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Jean-Philippe Rameau, Les Indes galantes
★★★★☆
Monaco, Nationaltheater, 24 luglio 2016
(video streaming)
Oggi non sono più galanti
Chi l’avrebbe mai pensato che un’opéra-ballet come Les Indes galantes potesse celare in sé forti contrasti sociali e razziali? Ci ha pensato il regista e coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, nato nel 1976 ad Anversa, nella sua messa in scena del lavoro di Rameau caricando di significato politico le ingenue entrées di Rameau. L’esotismo e le grandi colonizzazioni di allora diventano le problematiche ideologiche del libretto di Louis Fuzelier, là dove si fa accenno ai diversi costumi dei paesi o si esalta implicitamente il bon sauvage in confronto all’uomo civilizzato o si prendono in considerazione gli effetti del clima sulla natura degli abitanti.
L’idea della diversità è quella che ha mosso Cherkaoui: la diversità nel Settecento rispetto a quella dei giorni nostri. Le Indie di Rameau oggi cosa rappresentano? I rifugiati alle nostre porte! L’esotismo l’abbiamo qui. I “selvaggi” sono quelli che fanno i lavori di pulizia in una quotidianità cui non facciamo nemmeno più caso. Con uno sguardo spesso ironico il regista pone la questione del militarismo, dell’educazione dei giovani (nel prologo il contrasto tra Ebe e Bellona è tra la formazione degli spiriti e la loro militarizzazione) e delle contraddizioni della religione, creando così uno spettacolo per i nostri tempi.

La scena unica di Annna Viebrock rappresenta un’aula scolastica i cui muri sono “protetti” in alto da rete metallica e filo spinato mentre incombe un’elica di elicottero. Hébé è la sorridente maestrina, Bellone la temibile direttrice en travesti che vuole trasformare gli scolari in soldatini. Tabelloni didattici con farfalle e piante suggeriscono l’idillico «bocage» del prologo, presto rimpiazzati però da disegni di armi da guerra e aerei da combattimento.
Le luci si abbassano e vengono introdotte delle teche illuminate con uomini e donne che creano dei tableaux vivants: siamo nel museo/harem dell’episodio del turco generoso che lascia liberi gli amanti prigionieri in segno di riconoscenza di un antico gesto di generosità. Le teche poi diventano battelli che trasportano lontano: siamo nel Perù, l’entrée successiva, dove l’armadio con sopra i mappamondi ora è un confessionale e i banchi di scuola diventano i banchi di una chiesa. Il «culte fatal» è qui quello di una missione cattolica in un paese coloniale in cui si celebra un funerale che lascia la giovane vedova preda delle illecite concupiscenze del sacerdote che si muove su un hoverboard e droga i fedeli con le ostie per millantare i suoi miracoli. Nella stessa chiesa avvengono le nozze di Émilie con Valère e di altre coppie di giovani – ma non di una coppia gay che viene rifiutata dal prete.
Per il quadro successivo rientrano in scena le teche, questa volta piene di fiori. Il meraviglioso quartetto «tendre amour» è cantato tra un gruppo di rifugiati con i loro miseri fagotti. I colori dei petali qui sono le variopinte coperte degli stessi. Con l’«orage» e le danze dei venti si passa all’ultima entrée, “Les sauvages”. La scena si è trasformata nel frattempo nel cortile di un centro di identificazione ed espulsione, come li chiamiamo noi in Italia, dove «la danse du grand calumet de la paix» si trasforma ironicamente in scontri a colpi di ramazza e attrezzi per la pulizia per poi ricomporsi nella ciaccona finale quando si ricrea l’aula dell’inizio, però con tutti gli altri elementi utilizzati nei quadri precedenti (l’altare, le teche ecc.) e anche gli stessi personaggi.
I balletti sono ovviamente preponderanti in questo lavoro e qui il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui punta a dei movimenti nervosi e acrobatici che oltre alla formidabile compagnia Eastman di Anversa coinvolgono anche gli interpreti vocali che passano senza soluzione di continuità dal canto alla danza; alcuni più sciolti altri un po’ meno, ma tutti stanno al gioco del regista che in questo modo annulla la separazione dei generi. Anche metaforicamente: come non ci sono più frontiere fra i paesi, non ci sono più differenze tra i generi artistici. Solo l’amore – e di conseguenza la pace – è l’elemento che supera tutte le diversità.
Gioiosamente impegnati spesso in due parti sono gli interpreti, in maggioranza specialisti del repertorio barocco. Meritano tutti di essere ricordati: Ana Quintans (LʼAmour/Zaïre), Cyril Auvity (Valère/Tacmas), Lisette Oropesa (Hébé/Zima), Goran Jurić (Bellone), Tareq Nazmi (Osman/Ali), Elsa Benoit (Emilie), François Lis (Huascar/Alvar), Anna Prohaska (Phani/Fatime), Mathias Vidal (Carlos/Damon) e John Moore (Adario). La loro dedizione ha il giusto riscontro nella concertazione sapiente ed elegante di Ivor Bolton – la “danse des sauvages” ha meravigliato ancora una volta per le sue inedite sonorità. Ottimo il Balthasar Neumann-Chor di Friburgo.
Con la drammaturgia di Antonio Cuenca Ruiz e Miron Hakenbeck Les Indes galantes di Cherkaoui hanno fatto accorrere numerosi al Prinzregententheater e il risultato è stato accolto con molto favore dal pubblico di Monaco di Baviera. Forse solo qui una lettura ideologica di Rameau, autore poco conosciuto in terra tedesca, può essere accettata, difficilmente sarebbe passata nel suo paese, la Francia.
⸪