★★★★☆
Un Trittico italo-londinese
Sull’onda del successo di Cavalleria rusticana (1890), Puccini fin dal 1904 si convince a scrivere anche lui delle opere in un atto, originariamente tre opere tratte da ognuna delle cantiche della Divina Commedia. Composto in tre anni dal 1916 al 1918, pur nella diversità di stili e colori, il Trittico possiede una sua omogeneità musicale, sottolineata dal regista di questa produzione del 2011 del Covent Garden, Richard Jones, che ambienta tutte e tre le vicende negli anni ’50.
A Parigi nel 1912 Puccini aveva assistito al dramma di Didier Gold La houppelande (La pellanda). Ottenuto il libretto da Giuseppe Adami si mise subito al lavoro e nel 1918 l’opera debuttò a New York come primo pannello del trittico. Ritornato in Italia il musicista ritoccò la partitura che in una seconda versione andò in scena a Firenze nel 1919 e infine in una terza (Roma, 1922).
IL TABARRO – Sulla Senna è ancorato un vecchio barcone da carico, di cui è padrone Michele. Questi, che ha sposato Giorgetta, una parigina di diversi anni più giovane di lui, avverte che l’unione è in crisi e sospetta da troppi indizi che ella, sempre più insofferente e scontrosa nei suoi riguardi, lo tradisca con un altro uomo. Il sospetto si dimostra fondato: Giorgetta è innamorata di Luigi, un giovane scaricatore che si è legato perdutamente a lei e che ogni sera, richiamato dal tenue chiarore di un fiammifero acceso, la raggiunge protetto dall’oscurità. Mentre Giorgetta si ritira nella sua cabina in attesa che il marito la segua e si assopisca, per poi incontrarsi con l’amato, Michele indugia e rimane solo a rimuginare sui suoi sospetti e a immaginare chi, tra i suoi uomini, potrebbe essere l’amante; nel frattempo accende la pipa. Scambiandolo per il segnale convenuto, Luigi sale sulla barca e Michele lo afferra. Lo costringe con violenza a confessare le sue colpe e lo uccide nascondendone il corpo col proprio tabarro. Giorgetta, allarmata dai rumori, sale in coperta e per essere rassicurata chiede al marito di essere avvolta nel tabarro, come un tempo. Michele lo apre e avvicina la faccia di lei a quella del cadavere di Luigi.
Il tabarro dal punto di vista drammaturgico sembra essere un tardivo omaggio al verismo in musica con la sua cupa vicenda ambientata in riva alla Senna tra scaricatori e popolani, ma il lento motivo ondeggiante con cui si apre l’opera avrebbe potuto scriverlo Debussy (viene alla mente Nuages, il primo movimento dei suoi Trois nocturnes) con il pigro scorrere dell’acqua del fiume nella calura estiva. Anche i temi ternari che seguono sembrano voler accompagnare con passi di danza i protagonisti verso la tragedia finale. Naturalistica la scena di Ultz: una chiatta, un angusto lungofiume tra edifici industriali (come si vedevano sul Tamigi prima che venissero trasformati in residence di lusso), l’insegna al neon di un peep-show nel vicino vicolo.
SUOR ANGELICA – In un monastero, sul finire del XVII secolo. Mentre le campane rintoccano, suor Angelica attraversa il chiostro e raggiunge le consorelle raccolte in preghiera nella piccola chiesetta. All’uscita dalla funzione, la zelatrice punisce due converse giunte in ritardo; non Angelica, che ha fatto umilmente atto di contrizione. Poco per volta escono allo scoperto le dure regole della vita di clausura, fatta di privazioni e umiliazioni, come quella che tocca poco dopo a suor Osmina, rea di aver tenuto due rose nelle maniche e costretta a rinchiudersi in cella. Ma ci sono anche giovani monache, come Genovieffa capaci di entusiasmarsi alla vista di un raggio del sole che getta una luce dorata sull’acqua della fonte. La maestra spiega alle novizie che, per via degli orari rigidi di uscita dal coro, solo per tre sere di maggio le suore possono vedere il tramonto. Le monache si rendono allora conto che è passato un anno dalla morte di una sorella e Genovieffa le invita a portare sulla tomba un secchiello d’acqua di fonte, pensando che l’estinta lo gradirebbe. Angelica le ricorda che i morti non coltivano desideri, ma hanno finalmente trovato la pace. Genovieffa, che pascolava le pecore prima di entrare in convento, desidera vedere un agnellino, mentre suor Angelica, interpellata, dichiara di non avere desideri. Mente, affermano le suorine, e narrano sottovoce quanto sanno sul suo conto: di origine nobile, ella vive da sette anni in clausura senza aver notizie della famiglia, che l’ha rinchiusa in convento per punizione, e vorrebbe aver notizie dei suoi parenti. Il pettegolezzo viene interrotto dalla suora infermiera, che ottiene da Angelica, che «ha sempre una ricetta buona fatta coi fiori», un rimedio a base di erbe per suor Chiara, punta dalle vespe. Rientrano poi le cercatrici portando buone provviste che scatenano la gola di suor Dolcina. Mentre tutte beccano un tralcetto di ribes, la cercatrice descrive una ricca berlina parcheggiata fuori del parlatorio: subito Angelica viene colta dall’ansia, che cresce sinché la campanella annuncia una visita. Le monachelle sperano che sia un loro parente, ma Genovieffa si rivolge ad Angelica, che se ne sta tormentata in un angolo, e a nome di tutte le augura che sia quella visita che attende da tanti anni. La badessa chiama l’affannata protagonista al parlatorio, invitandola a calmarsi; poi la vecchia zia principessa entra, e con atteggiamento altero comunica alla nipote che è venuta a farle firmare una carta per dividere il patrimonio da lei amministrato dopo la morte dei genitori. Angelica invoca la sua clemenza, ma la zia prosegue implacabile, spiegandole che l’atto serve alla sorella minore che sta per sposarsi, nonostante il disonore che Angelica ha gettato sulla casata, procreando un figlio al di fuori del matrimonio. Spiega poi all’infelice madre che, quando si raccoglie in preghiera, le riserba un solo pensiero: che abbia a espiare la colpa commessa. Ma Angelica, affranta, è tormentata dal desiderio di conoscere la sorte di quel figlio che le è stato strappato: prima di uscire la vecchia, rimamanendo impassibile com’era entrata, le rivela che è morto di una malattia incurabile. Angelica dà sfogo allora a tutta la sua atroce disperazione e sogna il figlio in ogni luogo. Non le resta che preparare una pozione di erbe velenose per togliersi la vita e dare addio al piccolo mondo che l’ha ospitata per sette anni. Ma all’improvviso si pente del suo gesto: mentre sta per spirare le appare, come in una visione, la Vergine, che spinge un bambino verso di lei, in segno di perdono.
Deciso cambio di scena per il secondo pannello, ambientato nella corsia di un ospedale infantile dove troviamo suor Angelica che, di famiglia aristocratica, ha forzatamente abbracciato la vita monastica per scontare un peccato d’amore. La scelta del regista e dello scenografo, qui Miriam Bluether, di rinunciare al convento di clausura per l’ospedale infantile rende più drammatico il rapporto della mamma mancata con i bambini e risolve il problema della “apparizione” del figlioletto, senza intervento della Madonna, in termini realistici. Il libretto di Giovacchino Forzano prevede solo personaggi femminili per questa storia di redenzione, la prediletta da Puccini.
Ancora Forzano è il librettista del terzo pannello tratto da un breve episodio del canto XXX dell’Inferno dantesco. La preferita dal pubblico e dalla critica, Gianni Schicchi viene spesso rappresentata da sola o in abbinamento ad altre opere. Come nel Falstaff verdiano il tono umoristico della storia qui ha il sopravvento, come scrisse lo stesso Puccini in strofa a Forzano: «Dopo il Tabarro di tinta nera | sento la voglia di buffeggiare. | Lei non si picchi | se faccio prima quel Gianni Schicchi».
Gianni Schicchi è l’unico rimasto del progetto iniziale di mettere in musica tre pezzi tratti delle tre cantiche dantesche, qui quello dall’Inferno in cui il protagonista soffre il contrappasso di una follia rabbiosa nella bolgia dei falsari di persona per essersi finto Buoso Donati e ratificato così un testamento fasullo. Quello di Dante è appena un cenno ai versi 31-33: «E l’Aretin che rimase, tremando | mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, | e va rabbioso altrui così conciando».
GIANNI SCHICCHI – Nella sua casa di Firenze (anno 1299) è spirato Buoso Donati e i parenti lo vegliano in preghiera. Ma poiché corre voce che Buoso abbia lasciato i suoi beni ai frati, la veglia viene interrotta per aprire il testamento, che conferma la fondatezza delle dicerie. Rinuccio, fidanzato di Lauretta, figlia di Gianni Schicchi, propone alla famiglia di ricorrere ai consigli del futuro suocero, che ritiene uomo astuto e accorto. Zita, detta la Vecchia, protesta all’arrivo di Schicchi, a causa delle sue origini plebee e costui, offeso, se ne andrebbe, senza le implorazioni di Lauretta. Gianni elabora un piano che diventa a tutti chiaro quando, contraffacendo la voce di Buoso, risponde al dottor Spinelloccio, venuto a informarsi della salute del paziente. Pertanto manda a chiamare il notaio e, messosi a letto travestito da Buoso, detta il nuovo testamento, destinando i beni più ambiti per sé: la casa di Firenze, la mula, i mulini di Signa. Né i parenti possono protestare senza svelare la truffa e quindi incorrere nella giusta punizione. Dopo aver scacciato tutti dalla casa che è ormai divenuta sua proprietà, mentre Rinuccio e Lauretta amoreggiano sul balcone, egli si rivolge al pubblico, spiegando di aver tanto osato per il bene dei due fidanzati e reclama l’attenuante.
La comica vicenda è ambientata qui in un appartamento italiano del dopoguerra, la scenografia è di John MacFarlane, e il regista ha modo di orchestrare con abilità i movimenti quasi frenetici della storia. Pappano con l’orchestra della Royal Opera House riesce ad accentuare la drammaticità della prima opera senza cadere nel truce, così come in Suor Angelica il sublime lirismo di Puccini non diventa mai mellifluo sotto la sua direzione. Impeccabili poi i tempi del terzo pannello.
Lucio Gallo, un Michele che cova risentimento che diventa crimine nel Tabarro, si trasforma in un divertente, ma vocalmente non eccezionale, Gianni Schicchi. Eva-Maria Westbroek e Alexandrs Antonenko sono la coppia di amanti sfortunati neanche tanto appassionati — sul fiume non si sprigiona l’erotismo che si dovrebbe percepire nei loro interventi.
L’albanese Ermonela Jaho è un’intensa ma vocalmente non memorabile suor Angelica, che però vince nella sfida con la tormentata zia principessa di Anna Larsson. La sorella zelatrice qui è l’immarcescibile Elena Zillio, che diventerà la Zita dello Schicchi dove della coppia dei giovani innamorati è da ricordare soprattutto il Rinuccio di Francesco Demuro, registro perfetto per questo ruolo e autentica rivelazione della serata.
Regia televisiva non invadente di Francesca Kemp, ottimi immagini e audio. Negli extra Pappano ci presenta le tre operine e Gallo i suoi due personaggi. Sottotitoli anche in italiano.
⸫
- Eine florentinische Tragödie/Gianni Schicchi, Reck/Borrelli, Torino, 23 marzo 2014
- Goyescas / Suor Angelica, Renzetti/De Rosa, Torino, 20 gennaio 2015
- Gianni Schicchi, Gershon/Allen, Los Angeles, 24 settembre 2015
- Trittico, Petrenko/de Beer, Monaco, 23 dicembre 2017
- Gianni Schicchi, Stefanelli/Bonajuto, Piacenza, 22 gennaio 2021
- Gianni Schicchi, Montanari/Michieletto, Torino Film Festival, 27 novembre 2021
- Trittico, Bronchti/Kratzer, Bruxelles, 26 marzo 2022
- Trittico (Gianni Schicchi), Welser-Möst/Loy, Salisburgo, 5 agosto 2022
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