Interviste

Intervista con Eva-Maria Sens

Innsbruck, 13 settembre 2023

Orlando Perera ha intervistato la nuova Direttrice Artistica delle Settimane di Musica Antica di Innsbruck

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Dopo Ottavio Dantone, nuovo Direttore Musicale delle Festowochen der Alten Musik di Innsbruck, ci pare giusto sentire la voce anche dalla nuova Direttrice Artistica, Eva-Maria Sens. Bavarese di Norimberga, 42 anni, ha cominciato a studiare musica quand’era ancora una bimbetta volitiva. I genitori raccontano che il solo modo di mandarla a dormire era farle ascoltare i dischi di Frans Bruggen. Dopo il diploma al Liceo Musicale, si iscrive all’Università di Friburgo in Brisgovia, dove studia letteratura tedesca e storia medievale e moderna. La svolta professionale avviene nel 2008, quando viene assunta come project manager dall’Orchestra da camera di Basilea. Qui vive esperienze per lei fondamentali e conosce grandi artisti come Cecilia Bartoli, Sol Gabetta, Giovanni Antonini, lo stesso Dantone. Nel 2015 si trasferisce a Innsbruck con l’incarico di Capo dell’Amministrazione Artistica delle Festwochen. Infine, pochi mesi fa la nomina a Direttrice Artistica. La sua passione non segreta è il lavoro a maglia.

Orlando Perera – La sua nomina a Direttrice Artistica delle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, per la quale le faccio molte congratulazioni, si accompagna a importanti cambiamenti organizzativi. Se ho capito bene, scompare il ruolo di sovrintendente, ora affidato a un team amministrativo, e si aggiunge quello di direttore musicale, per il quale lei ha scelto una figura prestigiosa come Ottavio Dantone. Che cosa vi proponete con questa riforma?
Eva-Maria Sens – In realtà, i cambiamenti strutturali non sono così grandi come potrebbero sembrare: nella gestione del Festwochen c’è sempre stato un direttore commerciale esecutivo a fianco del direttore artistico. Nel corso degli anni, era però diventato chiaro come quest’ultimo ruolo, di Direttore artistico strategico, fosse diventato duplice, assorbendo di fatto anche quello di direttore musicale. Il nuovo organigramma fa chiarezza: abbiamo ora, con ruoli distinti, un direttore commerciale esecutivo, un direttore artistico. e un direttore musicale..

OP – Anche lei ha avuto un peso nella nomina di un musicista/direttore di fama internazionale come Dantone?
EMS – C’era una commissione apposita per la selezione del direttore musicale, composta da esperti esterni e da dirigenti delle Festwochen, Markus Lutz e me stessa.

Concerto di mezzogiorno, Hofgarten Pavillon

OP – Come vi dividerete la responsabilità sulle scelte artistiche e musicali?
EMS – Entrambi mettiamo sul tavolo i nostri punti di forza, competenze, opinioni, prospettive, suggerimenti. Ottavio Dantone da un punto di vista puramente musicale, io in una prospettiva artistico-strategica. Tutto è proposto in modo aperto, poi valutiamo, anche con il nostro drammaturgo, quale sorta di mosaico musicale colorato possiamo creare. Dalle diverse idee emergono poco a poco i singoli progetti e alla fine il programma completo di un’edizione delle Festwochen.

OP – A parte gli aspetti organizzativi, che cosa pensate di mantenere delle scelte della passata gestione di Alessandro De Marchi, e cosa cambierà?
EMS – Posso dire che resteranno certamente il Concorso Cesti e il ciclo Barockoper:Jung, entrambi destinati ai giovani interpreti. Che cosa cambierà lo riveleremo alla presentazione del nostro programma a novembre.

OP – Le Festwochen anche quest’anno si sono chiuse con un bilancio di pubblico e di critica molto brillante. Qual è secondo lei il futuro del repertorio musicale antico?
EMS – È un grosso interrogativo. Per rispondere probabilmente avrei bisogno di una sfera di cristallo o possedere doti da chiaroveggente. In ogni caso è importante che esistano in futuro luoghi come Innsbruck, dove la musica antica e la prassi storicamente informata abbiano un loro ancoraggio sicuro, dove possono essere riscoperte ed esplorate.

Concerto nella Riesensaal, Hofburg

OP – A proposito, negli anni scorsi abbiamo assistito a ottime esecuzioni di autori come Paër e Mercadante, che appartengono di diritto all’Ottocento. Quali sono secondo lei i limiti temporali del concetto di musica antica?
EMS – Non sono fra quelli che pensano che tutto ciò che è stato composto ieri sia già musica antica. Ma dobbiamo certamente fare i conti con il fatto che ad ogni decennio che passa, anche i confini di ciò che retrospettivamente chiamiamo musica antica in teoria si spostano. Alla fine, il focus delle Festwochen è decisamente sulla pratica esecutiva storica. Ciò apre nuove prospettive anche per la definizione di musica antica.

OP – Parlando di Alte Musik, viene spontaneo pensare non solo al Sei-Settecento, ma anche a epoche precedenti, ad esempio il Tre-Quattrocento, periodo di grande fioritura musicale in Europa. Però finora non ricordo di aver visto molto di questo repertorio nei cartelloni delle Festwochen. Che cosa ne pensa?
EMS – In passato abbiamo sempre avuto in repertorio musica del Medioevo e del Rinascimento. Ad esempio con i fantastici musicisti de La Fonte Musica, Tasto Solo e altri. Naturalmente continuerà ad essere così anche in futuro.

L’Olimpiade di Vivaldi, regia di Stefano Vizioli e scenografia di Emanuele Sinisi, estate 2023

OP – Come italiano mi permetta un pizzico di vanità. Fin dalla nascita i compositori e i musicisti del mio paese hanno sempre avuto un ruolo centrale nei vostri cartelloni. Credo sarà difficile cambiare questa realtà, oppure puntate anche su altro?
EMS – Innsbruck e la sua storia musicale hanno sempre avuto forti legami con l’Italia, non fosse che per la posizione geografica. E l’Italia aveva e ha tuttora grandi artisti. Ma questo vale anche per altri paesi, ed è nostro compito come Festival non guardare in una sola direzione.

OP – Sappiamo tutti come oggi sia complicato far quadrare i bilanci nelle attività musicali. A Innsbruck su quali risorse potete contare? Cercherà nuovi sponsor?
EMS – Siamo sostenuti dalla città di Innsbruck, dal land del Tirolo e dal governo federale. In più abbiamo un consolidato rapporto con i nostri sponsor. Siamo enormemente grati a chi ci offre questa solida base sulla quale possiamo lavorare con una certa tranquillità.

OP – Ancora un paio di questioni organizzative. Con altri colleghi critici, ci siamo spesso confrontati sul calendario molto esteso delle Festwochen. Con una normale trasferta di tre-quattro giorni è difficile riuscire a vedere più di un’opera e uno o due concerti. Per vedere di più, bisognerebbe fermarsi a Innsbruck almeno quindici giorni. Vi siete mai posti il problema?
EMS – Il nostro festival si svolge da metà luglio a fine agosto. È nella natura delle cose che non possiamo realizzare tutti i nostri format in pochi giorni: è logisticamente impossibile.

OP – Altro aspetto non secondario, i programmi di sala e la documentazione sono quasi tutti solo in tedesco, lingua che non tutti conoscono. Non sarebbe il caso di affiancare una traduzione almeno in inglese dei testi principali?
EMS – Devo rimandarvi al nostro sito web in inglese, ai sottotitoli in tedesco e inglese nonché ad alcuni testi riassuntivi del nostro programma serale. Ma ovviamente c’è sempre e comunque spazio e modo per migliorare.

OP – Per finire, è vero che la sua passione è il lavoro a maglia? C’è una relazione tra musica e tricot?
EMS – Molto probabilmente sì. Per me il lavoro a maglia ha qualcosa di meditativo. Se devo realizzare un modello ai ferri, penso a un ritmo melodico che si auto-esegue senza sosta nella mia testa con fraseggi, accenti, ritardandi, semiminime costanti e crome fluenti, mentre sferruzzo. Non esiste nient’altro. Solo questo ritmo ticchettante. La musica tende ad avere un effetto simile se permetti a te stesso di abbandonarti completamente.

Juditha Triumphans di Vivaldi, regia di Elena Barbalich e scenografia di Massimo Checchetto, estate 2023

Intervista a Ottavio Dantone

Innsbruck, 30 agosto 2023

Orlando Perera ha intervistato il prossimo Direttore Musicale delle Settimane di Musica Antica di Innsbruck

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Importanti novità in arrivo alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, ovvero Settimane della Musica Antica di Innsbruck. Fondate nel 1976 nel capoluogo del Tirolo, con l’olandese Festival Oude Muziek di Utrecht sono fra le più prestigiose rassegne europee dedicate alla musica pre-classica, per intenderci. Dal primo settembre il sovrintendente e direttore artistico Alessandro De Marchi dopo tredici anni lascia il doppio incarico. Gli succede nel ruolo Eva Maria Sens, che sarà affiancata da un direttore musicale di grande fama, il nostro Ottavio Dantone, musicista e direttore d’orchestra di primo piano. 62 anni, originario di Cerignola in provincia di Foggia, diplomato in organo e clavicembalo al Conservatorio Verdi di Milano, Dantone ha esordito poco più che ventenne come “continuista” al clavicembalo, vincendo importanti premi a Parigi e Bruges. Determinante l’incontro con l’orchestra romagnola Accademia Bizantina, specializzata nel repertorio barocco con strumenti antichi. Una delle formazioni più accreditate nel settore, di cui ha assunto la direzione nel 1996, portandola ai massimi livelli internazionali. Gli dobbiamo registrazioni discografiche di riferimento, sia come solista sia nelle vesti di direttore, per etichette quali Decca, Deutsche Grammophon, Harmonia Mundi, Naïve, che hanno contribuito in modo determinante al rilancio del repertorio barocco, di Antonio Vivaldi in particolare. Questo non gli ha impedito di svolgere una non meno prestigiosa carriera di direttore di grandi orchestre classiche, cimentandosi anche nel repertorio tradizionale.

Orlando Perera – Maestro Dantone, lei è ben conosciuto a Innsbruck, dove nel 2019 ha diretto la “sua” Accademia Bizantina in una bellissima Dori di Antonio Cesti, italiano ma genius loci. È tuttavia la prima volta, se non sbaglio, che assume un incarico organizzativo così prestigioso, questo significa una nuova fase nella sua attività di direttore d’orchestra di fama internazionale, con un repertorio molto articolato?
Ottavio Dantone – Certo, anche se il mio incarico sarà più musicale che organizzativo, dal momento che la direzione artistica e la gestione della rassegna sarà affidata a Eva Maria Sens e l’efficientissimo staff delle Innsbrucker Festwochen. Il mio compito come direttore musicale sarà quello di assicurare il massimo livello musicale per un festival così prestigioso. Naturalmente avrò voce in capitolo delle scelte e nelle strategie artistiche, ma la mia attività sarà principalmente legata all’aspetto puramente creativo.

OP – In realtà lei ha sempre mantenuto un doppio ruolo, direttore e clavicembalista, e insieme studioso e musicologo, che con altri illustri colleghi ha dato un contributo fondamentale al rilancio del repertorio barocco, anche con incisioni discografiche di grande pregio. Quale di questi due ruoli la interessa di più? E come lo adatterà al nuovo incarico?
OD – Ritengo che nella musica, non solo antica, i ruoli di strumentista, direttore, studioso e musicologo non possano prescindere l’uno dall’altro. Amo infinitamente lo studio e l’analisi dei testi antichi, ma il poter mettere in pratica ciò che si è appreso, trasformandolo in emozioni da comunicare al prossimo è uno dei lavori più belli che si possano fare.

Il Maestro Dantone e la sua Accademia Bizantina

OP – Il suo predecessore Alessandro De Marchi ha talvolta piuttosto esteso i confini temporali del concetto di musica antica, inserendo autori come Paër e Mercadante, che appartengono di diritto all’Ottocento. Si trattava comunque sempre di operazioni filologiche, di revisioni o nuove edizioni della partiture. Condivide questa scelta? Anche lei non si farà costringere più di tanto nell’epoca che va dal Cinque al Settecento?
OD – A prescindere dalla programmazione che attueremo nei prossimi anni, ritengo che non si debba più pensare alla musica antica riferendosi solamente a un periodo storico che arriva alla seconda metà del ‘700. In effetti la musica dell’Ottocento è abbastanza antica ormai da poter essere considerata tale. Inoltre la riscoperta del repertorio romantico attraverso l’uso degli strumenti originali e con una lettura storicamente informata è già in atto da diversi anni e credo che caratterizzerà la fruizione di questa musica nei prossimi decenni. Personalmente con la Accademia Bizantina abbiamo già inciso e usciranno presto registrazioni di Schumann, Mendelssohn, Beethoven e Schubert. La filologia può aiutarci a scoprire ancora tante cose riguardo a quest’epoca. Detto questo il repertorio che affronterò in questi anni a Innsbruck sarà prevalentemente quello tra il Sei e Settecento, soprattutto italiano.

OP – A ben guardare, se si parla di “Alte Musik” – musica antica – si potrebbe legittimamente pensare anche a epoche precedenti, il Tre-Quattrocento ad esempio, ma questo, che io ricordi, a Innsbruck non è mai avvenuto, se non in qualche rara serata collaterale. Che ne dice?
OD – Lo ignoravo ed è un’osservazione interessante e legittima, in ogni caso già dall’anno prossimo ci sarà qualcosa inerente la musica medievale e rinascimentale.

La facciata del Landestheater di Innsbruck, una delle sedi delle Settimane di Musica Antica

OP – In ogni caso, che cosa pensa del ruolo della filologia nelle esecuzioni contemporanee di musica barocca?
OD – Per me è molto importante che il pubblico cominci a capire che cosa significa davvero filologia. Ancora oggi dopo molto tempo c’è chi crede che si tratti semplicemente dell’uso degli strumenti antichi e della prassi esecutiva, di suonare con poco vibrato o utilizzare lo stesso organico dell’epoca, eseguire le opere senza tagli e altre piccole cose del genere. Per me filologia significa, come evoca la parola stessa, imparare comprendere un linguaggio, un pensiero, un’emozione, un comportamento estetico. Riuscire a osservare una partitura e leggere tra le sue righe non solo ciò che è scritto e il suo significato, ma anche e soprattutto ciò che non è possibile scrivere perché celato dai codici retorici, attraverso lo studio e la relazione tra musica e parola. Significa conoscere tutte le fonti e utilizzarle ai fini creativi, avendo per di più la possibilità di andare oltre il pensiero del compositore pur rispettandolo profondamente.

OP – Lei porterà a Innsbruck anche l’Accademia Bizantina, la raffinata orchestra barocca di Bagnacavallo nel ravennate, di cui ha assunto la responsabilità nel 1996, quindi ormai da quasi trent’anni. A Innsbruck bisogna dire c’è già un’orchestra locale, di buon livello, anche se non paragonabile come prestigio. Ha trovato ostacoli in questa decisione, peraltro difficile da contestare?
OD – No, anzi. Mi è stato chiesto di assumere questo incarico anche e soprattutto con l’Accademia Bizantina. D’altra parte un’orchestra barocca si identifica con il proprio direttore e viceversa. L’Accademia bizantina rappresenta l’emanazione più pura del mio pensiero musicale e non avrei mai potuto accettare un incarico del genere senza di loro.

OP – Con l’Accademia lei ha tra l’altro realizzato registrazioni di riferimento di molte musiche di Antonio Vivaldi. Quest’anno a Innsbruck erano in cartellone ben tre titoli vivaldiani, l’Olimpiade, La Fida Ninfa, e l’oratorio Juditha Triumphans in forma scenica. Che spazio avrà nelle sue scelte il patrimonio di teatro musicale lasciato da Vivaldi, e ancora abbastanza misconosciuto?
OD – Per quanto riguarda le produzioni affidate a me e all’Accademia Bizantina, come ho dichiarato fin dalla prima conferenza stampa, la linea sarà quella di valorizzare autori attivi a Innsbruck o comunque nel territorio austriaco, oltre che riscoprire partiture rare e non ancora eseguite in tempi moderni. Relativamente alle produzioni degli orchestre ospiti e soprattutto dell’Opera Young, Vivaldi avrà certamente lo spazio che merita.

L’interno della Haus der Musik, un’altra delle sedi delle settimane di Musica Antica

OP – A proposito, vorrei ricordare l’impegno a favore dei giovani musicisti, che distingue Innsbruck fin dal 2010, quando nacque il concorso Cesti per giovani voci: tra l’altro lei era in giuria nell’edizione di quest’anno da poco conclusa. Poi c’è appunto la sezione Opera Young, dove interi cast di opere sono riservati ad artisti giovani. Immagino che tutto questo verrà mantenuto, giusto?
OD – Naturalmente! Il concorso Cesti e l’Opera Young rappresentano una delle più felici intuizioni di questo festival. Per i giovani significa avere la possibilità di di presentarsi di fronte a una giuria di professionisti e a un pubblico competente, con la prospettiva di avere un indirizzo importante per la propria carriera. Per il festival e per il mondo della musica antica è un’importantissima fucina di talenti che può alimentare le produzioni concertistiche ed operistiche, con grande vantaggio artistico ed economico.

OP – Che cosa consiglierebbe oggi a un giovane aspirante cantante lirico? Repertorio classico-romantico, magari belcantistico, o canto barocco?
OD – A mio parere è comunque importante riuscire a specializzarsi in un periodo storico non eccessivamente ampio. A prescindere da questo, la cosa fondamentale è non bruciare la propria carriera musicale con la fretta di entrare nel mondo dello star system. Bisogna valutare attentamente le proprie potenzialità e studiare assiduamente sia il repertorio e la tecnica che la prassi e l’estetica.

OP – Per concludere, come riassumerebbe in poche parole il suo progetto artistico-musicale per le Festwochen der Alten Musik di Innsbruck, probabilmente il più prestigioso festival di musica antica dei nostri giorni?
OD – Valorizzare il più possibile i compositori e il repertorio legato da Innsbruck al territorio austriaco. Affrontare temi interessanti che creino un ponte tra la concezione antica dello spettacolo e la moderna ricezione del suo linguaggio. Il massimo rispetto e rigore uniti alla volontà di rendere la musica antica comprensibile ed emozionante oggi come allora, oltre che compatibile e in armonia con il mondo e le emozioni di oggi.

 Il castello di Ambras.In primo piano la Spanischer Saal dove si svolgono molti concerti

Intervista a Francesco Micheli

foto © Gianfranco Rota

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Bergamo, 14 dicembre 2022

Renato Verga – È terminato il Donizetti Opera di Bergamo e finalmente c’è il tempo per una chiacchierata con il suo direttore Francesco Micheli. Personalità “vulcanica” è l’epiteto che più spesso si è speso per definirla, ma il piccolo Francesco che cosa pensava di fare da grande? Lo chiedo perché sembra che il futuro abbia esaudito tutte le possibilità: regista, direttore artistico, insegnante, scrittore, autore di testi multimediali, ideatore di progetti innovativi per avvicinare i giovani all’opera, intrattenitore, affabulatore, uomo di televisione, di cinema e di teatro, specialista della musica di Donizetti, ambasciatore della sua città, Bergamo, che sarà Capitale Italiana della Cultura nel 2023… Che cosa ho dimenticato?
Francesco Micheli – Senza dubbio fin dalla più tenera età sono stato un bambino abbastanza sovreccitato ed effervescente. Ricordo che nei vari temi “Cosa farai da grande” passavo dal cuoco all’astronauta… ma quello più ricorrente, e profondamente vero, era l’insegnante: avevo una passione per la mia maestra delle elementari e la possibilità di condividere dei saperi, di mediare la conoscenza e l’accesso ad aree di bellezza dell’umanità e del creato è sempre stata la più più profonda vocazione. È vero che la regia ha una dimensione didattica, ma devo dire che l’insegnamento mi manca, anche se la Bottega Donizetti è anche un po’ l’occasione per praticarlo. Per dirla tutta, però, per anni ho sentito la Vocazione, quella con la V maiuscola: ero molto affascinato dai Gesuiti, tant’è vero che frequentai a lungo il Centro San Fedele di Milano. E c’è stata una fase in cui stavo per entrare nell’Ordine, salvo poi fare la mia prima regia d’opera e capire che l’amore vero era quello lì!

RV – Con tutto l’attaccamento alla sua città, dove è nato nel 1972, è però a Milano che scoprì il mondo a 19 anni, anche se è una città in crisi quella del 1991, la città che ha perso il luccichio che aveva la “Milano da bere”. Tre settimane alla Bocconi e poi laurea in Lettere Moderne e diploma alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Sembra proprio che la avesse colpito la ricchezza della scena teatrale milanese.
FM – Sin da bambino venivo spesso a Milano con i miei genitori ed ero affascinato da quella metropoli che mi inebriava. Alla fine del liceo ho cercato di realizzare il primo amore, ossia quello di venire a studiare a Milano. Bergamo è una città strana, matrigna, che genera magari insofferenza ma costruisce un profondo legame. Milano era la metropoli più accessibile, ma la sfortuna volle che arrivassi proprio nel cuore della grigia città di “mani pulite”. In generale gli anni ’90 sono stati anni in cui a Milano tutto avveniva in privato – anche perché eravamo studenti squattrinati e quindi ci si trovava nei nostri appartamenti a bere un bicchiere – oppure si approfittava della gloriosa scena culturale: la Triennale, la Permanente, per non parlare della Scala, del Piccolo Teatro. Io che frequentavo l’Accademia ho vissuto per sette anni in una full immersion molto faticosa, onerosa, ma anche parecchio arricchente.

RV – Però il suo passato in val Brembana non lo rimpiange? Che cosa le ha lasciato?
FM – Il ripensare a quegli anni mi costringe a fare un potente viaggio dentro me stesso perché da un lato ho molto patito il poter crescere come individuo, come artista e come omosessuale in un territorio così severo, aspro, isolato come la Val Brembana. Dall’altro, è stato emblematico di tanti aspetti del mio carattere, a partire dai miei genitori: mio padre apparteneva a una famiglia contadina da generazioni, mentre mia madre era di una famiglia alto-borghese in cui il nonno materno fu l’inventore della Magnesia San Pellegrino. Nei pranzi delle festività mi ritrovavo con famiglie molto vivaci, umanamente ricche, pimpanti, molto teatrali tutte e due. Sembrava un po’ Novecento di Bertolucci! Da una parte una famiglia di tradizioni contadine, schietta, ruspante, anche brutale, con un’ironia ferocissima che correva di bocca in bocca, dall’altra un ambiente raffinato, colto, sobrio e riservato. Ho avuto la fortuna di poter godere fin dalla più tenera età di uno spaccato di umanità molto variegato e di aver incorporato una serie di anticorpi anti-borghesi, per cui mi ritengo abbastanza immune da brama di successo, di denaro e da tutta una serie di valori per me pericolosissimi che corrodono l’unicità e la bellezza di una persona. L’isolamento mi ha lasciato anche una grande fame di metropoli, ma il carattere bergamasco, un po’ rude e severo, mi è rimasto.

RV – E della sua prima regia che cosa ricorda?
FM – Fu Maria Stuarda, reina di Scotia, un testo teatrale di Federico della Valle del 1591 ma pubblicato nel 1628, una delle perle della drammaturgia italiana del XVII secolo. Per me, che venivo da studi classici e da una fondamentale passione per l’opera, arrivare alla Paolo Grassi, che è una grandissima scuola di teatro, è stata una bella impresa perché non avevo nessuna esperienza teatrale diversamente dai miei compagni e fu un apprendistato molto faticoso ma istruttivo. Al terzo anno, in forma totalmente autogestita, avevo voglia, dopo tanto Shakespeare, Grotowski, ecc. di poter dare spazio al mio immaginario: sin dai tempi del liceo adoravo questo testo grondante di gioielli barocchi retorici e pieno di una musicalità tutta nostrana e che appunto mi riportava al capolavoro di Donizetti: già lì nasceva il mio amore per Gaetano. In quella mia prima creazione drammaturgica misi tutta la mia anima: lo spettacolo era in una sala della Paolo Grassi con il pubblico in cerchio, un sipario divideva il pubblico in due, da un lato gli uomini, dall’altro le donne, e le attrici prendevano per mano gli spettatori e li portavano in varie postazioni. Lì era già evidente la mia volontà di rendere totalizzante l’esperienza teatrale.

RV – Poi ci sono stati gli anni dell’ASLICO e Reggio Emilia: che cosa le hanno dato queste prime esperienze?
FM – Credo di aver vissuto una fase congiunturale molto particolare perché la regia lirica in Italia era ancora un’esperienza avventurosa, tendenzialmente basata sulla bottega di un giovane artista che faceva da assistente a un grande maestro e poi col tempo si faceva le ossa. L’incontro con l’ASLICO è stato una grandissima occasione che mi ha permesso di imparare a fare il regista e soprattutto di imparare a considerare i cantanti come dei performer completi. Ricordo che tutte le produzioni erano caratterizzate non solo da un intenso periodo di prove, ma da settimane di laboratori in cui avevo grandi giovani cantanti con i quali si aveva la possibilità di misurare nuove strade lavorando sull’interpretazione, sul corpo e questo mi fece capire che bisogno ci fosse di aggiornamento del linguaggio operistico, soprattutto in Italia, riguardo alla drammaturgia, ossia la capacità che ha l’opera di raccontare storie anche sotto traccia o comunque di mettere a fuoco l’esigenza di tradurre la narrazione del passato con quella contemporanea. E dall’altro si sentiva il bisogno di aggiornare la figura del cantante lirico come performer contemporaneo. Questo lavoro, che è ancora in atto e non ha smarrito il suo senso, mi ha portato negli anni a trovar casa in alcune realtà teatrali. L’ASLICO e Reggio Emilia sono state le grandi case operistiche dove ho avuto la fortuna di farmi le ossa e di rinnovare il linguaggio operistico e fare le prime prove di gestione artistica di un progetto complesso. Grazie e Daniele Abbado dal 2004 al 2008 avevo uno spazio, il Teatro Cavallerizza, una programmazione, una vera e propria stagione off in cui, tramite impegnativi laboratori per ragazzi delle scuole superiori. Portavamo in scena degli spettacoli in forme totalmente nuove e che sono poi diventati progetti televisivi di Sky Classica. Ho avuto quindi la fortuna che tendenzialmente un regista operistico non ha, ossia quella di avere un luogo di sperimentazione regolare.

RV – E arriva il Primo Premio Abbiati con Bianco, Rosso e Verdi: è la prima consacrazione ufficiale?
FM – Il premio Abbiati del 2011 è stato una grande soddisfazione perché veniva premiato un lavoro di drammaturgia originale, un testo scritto da me che univa varie pagine verdiane. Avevo a disposizione un lussuosissimo parterre: l’orchestra, la banda, il corpo di ballo, l’intera squadra tecnica del teatro Massimo di Palermo per creare un grande spettacolo destinato al pubblico più giovane. Tutte le mie varie vocazioni – autore, regista, organizzatore… – avevano forse per la prima volta a disposizione una materia prima lussuosissima e destinata a creare qualcosa di importante. È stato uno spettacolo fortunatissimo, che è stato replicato tantissime volte e ha formato la gioventù palermitana per anni.

RV – Venezia, l’Arena di Verona e poi Macerata, quest’ultimo forse l’impegno più lungo prima di Bergamo. Avrebbe voluto cambiare qualcosa del Festival allo Sferisterio?
FM – Anche La Fenice di Venezia è stata una casa operistica molto felice, dove ho avuto la possibilità, grazie a Fortunato Ortombina, di firmare i miei primi grandi spettacoli: da Killer di parole di Claudio Ambrosini col libretto di Pennac, alla Bohème, dall’Otello alla Lucia. La Fenice è veramente una grandissima famiglia artistica: faccio fatica a pensare a un altro teatro dove i dipendenti e i collaboratori sono così affezionati a quel posto come se fosse casa loro. L’Arena di Verona è stata un appuntamento fondamentale e Roméo et Juliette mi ha permesso di mettere a prova un’attitudine da direttore artistico. Quello di Gounod fu un titolo di grande coraggio per la programmazione di chi allora gestiva l’Arena e consapevoli di questo facemmo tutto un lavoro di flash mob e web tv che nel 2011 era fantascienza. Quelli furono momenti in cui si capì che il teatro d’opera, persino l’Arena, smetteva di essere un tempio a cui i fedeli arrivavano bruciando incensi, ma doveva essere un centro di aggregazione che aveva l’obbligo di cercare un nuovo pubblico e di inventarsi nuovi modi per mettersi in evidenza. Tutto questo portò l’attenzione su di me del consiglio di amministrazione del Festival di Macerata. Arrivato lì la prima cosa che notai fu che non funzionava bene il rapporto con la città, che viveva lo Sferisterio come un corpo estraneo, un’astronave che atterrava d’estate, razziava e se ne andava via. Mentre era una grande risorsa e un miracolo artistico. La prima cosa che cercai di fare fu quella di portare l’opera fuori del teatro e in questo fu fondamentale l’esperienza del Flauto magico per strada che Daniele Abbado mi commissionò per celebrare quello messo in scena da padre e figlio, Claudio e Daniele. Un’esperienza che contagiasse la cittadinanza in una grande festa teatrale, una notte bianca del Flauto magico, e sentii che questa era la strada giusta per far conoscere ai maceratesi il loro teatro. E quindi nacquero “la notte dell’opera” e tutte le iniziative che andavano sotto il titolo di Festival Off.

RV – Il Donizetti Opera di Bergamo è uno dei festival più rinomati, attesi e in buona salute tra quelli in Italia, se non nel mondo. Un festival che non si è fermato nemmeno in tempo di pandemia: nel 2020 le tre opere sono state registrate senza pubblico e trasmesse in streaming. Ed è un festival in cui la percentuale di stranieri che attraversano le Alpi per arrivare a questo appuntamento supera il 50%, ma anche la comunità locale mi sembra che partecipi.
FM – Io ho scoperto Donizetti tendenzialmente fuori Bergamo, quando ho iniziato ad appassionarmi all’opera andando alla Scala: ricordo la Lucia di Lammermoor che vidi nel ’92 nella produzone di Pier Alli con la Devia, e fu una folgorazione. Ritornare a Bergamo, la mia città di formazione, aveva il valore di un riscatto: Donizetti è il bergamasco più famoso al mondo, è uno dei maggiori compositori, quello che ha fatto parlare italiano nel mondo, ha fatto amare la musica italiana e non è giusto che il detto nemo propheta in patria dovesse valere ancora per lui. Quando sono arrivato a Bergamo ho trovato una città che aveva voltato le spalle al suo compositore e quindi la creazione di un festival donizettiano andava in due direzioni: da un lato la revisione di edizioni critiche che fossero alla base di un allestimento in qualche modo di riferimento nel panorama internazionale, dall’altro un festival prestigioso e capace di attrarre spettatori, turisti e appassionati da tutto il mondo. Quanto più se ha un sapore locale molto forte, come Aix-en-Provence, come Salisburgo, e questo può accadere se i primi ambasciatori ospiti del festival sono i cittadini stessi. E quindi abbiamo fatto un potente lavoro di sensibilizzazione e divulgazione. Se a casa tua hai un tesoro così prezioso è insensato e contro natura tenerlo nascosto agli abitanti di quella casa.

RV – La fortuna del Festival Donizetti ha a che fare con un autore prolifico: quelli di Verdi e di Rossini hanno esaurito da tempo i titoli, mentre per il Gaetano c’è ancora molto da tirare fuori. E poi ci sono le nuove versioni, gli adattamenti… Basteranno i prossimi cinquant’anni a esaurire l’argomento? Ma un festival non è solo scoprire titoli poco conosciuti, che cosa deve essere per lei?
FM – Stiamo attraversando un periodo di grande transizione socio-culturale e noi operatori culturali siamo chiamati a giocare un ruolo importante affinché questa trasformazione volga verso prospettive e scenari fertili, positivi, costruttivi, pacifici. Sappiamo bene che nei momenti di transizione si può crollare verso il basso, verso la guerra, il terrore e la dittatura, e qui il Festival Donizetti cerca di giocare la sua parte. È innanzitutto un festival monografico, quindi una manifestazione culturale con lo scopo di restituire la volontà originaria del compositore, la prima cosa di cui ci si deve occupare. Esattamente come per aprire un museo bisogna restaurare le opere che fanno parte del museo. Ma questo non esaurisce la missione di un festival, che è soprattutto una realtà culturale che deve dare la dimensione di un grande raduno festoso degli amanti della bellezza in una festa a tema, che nel nostro caso è Donizetti. Il rapporto col territorio è quindi fondamentale: quel compositore è nato in quella terra e quella terra se la porta dentro. L’essere poi quella di Bergamo una terra di confine ha comportato una grande esterofilia drammaturgica, complice anche la temperie romantica di cui Donizetti è stato uno dei primi interpreti in musica. Ed è una terra povera, Gaetano proveniva da una famiglia poverissima e non è un caso che nelle sue opere gli ultimi sono destinati a diventare evangelicamente i primi. Questi sono valori tematici che vanno ben oltre le opere: in un sorta di santuario laico di questo compositore è importante far sentire immortale o comunque ancora valido il suo lascito testamentario. Nel commissionare nuove opere, nel dare vita a eventi che traducano oggi il senso di quell’attività, io spesso ragiono sull’onda di un motto quasi scherzoso: ma cosa farebbe Gaetano se fosse qui, come si comporterebbe? E indiscutibile che Donizetti sia stato uno degli ultimi grandissimi compositori ad utilizzare i cantanti en travesti, inizialmente per rappresentare personaggi adolescenziali, poi con Mamma Agata una grandiosa drag queen. Quest’anno abbiamo voluto celebrare il compleanno di Gaetano chiamando DJ di musica elettronica perché in qualche modo Donizetti, con la sua capacità di immettere ritmi di danza correnti in quel periodo, imprimeva un’orecchiabilità e un’elettricità nuove nell’opera a tal punto da essere “dozzinale”, commerciale, come la musica di oggi è accusata. E così abbiamo avuto dunque delle drag queen, artisti la cui identità sessuale è fluida e ciò ha causato un po’ di sommovimento. Ma niente di paragonabile a quello che Gaetano è stato capace di fare in vita, sintomo che allora forse stiamo facendo la cosa giusta.

RV – Quest’anno ha messo in scena L’aio nell’imbarazzo, un’opera buffa, mentre nel 2019 fu L’ange de Nisida, la prima versione de La favorite che abbiamo appena visto, mentre nel ’21 fu la Medea in Corinto di Mercadante. Pensa di esprimersi meglio con l’opera buffa o con il dramma?
FM – Bella domanda! Finora, anche per una certa versatilità nella gestione di grandi mezzi, grandi masse, grandi allestimenti, penso all’Aida all’NCPA di Pechino, uno spettacolo gigantesco, la maggior parte dei titoli operistici che ho realizzato sono stati dei drammoni, opere a tinte fosche. D’altronde grandi mezzi richiedono grandi sentimenti. L’esperienza dell’Ange de Nisida è stata formidabile perché mi ha permesso di misurarmi col genere semi-serio che ritengo davvero interessante, la sfida che all’inizio dell’Ottocento Rossini e Donizetti avevano intrapreso proprio perché il Romanticismo nascente e la riscoperta di Shakespeare fecero capire come il sentimento del grottesco, la convivenza di registri diversi, erano la forma più congeniale per rappresentare la realtà: il reale non è mai o solo comico o solo tragico, la nostra vita è tragicomica, convivono sempre anime diverse. Anche l’Alcina di Glyndebourne è stata un’occasione per raccontare una serie di vicende intrecciate e dense, ma con un’ironia che il pubblico inglese ha apprezzato. L’aio nell’imbarazzo è la prima opera buffa che affronto dopo lo Schicchi. Credo molto nel comico, e la commedia all’italiana lo dimostra, perché dietro la risata c’è sempre un atteggiamento di disvelamento del reale che sta alla base dell’arte. Lo scopo è offrire uno specchio e scoprire la realtà, anche tramite l’evasione.

RV – Com’è stata la collaborazione con Vincenzo Milletarì, il giovane e talentuoso direttore siculo-pugliese che lavora di preferenza nel Nord Europa e che qui è alla sua prima opera in forma scenica in Italia?
FML’aio nell’imbarazzo è stata un’esperienza memorabile per noi che l’abbiamo vissuta: è stato un gioco di apprendimenti e di insegnamenti reciproci. Alex Esposito è un grande amico e compagno d’arte ed è stato un gioco di magistero in cui ognuno ha dato e preso molto. Avere Corbelli è stata poi la realizzazione di un sogno: ricordo il suo Leporello nel Don Giovanni di Luca Ronconi a Bologna nel 1991 quando ero ancora al liceo: il suo personaggio era basato sulla figura di uno dei Fratelli Marx e non ho mai visto un’adesione così religiosamente totale al personaggio e così straordinariamente personale. Vincenzo è un po’ l’emblema di tutto questo: è un giovane maestro, talentuosissimo, garibaldino, ha sicuramente dato tantissimo a tutti noi, così come penso abbia anche preso tanto. È stata un’esprienza memorabile.

RV – Ha un sogno, una regia d’opera nel cassetto, una che probabilmente farà? E una che vorrebbe ma che difficilmente potrà fare?
FM – Sono molte le opere che sogno di mettere in scena: da un lato L’elisir d’amore che non ho mai fatto – in effetti io ho fatto pochissimo Donizetti – perché credo che da bergamasco sono in grado di percepire profondamente quel tipo di comicità molto amara, schiva che sottende profondamente quel capolavoro. Adoro il Macbeth, adoro il Don Carlo, ma fondamentalmente il mio cuore batte nel repertorio barocco. L’Alcina di Glyndebourne è stata la seconda opera barocca che ho messo in scena dopo l’Orlando Furioso di Vivaldi ed è dove la mia formazione filologica in ambito letterario e storico-artistico lì trova pane per i suoi denti. Mi piacerebbe fare in futuro Le convenienze ed inconvenienze teatrali perché è molto divertente e credo che lì ci sia moltissima genialità. Quello che difficilmente potrei fare è Richard Strauss: il repertorio tedesco mi è estraneo culturalmente benché ne ami molto le opere, particolarmente Der Rosenkavalier e Ariadne auf Naxos. Sono sommi capolavori, ma non conoscere bene la lingua tedesca in opere in cui il libretto di Hofmannsthal e la musica sono così intimamente unite mi fa sentire inadeguato.

RV – Qual è il suo compositore preferito? E quello più stimolante da mettere in scena?
FM – Il mio compositore preferito è… Händel-Mozart-Donizetti, ma adoro anche Gluck. Comunque siamo sempre tra Settecento e Ottocento, da quelle parti lì. Il più stimolante in scena è forse tra quelli che amo meno, Puccini. Nella mia vita privata ascolto tantissima musica e di tutti i generi – opera, naturalmente, ma anche musica afro-americana, soul – mentre non ascolto mai Puccini. Ho messo in scena ben tre volte, di cui una alla Fenice, La bohème, che è uno dei capolavori più ispirati che mai siano stati concepiti. Penso che sia l’opera che meglio raffigura lo spirito e le illusioni della gioventù. Puccini è il compositore che ha il più grande senso della musica teatrale al mondo, ma non mi piace, non corrisponde alla mia sensibilità…

Intervista a Carlo Vistoli

foto © Nicola Allegri

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Torino, 10 giugno 2022

Renato Verga – Dall’ottobre 2012, da quando cioè hai debuttato a Cesena come la Sorceress di Dido and Æneas di Purcell, sono trascorsi poco più di nove anni. Ora Carlo Vistoli è tra i più richiesti cantanti nel repertorio barocco, e non solo. Lavora con i più prestigiosi direttori e registi del momento, colleziona recital e ha al suo attivo numerose incisioni discografiche. Come è successo?
Carlo Vistoli – Il tutto comincia da ben prima. La musica è stata sempre una mia grande passione, fin da quando ero piccolo. I miei genitori mi compravano delle musicassette prima e dei cd poi dedicati ai grandi compositori: un’introduzione, diciamo, alla cosiddetta musica “classica”. Tuttavia, non sono nato e cresciuto in un ambiente dove si coltivasse veramente un interesse per questo genere di musica: nessuno dei miei genitori, né dei miei parenti, è musicista. Mio padre aveva qualche qualche disco e ascoltandolo ho incominciato ad appassionarmi. E poi, appunto, chiedevo che mi comprassero queste registrazioni che uscivano in edicola, e devo dire che mi hanno davvero aperto un mondo. Il primo approccio è stato dunque da ascoltatore. Successivamente ho iniziato a studiare chitarra classica e anche pianoforte, sempre a Lugo. Quindi, verso i vent’anni, è arrivato lo studio del canto, prima con un tenore di Lugo che purtroppo è venuto a mancare prematuramente due anni fa, Fabrizio Facchini, poi, per un breve periodo, con Michele Andalò, un controtenore che è stato allievo di William Matteuzzi e infine con Matteuzzi stesso, con cui ho rifondato la mia tecnica. A queste lezioni private ho affiancato anche un corso di specializzazione con Sonia Prina al Conservatorio di Ferrara. È quindi una decina di anni fa che ho realizzato che questo poteva essere veramente il mio lavoro, che potevo vivere di questo sogno che tenevo nel cassetto fin da quando ero piccolo. Tutto è successo attraverso lo studio e l’impegno, che continuano tuttora, nonostante non sia più studente. O meglio, per me si è sempre “studenti” (inteso come participio presente), se il proprio obiettivo è un costante miglioramento. Personalmente, ho sempre cercato di puntare a nuovi traguardi, considerando che ogni arrivo è allo stesso tempo un nuovo punto di partenza. Nella pratica, durante i primi anni, ho partecipato a vari concorsi e sostenuto audizioni: c’è chi ha creduto in me e mi ha offerto delle possibilità, poi, come si suol dire, una cosa tira l’altra, e se si fa bene, poi dopo si viene richiamati e così si continua. A pensarci a posteriori, il bello è che mi è capitato, e mi capita ancora oggi, di lavorare con quelli che erano allora i miei miti, soprattutto per quanto riguarda il Barocco, genere che ho scoperto tramite le registrazioni, tra gli altri, di William Christie e di John Eliot Gardiner.

Caldara, Dafne (Apollo), Venezia 2015, regista Bepi Morassi (foto © Daniele Grillo)

RV – Dopo i tuoi studi universitari a Bologna – a proposito, sono stati utili per la tua professione? – l’incontro con William Matteuzzi quando avevi vent’anni è forse stato quello decisivo per indirizzare la tua carriera? E quello con Sonia Prina?
CV – Studiare musicologia è stato certamente importante, anche se in realtà non sono arrivato alla laurea, per vari motivi ma soprattuto perché poi ho cominciato a lavorare piuttosto assiduamente – ma laurearmi è nei miei progetti, appena ne avrò il tempo. Questi studi, ad ogni modo, credo mi siano stati d’aiuto, occupandomi principalmente del repertorio barocco, dove spesso si ha a che fare direttamente con le fonti. Quando si parla di “barocco” si intende un periodo molto ampio, di quasi duecento anni, con tanti stili diversi e con differenti pratiche esecutive, che occorre aver studiato e conoscere. Inoltre, mi capita spesso di trascrivere dei manoscritti. Tuttavia, in realtà, quello che conta è quanto avviene sul palcoscenico con i direttori, i maestri preparatori, i registi, e anche i colleghi: facendo produzioni importanti, sono venuto in contatto con alcuni cantanti che ammiravo già da ascoltatore e che ora posso osservare da vicino, ai quali posso chiedere consigli. Ogni incontro è utile in questo mestiere e più esperienze si fanno, meglio è. Io, poi, devo molto ai miei due maestri: Matteuzzi, che, oltre alla tecnica all’italiana del legato e del canto sul fiato mi ha insegnato l’importanza della parola e della prosodia, e Prina, che mi ha dato dritte importantissime sullo stile e su come rendere vivi e pulsanti, più vicini al pubblico, quei personaggi del melodramma barocco che di primo acchito possono parere bidimensionali, ma che una sapiente unione di musica e parole rende più sfaccettati e completi. Sonia ha un grandissimo istinto teatrale e comunicativo e il suo è stato un insegnamento prezioso.

Händel, Agrippina (Ottone), Brisbane 2016, regista Laurence Dale (foto © Darren Thomas)

RV – Quando hai scoperto che la tua voce sarebbe stata quella di controtenore, o meglio di contraltista, vista la tessitura medio-grave in cui preferisci esprimerti, e il sontuoso timbro che possiedi?
CV – Con il mio primo maestro, Fabrizio Facchini, avevo esplorato la mia voce da tenore, ma sentivo che c’era un tetto oltre il quale andavo con fatica. Mi risultava più comodo il falsetto, anche se allora era ancora del tutto incolto, e la mia passione del tempo (quando cioè avevo vent’anni) per il repertorio barocco mi aveva portato a scoprire controtenori come David Daniels, Bejun Mehta – con cui avrò l’onore di cantare ne L’incoronazione di Poppea tra qualche mese all’Opera di Stato di Berlino –, Andreas Scholl, Philippe Jaroussky, Lawrence Zazzo, Max Emanuel Cenčić, Christophe Dumaux e altri che mi avevano impressionato per i loro virtuosismi. Per curiosità, avendo come riferimento queste voci, avevo chiesto al mio insegnante di provare qualche aria, ma è stato prima con Andalò, lui stesso un controtenore, e poi in particolare con Matteuzzi che ho iniziato a esplorare seriamente questa vocalità. Una vocalità che ho costruito nota per nota, partendo dalla parte centrale, in su: avevo infatti un registro basso già abbastanza sviluppato, così come quello acuto, ma meno il centro. Con pazienza, semitono dopo semitono, ho unito questi registri, specializzandomi nel repertorio grave della mia tessitura, quello che gli anglosassoni chiamano “male alto”. Ho una predilezione per una vocalità brunita, calda, avvolgente, carnosa, con un colore maschile ben evidente. Nei ruoli eroici scritti all’epoca per castrati una delle caratteristiche spesso richieste era quella di saper passare con agio da note “di petto” (chiamiamole così, per convenzione), gravi e scure, agli acuti: questo è un aspetto fondamentale con cui un controtenore deve confrontarsi nel suo studio. Ultimamente sto affrontando anche ruoli più acuti, ma mi spingo al massimo a qualche ruolo mezzosopranile, rimanendo la mia comfort zone quella contraltile. Insomma, nelle cadenze ci si può sbizzarrire e salire all’acuto, ma la parte del cantabile, dove si fanno i colori, il legato, dove veramente ci si esprime, per me rimane quella del contralto.

  

Cavalli, Erismena (Idraspe), Aix-en-Provence 2017, regista Jean Bellorini (foto © Pascal Gély)

RV – Si può dire che con una voce come la tua si percepisce chiaramente l’evoluzione che la vocalità in questo registro ha subito: dalle prime voci stimbrate e flebili del passato che facevano largo uso del falsetto, alla voce piena e timbrata tua e di alcuni tuoi colleghi. Si può dire che non ci sia più l’emulazione della voce femminile nei controtenori di oggi?
CV – Qualche anno fa uscì una mia intervista con un titolo che riportava, – virgolettata, quindi come se l’avessi pronunciata io –, la frase «Canto come una donna per emozionare tutti», ma fu un evidente arbitrio del titolista, perché mai mi sognerei di dirlo: per quanto speri davvero di emozionare chi mi ascolta, non c’è mai stata l’intenzione di emulare la voce femminile. Dai lontani pionieri di questa vocalità, come Russell Oberlin, ma soprattutto Alfred Deller, le cui registrazioni specialmente nel repertorio inglese sono per me ancor oggi delle gemme di bellezza (tra l’altro, per lui è stato scritto il ruolo di Oberon nel Midsummer Night’s Dream di Britten, anche se, in realtà, non aveva una voce davvero “operistica”), tanta acqua è passata sotto i ponti, e oggi la voce di controtenore possiede di sicuro una maggior proiezione, una maggior capacità di sostenere fiati più lunghi, colorature complesse, e il suono, credo, si è fatto più rotondo, più corposo. Ma senza figure come Deller e Oberlin, oggi non potremmo esserci noi. I controtenori sono sempre più utilizzati in spazi teatrali ampi e con orchestre a volte nemmeno così ridotte, e queste esigenze hanno fatto sì che la voce si sia, come dire, “liricizzata”. Sono queste necessità teatrali ad aver portato a un’evoluzione stilistica e soprattutto tecnica della voce. A volte è comunque richiesto che questa tendenza venga ridotta, per esempio nel repertorio sacro: prendiamo Bach, in cui è necessario ridurre il vibrato, essere più strumentali – anche se in maniera diversa da come un altro compositore come Vivaldi richiede alla voce di avvicinarsi alle peculiarità degli strumenti. Ma per tornare alla questione circa l’emulazione della voce femminile, posso dire che negli ultimi tempi noto un crescente interesse per la vocalità dei sopranisti, forse anche in sintonia con il progredire del concetto di fluidità dei generi: c’è un gusto di tendenza, insomma, per un avvicinamento, quasi un confondersi, tra voce di uomo e voce di donna. Per quanto mi riguarda, però, preferisco che in un controtenore (etichetta generica che comprende contraltisti e sopranisti: questo bisogna farlo presente) la componente maschile rimanga quella prevalente, nel timbro e negli accenti.

Monteverdi, L’incoronazione di Poppea (Ottone), Salisburgo 2018, regista Jan Lauwers (foto © Vanden Abeele)

RV – Come cambia il personaggio se invece di un mezzosoprano/contralto o di un tenore c’è un controtenore? Sto ovviamente pensando al caso dell’Orfeo ed Euridice di Gluck nelle sue diverse versioni.
CV – Le tre versioni differiscono nella scrittura vocale e anche, seppur in minor parte, in quella strutturale, dei numeri musicali, nonostante l’ossatura rimanga la stessa. Ognuna ha la sua ragion d’essere. La prima versione, quella di Vienna del 1762, fu scritta per un contralto castrato, Gaetano Guadagni, che cantò anche per Händel, ma a Parma, cinque anni dopo, fu un soprano castrato, Giuseppe Millico, mentre a Parigi nel 1774 fu un haute-contre. E non parliamo della versione di Berlioz di quasi un secolo dopo per mezzosoprano. Nel caso della versione originale, Gluck voleva sfrondare l’opera degli orpelli barocchi, secondo le intenzioni della riforma sua e di Calzabigi, mirando a un’espressione più diretta del testo poetico e dell’intreccio,. Al giorno d’oggi, l’impatto che si vuole avere in scena ha acquistato un’importanza fondamentale. Per quanto mi riguarda, ho fatto due produzioni di Orfeo ed Euridice, una con Carsen a Roma nel 2019 e una con Michieletto quest’anno a Berlino, e in entrambi i casi c’è stata una volontà di realismo, di verisimiglianza scenica che solo con un Orfeo maschile si è potuta ottenere. Ma non solo: l’effetto di una voce acuta maschile è ben diverso da quello di una voce grave femminile, a livello acustico e di percezione. C’è poi una questione di gusto personale – è vero –, tra chi preferisce un Orfeo donna e chi un Orfeo uomo (scena o non scena), ma qui si entra nel campo del soggettivo, e ognuno è libero di avere la sua opinione.

Hasse, Artaserse (Artabano), Sydney 2018, regista Chas Rader-Shieber (foto © Brett Boardman)

RV – Sei tra i non molti controtenori che conti l’Italia eppure, soprattutto in questo repertorio italiano al 99% e in cui la dizione è della massima importanza, gli italiani non dovrebbero essere quelli più avvantaggiati? Sono le solite ragioni più o meno nascoste del maschilismo italico a far snobbare i controtenori, come alcuni direttori ancora oggi fanno, preferendo cantanti femminili en travesti? Che cosa vorresti dire a loro?
CV – Contralti, mezzosoprani e controtenori possono e devono convivere pacificamente (o almeno, ci si prova… scherzo!), anche se ci sono alcuni ruoli che vedo più adatti a essere cantati da un uomo, invece che da una donna. Ultimamente, la presenza dei controtenori, anche italiani, nei nostri teatri è aumentata e credo che, in generale, non ci sia più un pregiudizio nei nostri confronti nei grandi teatri: la Scala, l’Opera di Roma, il Maggio Musicale Fiorentino, la Fenice, solo per citarne alcuni, si sono aperti a questo tipo di vocalità e contemporaneamente sempre più spesso propongono titoli barocchi. È in Francia dove ho lavorato di più, un paese che amo molto e in cui sono sempre felice di tornare, ma in caso di sovrapposizioni di impegni, a parità di importanza, dovendo fare una scelta, ho sempre un occhio di riguardo per il mio paese. Un madrelingua italiano è certo privilegiato, non solo per una questione di dizione, o – per citare un aspetto molto pratico – per la praticità nell’imparare (a memoria) la parte. In particolare, cantare nella propria lingua è un vantaggio soprattutto nel repertorio seicentesco dove, ancora più che nei repertori più tardi, il testo viene ancor prima della musica e conoscere la prosodia e le inflessioni della lingua è veramente importante. Quindi, per quanto riguarda il Seicento, essere madrelingua, sì, credo faccia la differenza. Al tempo stesso, ci sono tanti cantanti stranieri che cantano egregiamente in italiano, così come il contrario: noi italiani che cantiamo (spero bene, nel mio caso) in un’altra lingua. A me, per esempio, piace molto cantare in inglese (e non è affatto facile, se lo si vuole fare davvero bene), così come in tedesco, mentre purtroppo ho molte poche occasioni di cantare in francese perché il repertorio a me adatto non lo permette. Quando canto in una lingua che non è mia, mi sforzo veramente di rendere al meglio tutte le sfumature del testo, ma per forza di cose non potrà mai essere come nella propria madrelingua. Nel Seicento, con Monteverdi, Cavalli & co., i libretti sono talmente belli, di livelli poetici talmente alti, che saper cogliere anche le minime inflessioni del testo è essenziale per renderle poi al meglio nel canto.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Roma 2019, regista Robert Carsen (foto © Fabrizio Sansoni)

RV – Monteverdi, Cavalli, Händel, Vivaldi: un repertorio stupendo e ricchissimo di capolavori che però in Italia non è poi così popolare. Solo un quinto delle produzioni in cui hai cantato sono state fatte in Italia, con la Francia il paese che forse frequenti di più. Cambieranno mai le cose da questo punto di vista nel nostro paese che dell’opera conosce e vuole ascoltare quasi soltanto il melodramma ottocentesco?
CV – Il recente grande successo de La Calisto alla Scala fa ben sperare: non era per nulla scontato per un autore come Cavalli, che comincia a essere proposto con una certa regolarità nei teatri europei, ma tuttora non è così rappresentato come Monteverdi. Se l’opera barocca viene messa in scena con allestimenti di livello, grandi registi e direttori di prestigio, il pubblico apprezza. Nei teatri provincia, con le dovute eccezioni, questo repertorio tarda invece ad affermarsi a causa della tradizione e dell’attaccamento popolare al melodramma ottocentesco e al repertorio verista. Ma qualcosa pian piano sta cambiando. Oltretutto, l’immenso repertorio barocco ha ancora molti tesori da far scoprire. Occorre solo un po’ più di coraggio per allineare il nostro paese a quanto avviene all’estero, ma mi pare che, anche se lentamente, ciò stia avvenendo.

Stradella, Il trespolo tutore (Nino), Genova 2020, registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi (foto © Stefano Pischiutta)

RV – Al di fuori del repertorio barocco hai cantato anche in un’opera contemporanea, l’Ospite in Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino alla Fenice – mentre a Bologna tre anni prima ci fu un mezzosoprano… Dopo Britten sembra che anche i compositori contemporanei abbiano scoperto questo registro vocale.
CV – È vero: il repertorio contemporaneo è molto attento alla voce di controtenore. Ricordo con grande piacere la produzione veneziana di Luci mie traditrici, un’opera che è ormai diventata quasi di repertorio, a più di vent’anni dalla sua composizione, con molte diverse edizioni nel corso degli anni. La scrittura delle voci di Sciarrino è molto idiomatica e vi si avverte il suo interesse per la musica del Cinque-Seicento, in questo caso di Gesualdo – alla cui travagliata storia personale è tra l’altro ispirata la trama –, ma anche di Stradella (si veda Ti vedo, ti sento, mi perdo – un altro dei suoi titoli così evocatori –, scritto per La Scala). Un’altra interessante esperienza è stata quella con Adriano Guarnieri per una video-opera ispirata al Paradiso di Dante, (L’amor che move il sole e l’altre stelle), eseguita al Ravenna Festival, così come la cantata Hermann di Paolo Baioni. Ho cantato anche Arvo Pärt (Stabat Mater), assieme a Mario Brunello. Sono tutte musiche scritte nella nostra epoca, ma spesso con uno sguardo al passato. È stato bello e interessante lavorare finalmente con compositori viventi che, in alcuni casi, hanno scritto proprio per la mia voce. Parlare con gli autori, scambiare idee, conoscere il perché di scelte espressive e stili aiuta molto nella resa interpretativa. L’opera contemporanea, oggi, sta vivendo un periodo di grande fortuna, con importanti produzioni: Thomas Adès, George Benjamin, Brett Dean sono presenti nei maggiori teatri del mondo. E poi John Adams, Philip Glass, il quale ha scritto un’opera, Akhnaten, che ha come protagonista proprio un controtenore. Questa vocalità aveva suscitato interesse nei compositori del Novecento inizialmente per la sua novità, per le potenzialità che andavano oltre la categorizzazione delle voci canoniche. Britten ha usato questo registro nei personaggi di Oberon o di Apollo per esprimere il senso del magico, mentre per i compositori di oggi credo che possa essere considerata una voce come un’altra – di fatto, è diventata il settimo registro disponibile. La musica contemporanea ha ovviamente le sue difficoltà, soprattutto quando deve essere cantata in scena, a memoria, senza spartito (come per me è avvenuto per l’opera di Sciarrino), ma è molto gratificante ricevere l’immediato feedback del compositore.

Händel, Ariodante (Polinesso), Mosca 2021, regista David Alden (foto © Damir Yusupov)

RV – Alarcón, Antonini, Capuano, Christie, Gardiner, Haïm, Marcon, Montanari, Sardelli, Spinosi… Sembra la lista dei maggiori direttori del mondo e hai cantato con tutti loro. Chi ricordi con maggior piacere? Con chi hai dovuto discutere un po’ più del solito?
CV – Sono tutti grandissimi artisti con i quali mi sento onorato di aver lavorato. Ognuno ha le sue caratteristiche distintive e una delle qualità di un cantante deve essere quella di adattarsi alle richieste del direttore. È un lavoro di comunanza d’intenti, un incontro di idee: il bello è proporre le proprie, come per esempio le variazioni nei Da Capo (in cui mi diverto a sbizzarrirmi – ma d’altronde così facevano all’epoca). Se proprio dovessi scegliere un nome cui sono particolarmente affezionato forse sarebbe quello di William Christie, il primo grande direttore del barocco con cui ho lavorato assiduamente e che mi ha formato e dato preziosi consigli: con lui ho fatto molti concerti e un’opera in scena (L’incoronazione di Poppea a Salisburgo nel 2018: una delle esperienze musicali più belle che ricordi). Quale forza riesce tuttora a trasmettere, quale senso del teatro, anche in concerto! Per fortuna non ho mai avuto esperienze negative, o scontri con direttori. Finora è andato sempre tutto liscio, e spero di proseguire così.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Berlino 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Axel Hindebrand)

RV – Robert Carsen e Damiano Michieletto sono i registi con cui invece hai lavorato ultimamente: come è stata questa esperienza? Come ti sei trovato con questi due personaggi così diversi nel loro approccio al teatro?
CV – Anche prima di conoscerli personalmente, Carsen e Michieletto erano tra i miei registi preferiti e dal punto di visto lavorativo e umano mi sono trovato benissimo con entrambi. Gli spettacoli di Carsen ormai sono dei classici pur essendo lui in piena attività (per nostra fortuna!). Con Michieletto quest’anno ho addirittura tre produzioni: Orfeo ed Euridice a Berlino, Giulio Cesare in Egitto a Parigi e Montpellier e poi ci sarà Alcina a Firenze, una ripresa dello spettacolo di Salisburgo con Cecilia Bartoli. Le prime due erano nuove produzioni ed è stato esaltante veder nascere due regie di titoli così importanti. Sono spettacoli in cui è richiesto un grande impegno fisico: nell’Orfeo, in particolare, non esco mai di scena e sono coinvolto anche nei balletti, che (a differenza della versione di Carsen) non sono stati tagliati. Michieletto e Carsen sono entrambi molto attenti alla recitazione ed entrambi sono attorniati da team eccezionali nella creazione delle scenografie, dei costumi e delle luci. Mi pare che l’ultima fase artistica di Michieletto punti più che in passato sul simbolismo e proceda per sottrazione – ferma restando la cura che dedica all’azione scenica. All’asciuttezza e all’astrazione delle scene (le meravigliose e complesse visioni di Paolo Fantin) si unisce dunque un grande scavo del personaggio, che è chiamato a esprimersi non solo con la voce ma anche col corpo. Con Carsen ho avuto il piacere di riprendere l’ormai classica sua produzione di Orfeo ed Euridice a Roma, una delle mie più grandi emozioni, se non la più grande, vissute sul palco finora. Uno spettacolo essenziale per illustrare una storia “vera”, diretta, che racconta il dolore della perdita, ambientato in una landa desolata, popolata da persone “reali”, il tutto sfrondato da ogni aspetto mitologico. Con lui ho fatto anche Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Cavalieri a Vienna, un oratorio seicentesco, ricco di simboli e allegorie, difficile da mettere in scena, ma Carsen ne ha fatto un capolavoro teatrale, riportandolo a una dimensione terrena, umana, che parla a noi uomini del XXI secolo. È stato un successo incredibile di pubblico. Stilare classifiche lascia sempre il tempo che trova, ma in questo caso mi sento di dire che, per me, Carsen è il più grande regista d’opera della nostra epoca.

Händel, Giulio Cesare (Tolomeo), Parigi 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Vincent Pontet)

RV – Cavalli a Martina Franca (Xerse), Monteverdi a Berlino (L’incoronazione di Poppea) e Vivaldi ad Amsterdam (Giustino): questi sono tra i tuoi prossimi impegni. Nel tuo futuro ci saranno delle sorprese? C’è un ruolo che vorresti cantare ma che finora nessuno ti ha offerto?
CV – Il Xerse di Cavalli è un ruolo stupendo, molto impegnativo per via della lunghezza della parte (voglio ringraziare, tra l’altro, il mio compagno, Luigi, che mi ha aiutato a memorizzarlo, durante questi ultimi impegnativi mesi, mentre ero occupato in altre produzioni), con una tessitura perfetta per me. Tra l’altro, il compositore cremasco è tra i miei preferiti di sempre. Sono molto contento di farlo con Sardelli e Muscato per il primo anno della direzione artistica di Sebastian Schwarz del Festival della Valle d’Itria. L’anno prossimo canterò il ruolo titolo nell’Orlando Furioso di Vivaldi in concerto al Théâtre des Champs-Élysées con Jean-Christophe Spinosi e tornerò alla Komische Oper di Berlino per Semele di Händel con la regia di Barrie Kosky (altro regista che adoro e che ritengo tra i più grandi d’oggi). Tra i ruoli che vorrei cantare in scena ci sono senz’altro, tra quelli händeliani, Orlando, Rinaldo e Didymus (in Theodora, un ruolo scritto, tra l’altro, per Gaetano Guadagni), e poi Mozart – Farnace in Mitridate e Ascanio – e, perché no, Rossini! Ho già cantato La petite messe solennelle (era uno dei miei sogni nel cassetto, ed è stato il mio ultimo concerto prima del lockdown di marzo 2020), e mi piacerebbe cantare Tancredi. Chissà, vedremo! E quando sarò più agé ci saranno i ruoli di nutrice, ma per questi c’è ancora tempo…

Händel, Alcina (Ruggiero), Firenze 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Michele Monasta)

Interview with Robert Trevino

Torino, 23 marzo 2022

Renato Verga – Maestro Trevino, you were born thirty-eight years ago in Texas to a family of Mexican origin, the Treviño’s. Americans have been known for having allergies to accents and marks added to the letters of the alphabet, so Treviño became Trevino…
Robert Trevino – Yes. And I like it, because I always get tre-vino, three glasses of wine instead of one! (chuckles)

RV – As a youth you studied the bassoon but attended the University for orchestra conduction and made your professional debut in 2003, at the age of 19, in Wuppertal, Germany. What made you decide to become a conductor?
RT – When I was 9 years old I saw Seiji Ozawa in television and I thought «that’s for me». That’s how I wanted to become a conductor, but why I continued to be a conductor is different: I love my job, it’s my life, and what I like most is the fact that, as a conductor, you take all the many talents in the orchestra and you make one thing happen. So, I come to RAI and meet Matteo, Alessandro, Ula etc.: all have their different personality and I try to channel all their ideas towards a common goal.

RV – In 2010 you won the James Conlon Prize for Excellence in Conducting at the Aspen Music Festival and School. From 2009 to 2011 you were associate conductor for the New York City Opera before moving to the Cincinnati Symphony Orchestra until 2015. In 2013 you rose to international attention at the Bol’šoj Theatre in Moscow with Verdi’s Don Carlo for replacing the preplanned conductor. So, you practically became worldwide famous conducting an opera. Are you attracted to the genre?
RT – Yes, of course. I conducted Puccini’s Tosca, next there will be Turandot in Zurich and La rondine as well. I know Mozart’s Don Giovanni, Nozze, Così, Zauberflöte

RV – Since 2017 you have been music director of the Basque National Orchestra, a post extended until 2022. During this same period you were chief conductor and will be artistic advisor of the Malmö Symphony Orchestra, Sweden. Now you’re the principal guest conductor for three years of the RAI National Symphony Orchestra. With our orchestra you debuted in January 2019, it was to be followed by two more concerts in November 2020, but the coronavirus pandemic called it off. In November ’21, however, you managed to take the OSN RAI on tour to Germany. This season you are conducting no less than five concerts: four already performed on March 10/11 and March 17/18, the next is tomorrow for RAI Nuova Musica. In these concerts you have presented 19th century classics such as Schumann’s Concert in A minor, Tchaikovsky’s Manfred, Elgar’s First Symphony; 20th century works such as Webern’s Im Sommerwind, and contemporary works: Mugarri by Ramon Lazkano (a Basque composer), and tomorrow we will hear Fabio Nieder’s Danza lenta and Brett Dean’s Dramatis Personae. I’m utterly convinced that contemporary music should always be present in the billboards of symphonic seasons. In your choices of repertoire do you have the same yardstick?
RT – Today a journalist told me that people are scared of contemporary music. I don’t know why. Contemporary means now, it represents our experiences of today. Maybe people are intimidated, but I don’t think that to be the purpose of music: the point of music is to experience, to feel, to have emotions.

RV – Why did you choose Brett Dean for tomorrow’s concert? The Australian composer became famous a few years ago for his opera Hamlet. How would you introduce to us his Dramatis Personae, an Italian premiere?
RT – Brett Dean’s work is for trumpet and orchestra and here the trumpet player [Håkan Hardenberger] is fabulous, the work is an incredible piece of music. The characters, the dramatis personae, are a superhero (Superman/Batman), Hamlet and Charlie Chaplin. In the first movement the super hero tries to control the world using his super powers, but he fails. In the second movement Hamlet chooses a different approach, trying to influence people by manipulating them, but also Hamlet fails. In the finale – do you remember Modern Times when Charlie Chaplin waves the flag with the crowd behind him? – ­here the soloist becomes a sort of joker: the superhero failed despite his super powers, Hamlet did the same with his politics, than “let’s do it together with friend s, let’s make a team”. Four other trumpet players join him and they play a joyous quintet. The revolution is not forced, it comes from the inside. Quite relevant for the moment! I didn’t plan that…

RV – And what about Fabio Nieder’s Danza lenta di CS fra gli specchi? The piece, commissioned by the Accademia Nazionale di Santa Cecilia, was performed by Antonio Pappano for the symphonic cycle dedicated in 2015 to Ludvig van Beethoven and had accompanied his First and Third Symphonies.
RT – When we talk of Beethoven, we don’t talk of melodies, we talk of rhythm, motives. Nieder’s piece is the same: there are motives repeated – mirrored – in different proportions.

RV – Your upcoming programs include Mahler: Symphony no. 2 (Resurrection) in Spain (a program full of meaning in these times) and Symphony no. 7 at La Fenice; Brahms, Symphony no. 2, in Japan. You recorded on disc Max Bruch’s Three Symphonies, Beethoven’s Nine Symphonies, Ravel’s orchestral music and contemporary American composers’ works. Beethoven, Brahms, Bruch, Mahler, Elgar… in short, the symphony is your soft spot. But, in Beethoven’s case, is there still something new to say about his symphonies?
RT – Okay, it’s a different point of the question. For me a composer is the closest we get to an immortal being. That’s imagine for one moment: Russia presses the button, USA presses the button, everything is gone. Music doesn’t “exist”, but it continues to live because we perfom the music. Every composer writes with the desire that someone will give life to his music, and that music becomes relevant, is always new for every generation. It’s an obligation to perform it. Beethoven’s music will always be different. It’s part of the life. Composers are like the old Greek Gods: Hercules or Zeus required an offering that allowed to continue to live. In a way, composers are quite the same. I go with my sweat and my energy for the composer to continue to live. And for what “interpretation” means, we speak of interpretation too easily : interpretation is natural because everybody sees things in different ways. I can’t interpret, I take my time with the score to see what the composer wrote and I try with my eyes, my mind, my heart, to understand. If you come to the rehearsals, you will hear me say «The score here says…», never – well, almost never – «Here I want…»

RV – Now you know OSN RAI very well, what’s so special about this orchestra?
RT – It has a beautiful sound, a warm sound. What I also like is its flexibility and quick response: if I ask for full power, they can easily do something enormous. I like this.

RV – Audiences are still leery of attending concert halls. In your opinion what should be done to encourage them? It is an issue with aging audiences mainly here in Italy. Don’t we need a new generation of listeners interested in classical music?
RT – I’m not worried about the age of the audience: the younger generation is coming to the concerts, as before Covid. When you are my age, you have your job, your family, you are raising kids, you have your house to pay for. You work all the time, you don’t have time to attend the concerts. Then the kids go away, the house is ok, you retire from your job: now you have more time for the concerts. It’s normal. It’s life.

(Intervista organizzata dagli Amici dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI di Torino alla Società Canottieri Esperia di Torino. Per l’OSN RAI erano presenti anche il sovrintendente Gianluca Picciotti e il direttore artistico Ernesto Schiavi)

Intervista ad Alessandro Talevi

Torino, 21 ottobre 2019

Renato Verga – Alessandro Talevi. Nome e cognome italiani, ma tu non sei nato in Italia, vero?
Alessandro Talevi – No, sono nato a Johannesburg da padre italiano e madre inglese. Loro si sono conosciuti in Sud Africa e io mi considero essenzialmente un sudafricano.

RV – Hai iniziato a suonare e sei diventato un eccellente pianista, però poi hai scoperto il teatro. Come è successo?
AT – Ah, sì questa è una storia interessante! Pur non conoscendo la musica, da piccolo suonavo, anche se ho iniziato a suonare seriamente il pianoforte solo a undici anni, quando ancora non sapevo che cosa avrei fatto da grande. Allora ero più interessato all’aspetto scenico: per gioco mi costruivo dei teatrini o ricreavo a casa gli spettacoli che facevamo a scuola. È a quindici anni che ho scoperto la musica e che ho deciso di essere un pianista. Mi ha molto infuenzato una bravissima insegnante di pianoforte: da un’ora al giorno sono passato a sei ore al giorno di studio superando tutti i livelli così che a sedici anni ero talmente appassionato al pianoforte che ho dimenticato le mie aspirazioni di scenografo. Ho preso quindi i miei diplomi in pianoforte interessandomi però sempre molto alla storia dell’arte, cosa che mi è servita in seguito. Dopo l’università, sempre convinto di voler seguire una carriera di musicista, ho frequentato un corso di perfezionamento alla Royal Academy of Music di Londra dove mi sono specializzato come pianista accompagnatore dei cantanti d’opera ed è lì che è scoccata la scintilla: ho visto il lavoro del regista e ho scoperto che volevo fare proprio quello. Il mio non è stato quindi un cammino lineare: mi sono fatto una solida formazione musicale prima di ritornare alla mia idea originale di quando ero bambino.

RV – Quindi, secondo te, la conoscenza della musica per un regista è importante?
AT – Forse non è fondamentale, ma è molto importante, bisogna avere un istinto per la musica. Ci sono registi che, seppur bravi, non hanno una formazione musicale, ma sono comunque sensibili all’aspetto musicale. Per me è di grande aiuto, come quando ad esempio bisogna affrontare le opere del Settecento le quali hanno una struttura formale molto rigorosa: la costruzione dell’aria con la sua rigida forma col da capo o dei fnali col contrappunto delle voci che esprimono sentimenti diversi pongono problemi, ma se sai leggere la musica riesci meglio a dare un senso a ciò che è scritto e anche le prove risultano più agevoli.

RV – Cosa ricordi della tua prima messa in scena?
AT – Alla fne del corso alla Royal Academy of Music ero convinto di voler fare il regista, anche se dopo dieci anni di studi musicali la gente giudicava la mia scelta un po’ pazza. Io nel frattempo avevo trovato lavoro come insegnante in una scuola londinese che aveva un bel teatro che perà veniva usato pochissimo e il direttore me lo ha messo a disposizione. Allora ho scelto delle opere che non avessero bisogno di grandi risorse, come La voix humaine, che richiede solo un soprano, un telefono ed eventualmente un letto. E poi conoscevo tanti artisti che cercavano lavoro ed erano quindi disponibili. Con un budget di 200£ – e dopo aver venduto il pianoforte… – ho messo dunque in scena l’opera di Poulenc occupandomi della scenografa, del costume, delle luci. È stata una bella esperienza, molto formativa.

RV – Ti sei occupato delle scenografe, dei costumi e delle luci anche dopo?
AT – Io mi considero un regista molto visivo: le idee che mi vengono in mente sono sempre legate a immagini e per questo ho sempre una mia personale opinione anche se lavoro con altri scenograf o costumisti. Con loro comincio a discutere sempre con un’idea visiva da sviluppare. Se poi un teatro non può permettersi uno scenografo o un costumista mi assumo volentieri l’impegno, pur con il dovuto supporto tecnico.

RV – Qual è la produzione che ti ha dato più soddisfazioni personali o professionali?
AT – Questa è una scelta diffcile: nella mia carriera ci sono state cinque o sei opere che ho ancora nel cuore. Pelléas et Mélisande è una di queste. È stato all’inizio della mia carriera, ma è stato un grande successo. Anche L’amore delle tre melarance, Die Zauberflöte e L’histoire du soldat sono state importanti per me. Ma soprattutto Albert Herring di Britten a Firenze: non mi aspettavo un tale successo, e lo è stato sotto ogni aspetto.

RV – Hai portato i tuoi spettacoli sulle scene di tutto il mondo (Italia, Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, USA, Israele, Sud Africa, Svezia, Corea, Giappone…): c’è qualche paese in cui ti trovi a tuo agio o che più risponde alle tue esigenze? In cui si lavora meglio?
AT – Ho avuto la fortuna di lavorare in tanti paesi e ognuno ha aspetti diversi. A Tel Aviv ho trovato un’accoglienza fantastica. Loro hanno una vera passione per quelli che vengono da fuori a fare opera. Anche il Real di Madrid è un teatro meraviglioso, ben sovvenzionato e molto organizzato. Ma direi che la Gran Bretagna è il paese in cui si sommano tutti gli aspetti positivi: la passione per la musica, l’educazione, i fondi, l’onestà e la gentilezza con i lavoratori. Tutto lì funziona in maniera quasi perfetta.

RV – Tu hai utilizzato anche spazi non convenzionali per i tuoi spettacoli. Ti stimolano più delle sale dei vecchi teatri?
AT – No, io mi sento molto a mio agio nel teatro tradizionale, in un contenitore chiuso. Certo questi spazi ti costringono a trovare soluzioni creative non convenzionali, ma bisogna sempre essere coraggiosi e pensare fuori dagli schemi per arrivare a nuove ispirazioni. In genere preferisco gli spazi chiusi e limitati: allo Sferisterio di Macerata mi sono sentito quasi naufragare in tutto quello spazio.

RV – Forse bisogna avere dei limiti per stimolare la propria creatività.
AT – Infatti, io amo la sfida degli spazi piccoli.

RV – Hai messo in scena opere che vanno dal barocco (molto Händel) al Novecento (Debussy, Prokof’ev, Stravinskij, Janáček, Britten, Poulenc), ma anche Haydn e Mozart, e poi Rossini, Donizetti, Verdi, Puccini. Hai delle predilezioni fra i compositori? C’è qualcuno che ti ispira più di altri, o che ti è più congeniale?
AT – Assolutamente sì. Io ho fatto molto Händel: è un compositore che dà più spazio e libertà, che ti impone di trovare delle soluzioni perché ci sono così poche indicazioni per i registi che bisogna comunque inventare, trovare un flo conduttore. I miei primi passi li ho fatti in Gran Bretagna e sono cresciuto con le opere di Händel con il quale bisogna scoprire l’essenza di ogni personaggio. Ma Händel sa creare un personaggio anche solo con la musica. Lo stesso fa Mozart. Haydn invece no, non ha questo talento: la sua musica è bella ma è interscambiabile da un personaggio a un altro.

RV – Nei libretti del Settecento non ci sono le indicazioni che ci sono in quelli dell’Ottocento…
AT – Esatto. Puccini, ad esempio, non dà molto spazio, tutti i dettagli sono già previsti. Stravinskij, Janáček, Britten invece ti danno più libertà d’azione creativa. I registri più famosi sono quelli che possono scegliere i compositori che permettono di mostrare i loro talenti: Krzysztof Warlikowski fa Händel, Šostakovič, Janáček, Bartók, Berg… non fa Tosca! È una situazione invidiabile quella di un regista che arriva a un punto tale della sua carriera da poter scegliere solo quello che gli permette di mostrare il suo talento al meglio.

RV – I tuoi spettacoli sono sempre molto personali e non è evidente l’impronta di qualche altro regista. Ma quali sono i tuoi maestri di riferimento, se ne hai?
AT – Ogni fase della mia carriera ha avuto un modello. All’inizio ero molto ispirato visivamente dal lavoro di Wieland Wagner e delle sue produzioni degli anni ’60. Questo per l’aspetto scenico. Per la qualità della recitazione direi David McVicar il quale, anche se diventa sempre più tradizionale, sa far muovere e recitare le persone sul palcoscenico meglio di chiunque altro.

RV – Anche perché è stato attore lui stesso prima di diventare regista.
AT – Appunto. Stimo molto anche Claus Guth e ultimamente Barrie Kosky, con la sua incredibile carica di fantasia.

RV – E adesso siamo alla domanda, ahimè, ineludibile: che cosa pensi della diatriba tra teatro di regia e teatro di tradizione?
AT – L’importante è dare ai registi lo spazio di creare liberamente senza sentire troppo il peso del passato. Se abbiamo paura del passato o ne abbiamo eccessiva reverenza l’opera nasce morta. Quello che non sopporto è quando non c’è il senso della musica nella regia, ma forse lo penso perché sono in parte musicista. Io faccio cose anche sperimentali, ma ci sono confni che non travalico. Per quanto riguarda la tradizione io ho provato con alcune produzioni a essere il più fedele possibili al passato, ma sono risultate le meno soddisfacenti. Quando qualche anno fa al Festival della Valle d’Itria ho fatto Margherita d’Anjou di Meyerbeer, un’opera la cui vicenda è diffcile da raccontare nell’ambiente originale, mi sono dovuto inventare un concetto ardito e sono stato buato da parte del pubblico, ma questo è stato il lavoro di cui sono più orgoglioso! Ma quello che mi ha convinto è quando il giorno dopo la prova generale un giovane barista, completamento digiuno d’opera, mi ha detto che quella era stata la sua prima opera che vedeva e che lo spettacolo gli era piaciuto immensamente. I registi hanno il dovere di ricreare. I compositori sono morti, siamo noi vivi che dobbiamo ridare vita alle loro opere e trasmetterle alle nuove generazioni. Non possiamo chiuderle in in museo.

RV – Come sono i tuoi rapporti con i direttori d’orchestra? Siete sempre in consonanza o talora ti è capitato che qualcuno non condividesse le tue idee?
AT – Raramente mi succede, forse perché già io sono musicista e capisco le esigenze del direttore d’orchestra. Quello che mi irrita è la pigrizia di un direttore che l’ha fatto già così e che vuole continuare a farla così… Se io voglio dare un colore particolare alla scena lo comunico nel mio meglio al direttore, ma c’è talora qualcuno che non risponde, è rigido, non si apre. Ma succede raramente e comunque non ho mai avuto grossi problemi.

RV – Ci sono parecchie tue produzioni in giro che vengono riprese con successo – la Tosca, il Roberto Devereux, L’amore delle tre melarance, The Turn of the Screw, per citarne qualcuna. Secondo te, che cos’hanno di così speciale da essere tanto richieste?
AT – Non ne ho la minima idea! Sono così diverse l’una dall’altra! C’è una certa componente di fortuna – o sfortuna perché tra le produzioni che hai nominato ci sono alcune di cui sono meno orgoglioso… Il successo de L’amore delle tre melarance è pienamente meritato, mentre il Roberto Devereux è forse meno vicino al mio istinto ed è anche diffcile da rendere in scena. È una produzione che ho fatto quand’ero molto giovane e forse non era l’opera per me o meglio non era il veicolo migliore per mostrare il mio talento.

RV – E poi c’è Tosca, che è un caso a parte. Un’operazione quasi museale.
AT – Per me non è stato così: l’ho affrontata come un esperimento con la tradizione. Ero curioso di vedere se seguendo tutte le indicazioni del compositore, dello scenografo e del costumista sarebbe stato ancora possibile creare qualcosa di vivo che parla al pubblico di oggi. Non si è trattato del mio omaggio al passato, ma di una sfda con me stesso. È gratificante il fatto che tutti la amino e che abbia girato il mondo, ma è una cosa un po’ a parte nel mio lavoro.

RV – Quali sono i tuoi progetti futuri?
AT – Riprendo Il giro di vite di Britten in Gran Bretagna all’Opera North. Poi ci sarà una nuova Traviata, la mia terza, ma questa sarà la prima Traviata veramente moderna. Ci sarà anche un Così fan tutte in Sud Africa e poi fra due anni Aida a Santa Fe.