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Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)
★★★☆☆
Venezia, Teatro La Fenice, 30 ottobre 2015
(live streaming)
Il Flauto poco magico di Michieletto
Come nel Rinaldo messo in scena da Carsen (1) anche qui siamo in un’aula scolastica, questa però è di una scuola pubblica italiana: lo si capisce dai muri scrostati, dal bidello pieno di acciacchi, dalle suore (le tre dame). E dal soffitto sono probabilmente caduti dei calcinacci… Medesima è l’idea della grande lavagna nera, schermo per la riproduzione dell’ingenua videografica di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, ma anche un “sipario” che scorre di lato per svelare nuovi ambienti.
Nella lettura di Michieletto Il flauto magico diventa la storia iniziatica di due giovani, scolari in pantaloncini corti, che non vogliono diventare adulti: Sarastro a un certo punto vuole strappare a Pamina l’orsacchiotto di peluche, mentre è la madre quella che la vuole mantenere in una condizione infantile. Nelle parole del regista: «L’idea è quella di una grande allegoria delle forze che si contendono la formazione dell’individuo, senza per questo appiattire gli elementi giocosi e fantastici pur presenti nella vicenda. Con la Rivoluzione Francese, scoppiata due anni prima che Mozart componesse l’opera, si afferma una concezione laica della scuola, e così ho pensato di ambientare Il flauto magico all’interno di una scuola» in cui Tamino/scolaro inizialmente rifiuta il sapere e cerca di cancellare le formule che riempiono la lavagna, le quali diventano il serpente che lo minaccia. Pamina è una bambina ancora succuba della madre possessiva, Papageno è l’istinto, l’homo naturalis che comprende il linguaggio degli uccelli. L’educazione religiosa è quella della madre (ecco spiegata la presenza delle tre dame/suore), quella laica invece di Sarastro, «un vecchio saggio laico che comunica la sua conoscenza senza imposizioni o dogmi» e che alla fine salva i libri dal rogo cui erano stati destinati dalla Regina e dalle tre dame – sicuramente contenevano testi “gender”…
Apprezzati gli intenti del regista, qualche perplessità la suscita l’allestimento. Alla fine della scena ottava Tamino e Papageno escono dall’aula passando per l’armadio, ma non entrano… nel regno di Narnia, ritornano ancora nella stessa aula! Ecco, forse questo è il punto debole dello spettacolo: la claustrofobia e monotonia della scena unica appena ravvivata dalla videografica sulla lavagna e dall’apertura su un bosco. Viene così a mancare la dimensione magica enunciata dal titolo a favore di una dimensione realisticamente umana. Il fatto è che la dimensione magica non è cosa da poco in questa Zauberoper, l’ultimo elemento rimasto dopo aver privato il lavoro di Mozart degli orpelli massonici e di quelli egizi, messi generalmente in discussione nei moderni allestimenti. Ma qui gli appelli a «Isis und Osiris» suonano particolarmente incongrui.
Certo, l’allestimento di Damiano Michieletto e Paolo Fantin ha ovviamente una sua coerenza drammaturgica: le pirotecniche agilità della Regina della Notte sono gli strilli di una madre sull’orlo di una crisi di nervi che non trova la medicina per attenuare il dolore della perdita della figlia; Sarastro è il preside severo ma buono della scuola; Pamina è vittima del bullismo di Monostatos, il quale sarà a sua volta vittima dei suoi compagni ammaliati dal carillon di Papageno; Papagena è un’anziana bidella (qui non c’è il solito mascheramento: Papagena giovane è un’altra persona); Papageno prima di impiccarsi suona uno di quei terribili flauti di plastica su cui nella maggior parte dei casi si realizza l’ora di educazione musicale nella nostra scuola; i tre genietti son piccoli minatori un po’ dispettosi con la pila sul casco per illuminare la via nelle tenebre ai giovani. E teatralmente lo spettacolo tiene bene.
Antonello Manacorda dirige con tempi stringati, ma senza affanno, dando una lettura brillante e leggera della partitura, senza sopraffare sui cantanti. I recitativi sono praticamente decimati, decisione quasi ineluttabile quando si utilizza la lingua originale in un paese non tedesco. Il che diminuisce proficuamente la durata della rappresentazione, 2h 20′ invece delle 2h 50′ di Riccardo Muti o 2h 40′ di Colin Davis e Roland Böer.
Compagnia di canto non eccelsa, con l’eccezione del Papageno di Alex Esposito, come sempre vocalmente superbo, eccellente fraseggiatore e attore di somma intelligenza interpretativa. Tamino dalla voce bella ma dagli acuti strozzati è quello di Antonio Poli. Meglio Ekaterina Sadovnikova, convincente Pamina dal giusto accento. Olga Pudova ha fatto della Regina della Notte uno dei suoi ruoli preferiti, ma qui i vocalizzi sono un po’ sporchi soprattutto nella seconda aria. Sarastro dalla voce traballante è quello di Goran Jurić, al limite dell’accettabile il Monostatos di Marcello Nardis. Bene le tre dame mentre i tre genietti provengono ovviamente da un’istituzione straniera – qui sono i solisti del coro giovanile di Monaco di Baviera – mancando in Italia l’educazione musicale necessaria a fornirli nonostante il flauto di plastica…
(1) Il Rinaldo di Händel nella produzione di Glyndebourne del 2011:

⸪