
★★☆☆☆
L’ “operetta” di Strauss
È del 1908 Danae, la tela realizzata da Gustav Klimt e appartenente ora a una collezione privata: una figura di fanciulla rannicchiata in posizione fetale è immersa nel sonno ed è racchiusa in una forma ellittica formata dai suoi capelli fulvi, da un velo prezioso e da una pioggia d’oro. Che cade tra le sue gambe…
Chissà se Hugo von Hofmannsthal conosceva il dipinto, fatto sta che nel 1920 propone a Richard Strauss il canovaccio di una nuova opera intitolata Danae o il matrimonio di convenienza di argomento appartenente al mito dell’antica Grecia, trattato però in maniera impertinente, à la Offenbach, ma il progetto viene accantonato. A distanza di anni Strauss rispolvera l’embrione operistico affidandone il testo a Joseph Gregor (Hofmannsthal era scomparso nel 1929) e il libretto risente della frattura fra le mete artistico-simboliche dell’ideatore e gli orizzonti più modesti del prosecutore. Strauss lavorò alla partitura nel periodo 1937-1939 per poi soccombere alla malattia, che causò un rinvio di diversi mesi e l’opera fu finalmente terminata il 28 giugno 1940.
La sfortuna di Die Liebe der Danae (L’amore di Danae) prosegue nelle peripezie incontrate al momento di essere messa in scena: inserita nel cartellone del Festival di Salisburgo per l’anno 1944 e ormai allestita e provata sotto la bacchetta di Clemens Krauss, l’opera non poté essere rappresentata perché, in seguito al fallito attentato a Hitler, il festival fu immediatamente sospeso, tutti i teatri chiusi e il compositore per il suo ottantesimo compleanno dovette accontentarsi della prova generale aperta al pubblico. La vera prima dovette attendere perciò il dopoguerra, ma quando lo stesso Krauss la diresse nel 1952, sempre a Salisburgo, Strauss era già morto da tre anni.
Atto primo. La vicenda narra di Polluce, re di Eos, che sull’orlo della bancarotta finanziaria spera di risolvere la situazione accasando la bella figlia Danae a un buon partito. E chi è meglio di quel re Mida che può trasformare in oro quel che vuole? La ragazza non è insensibile al prezioso metallo giacché ricorda la pioggia d’oro con cui aveva provato tanto piacere in sogno e che sappiamo trattarsi di uno degli innumerevoli travestimenti del re dei numi. Prima di Mida arriva però Crisofero, il portatore d’oro, in realtà lo stesso Mida travestito da servo, e i due si innamorano. Con il nome di Mida arriva invece Giove stesso che saluta Danae come sua sposa.
Nel secondo atto facciamo la conoscenza di quattro regine, tutte ex-amanti dell’impenitente nume: Leda, Europa, Semele e Alcmene, le quali rimproverano a Giove il sotterfugio adoperato per conquistare Danae. Giove spiega loro che è servito a salvarla dalle ire di Giunone. Ma scopre anche che Mida è innamorato della donna e per gelosia lo punisce decretando che da quel momento Mida trasformi in oro qualunque cosa che sfiori anche contro il suo volere. Così al primo amplesso dei due giovani Danae si trasforma in una rigida statua d’oro. Giove la riporta in vita solo per farle scegliere tra l’amore del nume e quello del povero asinaio che era Mida. La donna preferisce il secondo rinunciando al destino immortale promessole dal primo.
Il terzo atto vede i due amanti ridotti in miseria, ma felici. In cielo intanto si ride delle disavventure amorose del dio soppiantato da un asinaio, mentre sulla Terra Giove, ancora creduto Mida, deve affrontare gli inferociti creditori e Polluce stesso che vengono trattenuti dall’aggredirlo solo da una pioggia di monete ideata da Mercurio. Giove va a trovare Danae nel suo misero tugurio e si intenerisce vedendo che la donna è ancora innamorata e difende la sua scelta. Si allontana benedicendo l’unione dei due giovani.
La musica di Danae è della struggente intensità dei Vier letzte Lieder, ma deve molto anche a Wagner, soprattutto nella figura di Giove che richiama quella di Wotan. «L’immagine aerea della pioggia d’oro si traduce in fluttuanti arabeschi sonori, in scintillii iridescenti che avvolgono la vicenda in un alone liberty, in un decorativismo fulgido e raffinato; trapelano reminiscenze delle vertigini amorose del Rosenkavalier, frasi piene di desiderio, ma quasi sempre filtrate dallo schermo di una suprema eleganza. Solo Giove si abbandona veramente nel secondo atto, durante la conversazione con le quattro regine, a una perorazione infiammata, in cui trapela però una componente wagneriana abbastanza sottolineata; proprio a Giove è riservato comunque uno squarcio lirico commosso nella scena finale del colloquio con Danae, in cui il ricordo nostalgico dell’amore di Maia ispira al dio un intenerimento di sapore liederistico. […] Le divagazioni un po’ dispersive del libretto sono peraltro riscattate dall’unità tematica che governa la partitura; e ciò si intuisce fin dalla prima scena, contrassegnata dal ritorno, continuamente cangiante nella strumentazione, di un inciso appassionato, nel cui slancio paiono rivivere le estasi di Oktavian.» (Elisabetta Fava)
Nel 2011 la Deutsche Oper di Berlin propone questa raro lavoro (è la sedicesima rappresentazione in sessant’anni), l’unica versione in video esistente. Come la registrazione disponibile in CD della prima rappresentazione si può riprendere qui quanto è stato detto per gli interpreti di quel lontano spettacolo, poiché a fronte di un’ottima orchestra, qui diretta da Andrew Litton con sensualità e grande dinamicità, i cantanti, qui come là, non raggiungono l’Olimpo vocale. Sia Manuela Uhl che Matthias Klink non sono all’altezza dei ruoli di Danae e Mida: scarsa intonazione, opacità di suono e limitata potenza si distribuiscono, seppure in diversa misura, su tutti e due gli interpreti. Il Giove di Mark Delavan parte molto male con la sua voce strangolata in alto, poi nel corso dell’opera migliora dimostrando comunque di essere più a suo agio nella ‘conversazione in musica’ e nel monologo finale, il toccante addio di un nume al tramonto. Più riusciti risultano qui gli interpreti dei ruoli minori, Polluce, Mercurio e soprattutto il quartetto di regine.
Teniamo per ultima la messa in scena di Kirsten Harms che realizza la drammaturgia di Andreas K. W. Meyer. L’ambientazione in costumi attuali suggerisce che in quanto a situazioni finanziarie disastrate non è cambiato molto da quelle parti del mare Egeo – non che altrove…
Nel palazzo i creditori si stanno portando via statue e dipinti, compreso quel ritratto di Danae che mostrato a Mida è stato da lui trasformato in una tela di oro massiccio (alla fine, quando tutto è andato in rovina, scopriremo che quel quadro che si intravede tra le macerie del palazzo era proprio la tela di Klimt!). Elegantissimi i costumi di Dorothea Katzer che alle regine in tailleur Chanel abbina come accessori delle ironiche borsette: per Leda a forma di cigno, per Europa di toro e così via. L’arrivo di Mida non solo ripiana le finanze, ma trasforma tutto il palazzo in un lucente scrigno d’oro (effetto ottenuto grazie anche alle magnifiche luci di Manfred Voss) che però crolla in rovina dopo la maledizione di Giove. Ed è su queste rovine che Danae e Mida vivono la loro unione.
Nella regia della Harms tutt’altro che evidente è il significato del pianoforte appeso per aria capovolto (come nella celebre installazione di Rebecca Horn Concert for Anarchy), così come la pioggia di pagine di partitura che Danae regala a Giove invece del fermaglio d’oro. Chi cercasse lumi nel making-of dello spettacolo compreso come extra del bluray rimarrà deluso: la regista parla molto ma non fa il minimo cenno a queste stramberie.

Gustav Klimt, Danae, 1908
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