Mese: settembre 2017

Les Indes galantes

Jean-Philippe Rameau, Les Indes galantes

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 24 luglio 2016

(video streaming)

Oggi non sono più galanti

Chi l’avrebbe mai pensato che un’opéra-ballet come Les Indes galantes potesse celare in sé forti contrasti sociali e razziali? Ci ha pensato il regista e coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, nato nel 1976 ad Anversa, nella sua messa in scena del lavoro di Rameau caricando di significato politico le ingenue entrées di Rameau. L’esotismo e le grandi colonizzazioni di allora diventano le problematiche ideologiche del libretto di Louis Fuzelier, là dove si fa accenno ai diversi costumi dei paesi o si esalta implicitamente il bon sauvage in confronto all’uomo civilizzato o si prendono in considerazione gli effetti del clima sulla natura degli abitanti.

L’idea della diversità è quella che ha mosso Cherkaoui: la diversità nel Settecento rispetto a quella dei giorni nostri. Le Indie di Rameau oggi cosa rappresentano? I rifugiati alle nostre porte! L’esotismo l’abbiamo qui. I “selvaggi” sono quelli che fanno i lavori di pulizia in una quotidianità cui non facciamo nemmeno più caso. Con uno sguardo spesso ironico il regista pone la questione del militarismo, dell’educazione dei giovani (nel prologo il contrasto tra Ebe e Bellona è tra la formazione degli spiriti e la loro militarizzazione) e delle contraddizioni della religione, creando così uno spettacolo per i nostri tempi.

La scena unica di Annna Viebrock rappresenta un’aula scolastica i cui muri sono “protetti” in alto da rete metallica e filo spinato mentre incombe un’elica di elicottero. Hébé è la sorridente maestrina, Bellone la temibile direttrice en travesti che vuole trasformare gli scolari in soldatini. Tabelloni didattici con farfalle e piante suggeriscono l’idillico «bocage» del prologo, presto rimpiazzati però da disegni di armi da guerra e aerei da combattimento.

Le luci si abbassano e vengono introdotte delle teche illuminate con uomini e donne che creano dei tableaux vivants: siamo nel museo/harem dell’episodio del turco generoso che lascia liberi gli amanti prigionieri in segno di riconoscenza di un antico gesto di generosità. Le teche poi diventano battelli che trasportano lontano: siamo nel Perù, l’entrée successiva, dove l’armadio con sopra i mappamondi ora è un confessionale e i banchi di scuola diventano i banchi di una chiesa. Il «culte fatal» è qui quello di una missione cattolica in un paese coloniale in cui si celebra un funerale che lascia la giovane vedova preda delle illecite concupiscenze del sacerdote che si muove su un hoverboard e droga i fedeli con le ostie per millantare i suoi miracoli. Nella stessa chiesa avvengono le nozze di Émilie con Valère e di altre coppie di giovani – ma non di una coppia gay che viene rifiutata dal prete.

Per il quadro successivo rientrano in scena le teche, questa volta piene di fiori. Il meraviglioso quartetto «tendre amour» è cantato tra un gruppo di rifugiati con i loro miseri fagotti. I colori dei petali qui sono le variopinte coperte degli stessi. Con l’«orage» e le danze dei venti si passa all’ultima entrée, “Les sauvages”. La scena si è trasformata nel frattempo nel cortile di un centro di identificazione ed espulsione, come li chiamiamo noi in Italia, dove «la danse du grand calumet de la paix» si trasforma ironicamente in scontri a colpi di ramazza e attrezzi per la pulizia per poi ricomporsi nella ciaccona finale quando si ricrea l’aula dell’inizio, però con tutti gli altri elementi utilizzati nei quadri precedenti (l’altare, le teche ecc.) e anche gli stessi personaggi.

I balletti sono ovviamente preponderanti in questo lavoro e qui il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui punta a dei movimenti nervosi e acrobatici che oltre alla formidabile compagnia Eastman di Anversa coinvolgono anche gli interpreti vocali che passano senza soluzione di continuità dal canto alla danza; alcuni più sciolti altri un po’ meno, ma tutti stanno al gioco del regista che in questo modo annulla la separazione dei generi. Anche metaforicamente: come non ci sono più frontiere fra i paesi, non ci sono più differenze tra i generi artistici. Solo l’amore – e di conseguenza la pace – è l’elemento che supera tutte le diversità.

Gioiosamente impegnati spesso in due parti sono gli interpreti, in maggioranza specialisti del repertorio barocco. Meritano tutti di essere ricordati: Ana Quintans (LʼAmour/Zaïre), Cyril Auvity (Valère/Tacmas), Lisette Oropesa (Hébé/Zima), Goran Jurić (Bellone), Tareq Nazmi (Osman/Ali), Elsa Benoit (Emilie), François Lis (Huascar/Alvar), Anna Prohaska (Phani/Fatime), Mathias Vidal (Carlos/Damon) e John Moore (Adario). La loro dedizione ha il giusto riscontro nella concertazione sapiente ed elegante di Ivor Bolton – la “danse des sauvages” ha meravigliato ancora una volta per le sue inedite sonorità. Ottimo il Balthasar Neumann-Chor di Friburgo.

Con la drammaturgia di Antonio Cuenca Ruiz e Miron Hakenbeck Les Indes galantes di Cherkaoui hanno fatto accorrere numerosi al Prinzregententheater e il risultato è stato accolto con molto favore dal pubblico di Monaco di Baviera. Forse solo qui una lettura ideologica di Rameau, autore poco conosciuto in terra tedesca, può essere accettata, difficilmente sarebbe passata nel suo paese, la Francia.

A Midsummer Night’s Dream

Benjamin Britten, A Midsummer Night’s Dream

★★★☆☆

Palermo, Teatro Massimo, 19 settembre 2017

(diretta tv)

Il Sogno di Britten a Palermo non fa sognare

Il regista scozzese Paul Curran ha messo in scena l’opera di Britten parecchie volte e proviene da Valencia questa sua ultima versione ora al Massimo di Palermo. Sue sono la regia e le scene, i costumi sono di Gabriella Ingram, le luci di David Martin Jacques e le coreografie di Carmen Marcuccio.

Nello spettacolo, ripreso da Allex Aguilera Cabrera, mentre gli strumenti dell’orchestra si accordano, vediamo a sipario aperto un sito archeologico, colonne doriche su una piattaforma rotante, che viene popolato dai personaggi della commedia che arrivano chi a piedi chi in bicicletta – in seguito si vedranno anche dei segways. Con le prime note del preludio “slow and mysterious” del crepuscolo nel bosco la scena piomba nel buio e magiche figure con lucine incorporate e dai colori fluorescenti prendono posto sulla piattaforma del monumento fino all’arrivo di Puck. Sui glissandi sornioni dell’orchestra entreranno poi in scena i mortali, mentre le grossolane note dei fiati accompagneranno l’ingresso dei «rustics» per la rappresentazione della «most lamentable comedy, | and most cruel death of Pyramus and Thisby».

Ecco quindi presentati musicalmente i tre mondi del Sogno scespiriano: gli dei e le fate, i nobili ateniesi e gli “hard-handed men” prossimi al mondo animale – e infatti sarà di Bottom la metamorfosi asinina. Ed è quello del mondo delle fate quello meno convincente in questo spettacolo con un Oberon enorme bacherozzolo e Tytania una Frida Kahlo da avanspettacolo. Coreografie riempitivo per i momenti strumentali e una generale aria da recita scolastica. La quasi totalità del coro di voci bianche è femminile (e così si perde il colore soprannaturale) e non sempre a suo agio nell’intonazione.

Vocalmente perfetto l’Oberon di Lawrence Zazzo, un po’ troppo metallica e vibrata la voce della Tytania di Jennifer O’Loughlin. Puck, il ballerino Chris Darmanin è bravo come acrobata, un po’ meno come attore. Buono il livello “umano” – Lysander Mark Milhofer, Demetrius Szymon Komasa, Hermia Gabriella Sborgi, Helena Leah Partridge – anche se nessuno dei quattro interpreti va oltre una gradevole performance. Il Theseus di Michael Sumuel e l’Hippolyta di Leah-Marian Jones entrano alla fine come i nobili sposi a commentare la sgangherata recita dell’efficace sestetto dei rustici, che qui ha la punta di eccellenza in Zachary Altman, un Bottom già ammirato altrove. Daniel Cohen dirige l’orchestra del Massimo e la sua è una lettura chiara e precisa della splendida partitura, ma senza particolari bellurie.

foto © Rosellina Garbo

 

The Yeomen of the Guard

Arthur Sullivan, The Yeomen of the Guard

Quasi un grand opéra può essere considerato The Yeomen of the Guard or The Merryman and his Maid della ditta Gilbert & Sullivan. Il librettista la reputava «the best thing we have done», il musicista la sua preferita. Il maggior impegno si vede nell’ouverture scritta in forma sonata, il primo atto contenente un insolito numero di pezzi sentimentali, l’orchestra allargata a un secondo fagotto e a un terzo trombone e i dialoghi in inglese antico. Il tono più serio e scuro fu apprezzato dal recensore del Times: «Si deve riconoscere al Signor Gilbert di essere riuscito ad abbandonare i solchi abituali per innalzarsi a livelli più elevati».

Il poster di un beefeater (i guardiani della Torre di Londra) nella metropolitana aveva ispirato la vena di Gilbert che decise che quella figura «would make a good picturesque central figure for another Savoy opera», che sarebbe stata la numero dieci. L’ondata di patriottismo accesa dal giubileo di Queen Victoria ben si collegava all’ambientazione Tudor di questa vicenda tratta da un lavoro francese (Don César de Bazan) in cui si narrava di un cavaliere in prigione e condannato a morte che sposava una zingara e dopo essere fuggito e ferito ritornava travestito da monaco. Il titolo ebbe numerose varianti: inizialmente The Tower of London, poi The Tower Warder, poi ancora The Beefeater e infine quello definitivamente adottato. Scritta in gran fretta, con l’ouverture composta durante le ultime prove e le parti ancora fresche d’inchiostro gettate nella buca dell’orchestra all’ultimo momento, la sera del 3 ottobre 1888 segnò comunque un caloroso successo che rinfrancò il duo dopo la fredda accoglienza del precedente Ruddigore. Sarebbero seguite altre 422 repliche.

In rete sono disponibili le produzioni della Connecticut G&S Society del 2103 e della Rowan Opera Company del 2011.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 20 settembre 2017

(live streaming)

Con McVicar il Flauto incanta la vista e il cuore

La Royal Opera House ripropone per la sesta volta la gloriosa produzione del 2003 di David McVicar già presente in DVD dove è diretta da Sir Colin Davis con un trio di interpreti superlativi: Simon Keenlyside, Dorothea Röschmann e Diana Damrau (forse la miglior edizione video disponibile su disco).

McVicar fa il miracolo di creare un Flauto magico quasi inedito nella sua forza espressiva senza stravolgerne la drammaturgia e dimostra ancora una volta che un’opera può essere messa in scena in mille modi diversi: la sua regia, qui ripresa da Thomas Guthrie, è quanto di più distante ci sia dalle letture che hanno fatto di quest’opera Carsen o Michieletto, tanto per citare due esempi. Eppure, altrettanto emozionante.

Nel teatro di McVicar c’è la perfezione di una visione che non stravolge: qui c’è il serpente che minaccia Tamino («die listige Schlange»), ci sono i leoni del carro di Sarastro, i simboli massonici (la luna e il sole), tutti perfettamente realizzati e inseriti nelle scenografie ora solenni ora incantate di John MacFarlane (suoi anche i bellissimi costumi settecenteschi) immerse nelle luci magiche di Paule Constable. McVicar è talmente fedele al libretto che si può prendere alcune libertà, come Papagena che la prima volta non appare come una vecchia (da cui la battuta degli «achtzehn/achtzig Jahr und zwei Minuten») bensì come una peripatetica disinibita; o il fuoco e l’acqua delle prove dei due giovani, rappresentati da degli umani che si agitano come fiamme o boccheggiano come sommersi in un liquido.

Nella pur apparente “tradizione”, McVicar insinua però il tarlo di un’idea nuova, di una sfaccettatura cui non si era pensato. Qui si tratta della condizione femminile, definita molto precisamente dal libretto: «Die süßen Triebe mitzufühlen | Ist dann der Weiber erste Pflicht (Condividere i dolci desideri è poi il primo dovere di una donna) […] Ein Weib tut wenig, plaudert viel (una donna fa poco e chiacchiera molto) […] Ein Mann muß eure Herzen leiten, | Denn ohne ihn pflegt jedes Weib | Aus ihrem Wirkungskreis zu schreiten (Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria) […] Geschwätz, von Weibern nachgesagt (Chiacchiere, riportate da donne) […] [die Königin] ist ein Weib, hat Weibersinn! ([la Regina] è una donna, ha cervello da donna!)»…

Da questa misoginia McVicar si stacca con ironia: nello studio di Sarastro il maschietto studia un planetario, mentre la femminuccia agucchia sul ricamo, ma la sua Pamina ha uno spessore che manca a un Tamino di cartapesta in quanto in fondo è lei la vera eroina, colei che guida il principe attraverso le prove. È lei il motore dell’azione. Qui è interpretata dalla sensibile e tenera Siobhan Stagg. Mauro Peters non ha un timbro incantatore e i fiati sono un po’ corti, ma ha comunque disegnato un Tamino convincente. Sarastro ha in Mika Kares una statura imponente e una voce chiara, anche troppo per quando si inabissa nel registro cavernoso di «In diesen heil’gen Hallen».

Del Papageno di questa produzione si può dire che il bravissimo Roderick Williams non fa nulla per renderlo “piacione” (la simpatia se l’è giocata tutta quando ha strozzato il pennuto con cui aveva avuto una gag spassosa): il suo Papageno è un uomo pavido e prosaico e che non cerca di rubare la scena a tutti i costi, nondimeno Williams si dimostra uno stupendo attore ed esibisce una piacevole vocalità. Vivace la Papagena di Christina Gansch, che assieme al suo Papageno trasforma il loro letto in una nave traboccante di marmocchi di ambo i generi. Allo stremo delle sue possibilità vocali, Peter Bronder (contestato da parte del pubblico alla fine) ha perlomeno accentuato l’aspetto decrepito di questo Monostatos che, con la sua accolita, sembra uscito da un incubo di E.T.A. Hoffmann.

Su tutti si stacca la Regina della Notte più spettacolare degli ultimi anni: il soprano coloratura Sabine Devieilhe si dimostra una più che degna erede dell’indimenticabile Natalie Dessai di cui uguaglia la precisione delle agilità, la perfezione dei trilli, la luminosità degli acuti. Una lezione di canto ben compresa dal pubblico che ha tributato a lei gli applausi più fragorosi della serata. Efficaci si sono dimostrate anche le tre dame, come pure i tre genietti, qui ovviamente eccellenti voci bianche maschili.

Il tutto è stato concertato da Julia Jones con sensibilità ma anche fermezza, procedendo a tempi appropriati e con impasti timbrici ben calibrati.

Le fotografie della ROH si riferiscono a edizioni diverse della produzione

L’amant jaloux


★★★☆☆

La petite folle journée di Grétry

L’amant jaloux ou Les fausses apparences, presentata all’Opéra Royal del castello di Versailles il 20 novembre 1778, è una “comédie mêlée d’ariettes” in tre atti di Thomas Hales (o d’Hèle) su musica di André Grétry (1741-1813). È tra le meno famose del compositore belga (poi di nazionalità francese) il quale tra i titoli delle sue opere ha anche un Guillaume Tell, anche se le più conosciute sono Andromaque e Richard Coeur-de-Lion. Per tutta la seconda metà del Settecento Grétry fu il maestro indiscusso del genere opéra-comique – ne scriverà una quarantina. È recente la scoperta del manoscritto de L’Officier de fortune, opera del 1790 di cui si sapeva l’esistenza ma non si aveva la partitura.

Mozart aveva conosciuto Grétry a Ginevra nell’agosto 1766 quando decenne affrontava il viaggio di ritorno da Parigi. «Molte cose apprenderà Mozart da questo francese che aveva studiato cinque anni a Roma e mantenuto nelle sue composizioni l’influnza dello studio italiano» dice l’Albertini nel suo Mozart La vita Le opere. Da Ponte e Mozart sembra abbiano conosciuto L’amant jaloux e se ne siano ricordati per i concertati de Le nozze di Figaro. In effetti gli insiemi dell’opera di Grétry hanno una vivacità che ha un naturale sviluppo in quelli della “folle journée” e certe situazioni anticipano la vicenda di Beaumarchais/Da Ponte: anche qui c’è un geloso furente, un personaggio che si nasconde, un giardino di notte. Ma Da Ponte e Mozart sono un’altra cosa.

L’azione si svolge a Cadice: il ricco mercante Don Lopez non vuole che sua figlia Leonora, vedova, si risposi per dissipare il patrimonio, ma lei è innamorata del gelosissimo Alonzo. Isabella, sorella di Alonzo e amica di Leonora, è invece corteggiata dal tutore che viene cacciato dall’ufficiale francese Florival mentre Isabella si rifugia da Leonora. Il geloso Alonzo scambia la persona velata in un segreto amante di Leonora e ne segue una scenata in cui la ragazza si dichiara stufa della gelosia dell’uomo. In casa arriva intanto il francese Florival in cerca della donna misteriosa di cui si è innamorato. La serva Jacinte gli dice che la casa appartiene a Leonora e l’uomo crede che sia lei la donna che cerca. Alonzo sente la serenata che Florival canta alla donna amata ed esplode in un’altra scena di gelosia e i due uomini si confrontano di notte nel giardino ma sono sollevati dallo scoprire che non sono rivali. Un’eredità inattesa permetterà di celebrare in letizia i due matrimoni.

Un punto forte del compositore francese è la ricchezza dell’orchestrazione: fin dalle prime note dell’ouverture un dispiegamento inusuale di strumenti diversi determina l’aspetto timbrico della composizione dove spesso gli strumentini dialogano ironicamente con le voci. Anche il ritmo è trascinante già nella prima aria della vispa Jacinte, parente prossima delle furbe servette dell’opera buffa, più che della Susanna dapontiana. La fresca invenzione melodica identifica i vari personaggi come nella serenata «Tandis que tout sommeille» (che influenzerà forse l’andamento di «Rachel, quand du Seigneur” de La Juive di Halévy) che Florival canta alla persona sbagliata, uno dei pezzi musicali più conosciuti dell’opera e cavallo di battaglia, tra gli altri, di Roberto Alagna.

Prodotto dall’Opéra Comique, L’amant Jaloux nel 2009 è messo in scena nella stessa sede del debutto, appena uscita splendente da un lungo e sapiente restauro. Purtroppo nel DVD non si fa alcun cenno ai lavori e ai risultati. Peccato, un’occasione mancata.

La tentazione, trattandosi di una sede storica, di allestire una messa in scena “filologica” non sfugge al regista Pierre-Emmanuel Rousseau. E così è nei costumi e nelle scene dipinte, il tutto fatto con eleganza. Gli interpreti passano con disinvoltura dai dialoghi parlati ai numeri musicati anche se con una gesticolarità piuttosto manierata. I cantanti non sono supercelebri, ma validi: Vincent Billier, un Don Lopez forse fin troppo giovane per il ruolo di «viellard»; Magali Léger, Léonore dalle impervie agilità; Claire Debono un’Isabelle trepidante; Mariline Fallot la domestica Jacinte; Frédéric Antoun l’innamorato Florival; Brad Cooper è l’unico non di lingua francese e si sente.

Il direttore Jérémie Rhorer è perfettamente a suo agio in questo repertorio e con un’orchestra, le Cercle de l’Harmonie, che qui si rivela preziosa alleata alla sua arguta e precisa lettura.

Come si è detto niente extra nel disco e senza sottotitoli in italiano.

Ruddigore

Arthur Sullivan, Ruddigore

Con Ruddigore or The Witch’s Curse Gilbert & Sullivan firmano la nona delle Savoy Operas. Alla fine della rappresentazione del 22 gennaio 1887 però agli applausi si mescolarono alcuni fischi: dopo l’immenso successo di The Mikado era difficile mantenere quello stesso livello e la nuova opera aveva comunque qualche debolezza, a iniziare dal titolo originale Ruddygore che aveva urtato la sensibilità vittoriana essendo simile a “Bloodygore”, un’espressione considerata troppo volgare per un pubblico rispettabile. Come pure la vicenda, in cui l’eroe buono diventa il cattivo, il gaglioffo diventa il buono e la ragazza virtuosa cambia fidanzato ogni momento. La modifica della lettera nel titolo avrebbe solo in parte risolto il problema e Ruddigore si dovette accontentare di 288 rappresentazioni (rispetto alle 672 dell’opera precedente) e fu ripresa solo nel 1920 e in una nuova versione.

L’opera è basata sulla parodia dei melodrama vittoriani popolati da malvagi baronetti e innocenti fanciulle. Infatti qui ci sono: un briccone che porta via la fanciulla come obbligatorio crimine quotidiano; la pedante povera ma virtuosa eroina; l’eroe mascherato e il suo vecchio fedele seguace che sogna i vecchi giorni di gloria; il marinaio che dice di star seguendo il suo cuore; la ragazza selvaggia e arrabbiata; la vanteria e il patriottismo del mangiatore di fuoco; i fantasmi che tornano in vita a rafforzare una maledizione; un manipolo di damigelle professionali in servizio dalle dieci alle quattordici ogni giorno che però da mesi sono in ozio perché nel villaggio della Cornovaglia di Rederring nessuno si sposa più.

Dal punto di vista musicale Sullivan non rinuncia a parodiare l’amata opera seria, come quando il lamentoso flauto che accompagna l’entrata di Margaret la Pazza non può fare a meno di ricordare la Lucia di Lammermoor.

In rete si trovano numerose produzioni amatoriali: Durham Savoyards (2014), Stanford Savoyards (2013), Hull University Gilbert & Sullivan Society (2015), Halifax Gilbert & Sullivan Society (2015).

SCHLOSSTHEATER IM NEUEN PALAIS

Schlosstheater im Neuen Palais

Potsdam (1769)

226 posti

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Costruito da Federico il Grande nella parte ovest del parco di Sanssouci a Potsdam, il Neues Palais è il più grande palazzo barocco esistente. Terminato nel 1769, dello stesso anno è il teatrino rococo che occupa due piani al piano terra. Con grande profusione di stucchi dorati, non ha un palco reale poiché Federico II preferiva sedersi con i suoi ospiti in terza fila. Caratteristica è la disposizione dei posti a semicerchio a ricordare gli anfiteatri dell’antichità. Dotazioni tecniche moderne discretamente celate fanno sì che il teatro possa essere ancora usato attualmente per spettacoli e concerti.

Teseo

★★★☆☆

«Recitativo orrido con stromenti: Medea»

Unica opera di Händel in cinque atti e anche unica ad essere in buona parte la traduzione in italiano di un’altra opera (il Thésée di Quinault musicato da Lully nel 1675) il Teseo venne presentato al Queen’s Theatre il 10 gennaio 1713. Anche se non è menzionato nel libretto a stampa, è quasi certo che l’autore del testo sia Nicola Haym, visto che è sua la dedica a Richard Boyle, conte di Burlington e destinatario di altre due opere händeliane, Il pastor fido e Amadigi di Gaula. Un’orchestra ricca e timbricamente varia e un’inesauribile dovizia di melodie ed armonie fanno di questa quinta opera di Händel una delle sue più belle.

La vicenda del Teseo non differisce molto da quella raccontata da Plutarco, tra i tanti, ma si concentra sull’episodio dell’arrivo ad Atene di Teseo al tempo in cui Medea era consigliera di Egeo e di come incappi e sfugga alla sua collera. Ai tre personaggi citati si aggiungono Agilea, Arcane e Clizia, con corrispettive vicende sentimentali.

Atto I. La principessa Agilea esprime alla sua compagna, la giovinetta Clizia, preoccupazione per la sicurezza di Teseo, in guerra contro i nemici di Atene, del quale lei è perdutamente innamorata. Clizia ha un fidanzato, Arcane, che le promette di amarla per sempre, ma quando lei gli chiede di scoprire ciò che può per la sicurezza di Teseo, Arcane diventa geloso. Gli ateniesi sono stati vittoriosi in battaglia e il re Egeo dichiara che il suo matrimonio annunciato con Medea, una maga, ora non è più confacente a un sovrano potente come lui e prenderà quindi la principessa Agilea come sua sposa.
Atto II. Medea è furiosa per l’umiliazione causatale dal rifiuto del re, ma si addolsce quando il re viene a suggerirle di sposare l’eroe Teseo al suo posto, dato che in realtà lei ne è già innamorata. Arcane, che è geloso di Teseo avendo mal interpretato la preoccupazione della fidanzata Clizia per lui, mette in guardia il re di non fidarsi di Teseo che, insinua, vuole rovesciare Egeo dal trono e prendere il suo posto ora che è diventato un eroe militare così importante. Anche Medea nel frattempo insinua il seme della sfiducia nella mente di Teseo dicendo che il re è geloso di lui.
Atto III. Arcane ha deciso di gettare alle spalle la sua gelosia e di chiedere in matrimonio Clizia. Il Re, saputo che Agilea non è innamorata di lui ma di Teseo, non vuole costringerla a sposarlo e dà il suo consenso a che Agilea e Teseo siano uniti. Gli innamorati sono felici di questa notizia, ma Medea, insultata e respinta una volta di più, irrompe nella stanza dove Agilea e Teseo stanno celebrando la loro riunione e, facendo un incantesimo, cambia la scena in un deserto pieno di mostri terrificanti che portano via Agilea.
Atto IV. Egeo, inorridito, giura che Medea sarà punita. Nel regno incantato dove Agilea è prigioniera, Medea le dice che deve accettare di sposare il re, invece di Teseo, oppure l’eroe incontrerà la morte. Medea le mostra una visione di Teseo che dorme, minacciato dagli spettri che vogliono ucciderlo. Agilea si impegna a rinunciare a lui e sposare il re per salvare la vita di Teseo, dopo di che Medea trasforma la scena in un regno paradisiaco dove Teseo sente la voce di Agilea fra le lacrime dirgli che non lo ama più. Il dolore di Agilea commuove Medea, che rassicura gli amanti che non cercherà più di separarli.
Atto V. La simpatia di Medea per l’amore di Teseo e Agilea non dura a lungo; ancora una volta tormentata dalla gelosia, convince il re che Teseo è una minaccia al suo trono e dà una coppa al re per avvelenare Teseo. Teseo e Agilea entrano con i loro amici per celebrare il loro matrimonio. Il re offre da bere a tutti per festeggiare la loro felicità e porge a Teseo la bevanda avvelenata per scambiare un brindisi con lui. Teseo sguaina la spada per giurare la sua fedeltà al re e sta per bere la bevanda quando il re riconosce la spada come quella che aveva mandato lontano tanti anni prima con suo figlio neonato in modo da poterlo riconoscere quando fosse cresciuto. Il Re scaglia via la coppa dalle mani di Teseo e lo abbraccia come suo figlio. Non solo Teseo e Agilea ora godono della futura felicità coniugale, ma anche Arcane e Clizia possono sposarsi. Medea, infuriata, appare su un carro volante trainato da draghi che sputano fuoco. Giurando vendetta ordina ai draghi di mandare a fuoco il palazzo, ma la dea Minerva discende dal cielo, bandisce Medea e benedice il Re, le due coppie di amanti e Atene.

La vicenda da telenovela con le smanie e i repentini cambiamenti d’umore della maga è messa in scena nel 2003 nello storico e prezioso teatrino di corte del castello del Neues Palais di Potsdam in occasione del festival dedicato al compositore di Halle. Di ottimo livello la smilza Lautten Compagney Berlin diretta da un eccellente Wolfgang Katschner che punta a forti contrasti dinamici teatralmente molto efficaci. Tali sono in questo senso il duetto Clizia-Arcane del terzo atto e quello Agilea-Teseo che conclude il quarto. Non manca certo la fantasia a questo esperto del barocco, pur nella perfetta aderenza allo stile dell’epoca.

Tre interpreti femminili e tre maschili si dividono equamente la scena, ma sono le donne a dominare con la loro prestanza vocale. Dalla minacciosa Medea di Maria Riccarda Wesseling, dalla forte personalità resa con grande espressività; all’Agilea di Sharon Rostorf-Zamir, che fin dalla prima aria («È pur bello in nobil core») dispiega con agio le agilità e le ornamentazioni di numeri spesso accompagnati da uno strumento obbligato (come l’oboe) o solista (il liuto per la sua aria del quarto atto, «Amarti io sì vorrei», suonato dallo stesso Katschner); alla Clizia di Miriam Meyer, la più leggera delle tre.

Sono affidati a tre controtenori i ruoli maschili, ma qui le cose sono meno soddisfacenti. Nella parte di Teseo si cala il cantante polacco Jacel Laszczkowski dalla vocalità chiarissima e dai fiati corti; ancora più esile, al limite della evanescenza il fatuo Egeo di Martin Wölfel; meglio l’Arcane di Thomas Diestler, soprattutto nelle agilità di «Benché tuoni e l’etra avvampi», staccate con tempi giustamente forsennati dal direttore.

A parte una certa gesticolazione manierata, sono comunque tutti ottimi attori anche se il testo viene storpiato in più punti (fanno/sanno, farò/sarò, saria/sarria, porgeratti/porgerati, càngiansi/cangiànsi, truciderò/traciderò ecc.).

Pannelli scorrevoli, un trono e l’inquietante letto di Medea fatto di capelli come il suo vestito (costumi e scene di Stephan Dietrich) sono i soli elementi di una scenografia minimalista, ma con grande profusione di oro. Il regista Axel Köhler fa di necessità virtù del minuscolo palcoscenico dalle limitatezze tecniche e non a riuscendo a ricreare l’ambiente fiabesco evocato dal libretto, punta sull’ironia come nelle bizze di Egeo o nel finale dove il messaggero di Minerva arriva avviluppato in un foglio di carta da musica con la partitura dell’opera e due paggetti spingono la riottosa Medea a unirsi nel coro finale mentre loro si affiancano per mostrare la scritta “lieto fine” sui loro costumi.

La vivace regia video riprende con impietosi primi piani i cantanti, ma la fotografia rende bene l’illuminazione quasi d’epoca impiegata. Il DVD ha i sottotitoli in italiano e, cosa rara, permette di seguire lo spettacolo sovrapponendo la partitura: interessante ma in realtà poco leggibile.

Tamerlano


George Frideric Handel, Tamerlano

★★★★★

648126338.png Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 12 September 2017

Domingo returns to La Scala in Handel’s Tamerlano

It was not the opening night of the season – that takes place on 7th December as always – but this was still a big event at the Teatro alla Scala, the première of Handel’s Tamerlano for the very first time in Milan.

Dating back to 1724, and thus predating Vivaldi’s Bajazet based on the same plot, it is one of Handel’s most sombre operas. In the libretto the words dead and kill are repeated thirty times…

continues on bachtrack.com

Tamerlano

Georg Friedrich Händel, Tamerlano

★★★★★

BandieraInglese  Click here for the English version

Milano, Teatro alla Scala, 22 settembre 2017

Tamerlano, il ritorno di Domingo. In bianco e nero.

Non è l’inaugurazione della stagione, che avrà luogo come di consueto il 7 dicembre, ma è comunque un grande avvenimento quello a cui si è assistito fra gli ori e i velluti del Teatro alla Scala: è in scena il Tamerlano di Georg Friedrich Händel, un titolo per la prima volta presente a Milano.

L’opera è del 1724, precede quindi le intonazioni di Porpora e di Vivaldi, e rappresenta una delle opere più cupe di Händel. Nel libretto dello Haym il sostantivo morte e il verbo uccidere si ripetono ben trenta volte, il tono della musica è spesso fosco e l’orchestrazione un infinito trascolorare di tinte grigie, tanto che si potrebbe definire un’opera in bianco e nero. Il regista Davide Livermore pospone la vicenda alla Rivoluzione Russa dell’Ottobre del 1917, lontana eco di quell’altra svolta storica del 1403 quando il sultano ottomano Bajazet (Bāyazīd I) venne sconftto dal tartaro Tamerlano (Tīmūr Lang).

La lettura del regista si basa sul fatto che nell’opera del Settecento gli unici sentimenti credibili potevano essere rappresentati in scena solo tramite eroi del passato in un gioco drammaturgico che poco aveva a che fare con la verità storica, essendo le loro vicende solo un’occasione per fare teatro. A Händel e al pubblico del King’s Theatre poco importavano le sorti del confitto tartaro-ottomano della fine del XIV secolo, importava la rappresentazione delle passioni umane. Spostamenti temporali e artifici teatrali erano d’altronde consustanziali all’estetica barocca.

La trasposizione di Livermore non solo è suggerita dalla geografa – siamo nelle stesse regioni bagnate dal mar Caspio – ma anche dalla personalità dei tre personaggi principali: Bajazet, il vecchio monarca che perde il trono, richiama la figura romanticizzata dello zar Alessandro II; Andronico, l’idealista sempre in confitto con le ragioni dei sentimenti, ricorda sia Lenin sia Trotskij; Tamerlano, dittatore spietato e violento, Stalin. Ma è opportuno dimenticarsi di queste identificazioni e godere di quanto si vede in scena ammirando ancora una volta il linguaggio cinematografico già sperimentato da Livermore con esito felicissimo nel suo rossiniano Ciro in Babilonia.

Qui è il maestro del cinema muto russo Sergej Ejzenštejn a suggerirgli un “montaggio” dove il fermo immagine, il ralenti e la moviola al contrario sono trasformate in azioni teatrali. Squisitamente cinematografica è la ripresa del treno che avanza tra gli alberi innevati o del vortice che contrappunta il turbine di emozioni che sconvolgono i personaggi – il tutto frutto dei sapienti videomakers della D-WOK.

Particolarmente toccanti sono alcune trovate del regista come lo straziante duetto di Asteria e Andronico del terzo atto, quando i cantanti alla ribalta si scambiano dichiarazioni d’amore mentre le loro controfigure vengono fatte oggetto di violenza dagli aguzzini di Tamerlano, come se le loro anime si fossero per un momento staccate dai corpi straziati. O il coro finale, un happy ending in tono minore (sia musicalmente sia drammaturgicamente), dove tutti celebrano mestamente l’odio placato, con la sola eccezione di Asteria che resta accasciata su una sedia, senza vita dopo le dure prove che ha dovuto sostenere.

A capo del complesso barocco dell’orchestra del teatro c’è un indiscusso esperto del repertorio barocco, Diego Fasolis, che l’anno scorso aveva già concertato qui Il trionfo del Tempo e del Disinganno dello stesso Händel. I lunghissimi recitativi, spesso accompagnati, che contraddistinguono quest’opera, così come le arie solistiche e i concertati ricevono dal Fasolis un colore particolare e una grande intensità di espressione.

Eccellente è anche il cast di interpreti radunati per l’occasione. Bajazet è, nonostante il titolo dell’opera, il personaggio principale di Tamerlano ed è anche il primo grande ruolo per tenore dell’opera barocca. Plácido Domingo, che ne aveva già cantato la parte, torna alla Scala con quasi dieci anni in più e anche se si dimentica alcune battute, cambia le parole del testo e le agilità non sono molto fluide, il timbro, il fraseggio e la potenza sonora sono rimasti intatti. Per espressività e presenza scenica, la scena della sua morte merita da sola il prezzo del biglietto.

Al suo fianco ha dei colleghi più giovani ma specializzati in questo repertorio e per uno volta si tratta di controtenori in un paese che ancora non accetta pienamente questo tipo di vocalità, preferendo utilizzare soprani e contralti en travesti per i ruoli dei castrati previsti dall’autore. Bejun Mehta è un perfdo Tamerlano che vocalmente non arretra di fronte alle agilità di una parte che originariamente fu destinata all’evirato cantore Andrea Pacini. Si permette addirittura di inserire una sua aria di baule all’inizio del secondo atto, «Sento la gioia» dall’Amadigi di Händel, per farci godere della purezza della sua emissione vocale. Un altro eminente castrato del tempo, il Senesino, aveva creato la parte di Andronico, qui sostenuta da un Franco Fagioli stupefacente come il solito nella sua enorme estensione con cui instancabilmente dipana le sue sei arie. Anche il ruolo minore di Leone è qui ben rappresentato dal baritono Christian Senn. Parimenti eccellenti sono le parti femminili ricoperte da una Maria Grazia Schiavo che non conosce difficoltà vocali nel ruolo di Asteria, delineata con il suo timbro luminoso. Colore più scuro per la splendida Irene di Marianne Crebassa.