Mese: marzo 2019

Jää

Jaakko Kuusisto, Jää (Ghiaccio)

★★★★☆

Helsinki, Suomen Kansallisooppera, 25 gennaio 2019

(diretta streaming)

Il ghiaccio unisce e uccide

È protagonista in tre nuove opere che hanno debuttato quasi contemporaneamente: nel lavoro di Mark Grey alla Monnaie di Bruxelles il ghiaccio ha conservato per secoli il corpo inanimato di quella che diventerà la “creatura” del dottor Frankenstein; a Glasgow in Anthropocene il ghiaccio conserva viva una ragazza testimone di una passata crisi ecologica; qui ad Helsinki è il ghiaccio a minacciare la vita degli abitanti di un’isola sperduta nell’opera di Jaakko Kuusisto su libretto di Juhani Koivisto basato sul romanzo Is, best seller nei paesi nordici, scritto in svedese da Ulla-Lena Lundberg nel 2012.

Il giovane vicario Petter Kummel e sua moglie Mona si trasferiscono nella parrocchia di una delle isole Åland poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando iniziano il razionamento e le carenze alimentari. Devono lottare con il loro ambiente fisico e con gli atteggiamenti radicati della comunità locale, dove le vecchie rivalità (da tempo discutono su un ponte da costruire) minacciano di indebolire la loro capacità di recupero e di buona volontà, ma gradualmente trovano amicizia, sostegno e rispetto, a volte in modi imprevisti. Mona proviene da un ambiente agricolo, è una donna pratica e non solo tiene la nuova casa in ordine, ma si occupa anche degli animali e adempie alle sue responsabilità parrocchiali, nonostante la sua seconda gravidanza. Suo marito deve servire il suo numeroso gregge e spesso non riesce a trovare il tempo per le sue responsabilità domestiche e parentali o per studiare per un importante esame. Anche se la giovane coppia è al centro della storia, c’è un’intera serie di altri personaggi come Anton, il postino, che dipende dal ghiaccio che può sopportarlo in inverno, un fervente credente negli spiriti che lo aiutano a leggere il tempo; la russa fuggita dal suo paese lasciando il figlio; la ragazza che ha tentato Petter e che ritorna nella fantasia gelosa di Mona la quale a un certo punto deve affrontare la prova maggiore: la morte del marito inghiottito dal ghiaccio al rientro da una visita pastorale. Un nuovo ponte eviterà altri incidenti e un nuovo prete arriva. È bravo, ma non sa cantare. Mona riparte, non ha mai pianto in pubblico: solo le mucche hanno visto le sue lacrime, ma loro sono state macellate. Nessuno ha visto le sue lacrime.

Come Janáček, anche Kuusisto, che dirige l’orchestra, scrive la sua musica sulla parola. È una musica fredda ma evocativa, ricca nei momenti più drammatici, come quando Mona è lasciata sola col cadavere del marito. La ricca strumentazione non si compiace del suono, ma è efficace nel dipingere l’atmosfera della vicenda. Bravi gli interpreti a noi sconosciuti. Citiamo almeno quelli dei due protagonisti principali: Ville Rusanen, il vicario, e Marjukka Tepponen, la moglie.

Nella messa in scena di Anna Kelo, che utilizza abilmente pochi elementi scenografici e il video design e le luci di Thomas Hase, ai viventi nei loro realistici costumi anni ’40 di Marja Uusitalo si contrappongono gli spiriti dei morti nei loro abiti di garza bianca. Uno spettacolo suggestivo e intenso.

Pinocchio

Pierangelo Valtinoni, Pinocchio

Torino, Teatro Regio, 22 marzo 2019

«Cri cri cri…»

Riempire un teatro d’opera di 1500 bambini. E farli cantare. Questa è l’impresa, pienamente riuscita, di Pinocchio, l’opera di Pierangelo Valtinoni ora al Regio di Torino.

In quanto compositore di opere per ragazzi, Valtinoni, emiliano del 1959, è uno dei musicisti italiani viventi più rappresentati al mondo. Con Pinocchio inizia una trilogia di lavori sui classici della letteratura per i giovani che comprende La Regina delle nevi (2010) e Il Mago di Oz (2016), tutti su libretti di Paolo Madron.

Pinocchio era nato nel 2001 come atto unico, ma è diventato un’opera in due atti alla Komische Oper di Berlino nel 2006. Da allora è stato rappresentato in svariate lingue con grande successo in tutto il mondo e l’allestimento del Regio di Torino del 2011 di Luca Valentino viene ora riproposto con la stessa partecipazione entusiasta delle migliaia di allievi delle scuole, degli insegnanti e dei genitori impegnati nel progetto La Scuola all’Opera.

Atto I. Nel Prologo, Geppetto costruisce un burattino da un pezzo di legno. La Fata racconta che questa è la storia di un burattino che è “un dono d’amore”. Appaiono tutti i personaggi che parteciperanno alla storia e ognuno spiega il proprio ruolo, dal Grillo parlante al Gatto e la Volpe, a Lucignolo. Geppetto è felice perché ora è diventato padre, ma Pinocchio comincia a fare i capricci, vuole muoversi, vuole mangiare; non gradisce però il pezzo di pane e le croste di grana che gli offre Geppetto: vuole il brasato e anche il crème caramel. Il Grillo e Geppetto vogliono che Pinocchio vada a scuola; Geppetto ha impegnato persino il suo grembiule per comprargli i libri di scuola, ma Pinocchio ha subito venduto il suo libro per comprare i biglietti per il Teatro dei burattini e, stufo dei rimproveri del Grillo parlante, che è la sua coscienza, lo colpisce con un colpo secco. Al Teatro dei burattini, Mangiafuoco non vuole più ripetere sempre le stesse scene, e anche i suoi burattini si annoiano. Pinocchio entra e vuole salvare Arlecchino dalla collera di Mangiafuoco, ma quattro Gendarmi cercano di arrestarlo. Il furbo Pinocchio convince Mangiafuoco che si potrebbero inventare nuove storie, ad esempio la sua, e così ottiene cinque monete per creare nuove scene per il Teatro dei burattini. Felice per il guadagno, Pinocchio pensa così di poter aiutare Geppetto, ma all’Osteria del Gambero Rosso si addormenta e il Gatto e la Volpe gli rubano le monete. Al risveglio, Pinocchio non può pagare il conto e l’Oste vuole farlo arrestare. Pinocchio allora fugge grazie a un piccione che lo porta in volo e lo lascia davanti alla casa della Fata: Pinocchio bussa, ma la Lumaca, che vive nella casa, è lentissima a raggiungere la porta…
Atto II. La Lumaca, dopo tre settimane, arriva finalmente ad aprire la porta a Pinocchio che, ormai quasi morto, viene curato dalla Fata e da due medici, il Gufo e il Corvo. Pinocchio per guarire deve bere una medicina molto amara: lui fa solo finta di prenderla, e così il naso gli cresce. Quando però si trova davanti a otto Conigli che portano in corteo la sua bara, Pinocchio si spaventa e beve la medicina tutta d’un fiato. Nella scena successiva, Pinocchio incontra il suo amico Lucignolo, che lo convince ad andare nel Paese dei Balocchi, un luogo dove non si lavora né si va a scuola e dove ci si diverte tutto il tempo. La scena si trasforma quindi in un Circo dove Pinocchio, tramutato in un asino, viene costretto a ballare; ma si fa male a una gamba e, diventato inutile per lo spettacolo, viene buttato in mare: lì è inghiottito da un enorme Pescecane. Nella pancia del grosso pesce, con l’aiuto della Fata, ritrova papà Geppetto. Insieme camminano nel buio, fino a quando trovano la strada ed escono dalla bocca del Pescecane. Alla luce del sole, Pinocchio incontra tutti i personaggi delle sue mille avventure; ognuno esprime un pensiero, una speranza, un incoraggiamento, un elogio, compresa la Fata che canta: «Lo chiamavano Pinocchio, ora è un uomo, un uomo vero».

I solisti e il coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi” istruiti da Claudio Fenoglio e i giovani cantanti di Opera Assieme intonano con grande professionalità le rime baciate di Madron, versi che hanno un ironico tono letterario – chissà quante parole nuove avranno imparato i giovanissimi coinvolti nello spettacolo!

Una smilza orchestra, formata di sole prime parti per i fiati, una ventina di archi, percussioni e pianoforte, dipana le accattivanti melodie e accende i colori di una partitura che assume un gusto latino-americano quando si cita la samba o quello di un tune di musical per la spassosa coppia del gatto e la volpe. Doppia fatica quella del maestro Giulio Laguzzi che oltre a condurre la compagine in buca si volta verso la platea per dirigerla in alcuni cori, con risultati inappuntabili.

Nel corso delle recite, aumentate di numero per le richieste del pubblico, nei ruoli principali si sono alternati: Maria Valentina Chirico e Francesca Sicilia (Pinocchio), Salvatore Grigoli e Matteo Mollica (Geppetto), Federica Cacciatore e Selena Colombera (La Fata), Beatrice Fanetti e Marta Leung (il gatto e Pulcinella), Daniele Adriani e Paolo Cauteruccio (la volpe e il dottor Corvo), Rocco Cavalluzzi e Giovanni Tiralongo (Mangiafuco e l’oste), Mariacarmen Antelmi e Serena Morolli (Lucignolo, Arlecchino e il dottor Gufo), le piccole Valentina Escobar e Anita Maiocco (la lumaca). L’elenco sarebbe ancora più lungo, mancano altri interpreti piccoli o grandi. Tutti indistintamente hanno contribuito a rendere festosa e non facilmente dimenticabile la serata.

Uno spettacolo destinato a un pubblico giovane non può fare a meno della magia della parte visiva e la fantasmagoria cui abbiamo assistito ha avuto la firma di Luca Valentino. Il regista ha dovuto fare scelte impegnative nel mettere in scena le mitiche avventure del burattino e la dimensione non reale della vicenda ha indotto a una scelta geniale: il protagonista principale, anche se ha la voce di un soprano, è un burattino vero, animato dalle abili mani di Claudio Cinelli e dei suoi assistenti secondo una tecnica che si rifà al bunraku giapponese. Vestiti di nero su un fondo altrettanto nero che li rende invisibili, i manipolatori muovono la disarticolata forma di legno con grande esperienza e realizzano alla perfezione il contrasto tra burattino ed esseri reali, risultato non sempre ottenuto con successo in altre letture della favola di Collodi.

Nell’allestimento di Luca Valentino c’è una successione ininterrotta di momenti magici: dalle marionette di Mangiafuoco al Paese dei Balocchi (un party in cui i bambini sono travestiti da adulti), dal circo, realizzato con un’economia di mezzi che arriva alla poesia (due pali colorati e due funi per indicare l’ingresso degli artisti nel tendone), al fondo del mare con le sue strane e affascinanti creature. Nella sua lettura Valentino ha avuto come impareggiabili collaboratori il già citato Claudio Cinelli per le scenografie e le animazioni, Laura Viglione per i costumi e Andrea Anfossi per le luci.

Dopo gli scroscianti applausi di un pubblico attento, partecipe e soggiogato da tanta magia, all’uscita dal teatro era difficile trovare qualcuno che non canticchiasse il coretto dei grilli «Cri cri cri…».

Il pubblico in platea, l’altro “personaggio principale” dello spettacolo

 

Bestie di scena

foto © Masiar Pasquali

Bestie di scena

Ideato e diretto da Emma Dante

Teatro della Corte, Genova, 20 marzo 2019

La vita, messa a nudo

“Animali da palcoscenico” diciamo noi italiani. I francesi usano il termine più crudo “bêtes de scène”, bestie di scena, come il titolo del lavoro che Emma Dante ha presentato al Piccolo Teatro di Milano due anni fa e che ora, dopo innumerevoli repliche in Italia e nel mondo, arriva per il Teatro Nazionale di Genova.

Difficile da definire, di certo non è “teatro di parola” – i pochi suoni sono rumori o versi animali o le note struggenti di Only You dei Platters – ma è piuttosto una coreografia, un uso talora impietoso talaltra ironico dei corpi degli attori, corpi nudi che si mostrano al nostro sguardo. “Teatro voyeuristico” ha proposto qualcuno.

Comunque vero teatro.

Molto è stato scritto su questo spettacolo, ma forse le parole più intense le ha trovate Giorgio Vasta, palermitano come Emma Dante. Qui la sua recensione.

Frankenstein

Mark Grey, Frankenstein

★★★☆☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 15 marzo 2019

(diretta streaming)

«Farewell, Doctor Frankenstein»

In alto, sul boccascena dell’iperdecorata sala della Monnaie di Bruxelles campeggia БУЭЛУДЖА. La scritta in cirillico si riferisce alla località bulgara di Buzludža, un’altura su cui sorge la Casa Monumento del Partito Comunista Bulgaro, una costruzione futuristica in cemento di forma circolare inaugurata nel 1981. Al levarsi del sipario se ne vedrà la forma sotto la neve e un video ci porterà dentro la struttura. Dall’alto si calano delle persone, i sopravvissuti alla nuova era glaciale in cui è piombata l’umanità in un lontano futuro. Da un foro del pavimento viene issato un blocco di ghiaccio trovato nel permafrost in un luogo dalle precise coordinate spaziali (quelle appunto del monumento in Bulgaria) e temporali (1816, l’anno in cui Mary Shelley scrive il romanzo Frankenstein, or the Modern Prometheus).

La presunzione dello scienziato è la stessa: qui non si tratta di pezzi di cadaveri assemblati in una “creatura” come nel romanzo ottocentesco, ma del recupero di un corpo inanimato sepolto nel ghiaccio per secoli a cui ridare vita e, ahimè per lui, memoria: «When science allows, we recompose whatever the ice chose for us to see» dice nel libretto di Júlia Canosa i Serra il dottor Walton, «mysterious hints from bygone gods». (1)

Come nel film Metropolis di Lang, anelli di luce avvolgono il blocco e alla fine rimane il corpo nudo di un uomo rimasto ibernato. Scariche elettriche lo riportano in vita. Arriva il dottor Frankenstein eccitato dal successo ma deluso dalla mostruosità della creatura. A lui si unisce la moglie Elisabeth e insieme inneggiano all’amore eterno. La creatura nel frattempo si è nascosta mentre uomini con le torce gli danno la caccia e non sarà l’ultima volta che verrà cacciato per la sua deformità. O forse è solo un suo incubo, o meglio un flashback della sua memoria: realtà e ricordi si mescolano in modo indecidibile. Poi la creatura acquista con fatica la parola. Solo un cieco che non lo vede ha pietà di lui e una ragazza accusata di un omicidio (chissà, forse commesso dal mostro) viene giustiziata. La creatura viene di nuovo sedata e il coro discute sull’utilità dell’operazione di recupero: «We will still be alone in these plains of ice. His tale a fading echo in this infinite white».  (2) Nella scena seguente vediamo che la creatura rinfaccia a Frankenstein quello che ha fatto e gli chiede di dargli una compagna. Già prima il libretto aveva inneggiato al rapporto di coppia: «I seek for fellowship […] in pair, as its [sic] combined. Not bird with beast, nor fish with fowl. Man with woman. Not man alone». (3) Il dottore acconsente purché i due si allontanino per sempre dal consorzio umano e in una scena di truculenta macelleria inizia a costruirgli una fidanzata, ma poi si arresta e si rifiuta di procedere: la creatura allora gli uccide la moglie Elisabeth. Il tutto sempre sotto lo sguardo degli altri scienziati. Frankenstein si dispera. Scende la neve e la creatura muore.

Chi se non La Fura dels Baus poteva mettere in scena questa rilettura in forma fantascientifica del classico della Shelley? Àlex Ollé crea un allestimento molto tecnologico, cinematografico e spettacolare grazie alle scene di Alfons Flores, le luci di Urs Schönebaum, i costumi di Lluc Castells e soprattutto i video di Frank Aleu. Ma è solo  spettacolare, senza una vera drammaticità – difficile da ottenere con un libretto verboso e filosoficamente “pesante”come questo, con personaggi senza spessore e senz’anima. Il tema delle possibilità e dei limiti della scienza rimane qui una discussione accademica che non sembra prestarsi molto, in questa forma, al teatro in musica. Altri ci sono riusciti in maniera più convincente, come ad esempio John Adams con Doctor Atomic per citare un’altra opera contemporanea.

Frankenstein era stato concepito già nel 2011 dallo stesso collettivo catalano e la scrittura della partitura era stata affidata a Mark Grey, sound engineer che aveva collaborato con Philip Glass, Steve Reich e John Adams e infatti in questa sua prima opera si avverte in parte l’influsso minimalista dei tre compositori americani. La musica si accontenta di sottolineare le tensioni drammatiche della vicenda stendendo un tappeto sonoro strumentalmente elaborato ma senza pathos sotto la monotona declamazione su gradi contigui dei personaggi. Se i primi minuti dell’opera sono promettenti, poi però subentra un senso di stanchezza appena scosso dai momenti in cui in orchestra affiora una certa originalità strumentale.

Alla voce quasi bianca di Topi Lehtipuu è affidato il personaggio della creatura, l’unico con un minimo di complessità. Il ruolo di Victor Frankenstein è stato scritto appositamente per Scott Hendricks dal suo amico compositore, mentre Eleonore Marguerre (Elisabeth) intona in maniera ossessiva i suoi peana all’amore. Supplente quasi all’ultimo momento del maestro concertatore originariamente previsto, Bassem Akiki sembra dominare con efficacia l’orchestra. Spesso presente è il coro diretto da Martino Faggiani.

Il lavoro doveva vedere il debutto nel 2016, nel bicentenario della pubblicazione del romanzo, ma problemi col primo librettista e poi con la riapertura della Monnaie dopo i restauri hanno fatto rimandare ad oggi la presentazione. In questo senso l’opera sembra risentire di una certa mancanza di freschezza di ispirazione a otto anni dal concepimento.

(1) «Quando la scienza lo consente, ricomponiamo tutto ciò che il ghiaccio ha scelto di farci vedere. Indizi misteriosi di deità passate».

(2) «Noi saremo ancora soli in queste pianure di ghiaccio. Il suo racconto un’eco che si affievolisce in questo bianco infinito».

(3) «Cerco una comunione in coppia, come deve essere. Non uccello con belva, né pesce con pollo. Uomo con donna. Non uomo solo».

L’incantesimo / Pagliacci

Italo Montemezzi, L’incantesimo/ Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Riga, Latvijas Nacionālā Opera, 21 febbraio 2019

★★★☆☆

(video streaming)

«L’amor tutto può» / «Un amor ch’era febbre e follia!»

Trent’anni dopo la sua opera più famosa, L’amore dei tre re, Italo Montemezzi, residente in California dove si era rifugiato all’inizio della guerra, scrive l’atto unico L’incantesimo, su testo ancora una volta di Sam Benelli. Composto nel 1943 fu eseguito dalla NBC Symphony Orchestra, cui era stato dedicato, e trasmesso alla radio pochi mesi dopo. Per la prima rappresentazione scenica si dovrà aspettare il 9 agosto 1952 a Verona. Il compositore era scomparso il 15 maggio.

Folco, il signore del castello, attende l’arrivo dell’amico Rinaldo, il precedente spasimante della moglie Iselda. Nella notte si scatena una tempesta di neve e Folco teme che l’amico non arrivi. Egli ha convocato anche un mago perché durante una partita di caccia a un lupo in pieno inverno, Folco ha visto una cerva bianca dai tratti della sua sposa, Giselda, e vuole chiedere all’indovino il significato. Il mago Salomone gli rivela che se il suo amore per Giselda vuole che sopravviva deve dovrà ritrovare la cerva da lui ferita e portarla al castello. Nella donna intanto rinascono i sentimenti per il suo amante precedente, il cognato appunto, il mistero che lei ha finora nascosto. A Rinaldo chiede se il suo amore è così forte da tramutare il gelido giardino invernale in un giardìno fiorito a dimostrazione che l’amore può ogni incantesimo. «Se l’ami vedrai la primavera» canta fuori scena il mago. Torna Folco: non ha trovato la cerbiatta nella foresta ma ne vede il corpo morto nel posto dove stava sua moglie. Il paesaggio si trasforma in un giardino fiorito e Giselda canta estatica l’amore per Rinaldo.

La musica del breve lavoro, meno di cinquanta minuti, è decisamente fuori del suo tempo: mentre negli stessi anni Strauss, Britten, Prokof’ev, Dallapiccola sfornano i loro capolavori, Montemezzi si rifugia in un tardo romanticismo dalla turgida orchestrazione e dal canto declamato a tutta voce per una storia pseudo-simbolista che non appassiona. La ripresa di questo lavoro, abbastanza giustamente dimenticato, avviene tra le nevi della Finlandia: l’Opera Nazionale Lettone di Riga lo mette in scena come primo sportello di un dittico che ha nei Pagliacci di Leoncavallo, il maggiore elemento di richiamo.

Mentre l’atto unico di Montemezzi viene messo in scena dal regista armeno Aik Karapetian secondo una visione romantica con fantasiosi costumi medievali e una scenografia di fiaba, il lavoro di Leoncavallo ha un allestimento meno convenzionale. Il sipario si alza su un inserviente in canottiera che scopa un pavimento, ma non è la pista di un circo, bensì il pavimento di un ospizio per la terza età: alle pareti riproduzioni di cani in lotta con belve, in alto un lucernario mostra alberi scossi dal vento della sera. Vecchiette in abiti color pastello e vecchietti in carrozzella e deambulatore avanzano verso il proscenio, quasi minacciosi zombi. Si dispongono a semicerchio per accogliere i personaggi in male arnese che sono arrivati ad “allietare” gli ospiti. Nedda ha un occhio coperto da un cerotto, probabile “regalo” del violento e geloso marito, Tonio è da subito maltrattato da Canio. Durante la recita i vecchietti si assopiscono per svegliarsi solo all’assassinio dei due amanti. L’elemento grottesco dei vecchietti si somma a quello truculento della vicenda in un curioso mix.

In entrambi i pezzi si ammira il sinfonismo delle due partiture ben reso da Jānis Liepiņš, direttore dell’orchestra dell’Opera Nazionale Lettone, che passa con abilità dal postromanticismo fuori tempo di Montemezzi al verismo quasi espressionistico di Leoncavallo. L’unico interprete di ambedue le opere (Folco ne L’incantesimo, Tonio nei Pagliacci) è il baritono bielorusso Vladislav Sulimskij la cui presenza scenica e la voce possente sono ben conosciuti. Meno noti alle nostre latitudini gli altri interpreti, per lo più russi come Sergej Poliakov (Canio) e Tatiana Trenogina (Nedda) o lettoni come Valdis Jansons (Silvio) e Dana Bramane (Giselda)

Agnese

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Ferdinando Paër, Agnese

Torino, Teatro Regio, 12 marzo 2019

★★★☆☆

Duecento anni – e li dimostra tutti

Natura non facit saltus, e neppure il teatro in musica: Mozart e Rossini non sono due punti isolati di un panorama, ma due vette eccelse collegate da pianori meno elevati a cui appartiene anche la figura di Ferdinando Paër (1771-1839), prolifico autore teatrale (oltre quaranta opere) e a suo tempo osannato compositore, ma presto oscurato dall’astro del pesarese, di vent’anni più giovane. Il periodo in cui vive il compositore parmense, cervello in fuga dall’Italia (Vienna, Dresda, Varsavia, Parigi), è quello di transizione tra il melodramma serio settecentesco, la scuola napoletana e il ciclone Rossini.

Unica eccezione al carattere autarchico-nazional-popolare della corrente stagione del Teatro Regio di Torino è la produzione, prima in tempi moderni, della sua Agnese. Presentata nell’ottobre 1809 per l’inaugurazione del teatrino fuori Parma di Villa Scotti dal cui proprietario era stata commissionata, il lavoro conobbe da subito un’ampia diffusione: neanche due anni dopo era infatti a Napoli, poi a Roma, Venezia e Milano, per citare solo le tappe italiane.

Il «dramma semiserio», su testo di Luigi Buonavoglia tratto dall’omonima commedia di Filippo Casari a sua volta basata sul romanzo The Father and Daughter di Amelia Opie pubblicato nel 1801, si svolge «nelle adiacenze di una città del Regno di Napoli».

Atto I. L’opera si apre con una scena di tempesta notturna durante la quale troviamo la protagonista Agnese smarrita nel bosco: sta fuggendo da Ernesto, da cui è stata sedotta e per il quale ha abbandonato il padre. L’infedeltà di Ernesto ha spinto Agnese a scappare dal compagno con la piccola figlia nata da quell’infelice unione. Agnese incontra sul suo cammino un misterioso personaggio in catene. Si tratta di un malato di mente fuggito dall’ospedale, che altri non è se non il padre stesso di Agnese, Uberto, impazzito credendo morta la figlia e quindi rinchiuso in manicomio. I due discutono con trasporto, ma il malato non riconosce la figlia. Inoltre, il custode e gli inservienti dell’ospedale irrompono improvvisamente in scena, afferrano Uberto e lo portano via. Agnese disperata decide allora di rivolgersi a Don Pasquale, direttore dell’ospedale. Questi viene raggiunto nel suo ufficio dalla figlia Carlotta e dalla cameriera Vespina, le quali gli annunciano l’arrivo di Agnese e lo pregano di aiutarla. Pasquale, che deplora il passato della giovane, in un primo momento rifiuta, ma poi, vinto dalle insistenti preghiere delle due accetta di riceverla. Agnese prega Don Pasquale di condurla dal padre per tentare in qualche modo di porre rimedio alle sofferenze inflittegli. Così, Agnese, Don Pasquale, il dottore Don Girolamo ed il custode giungono alla cella del malato. La scena che si presenta loro è delle più meste: Uberto disegna sepolcri sul muro e in preda alla follia passa dal pianto al riso e dalla quiete alla furia. Poi, ad un tratto, si calma e canticchia una canzone malinconica, che Agnese spesso soleva cantargli. Quando Agnese stessa entra nella cella intonando la seconda strofa, Uberto ha un sussulto e sembra riconoscere la figlia. Tutti credono allora ad una pronta guarigione del malato, ma è amara la sorpresa quando Uberto, nuovamente assalito da una crisi, aggredisce bruscamente Don Pasquale venuto a stringergli amichevolmente la mano, gettando tutti nello sconforto.
Atto II. Uberto dorme profondamente. Il medico è fiducioso e ha un piano che forse farà guarire il malato. Egli ha fatto ricreare l’ambiente di casa attorno a Uberto e raccomanda a tutti di comportarsi come se nulla fosse mai accaduto e di parlargli di Agnese come se non fosse mai partita. Così, al suo risveglio, la domestica Vespina gli serve il caffè dicendo che è stato preparato da Agnese e alle domande del padrone risponde che essa dev’essere in giardino a cogliere le rose o a suonare l’arpa. A questo punto Uberto è molto confuso e non riesce a capire se il tutto sia sogno o realtà. Agnese, dal canto suo, si dispera per il dolore procurato al padre e prega perché guarisca. Intanto Ernesto, che nel frattempo ha seguito le tracce della sposa, ferma Don Pasquale e chiede il suo aiuto per convincere Agnese a perdonarlo. Lei alla fine cede alle sue insistenti preghiere e lo perdona accogliendolo di nuovo fra le sue braccia. Un breve coro gioioso festeggia la prossima guarigione del malato. Sopraggiunge Uberto e tutti si ritirano pronti a eseguire il piano stabilito dal dottore. Il primo ad avvicinare Uberto è Don Pasquale, ma ancora una volta egli è aggredito dal malato. D’improvviso si sente il suono di un’arpa, che arresta Uberto. Tutti gli spiegano allora che si tratta di Agnese che si diletta a suonare. Agnese canta una canzone cara al padre e compie in questo modo il miracolo: Uberto si risveglia completamente ristabilito, riconosce la figlia e perdona Ernesto, il quale giura amore eterno ad Agnese e l’opera si chiude su un gioioso coro finale.

Se nella rappresentazione a Villa Scotti era stata impiegata una compagnia di dilettanti, nelle riprese sia in Italia che all’estero gli interpreti furono del calibro del Lablache e del Tamburini e particolarmente importanti furono gli allestimenti parigini al Théâtre Italien nel luglio 1819, nel 1821 e nel 1824, con la Pasta protagonista. Grande fu il successo – tra gli estimatori ci furono Chopin, Berlioz e Victor Hugo, il quale citò addirittura l’opera ne Les misérables – ma tra gli spettatori ci fu uno Stendhal che lamentò l’eccessivo realismo del lavoro: «Nessuno si sogna di andare a studiare così in dettaglio i ritiri orrendi in cui la pietà pubblica relega i folli. […] Le belle arti non dovrebbero mai far proprii gli argomenti orribili. […] La musica, centuplicando la mia sensibilità, mi rende questa scena orribile assolutamente insopportabile. L’Agnese mi suscita uno spiacevole ricordo, tanto più sgradevole quanto il soggetto è vero».

Agli allestimenti francesi si devono i rimaneggiamenti operati dal Paër con cospicui tagli appena compensati dall’introduzione di alcuni numeri nel secondo atto. Questi nuovi brani sono emersi in recenti ricerche e dimostrano il rinnovamento stilistico dell’autore sulla scia dell’influsso di Rossini. Della ripresa del 1819 c’è l’aria di Ernesto «Ah! Se il fato, oh Dio! Non frena» e la scena e aria con recitativo accompagnato di Agnese «Date solo, o Ciel clemente». Del 1824 il duetto Agnese-Ernesto. I drastici tagli qui a Torino sono stati recuperati assieme ai nuovi numeri così che l’edizione concertata da Diego Fasolis è dunque la più completa possibile.

Il primo atto ha un che di musicalmente inconcludente che sembra giustificare il fatto che l’opera sia stata dimenticata per così tanto tempo: stilemi mozartiani ripresi con mestiere ma senza originalità, una orchestrazione non esaltante, mancanza sia di temi melodici che si imprimano nella memoria sia di prodezze vocali che destino in qualche modo l’attenzione e la meraviglia, un libretto senza nerbo.

All’intervallo molte sono le facce deluse, parecchie le defezioni di un pubblico già scarso in partenza, ma per chi è rimasto arriva la sorpresa di un secondo atto scoppiettante con un alternarsi di numeri musicali sorprendenti, anche se di sicura matrice rossiniana. Ecco quindi le agilità del canto di Ernesto, la vivacità della serva Vespina, l’umorismo del “protomedico” Don Girolamo. Sono loro che destano più interesse: Edgardo Rocha, affermato interprete del repertorio rossiniano non delude con i suoi vocalizzi acrobatici, Giuliana della Peruta unisce alla sicurezza vocale una vivace presenza scenica, Andrea Giovannini si rivela ottimo attore e caratterista. Non delude il Don Pasquale di Filippo Morace che esibisce qui la vis comica abilmente costruita nei canovacci dell’opera napoletana. Si conferma il sicuro mestiere di Markus Werba, il padre Uberto che impazzisce inventandosi la morte della figlia piuttosto che accettarne la fuga («Non è fuggita, no» continua a ripetere ossessivamente). Resta Agnese, qui affidata al soprano di zarzuela Maria Rey-Joly, cantante di temperamento ma dalla voce un po’ aspra e ingolata, timbro monocromo ma con acuti potenti. Alla guida dell’orchestra del teatro Diego Fasolis dimostra di essere come sempre a suo agio in questo repertorio e rende al meglio una partitura non esaltante. Efficace e scenicamente vivace il coro diretto da Andrea Secchi.

Nella messa in scena di questo lavoro desueto Leo Muscato punta su una stilizzazione che arriva a toccare lo stucchevole: Ernesto rimane senza evoluzione psicologica e i suoi atteggiamenti da film muto divertono solo fino a un certo punto: nel duetto con la moglie ci si aspetta che abbandoni finalmente il suo ruolo di personaggio di cartapesta, ma ciò non avviene. Più accettabili i tic di Don Girolamo, il singhiozzo di Vespina, o la figlia di Agnese, fotocopia ridotta della madre, e il coro con le suore barbute. Originale l’impianto scenografico di Federica Parolini formato da grosse scatole di prodotti farmaceutici con la grafica di primo Novecento che aprendosi fungono da studio del direttore o da cella del povero Uberto. I costumi anni ’20, con knickerbockers per gli uomini, sono di Silvia Aymonimo.

Il pubblico del Regio, colpevolmente disabituato da una programmazione senza sorprese e complice una importante partita di calcio, ha disertato in parte la sala, ma quelli presenti hanno tributato cordiali applausi agli artefici dello spettacolo.

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foto © Edoardo Piva

HER MAJESTY’S THEATRE

Her Majesty’s Theatre

Londra (1897)

1216 posti

Costruito dall’architetto e drammaturgo John Vanbrugh nel 1705 sotto la regina Anne, da cui il nome Queen’s Theatre, il teatro di Haymarket fu la più importante Opera House londinese dell’epoca. Tra il 1711 e il 1739 vide il debutto di 25 opere di Händel come King’s Theatre, essendo sul trono i monarchi George I e II della casa di Hannover. Nel 1837 divenne Her Majesty’s Theatre Italian Opera House con la regina Victoria e  His Majesty’s Theatre dal 1901 al 1952 con i re Edward VII, George V, Edward VIII e George VI. Con il lungo regno di Elisabeth II è ritornato a essere Her Majesty’s Theatre, ma ospita solo musical (dal 1986 vi viene ininterrottamente rappresentato The phantom of the Opera!) essendo il repertorio lirico appannaggio della sala del  Covent Garden.

Distrutto da un incendio doloso nel 1789 fu ricostruito con l’aiuto finanziario dell’avvocato William Taylor su disegni di Michael Novosielski e riaperto privatamente nel marzo 1791 perché non ottenne la licenza a ospitare spettacoli pubblici. Solo nel gennaio 1793 poté riaprire al pubblico e ospitare una serie di concerti di Haydn e le prime londinesi de La Clemenza di Tito, Così fan tutte, Zauberflöte e Don Giovanni di Mozart negli anni 1806-16 e nel 1818-20 le prime delle opere di Rossini. Qui avvennero anche i debutti londinesi di Donizetti e Verdi.

Il 6 dicembre 1867 il teatro fu nuovamente distrutto da un incendio che lasciò in piedi solo i muri perimetrali. Gli architetti questa volta furono Charles Lee e figli e William Pain e l’edificio meno preda del fuoco con largo uso di mattoni, ferro e gesso. Inaugurato nel 1877 con la Norma di Bellini, nelle successive stagioni il teatro ospitò Carmen e Der Ring des Nibelungen. Rigoletto, nel maggio 1889, fu l’ultima opera rappresentata: obsoleto per gli standard dell’epoca, l’edificio fu demolito e ricostruito su progetto di Charles J. Philipps, il suo ultimo poiché morì nel 1897, anno dell’inaugurazione.

Disegnato come simmetrico all’adiacente Carlton Hotel, di cui costituiva un terzo dell’imponente facciata, si compone all’esterno di quattro piani con un colonnato corinzio al primo piano e cupole quadrate alla sommità in uno stile ispirato al Rinascimento Francese. L’interno, disegnato da W.H. Romaine-Walker, si ispirerebbe invece all’opera di Versailles. Negli anni 1960 l’hotel adiacente è stato demolito per far posto a un grattacielo che incombe sul teatro e solo la Royal Opera Arcade di Nash e Repton, la più antica arcade di Londra, si è salvata.

 

Juditha triumphans

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Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1598-1599

Antonio Vivaldi, Juditha triumphans

★★★★☆

Amsterdam, het Muziektheater, 30 gennaio 2019

(video streaming)

Vivaldi in tempore belli

Per una volta camion militari e fucili nella messa in scena di un’opera barocca sono plausibili trattandosi di un “Sacrum Militare Oratorium” come recita il testo di Iacopo Cassetti stampato in “Venetiis, MDCCXVI, apud Bartholomæum Occhium, sub signo S. Dominici”.

La moda di mettere in scena lavori musicali non destinati alle scene – tra gli ultimi il Requiem di Mozart, La creazione di Haydn e i Gurre-Lieder di Schönberg (gli oratorii di Händel sono per loro stessi talmente teatrali che quasi non vengono più eseguiti in forma concertistica) – se da un lato può avvicinare un certo pubblico, dall’altro viene da chiedersi se un soprano travestito da nazista che gorgheggia «Matrona inimica | Te quaerit ad arma» sia più convincente e più a suo agio di un soprano in abito da sera in una versione oratoriale. Ma i dubbi li lasceremo alla prossima volta, poiché questa versione olandese dell’unico oratorio rimasto dei quattro scritti del Prete Rosso è uno spettacolo notevole.

In mancanza di una ouverture viene qui utilizzato il Concerto Grosso in Re RV562a per due violini, che ci introduce a un paesaggio di rovine della Seconda Guerra Mondiale. La Betulia occupata dai siriani nel biblico Libro di Giuditta diventa qui la cupola di una chiesa bombardata, rifugio di civili scampati alle rappresaglie naziste. Il coro di ambisessi (l’originale all’Ospedale della Pietà era ovviamente solo femminile) canta «Arma, caedes, vindictae, furores, | Angustiae, timores | Precedite nos» (Armi, battaglie, vendette, furori, sofferenze, timori, precedeteci). Oloferne ha la divisa della Wehrmacht, Giuditta sfoggia perle e cappotto con collo di pelliccia negli eleganti costumi di Dieuweke van Reij, anche scenografo. L’avvenenza della Juditha si scontra con l’Oloferne en travesti e qui quello che si vede è inferiore a quello che si sente: il realismo dell’immagine si scontra con la stilizzata forma musicale, i tempi della drammaturgia sono diversi da quelli musicali ed è come se la vicenda fosse tutta ripensata al rallentatore. Vero è però che la tensione drammatica che manca alla musica di Vivaldi nella scena dell’uccisione di Oloferne viene qui fornita dalla messa in scena di Floris Visser che punta sulla definizione psicologica dei personaggi. Nella lucida drammaturgia di Klaus Bertisch ogni personaggio è esattamente caratterizzato, non solo Oloferne e Giuditta, ma anche Vagaus, un ambiguo attendente, e Abra, la fedele compagna di Giuditta.

La solita piattaforma rotante mostra l’interno dell’ambiente che Oloferne, per sedurre Giuditta, “arreda” con il bottino di guerra (e tra le opere d’arte trafugate c’è anche la tela del Caravaggio) mentre all’esterno un camion è pronto a caricare e deportare gli uomini. Dopo un altro mezzo giro vediamo a terra i cadaveri dei giovani della resistenza fucilati dai nazisti.

La sublime bellezza della musica di Vivaldi, una collana di preziose perle costituite da arie solistiche ognuna caratterizzata da un colore strumentale diverso, è qui esaltata dalla trascinante direzione di Andrea Marcon e dai membri della sua orchestra, La Cetra Barockorchester di Basilea, formata da magnifici solisti. Anche il cast vocale si distingue per l’eccellenza. Il mezzosoprano Gaëlle Arquez è Giuditta: a parte la presenza, il tono caldo della voce e la dolcezza di emissione si affiancano a un grande temperamento nella preghiera «Summe astrorum Creator» che precede l’assassinio di Oloferne e prima ancora nell’«Agitata infido flatu». La fedele Abra trova in Polly Leech l’interprete ideale per intensità e agilità. Il Vagaus di Vasilisa Beržanskaia dimostra la ricchezza della scuola russa in fatto di voci di coloratura e affronta con isterica veemenza ma tecnico controllo l’aria di furore «Armatæ face, et anguibus». Teresa Iervolino torna a ricoprire il ruolo di Oloferne con la padronanza vocale che si conosceva così come il contralto Francesca Ascioti riprende a vestire con efficacia i panni di Ozias. Il coro, soprattutto quello femminile, rende magico il momento delle «vergini suonanti le arpe» fuori scena.

Stagione Sinfonica RAI

Jean-André Rivens, La mort de Cléopâtre, 1874

Leoš Janáček, Žárlivost (Gelosia)
Hector Berlioz, La mort de Cléopâtre
Gustav Mahler, Sinfonia n° 5 in do diesis minore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 7 marzo 2019

Un  programma quasi teatrale

Tre autori diversi, nati nell’Ottocento. I loro tre lavori, che sono stati diretti da Edward Gardner per la stagione dei concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, hanno tutti un certo carattere teatrale.

Inizialmente Žárlivost era nata come ouverture a Jeji pastorkyna (poi Jenůfa), la sua prima opera teatrale di successo. Ma, giudiziosamente, Janáček l’aveva destinata a lavoro a sé – troppo magniloquente per il realismo del lavoro – e aveva lasciato quindi che l’opera iniziasse con quel battito dello xilofono e quel pizzicato degli archi bassi così evocativi e da allora così indissolubilmente legati alla cruda vicenda della Preissová. Ma la pagina espunta dall’opera ha una sua bellezza ed originalità che è giusto assaporare in sede di concerto.

Non era nata per il teatro, ma è una vera scena teatrale – scène lyrique la definisce l’autore – La mort de Cléopâtre, terzo tentativo di Berlioz per aggiudicarsi il “Prix de Rome”. Ci riuscirà solo al quarto tentativo, con un’altra morte, quella di Sardanapale, meno audace nella scrittura per la conservatrice commissione giudicatrice. Sontuosa e impeccabile interprete è stata una regale Anna Caterina Antonacci, perfettamente a suo agio nella lingua e nel carattere di questa pagina che non sfigurerebbe nei Troyens di quasi trent’anni dopo.

E infine Mahler. La sua quinta sinfonia è tra le più eversive che abbia scritto: cinque movimenti, una strumentazione particolare che subì innumerevoli ripensamenti, un insieme di motivi di marcia o volgari che formano quello che il compositore stesso ha definito «universo sonoro primigenio, mare ribollente, mugghiante, sibilante». E in mezzo la pace misteriosa ed estenuata dell’adagietto che sui suoni dell’arpa riprende il tema del Lied «Ich bin der Welt abhanden gekommen», l’ultimo dei Rückert-Lieder. Edward Gardner ha dato una lettura lucida del poderoso lavoro che ormai compete in popolarità con la Quinta beethoveniana.

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El sueño de una noche de verano

Joaquín Gaztambide, El sueño de una noche de verano

★★★☆☆

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 10 febbraio 2019

(diretta streaming)

Nella zarzuela di Gaztambide la parodia dell’opera italiana

«Beber de todo vino, amar a toda bella | ese es grato destino, esa es la mejor estrella». Ecco il programma del gaudente Guillermo ne El sueño de una noche de verano, opera comica in tre atti che aveva debuttato al Teatro del Circo di Madrid nel febbraio 1852 – il teatro de la Zarzuela sarebbe stato inaugurato quattro anni dopo.

Il suo autore, Joaquín Romualdo Gaztambide (1822-1870), fu tra quelli che fecero rinascere la zarzuela in Spagna dopo l’occupazione di Napoleone, che aveva bandito l’opera italiana e imposto quella francese. Gaztambide fu infatti tra i fondatori della Sociedad Artistica per diffondere la zarzuela in tutto il paese. Con la sua Catalina e Jugar con fuego e Los diamantes de la corona di Barbieri negli anni ’50 dell’Ottocento la zarzuela risorgeva dopo i fasti dei secoli precedenti.

Col libretto di Patricio de la Escosura basato sull’opéra-comique Le songe d’une nuit d’été (1850) di Joseph-Bernard Rosier e Adolphe de Leuven, la zarzuela di Joaquín Gaztambide è ora sulla scena in un adattamento di Raúl Asenjo che ha riscritto il testo recitato. Della commedia di Shakespeare non c’è che il titolo. Si tratta di una vicenda di teatro nel teatro: come spiegato al Direttore del Cinema e del Teatro del Governo Spagnolo a sipario ancora chiuso, per portare la zarzuela al di fuori dei confini nazionali occorre un titolo “internazionale”, anzi “anglosassone”. Cosa c’è di meglio quindi del buon vecchio Shakespeare e della sua A Midsummer Night’s Dream in formato cinemascope con la regia nientemeno che di Orson Welles? Il tutto è solo un pretesto per riavvicinare la Principessa Isabella Tortellini al suo amoroso Guillermo del Moro e ottenere così il patrocinio finanziario della nobile dama per questa e altre produzioni.

Nella messa in scena di Marco Carniti siamo nell’Italia della Dolce vita, coeva alla Spagna franchista. Tra i personaggi c’è anche un certo Domingo, un ex tenore che ora canta da baritono, un Sabadete/Sabatini sovrappeso e col fazzolettone per detergersi il sudore. Nella prima parte vediamo l’arruolamento dei personaggi nella trattoria con vista sulla scalinata di Trinità dei Monti, nella seconda siamo nella magia del bosco ricreata nella scenografia di Nicolás Boni con i costumi di Jesús Ruiz.

Pur nella sua specificità iberica la musica di Gaztambide attinge a man bassa da Donizetti nelle cabalette ed è quasi una citazione de La fille du régiment il duetto del primo atto con Isabella e Guillermo. Il direttore Miguel Ángel Gómez-Martínez a capo dell’orchestra del teatro dipana le piacevoli melodie con grande verve. Viene assecondato da un vivace cast da cui emerge il Guillermo/William Shakespeare di Santiago Ballerini, tenore di gran bella voce, ottima tecnica, acuti luminosi e buona presenza scenica che piacerebbe ammirare in un repertorio “serio”. Isabel è Raquel Lojendio, soprano di temperamento che si esibisce anche nella danza sulle punte. Cantanti e attori, tutti si adeguano alla regia spiritosa e brillante di Carniti, che si diverte a mescolare Shakespeare, Falstaff, canzoni pop italiane e varie citazioni operistiche.