei personaggi. I quali personaggi ricevono dal musicista una caratterizzazione esemplare nelle venti arie che compongono l’opera.

Nel primo atto ogni personaggio ha a sua disposizione un numero in cui presentare la sua personalità. Ecco quindi Cosroe giustificare con il suo «paterno amore» la scelta di non lasciare il trono al figlio cui è predestinato, Laodice affermare invece che «costanza è spesso il variar pensiero», Siroe lamentarsi de «la sorte mia tiranna», Medarse sfogare la sua terribile calma in «fra l’orror della tempesta» e così via per gli altri due personaggi Emira e Arasse. Il secondo atto, in cui si ha lo sviluppo maggiore della vicenda, è il più lungo e Siroe ed Emira hanno un numero doppio di arie per esprimersi. Nel terzo ognuno dei personaggi ha nuovamente a disposizione un’aria per sé fino al coro finale che unisce tutte le voci.

Siroe è interpretato dallo stesso Cenčić e il suo magico timbro costruisce alla perfezione il personaggio torturato tra l’affezione al padre e l’amore per Emira. Non ci sono difficoltà nella sua parte che il controtenore croato non sappia risolvere con la sua eccezionale tecnica vocale. L’aria «Vo disperato a morte» dal Tito Vespasiano dello stesso Hasse viene introdotta nel terzo atto per permettere al cantante di toccare le corde drammatiche della sua interpretazione.

Il ruolo del subdolo fratello Medarse è sostenuto dal mezzosoprano Mary-Ellen Nesi che dopo il Polinesso dell’Ariodante handeliano si cala nuovamente in un personaggio malvagio – è noto il fascino del male… Nella sua aria di bravura «Torrente cresciuto per torbida piena» il mezzosoprano greco-canadese mette in evidenza le sue ottime qualità vocali (anche se fa un po’ rimpiangere il Franco Fagioli nella stessa parte nell’edizione su CD appena uscito).

Ma è Julija Ležneva l’attrazione della serata. Hasse ha scritto per il ruolo della fatua, ma in fondo buona Laodice, le pagine di più strepitosa agilità e coloratura dell’opera e il soprano russo le esegue con estrema facilità inanellando una dopo l’altra tutte le tecniche della virtuosità vocale: trilli, roulades, picchettati, acuti e variazioni spettacolari. Per buona misura verso la fine del terzo atto viene inserita una pirotecnica aria dal Britannico di Graun in cui la Ležneva infaticabile inchioda il pubblico alla sedia fino a farlo esplodere di entusiasmo.

In quest’opera non ci sono personaggi minori e di gran livello sono anche l’Arasse di Lauren Snouffer e la vendicativa Emira di Roxana Costantinescu.

Il timbro infelice, la voce ingolata, gli eccessi espressivi di Juan Sancho servono per lo meno a caratterizzare la decrepitezza del vecchio re Cosroe, mummia assistita da due altrettanto fatiscenti maghe in nero, che ha il suo momento nel tragico «Gelido in ogni vena» (aria ben più famosa nell’intonazione di Vivaldi nel suo Farnace).

L’Armonia Atenea si dimostra una splendida orchestra barocca e il suo direttore George Petrou sa trarre da questa ridotta compagine suoni inusitati e colori sempre cangianti che mettono in risalto la magnifica partitura di questo capolavoro sconosciuto.

Esito trionfale per tutti e bis del coro finale con il maestro salito in scena a ricevere il diluvio di applausi di un pubblico attento e conscio di aver assistito a una serata speciale.

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foto © Antoine Ramos

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Il Giasone

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★★★★☆

Lo sfrontato erotismo dell’opera di Cavalli

Giasone si risveglia dopo una notte d’amore con una donna di cui non conosce il volto – scopriremo essere Medea che vedremo emergere poi tra le stesse lenzuola. Ancora intorpidito rievoca «i piaceri amorosi» di cui è ora sazio sul ritmo trascinato di una passacaglia: «Delizie mie care, ⎮ fermatevi qui: ⎮ non so più bramare, ⎮ mi basta così».

Nell’allestimento di Mariame Clément alla Vlaamse Opera di Anversa la scena in cui Giasone è languidamente sdraiato tra le lenzuola stropicciate mentre molteplici mani accarezzano il suo corpo nudo è l’epitome della sensualità della musica di questo lavoro di Francesco Cavalli del 1649 che fu lo spettacolo di maggior successo di tutto il secolo, ma ora per poter assistere a una rappresentazione di questa italianissima opera dobbiamo trasferirci nelle Fiandre o ancora più in là, essendo della Pinchgut Opera di Sydney un altro moderno allestimento in cui David Hansen nella stessa aria sta mollemente immerso nella schiuma di una vasca da bagno portata a spasso per la scena da baldi marinaretti. (Quanta strada è stata fatta nella messa in scena dell’opera barocca dagli scialbi Giasoni en travesti al primo impacciato e butirroso torso nudo).

Incomprensibile è che un lavoro come questo non venga oggi proposto nel nostro paese avendo tutte le caratteristiche di un’operazione di successo: la lingua, la “facilità” (in confronto a una qualsiasi altra opera del bel canto con i suoi pezzi chiusi), la vicenda piena di momenti diversi, il linguaggio moderno e allusivo.

Il Giasone è l’opera più rappresentativa (e più rappresentata) del Seicento. Qui Cavalli aggiorna le compagnie di teatro di allora sostituendo agli attori della commedia dell’arte attori che sapessero cantare. Dal punto di vista musicale poi il compositore fa tesoro delle sperimentazioni di recitativo declamato della Camerata Fiorentina innestandole in scenari che verranno portati in giro per le varie piazze d’Italia con enorme successo. La decina di partiture superstiti e la quarantina di edizioni del libretto testimoniano la fortuna dell’opera.

Il testo arguto e di piacevole lettura è di Giacinto Andrea Cicognini, il librettista più acclamato dell’epoca e autore dei melodrammi più popolari del tempo; oltre al Giasone è sua anche L’Orontea musicata dal Cesti.

Lo stesso Cicognini dopo una dedica, un sonetto, un «applauso poetico» e una nota «ai lettori e spettatori del dramma» ci informa finalmente dell’argomento. «Giasone, figlio d’Esone, fratello di Pelia re di Tessaglia, fu dal medesimo Pelia mandato a Colco all’acquisto del vello d’oro, che da Frisso era stato consacrato a Giove in quell’isola. Imbarcò su la nave di Argo con Ercole ed altri cavalieri, che poi furono detti argonauti. Passò per l’isola di Lenno, ed ivi godé Isifile regina di quell’isola con promessa di sposarla, ma per consiglio d’Ercole la lassò gravida e se n’andò a Colco. Isifile partorì due gemelli, Toante ed Euneo, dopo che gl’era convenuto fuggirsene di Lenno per aver salvato il vecchio Toante suo padre dalla comune uccisione di tutti gl’uomini di quell’isola, decretata dalle donne per desiderio di regnare; e in povero stato se ne andava pellegrinando, e giunse al fine nelle campagne su la foce d’Ibero, dove stava allattando i figli suoi e di Giasone. Giasone, sendo arrivato a Colco, fu veduto da Medea regina di quell’isola la quale di lui ardentemente s’innamorò e, renunziando agl’affetti passati fra lei ed Egeo re d’Atene, trovò modo d’esser goduta da Giasone, senza che esso sapesse con qual dama si giaceva. Restò gravida e partorì a suo tempo due gemelli, Filomelo e Pluto. Giasone, distratto dal nuovo amore verso la dama a lui incognita, dimorò in Colco un anno intiero, senza tentar l’impresa per la quale s’era in quell’isola trasferito, ma al fine, stimolato da gl’argonauti ed in specie da Ercole, diede il giuramento di farlo per un giorno determinato. Isifile intanto, avendo inteso che Giasone si ritrovava nell’isola di Colco, poche miglia distante della foce d’Ibero, ove essa dimorava, mandò Oreste suo confidente per accertarsene ed intendere le sue azioni. Sendo venuto il giorno nel quale Giasone doveva tentar l’acquisto del vello, volse la notte antecedente ritrovarsi con la dama da lui sino a quel tempo non conosciuta, ed Ercole, attendendo su lo spuntar dell’alba ch’egli, lasciati i piaceri amorosi, s’accingesse a quell’impresa, dà principio all’opera».

L’umorismo greve del grottesco e balbettante Demo

se farai del mio parlar strapazzo,
la mia forte bravura
saprà spezzarti il ca­- il ca-
… il ca­po in queste mura.
[…]
Io di qua parto, e tu per altra via,
e t’aspetto a far pace all’o-­ all’o­-
lo­- lo-­ lo-­ lo-­ lo-­ lo-­
ed aspetto a far pace all’o­- all’o-­
lo-­ lo-­ all’o-­ all’o-
all’osteria.

­si affianca agli scoppiettanti versi degli altri numerosi personaggi di questa vicenda bizzarramente mitologica e quante volte viene voglia di controllare sul libretto originale che il testo cantato non sia un’invenzione estemporanea della regista visto che i versi del Cicognini sono tremendamente moderni, danno adito all’immaginazione più maliziosa e condensano in poche ore venti puntate di una telenovela. E alla fine di questo caos organizzato tutti i personaggi vengono etichettati e imballati in un container per consegnarli, chissà, all’eternità o all’oblio.

In questa produzione del 2010 del teatro fiammingo molti sono i punti di interesse.

Lo specialista di musiche barocche Federico Maria Sardelli suona con sapienza e gusto vari tipi di flauto a becco e dirige con partecipazione una smilza orchestra sinfonica cui si sono aggiunti alcuni strumenti d’epoca.

Il controtenore Christophe Dumaux con la sua innegabile presenza scenica e il timbro vellutato della voce si cala nei panni (spesso e volentieri ridotti) dell’eroe che si dimostra più interessato agli affari amorosi che all’impresa di recuperare il vello d’oro.

Katarina Bradić rende molto bene la sensualità e l’erotismo quasi furioso della sua Medea, così come Robin Johannsen le commoventi note della dolente Isifile. Ma tra le due si capisce perché Giasone preferisca la prima…

Dei rimanenti interpreti nei ruoli secondari, non sempre perfetti in quanto e dizione e musicalità, emerge il Demo stravagante di Filippo Adami, certamente aiutato dall’essere l’unico cantante italiano della compagnia.

La regia di Mariame Clément accentua molto sia l’erotismo (la sveltina del duetto di Oreste con Alinda ce la poteva però risparmiare) sia i caratteri buffoneschi dell’opera. La scena di Julia Hansen ricorda il deposito di un rigattiere di periferia e non si può certo definire bella. Divertenti i suoi costumi (Ercole vestito come un giocatore di Rugby, Demo con le orecchie e il naso da coniglio, Besso da cagnone) e certi particolari come la nave che spunta dal container con Giasone e Medea che fanno il verso ai protagonisti del Titanic cinematografico. Se barocco ha da essere, che barocco sia, deve aver pensato la regista.

  • Il Giasone, Alarcón/Sinigaglia, Ginevra, 25 gennaio 2017

L’Elena


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★★★★☆

Una Belle Hélène di quasi quattro secoli fa

Più di 350 anni: questo è il periodo di tempo in cui L’Elena di Cavalli è stata dimenticata. Dopo la prima esecuzione avvenuta al Teatro di San Cassiano il giorno di Santo Stefano del 1659 e la ripresa a Palermo due anni dopo non c’è mai più stata una rappresentazione sulla scena di questo lavoro fino al 65° Festival di Aix-en-Provence di cui è stato lo spettacolo rivelazione.

Il vivace libretto di Giovanni Faustini, completato dopo la sua morte da Nicolò Minato, narra le vicende di Elena prima del suo matrimonio con Menelao. Del pomo della discordia si parla nel prologo dove Giunone, Venere e Minerva litigano su chi ne sia più degna, trovandosi d’accordo solo sul fatto che il matrimonio di Elena con Menelao non dovrà avere vita facile.

Quest’ultimo lo vediamo infatti nel primo atto travestirsi da donna per poterla corteggiare. Elena e la sua nuova ‘compagna’ vengono rapite da Teseo che abbandona la fiera amazzone Ippolita perché anche lui è invaghito della bella figlia di Sparta. A complicare le cose anche il principe Menesteo si innamora di Elena e sia Tindaro che Piritoo si scoprono entrambi infatuati di Elisa, Menelao en travesti. E siamo solo al primo atto! Nel prosieguo arriverà pure una furibonda Ippolita prima che il lieto fine concluda comunque felicemente la vicenda. Ne L’incoronazione di Poppea monteverdiana le figure storiche di Nerone, Poppea e Seneca erano state messe in scena per dimostrare che anch’esse provavano le stesse passioni di noi tutti e L’Elena di Cavalli si rifà a quel modello.

La location in cui il regista Jean-Yves Ruf e il direttore Leonardo García Alarcón nel luglio 2013 fanno rinascere il capolavoro dimenticato è il delizioso Jeu de Paume della cittadina provenzale e le dimensioni contenute del teatro sono quanto mai adatte a questo repertorio. I comici travestimenti e l’esibizione di questa «antologia del desiderio», come la definisce Alain Perroux consigliere artistico del festival, prendono vita all’interno di una piccola arena circolare, miniatura dei luoghi di tauromachie ancora presenti in questa parte di Francia. Pochi elementi – dei teli per suggerire le navi in mare, delle ‘liane’ che scendono dall’alto per inviluppare i personaggi – formano la semplice scenografia di Laure Pichat e i costumi di Claudia Janatsch rimandano a un Mediterraneo quasi senza tempo.

In questo «vaudeville mythologique» le continue entrate e uscite dei numerosi personaggi sono gestite dal regista senza eccessiva fantasia, concentrandosi maggiormente il suo lavoro sull’espressività dei caratteri. I tredici interpreti assecondano le sue intenzioni e si dimostrano tutti più o meno buoni attori, aleggia però nella messa in scena un non so che di amatoriale.

Vocalmente soddisfacente la maggior parte dei cantanti come la Elena del soprano ungherese Emőke Baráth, qui biondo movente di tante peripezie. Ma fra tutti primeggia il Menelao del contraltista rumeno Valer Barna-Sabadus, dal timbro seducente e dallo stile ineccepibile.

A capo della Cappella Mediterranea Leonardo García Alarcón si destreggia tra clavicembalo e organo positivo, mentre i suoi dieci compagni musicisti tirano fuori da tiorbe, liuti, lire e viole da gamba, cornette e flauti dolci i colori per i seducenti duetti, i vivaci terzetti e i quartetti di cui è costellata l’opera.

Pur superando le tre ore di rappresentazione, l’edizione è stata scorciata venendo mancare, tra l’altro, il ballo degli orsi alle fine del primo atto – un numero, quello del ballo degli orsi ammaestrati, che non poteva mancare nei teatri veneziani perché molto gradito al pubblico popolare che li affollava allora (e pratica crudele purtroppo ancora praticata nei villaggi di certi paesi balcanici). Manca anche il balletto degli schiavi liberati alla fine del secondo atto.

Non ci sono sottotitoli in italiano né extra nei due dischi presentati nel formato di un volumetto che contiene vari testi in tre lingue.

Oberto conte di San Bonifacio

Oberto

★★☆☆☆

Verdi #1

Nel 1836 il ventitreenne Verdi è a Milano per tentare la fortuna con il suo primo lavoro per il teatro, un dramma storico. Prima pensa a un Rochester su libretto del Tasca, poi a un Hamilton su testo di Antonio Piazza, infine si decide per Oberto, conte di San Bonifacio sempre del Piazza ma modificato da quel Temistocle Solera che gli scriverà altre quattro opere. Passeranno però quasi quattro anni prima Verdi che possa vedere il lavoro sulle scene.

Il discreto successo con cui è accolto al teatro alla Scala nel novembre 1839 gli assicura 14 recite, ma se il pubblico «parco d’applausi al primo atto, esuberò in acclamazioni al secondo» meno benevola fu la critica indecisa se vedere nel lavoro qualcosa di nuovo oppure ritrovarvi lo stile donizettiano o rossiniano allora imperante. E in effetti l’Oberto è sì nel solco della tradizione, ma già fanno capolino il piglio teatrale e l’energia dei personaggi, fra tutti quell’Oberto, primo di una serie interminabile di ‘padri’ nell’opera verdiana. Caratteristici sono già i finali un po’ bandistici con gran frastuono di piatti e percussioni varie.

Affidiamo alle parole del librettista il compito di illustrarci il preambolo alla vicenda. «Oberto, conte di s. Bonifacio, vinto da Ezzelino da Romano, il quale accorse in favor dei Salinguerra in Verona, riparavasi a Mantova. Leonora, sua figlia, priva di madre, era rimasta a Verona, affidata alle cure di una vecchia zia. Un giovine conte di Salinguerra [Riccardo], sotto mentito nome, sedusse la bella figlia di Oberto con promessa di matrimonio. Preso poscia d’amorosa passione per Cuniza (lasciata dal fratello Ezzelino nel castello di Bassano, mentre egli, fatto signore di Verona, attendeva alle conquiste di Monselice, di Padova, di Montagnana) le offrì la mano. Ezzelino, che doveva la signoria di Verona ai conti di Salinguerra, non fu contrario alle nozze. Leonora, conosciuta troppo tardi la verità, vien disperata a Bassano nel giorno delle feste per svelare il tradimento. Qui ha principio l’azione del dramma».

E infatti nella prima scena mentre alcuni cavalieri giubilano per l’imminente matrimonio, giunge Leonora intenzionata a impedire le nozze. Qui incontra il padre Oberto con cui si accorda per vendicarsi di Riccardo. La sposa Cunizia ha inspiegabili cattivi presentimenti prima delle nozze e infatti ecco arrivare Oberto e la figlia che raccontano l’ingiustizia subita. Cunizia promette loro aiuto fino a sacrificare il suo amore. In un duello con Riccardo Oberto rimane ferito a morte e Leonora sentendosi responsabile dell’accaduto decide di entrare in convento mentre Riccardo, in preda al rimorso, si punisce con l’esilio.

Nel 2007 Oberto viene allestito nel nuovo e futuristico Palacio Euskalduna in quel di Bilbao. La registrazione video dello spettacolo è la prima e completa disponibile di quest’opera, essendo l’edizione andata in scena poco dopo a Parma accorciata di mezz’ora. Ignacio García e Domenico Franchi (scenografie) montano uno spettacolo tradizionale e fluido con giusti tocchi gotici e scuri, ma il regista neppure cerca di dar vita ai personaggi e alla loro interazione.

Yves Abel dirige fin dalla sinfonia con giusta baldanza e senza troppe raffinatezze l’orchestra sinfonica del Principado de Asturias. Il’dar Abdrazakov è la punta del cast ed è quello che riscuote giustamente il maggior successo. Nonostante la bidimensionalità del suo vendicativo e corrucciato personaggio riesce a dargli nobiltà e plausibilità drammatica, ma sembra incredibile che proprio in questi giorni lo stesso cantante stia dando vita a New York al più gustoso Figaro mozartiano degli ultimi anni!

Il timbro particolare e la recitazione manierata al limite dell’espressionismo (l’attacco di demenza dell’ultima scena, la pioggia di petali rossi e il suicidio il regista ce li poteva risparmiare) ci fanno preferire l’Evelyn Herlitzius straussiana o wagneriana. Mentre Carlo Ventre e Marianne Cornetti (fisicamente non avvantaggiata) completano il quartetto di voci senza farsi particolarmente ricordare, è il coro dell’Opera di Bilbao l’elemento più debole di questo allestimento e fa continuamente rimpiangere quello ben più adeguato del Regio di Parma.

Nel disco OpusArte è presente come bonus una doppia intervista a direttore e regista.