Barocca

Orlando furioso

Antonio Vivaldi, Orlando furioso

Ferrara, Teatro Comunale, 5 aprile 2024

(diretta streaming)

Vivaldi a Ferrara col suo Orlando

Come se volesse farsi perdonare la faccenda del Farnace (1), Ferrara negli ultimi tempi ha cercato di recuperare con Vivaldi grazie alle cure di Federico Maria Sardelli. Sommo conoscitore dell’opera del veneziano, il musicologo e direttore negli ultimi tre anni ha eseguito qui al Teatro Comunale di Ferrara una trilogia vidaldiana composta da Farnace, appunto, Catone in Utica e ora Orlando Furioso, tutti e tre spettacoli con la messa in scena di Marco Bellussi. Per di più questa di Ferrara è una ghiotta occasione per vederlo prima di Bayreuth, essendo una coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Modena, Daegu Opera House e Bayreuth Baroque Opera Festival. Il lavoro di Vivaldi va in scena nella nuova edizione critica Ricordi a cura di Federico Maria Sardelli e Alessandro Borin. Che poi il librettista dell’Orlando furioso, Grazio Braccioli, sia ferrarese e che l’Ariosto abbia scritto il suo capolavoro e sia morto proprio qui, aggiunge quel di più alla vicenda che lega l’opera a questa città.

Diviso nei classici tre atti con due intervalli, e non due parti e un solo intervallo com’è in voga oggi, lo spettacolo comprende la quasi totalità dei numeri previsti a parte il terzo atto che viene molto sforbiciato e che qui dura solo 35 minuti – in confronto ai 65’ del I atto e ai 55’ del II. Questa edizione di Sardelli/Borin è diversa dalla precedente edizione eseguita da Fasolis che aveva modifiche nel terzo atto per ampliare la parte di Orlando. Sardelli invece rispetta il libretto originario e la successione degli eventi e delle arie e concerta con la solita vivacità alla testa dell’orchestra barocca Accademia dello Spirito Santo con il suo stile storicamente informato. «L’organico strumentale prevede due cembali, tipico della struttura teatrale barocca; evitiamo certi strumenti che oggi sono di moda nella pratica barocca contemporanea, come le chitarre e gli arciliuti, ma che al tempo di Vivaldi, intorno al 1727 non erano più in uso, tanto più in teatro. Questa operazione di recupero filologico sicuramente andrà a favore dell’ascolto e della piacevolezza», ha dichiarato Sardelli e in effetti il suono offerto dall’orchestra è pulito e preciso e i tempi adottati mai estremizzati. Interessante l’affidamento di certi ruoli: nell’originale il personaggio eponimo era un contralto en travesti e qui Sardelli utilizza un controtenore; Medoro e Ruggiero erano due castrati contraltisti mentre ora sono rispettivamente un contralto donna en travesti e un controtenore. Regolari invece le altre voci con Angelica soprano, Alcina e Bradamante contralti e Astolfo basso.

Yuriy Mynenko è un Orlando di solida presenza scenica, bel timbro e grande estensione sfoggiata con agio nella sua prima famosissima aria «Nel profondo cieco mondo». Tocca a lui terminare il secondo atto con un’acrobatica «Ho cento vanni a tergo» di grande intensità mentre nel terzo rende efficacissima la scena della pazzia del personaggio con ariosi e recitativi di alta drammaticità. Arianna Vendittelli, unico soprano dell’opera, è un’Angelica volitiva e dalla voce luminosa che incanta fin dall’aria «Un raggio di speme» con cui si apre l’opera. L’Alcina di Sonia Prina è personaggio a tutto tondo che il contralto magentino rende del tutto simpatico con la sua ironia e una vocalità calda anche se talora un po’ in affanno. La dolcezza di emissione in «Sol da te mio dolce amore» è la qualità massima del Ruggiero di Filippo Mineccia ma la scelta registica non gli rende il massimo dei favori. Si veda per contrasto lo stesso momento come la regia di Ceresa nell’Orlando veneziano del 2018 esalti l’intervento di Carlo Vistoli. Chiara Brunello (Medoro), Loriana Castellano (Bradamante) e Mauro Borgioni (Astolfo) concludono un cast di qualità.

Come s’è detto anche questo terzo Vivaldi ferrarese è affidato a Marco Bellussi che con lo scenografo Matteo Paoletti Franzato e il gioco luci di Marco Cazzola ricrea un palazzo di Alcina astratto e minimalista: «Lo spettacolo – spiega il regista – asseconda le dinamiche distorsive del dramma e per questo ho deciso di puntare su un solo potente elemento, lo specchio. Le pareti del palazzo sono dunque specchio e specchio è anche il soffitto della reggia. Ne deriva che tutto ciò che in essa avviene può essere realtà o riflesso distorto della stessa. Accade quindi che la piccola società dei nostri personaggi reagisca di riflesso ai condizionamenti di una molteplicità destabilizzante di prospettive, dando vita ad una commedia in cui tutti, più o meno consapevolmente, sono mossi dalle loro passioni in una condizione di insicurezza e provvisorietà». Il risultato è però l’effetto di un acquario, effetto esaltato dalla presenza di un velario che separa dal pubblico quel che avviene sul palcoscenico e serve da schermo a proiezioni liberamente interpretabili. I costumi di Elisa Cobello mescolano le epoche storiche col presente: Angelica è vestita in un bianco abito da sposa fin dalla prima scena; Alcina sfoggia outfit in lamé e una parrucca argento; Medoro un completo rosso che funziona sia da maschio che da femmina; Ruggiero e Orlando costumi d’epoca. Con pochi mezzi il regista Bellussi ha ottenuto un allestimento sì efficace ma totalmente privo degli elementi fiabeschi della vicenda.

(1) Quando Vivaldi concluse il Farnace nel 1727 era un compositore all’apice della sua notorietà, il che non impedì però che nel 1739 gli fosse impedito dal Cardinale Tommaso Ruffo di recarsi a Ferrara per la ripresa dell’opera, adducendo motivi di morale per la condotta considerata un po’ troppo spregiudicata, anche per quei tempi, di un religioso che non celebrava la messa, bazzicava i teatri e aveva una relazione forse non platonica con una sua pupilla, «la sig. Anna Girò», la sua prima Tamiri. Per la produzione del Farnace Vivaldi aveva dato fondo a tutte le sue risorse in quanto anche impresario e allestitore. Il divieto ebbe effetti drammatici sulla vita del compositore che per rientrare nei debiti partì per Vienna per cercare fortuna con gli esiti che sappiamo: la morte dell’imperatore Carlo VI aveva portato alla chiusura per lutto di tutti i teatri e lasciato Vivaldi senza protezione imperiale e senza fonti di reddito, tanto che vi morì di miseria dopo nemmeno un anno dal suo arrivo.

Flavio, re de’ Longobardi

   ∙

Georg Friedrich Händel, Flavio, re de’ Longobardi

Bauyreuth, Markgräfliches Opernhaus, 17 settembre 2023

★★★★★

(video streaming)

Mai stata così divertente l’opera seria

Bayreuth, due teatri a meno di due chilometri dove hanno luogo due festival, a poche settimane di distanza, che più diversi non potrebbero essere. Sulla collina “sacra” nella sala del Festspielhaus, appositamente costruita, si celebra il rito dei Gesamtkunstwerk wagneriani, dieci titoli di un canone immutabile. Solo con la novità degli allestimenti – qui è il regno del Regietheater più spinto – si cerca di dire qualcosa di diverso. Al centro della cittadina, l’ineguagliabile gioiello del teatro margraviale dal 2020 è la sede del festival internazionale Bayreuth Baroque diretto da Max Emanuel Cenčić che ogni anno trae qualcosa di diverso dall’inesauribile fonte dell’opera seria settecentesca. Come quest’anno, quando viene proposto un lavoro non consueto di Händel, Flavio, re de’ Longobardi.

Su libretto di Nicola Francesco Haym, il testo è tratto dal Flavio Cuniberto di Matteo Noris già messo in musica da Gian Domenico Partenio (1681), Domenico Gabrielli (1688), Luigi Mancia (1696) e Alessandro Scarlatti (1702) prima di venire intonato dal “caro sassone” nel 1723 e rappresentato il 14 maggio di quell’anno allo Haymarket di Londra. Händel inizialmente pensava di intitolare il lavoro Emilia dal personaggio femminile che ha ben sei arie e un duetto mentre il personaggio eponimo solo tre numeri solistici. Händel terminò la composizione a sette giorni dalla prima rappresentazione e l’opera andò in scena otto volte. Altre quattro rappresentazioni, dirette dallo stesso compositore, ebbero luogo nel 1732 prima che il lavoro sparisse dai cartelloni, fino alla ripresa in tempi moderni nel 1967 a Gottinga. (1)

La vicenda si svolge in Lombardia nel VI secolo E.V. Il re Flavio (Autari) regna sui Longobardi e sull’Inghilterra. Ugone e Lotario sono i suoi due consiglieri. Il figlio di Ugone, Guido, deve sposare la figlia di Lotario, Emilia. Ugone ha anche una figlia, Teodata che il padre vorrebbe che cercasse di entrare alla corte come dama di compagnia per non passare la fanciullezza in solitudine, ma ignora che Teodata ha un amante segreto, Vitige, aiutante del re.
Atto I, Davanti alla casa dell’anziano Ugone, prima dell’alba, Vitige lascia la camera di Teodata. In seguito, nella casa di Lotario, ha luogo il matrimonio tra Guido ed Emilia, in presenza solo dei più stretti parenti. Gli sposi cantano la loro felicità, poi si separano in attesa delle celebrazioni che si svolgeranno di sera. Ugone presenta Teodata al re, dicendogli che ella brama di entrare al suo servizio come dama di compagnia. Incantato dalla bellezza di Teodata, Flavio acconsente e assegna Teodata come dama alla propria moglie, Ermelinda. Lotario invita il re ai festeggiamenti nuziali. Flavio riceve poi una lettera dell’anziano governatore d’Inghilterra che chiede di essere sollevato dal proprio incarico. Flavio pensa inizialmente di affidare l’incarico a Lotario, che già assapora la prospettiva, poi cambia idea in favore di Ugone, poiché vuole allontanare quest’ultimo, per poter corteggiare Teodata senza interferenze. Lotario si sente offeso e parte furioso. Flavio parla a Vitige della bellezza di Teodata, senza sapere che egli è l’amante della giovane e Vitige cerca di nascondere i propri sentimenti sostenendo che Teodata non è particolarmente bella. Nel cortile del castello Ugone incontra il figlio Guido, il quale gli dice di essere stato schiaffeggiato da Lotario. Ugone deve difendere il proprio onore, ma è troppo vecchio per poter brandire una spada, perciò chiede a Guido di combattere in sua vece. Guido è combattuto tra il sentimento di dovere verso il padre e l’amore per Emilia, ma proclama orgogliosamente la decisione di difendere l’onore della famiglia. Giunge Emilia, che non capisce per quale motivo Guido cerchi di sfuggirla: gli giura eterna fedeltà, ma nota il suo cambiamento d’umore.
Atto II. In una sala del castello, Flavio sta corteggiando Teodata. Irrompe Ugone, tanto angosciato da non riuscire a parlare chiaramente. Flavio lascia la stanza. Ugone inveisce, parlando della perdita dell’onore della famiglia. Teodata pensa che la sua relazione con Vitige sia stata scoperta e confessa tra le lacrime. L’angoscia di Ugone, all’apprendere la situazione della figlia, aumenta. Nella casa di Lotario, quest’ultimo dice ad Emilia che non intende consegnarla al figlio dell’odiato rivale e che perciò il matrimonio deve considerarsi nullo. Guido, giunto in cerca di Lotario, chiede ad Emilia di lasciarlo solo per un po’. Al castello, Flavio ordina al suo aiutante di condurgli Teodata. Vitige deve rivelare a Teodata quale infelice missione gli è stata richiesta e Teodata gli narra che Ugone è venuto a conoscenza della loro relazione segreta. Per prendere tempo, essi architettano un piano in cui Vitige fingerà di sollecitare l’amore di Teodata e lei si fingerà disponibile. Nel cortile della casa di Lotario, Guido sfida Lotario a duello. Lotario si fa beffe della sfida del giovane, ma la accetta. Nel combattimento, Lotario cade. Quando giunge Emilia, Lotario fa appena in tempo, prima di morire, a indicare in Guido il proprio assassino. Disperata, ella giura vendetta, ma è lacerata, poiché questo significa vendetta contro colui che ama.
Atto III. Al castello Emilia e Ugone chiedono al re di avere giustizia. Ella domanda la morte per l’assassino del proprio padre, mentre Ugone implora che sia risparmiata la vita al proprio figlio. Sopraffatto dagli eventi, Flavio chiede tempo per riflettere e li manda via. Vitige entra con Teodata, la cui presenza fa ammutolire Flavio. Egli cerca di farla corteggiare per proprio conto da Vitige, ma alla fine si fa avanti egli stesso, chiamandola “mia regina” e cercando di condurla alle proprie camere da letto. Vitige è oppresso dalla gelosia. Emilia è in lutto, per la morte del padre e per la fuga di Guido, ma ancora una volta giura implacabile vendetta. Guido appare e le porge la propria spada, cosicché lei possa ucciderlo. Emilia la prende, poi la lascia cadere e parte. Guido implora l’aiuto dell’amore. Vitige e Teodata litigano, accusandosi a vicenda di essersi spinti troppo oltre nell’inganno ordito ai danni del re. Poi si rendono conto che Flavio è entrato ed ha ascoltato tutto. Ammettono di essere amanti, con sconcerto di Flavio. Entra Guido, e supplica il re di essere messo a morte se Emilia lo odia ancora per la sua azione. Ugone poi confessa di avere incitato il figlio a commettere il delitto in propria vece. Flavio, finalmente consapevole della propria responsabilità di re, manda a chiamare Emilia e ordina a Guido di nascondersi e ascoltare ciò che accadrà. Flavio dice ad Emilia che Guido è stato ucciso, come lei aveva chiesto, e le offre di vederne la testa come prova. Emilia rifiuta e implora di essere uccisa a sua volta, poiché la su a vita senza Guido non ha significato. Guido esce dal proprio nascondiglio ed Emilia quasi sviene per la gioia. Guido le chiede perdono, e lei chiede un periodo di lutto. Flavio infine stabilisce che Vitige dovrà sposare «colei che agli occhi tuoi non piace”, cioè Teodata, e che Ugone verrà scacciato dal regno, ma per recarsi in Inghilterra e divenirne governatore. Tutti ringraziano il re e l’opera si chiude con un coro di riconciliazione.

Flavio è una delle opere di Händel dalla partitura più leggera, scritta per archi e continuo, con un uso parsimonioso dei fiati. Sebbene vi siano passaggi di intensità drammatica emergenti con forza, il tono generale è quello dell’understatement, della raffinatezza e persino dell’ironia, cosa che ha ben compreso Cenčić il quale è anche regista dello spettacolo. Il suo non è certo Regietheater, non c’è un konzept forte a cui la drammaturgia dell’opera si deve piegare. Le sue regie hanno però una vivacità e una cura per la recitazione tale che anche l’ultimo figurante ha un ruolo scenico ben individuato. Cenčić integra la commedia nel dramma in modo credibile, promuovendo l’immagine stereotipata che abbiamo dei monarchi assoluti come esigenti, egoisti e persino infantili, che vivono in un ambiente lussuoso e totalmente lontano dalla realtà. E così è il suo Flavio per il quale, ispirandosi chiaramente a Luigi XIV e a Versailles, ogni azione diventa uno spettacolo pubblico, una grandiosa affermazione della sua autorità e del suo potere assoluto e una parte del tessuto cerimoniale dello Stato. Persino i rapporti sessuali con la regina diventano un evento pubblico, un coucher du Roi con la corte che assiste ai suoi tentativi di copula con Madame aiutandosi visivamente per riuscire a espletare i doveri coniugali mentre Madame la vedremo in un altro momento consolarsi col nano di corte. La regina è chiaramente una parte importante della corte, ma viene solo menzionata nel libretto. Cenčić invece la introduce come personaggio muto, insieme alle sue dame di compagnia e al nano, senza dubbio come riferimento alla corte spagnola. La narrazione si inserisce così con successo nel contesto più ampio e credibile della vita di corte. Abbandonato il secolo VI dei fatti storici, l’ambientazione scelta è quella di una corte a cavallo dei secoli XVII e XVIII con i costumi perfettamente connotati di Corina Gramosteanu e la geniale scenografia di Helmut Stürmer, che con sei pannelli incernierati e su rotelle forma credibili ambienti d’epoca, eleganti e funzionali. Due lampadari di cristallo che scendono dall’alto, alcune poltrone e un letto a baldacchino per le imprese dell’erotomane monarca completano l’impianto in cui si sviluppano le 31 scene dell’opera. Ad aumentare la cerimonialità, un maggiordomo annuncia solennemente ogni volta con tre colpi di bastone i cambi di scena qui legati da brevi interludi orchestrali. Molti i gustosi momenti sparsi in uno spettacolo dove anche il trasporto del cadavere di Lotario è occasione di una divertente gag.

Il tono registico non reggerebbe se sul palcoscenico non ci fossero interpreti che sanno stare con ironia al gioco e qui tutti, dal primo all’ultimo, dimostrano un’efficace presenza scenica. È il caso del personaggio del titolo, affidato al giovane controtenore Rémy Brès-Feuillet che ritrae un dissoluto ed egoista re Flavio dimostrando grande abilità nel giocare con la comicità del ruolo. Adeguatamente prepotente, sprezzante e socialmente inconsapevole degli effetti delle sue azioni su coloro che lo circondano, è il più delle volte in camicia da notte o anche senza quando è immerso in una tinozza per il bagno. Il canto elegante, con piacevoli ornamentazioni e una coloratura versatile sono i punti di forza della sua performance vocale.

Personaggio con il maggior numero di numeri musicali a disposizione, è comprensibile che inizialmente Händel volesse titolare Emilia il suo lavoro. Julija Ležneva conclude tutti e tre gli atti, i primi due con cadenze, variazioni inusitate e trilli infiniti realizzati con sommo agio assieme a grande espressività guadagnandosi gli applausi più nutriti della serata. È ancora lei a iniziare teatralmente il terzo con una delle tre arie di furore di cui è ricca l’opera, le altre due essendo quelle di Vitige, «Sirti, scogli, tempeste, procelle» e Guido, la famosa «Rompo i lacci, e frango i dardi» in cui Max-Emanuel Cenčić, non pago di essere direttore del festival e regista dello spettacolo, si fa interprete con i suoi ragguardevoli mezzi vocali, una tecnica invidiabile e una padronanza di questo repertorio che pochi possono avere. Terzo controtenore in scena è Yuriy Mynenko, inappuntabile Vitige dalla sottile vena ironica mentre con il suo caldo registro il mezzosoprano Monika Jägerová disegna una sensuale e vivace Teodata. Il baritono Sreten Manojlović (Lotario) e il tenore Fabio Trümpy (Ugone) completano degnamente il cast. Alla guida del pregevole Concerto Köln Benjamin Bayl risponde con sensibilità alle intenzioni dell’autore con una lettura chiara e dettagliata ma sempre sensibile al dramma, soprattutto nel cogliere i momenti più drammatici dell’opera.

Dopo Carlo il Calvo di Porpora e Alessandro nell’Indie di Vinci, questo lavoro poco conosciuto di Händel ha portato Cenčić a essere l’indiscusso realizzatore di un repertorio glorioso che ancora tanti tesori cela nei suoi forzieri. Non mancheranno certo titoli nuovi da scoprire per le future edizioni di Bayreuth Baroque.

(1) Ecco la struttura dell’opera:
Ouverture
Atto primo
I.01 Ricordati, mio ben, duetto (Teodata, Vitige)
I.02 Quanto dolci, quanto care (Emilia)
I.03 Bel contento già gode quest’alma (Guido)
I.04 Benché povera donzella (Teodata)
I.05 Se a te vissi fedele, fedele ancor sarò (Lotario)
I.06 Di quel bel che m’innamora (Flavio)
I.07 Che bel contento sarebbe amore(Vitige)
I.08 L’armellin vita non cura (Guido)
I.09 Amante stravagante più del mio ben non v’è (Emilia)
Atto secondo
II.01 Fato tiranno e crudo, ogn’or a danni miei (Ugone)
II.02 S’egli ti chiede affetto (Lotario)
II.03 Parto, sì, ma non so poi (Emilia)
II.04 Rompo i lacci, e frango i dardi (Guido)
II.05 Chi può mirare e non amare (Flavio)
II.06 Con un vezzo, con un riso (Teodata)
II.07 Non credo instabile chi mi piagò (Vitige)
II.08 Ma chi punir desio? l’idolo del cor mio (Emilia)
Atto terzo
III.01 Da te parto, ma concedi che il mio duolo (Emilia)
III.02 Corrispondi a chi t’adora, arioso (Vitige)
III.03 Starvi a canto e non languire (Flavio)
III.04 Che colpa è la mia, se Amor vuol così? (Teodata)
III.05 Sirti, scogli, tempeste, procelle (Vitige)
III.06 Oh Guido! oh mio tiranno, recitativo (Emilia)
III.07 Squarciami il petto – Amor, nel mio penar deggio sperar, recitativo e aria (Guido)
III.08 Ti perdono, o caro bene, duetto (Emilia, Guido)
III.09 Doni pace ad ogni core, coro

Polifemo

 

photo © Klara Beck

Nicola Porpora, Polifemo

Strasburgo, Opéra National du Rhin, 5 febbraio 2024

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Polifemo esce dallo schermo

Rivale di Händel a Londra, Nicola Porpora era riuscito ad accaparrarsi le star del canto dell’epoca per la sua nuova opera, quel Polifemo il cui libretto di Paolo Antonio Rolli riuniva due vicende che avevano come protagonista comune il ciclope monocolo che nell’Odissea Omero descrive come pastore sull’Etna che non disdegna l’antropofagia mettendo a rischio la vita di Ulisse e dei suoi nel frattempo sbarcati in Sicilia, mentre nelle Metamorfosi, otto secoli dopo, Ovidio trasforma in geloso amante della ninfa Galatea. Lo stesso Händel aveva trattato la seconda vicenda in un’opera giovanile, la “serenata a tre” Aci, Galatea e Polifemo scritta durante il suo soggiorno napoletano nel 1708, per poi riprenderla nel 1718, su testo inglese come la “little opera” Acis and Galatea.

Anche se il figlio di Nettuno gli dà il titolo, il lavoro di Porpora è piuttosto incentrato sugli amori paralleli di Aci e Galatea e di Ulisse e Calipso, gli altri quattro personaggi dell’intrigo. Il sesto, quello della ninfa Nerea, è un ruolo minore, che infatti sparisce nella seconda versione dell’opera. Il 1 febbraio 1735 al King’s Theatre di Londra Polifemo aveva riscosso grande successo, grazie anche alla presenza, come s’è detto, dei più rinomati cantanti del tempo: i castrati Farinelli e Senesino, nei ruoli di Aci e Ulisse, e il soprano Francesca Cuzzoni, Galatea, tutti transfughi della Royal Academy of Music di Händel. Anche il basso Antonio Montagnana, già Polifemo nell’Acis and Galatea, e il contralto Francesca Bertolli (Calipso) erano cantanti di nome mentre della “signora Segatti” (Nerea) si sa poco.

Polifemo è la seconda opera di successo di Porpora a Londra dopo l’Arianna in Nasso con cui il compositore italiano aveva risposto all’Arianna in Creta di Händel. Porpora utilizza frequentemente i recitativi accompagnati nei momenti più salienti della vicenda, mentre duetti e terzetti si alternano alle arie solistiche. Qui non non ci sono particolari novità nell’armonia, le arie sono accompagnate dall’orchestra con alcuni sapienti interventi di strumenti solistici, soprattutto dei legni e degli ottoni, ma l’accento è posto sulla voce, più che negli interventi puramente strumentali: mentre la scelta delle arie di Händel è precipuamente teatrale, la scrittura di Porpora è altamente edonistica e dedicata alla gloria dei cantanti. La drammaturgia è semplificata e procede per scene, come quella dell’accecamento di Polifemo in parte agito in scena, in parte raccontato.

Ben presto l’opera, come tutte le opere serie del Settecento, dovette lasciare il posto all’opera napoletana e poi a quella buffa, ma anche se non rimase nei cartelloni dei teatri, alcune sue arie hanno continuato a vivere nelle esecuzioni da concerto, prima fra tutte «Alto Giove» che è diventata un banco di esibizione per le grandi voci controtenorili di oggi come quelle di Philippe Jarousski, Valer Barna-Sabadus o Filippo Mineccia, il quale ne ha dato dato un’interpretazione di grande intensità. L’aria è stata portata alla notorietà anche nel cinema, con il film Farinelli di Gérard Corbeau del 1994 che ricostruisce la vita del leggendario Carlo Broschi. A quella produzione aveva partecipato per la parte musicale anche Emmanuelle Haïm che porta ora sulle scene dell’Opéra National du Rhin, per la prima volta in Francia, il titolo di Porpora. Assieme al suo Concert d’Astrée, una compagine di strumenti che utilizzano la pratica storicamente informata nei modi e nelle tecniche, la Haïm adotta uno stile asciutto ed elegante che mette in luce al meglio il palpitante ritmo della partitura e l’ampio respiro melodico realizzando un buon equilibrio sonoro tra buca e voci le quali, malgrado una scenografia non ottimale, riescono a non essere coperti dall’orchestra. La sua versione è un misto delle due versioni dove vengono accorciati, un po’ troppo, i recitativi, anche quelli accompagnati che sono la vera ricchezza di quest’opera, e sono tagliati anche alcuni numeri musicali tra i quali il primo coro, l’aria di Aci «Morirei del partir nel momento» nel primo atto e quella di Calipso «Lascia tra tanti mali» nel secondo.

A dispetto del titolo, i protagonisti principali del Polifemo sono, in ordine di numero d’arie solistiche, Galatea, Aci e Ulisse. Redivivo Farinelli, Franco Fagioli ha le prime e le ultime lettere del nome e si conferma una volta di più come lo strabiliante fenomeno vocale di oggi: in tre delle sue arie fornisce una dimostrazione di meraviglie vocali che entusiasmano anche il pubblico di oggi, come è avvenuto sulle tavole del teatro di Strasburgo. L’opera, in tre atti, è stata suddivisa in due parti con la prima comprendente l’atto primo e buona parte del secondo, così che l’aria di Aci «Nell’attendere il mio bene» funge egregiamente da finale primo con la sua ininterrotta esibizione di trilli, il da capo con acrobatiche variazioni e una cadenza che Fagioli affronta con disarmante facilità e tecnica impeccabile trasformando il semplice pastore in una fonte da cui sgorgano straordinari virtuosismi. Le stesse prodezze vocali, questa volta piegate a intenti espressivi, vengono esibite in «Alto Giove», allorché dopo essere rimasto schiacciato dal masso del ciclope Aci ringrazia il re dei numi per avergli accordato l’immortalità implorata dall’amata Galatea: trasformato in fiume accoglierà per l’eternità la ninfa tra le sue acque. Visivamente questo diventa un momento magico nello spettacolo del regista Ravella dove sotto una pioggia di coriandoli lucenti avviene la trasformazione del pastore in acqua corrente. Sul piano vocale i lunghi fiati, le note legate e la messa di voce incantano il pubblico a cui il controtenore argentino regala ancora una girandola di vocalità pirotecniche da togliere il fiato nella pagina «Senti ‘l fato | ch’è già fisso» prima del finale. Forse è il palcoscenico troppo vuoto, forse è il tempo che passa anche per lui, la voce di Fagioli questa sera non sembra però avere la proiezione che aveva un tempo.

Ottima performance è anche quella del secondo controtenore, Paul-Antoine Bénos-Djian, il cui timbro è più virile, gli armonici più ricchi, il volume sonoro cospicuo e ben dosato. Meno impegnativi sono gli artifici vocali richiesti dal ruolo di Ulisse, il personaggio che oltre ad amoreggiare con la ninfa Calipso, riesce a salvare la vita ai suoi compagni e a mandare su tutte le furie il ciclope accecandolo nel suo unico occhio. Il basso boliviano José Coca Loza presta con ironia i suoi mezzi vocali, spesso amplificati per esigenze sceniche, al personaggio del titolo nelle sue due sole arie solistiche e negli ariosi sopravvissuti ai tagli.

Nel reparto femminile ci sono sorprese e una conferma. Madison Nonoa è un soprano neozelandese che ha fatto il suo debutto a Glyndebourne nel Rinaldo di Händel e qui all’Opéra du Rhin l’anno scorso è stata Maria in West Side Story. Ha bellissimo timbro e dimostra grande sensibilità nel rendere una Galatea qui particolarmente affascinante anche se il ruolo è limitato a quello di fedele innamorata. Comunque è il personaggio con il maggior numero di arie solistiche. A Nerea è il compito di aprire teatralmente la seconda delle due parti in cui è suddiviso lo spettacolo cantando da un palco di proscenio la sua aria «Una beltà che sa | farsi de i cor tiranna» presentata come una canzone, ma che permette di mettere in luce le fresche e promettenti qualità vocali del giovane soprano inglese Alysia Hanshaw. Il contralto Delphine Galou conferma invece le sue doti sceniche e interpretative come fascinosa Calipso.

L’allestimento di Bruno Ravella legge la vicenda come ripresa cinematografica di un peplum, il genere molto popolare negli anni ’50 e ’60: film in costume di argomento mitologico o storico girati a Cinecittà sia dagli americani – I 10 Comandamenti (1959), Spartacus (1960), Cleopatra (1963)… – sia dagli italiani, con i titoli dedicati a Ercole, Maciste, Ursus, spesso in triviali parodie. Durante l’ouverture scopriamo dunque di essere su un set cinematografico con proiettori, macchine da presa, microfoni, un regista (lo stesso interprete di Polifemo) che si prende certe libertà con l’attrice giovane (Galatea) – e per questo nel finale sarà arrestato dalla polizia –, un pittore di scenari (Aci), il divo palestrato (Ulisse), l’assistente di regia ecc. Nel secondo atto vediamo gli attori in costume e le scenografie di cartapesta dove la figura del ciclope copia quella del film Il 7° viaggio di Sinbad (1958) di Nathan Juran: un gigante dalla testa cornuta, un occhio solo, ovviamente, e zampe caprine. Ravella riprende dunque questo genere mitologico colorato e improbabile per ricreare l’opera settecentesca dove subito dopo la voce dei cantanti l’elemento più importante dello spettacolo erano le scene dipinte e le macchine sceniche per destare quel senso di meraviglia che solo il teatro in musica poteva offrire al suo pubblico. E l’effetto è pienamente ottenuto: i cantanti stanno perfettamente al gioco e lo smaliziato pubblico di oggi si lascia andare e si diverte.

Lo dimostrano i copiosi applausi che nel finale hanno accolto i cantanti, con meritate ovazioni per Fagioli, Emmanuelle Haïm e parimenti il regista e le sue collaboratrici, Annemarie Woods per scene e costumi e D.M.Wood per le luci.

Dopo Strasburgo lo spettacolo, prodotto con l’Opéra de Lille, parte per Mulhouse e Colmar, ma meriterebbe che approdasse anche in altri teatri: lo chiedono la rarità del titolo, la bellezza della musica, l’esecuzione musicale di gran classe e l’intelligente e godibile allestimento.

Giustino

Antonio Vivaldi, Giustino

Drottningholm, Slottsteater, 18 agosto 2023

★★★★★

(video streaming)

Otello a Bisanzio

Mentre si discute del progetto di far rinascere a Venezia il Teatro di San Cassiano, nella nordica Svezia già esiste una sala storica dove ogni estate si danno opere del Settecento nella suggestiva ambientazione di un teatrino di legno con le sue scene dipinte e i macchinari azionati a mano. Un teatro sopravvissuto ai suoi tempi quello del Castello di Drottningholm, patrimonio mondiale dell’UNESCO e fra i pochissimi al mondo a disporre ancora della scenotecnica originale.

Qui lo scorso agosto è andata in scena per la prima volta un’opera di Vivaldi, quel Giustino che era stato commissionato al compositore veneziano dal Capranica dopo il successo dell’Ercole sul Termodonte.  Eseguita quale seconda opera della stagione di Carnevale del 1724, fu l’ultima opera composta dal Prete Rosso per Roma. A causa del noto divieto di far calcare le scene alle donne, tutti i personaggi furono interpretati da cantanti maschi, in maggioranza castrati. 

Libretto e partitura sono conservati nel fondo Foà della Biblioteca Nazionale di Torino. Suddiviso in un prologo e tre atti, il testo era stato era stato scritto oltre quarant’anni prima dal conte Nicolò Beregan e messo in musica per la prima volta da Giovanni Legrenzi nel 1683, l’anno dell’assedio di Vienna da parte dei turchi. Il libretto rimandava metaforicamente alla resistenza del Sacro Romano Impero con l’aiuto dei veneziani contro gli Ottomani e l’opera ebbe grande successo negli ultimi due decenni del Seicento.

Il libretto fu ripetutamente rimaneggiato, in particolare dall’abate Giulio Convò nel 1703 per uno dei primi esperimenti operistici di Domenico Scarlatti, successivamente  nel 1711 Pietro Pariati lo aveva adattato a cinque atti per Tommaso Albinoni. Il libretto utilizzato da Vivaldi fu probabilmente riadattato da Antonio Maria Lucchini, autore del Farnace di Vinci e della Tieteberga di Vivaldi (opera questa da cui derivano molte delle arie presenti nel Giustino) ripristinando la struttura in tre atti ma senza prologo. Il libretto sarebbe stato ripreso e musicato, con ulteriori modifiche, da Händel nel 1737.

L’opera si finge a Bisanzio, durante l’epoca dell’Impero Romano d’Oriente, nel secolo V d.C.

Atto primo. Mentre a corte si stanno svolgendo le celebrazioni per l’incoronazione del nuovo imperatore Anastasio e per le sue nozze con Arianna, giunge la notizia che le truppe del nemico invasore Vitaliano hanno attraversato il Bosforo. L’ambasciatore di questi Polidarte giunge a palazzo recando offensive condizioni di pace, tra le quali è anche compresa la concessione della mano di Arianna al suo sovrano. Anastasio respinge con sdegno le proposte di Polidarte e parte incontro al nemico, seguito dall’indomita Arianna che è decisa a condividerne la sorte sul campo. In campagna, il giovane contadino Giustino si addormenta vagheggiando la gloria militare e gli compare in sogno la dea Fortuna la quale gli promette allori, trono e gloria se egli sarà capace di affrontare ardimentosamente il suo destino. Appena risvegliato e ben deciso a seguire le indicazioni della dea, Giustino ha subito l’occasione di mettersi in mostra salvando da un orso la sorella dell’imperatore, Leocasta, la quale, colpita dal valore e anche dalla bellezza del giovane, lo invita a seguirla a corte, dove si trova anche sotto le mentite spoglie femminili di Flavia, sedicente principessa fuggitiva, il fratello di Vitaliano, Andronico, che è innamorato di Leocasta. Mentre Giustino, anche grazie ai buoni uffici della sorella dell’imperatore, è diventato soldato agli ordini di Anastasio e parte per il campo intonando la sua prima aria eroica, sull’altro lato della barricata Vitaliano è riuscito a fare prigioniera l’improvvida Arianna, la quale resiste tuttavia sdegnosa a tutte le sue profferte amorose ed è quindi condannata ad essere legata su una roccia e data in pasto ad un mostro marino. L’atto si chiude con il mesto e tenero canto di addio della ragazza.
Atto secondo. Nel corso di una burrasca, la nave che porta Anastasio e Giustino fa naufragio su una spiaggia deserta e, mentre Anastasio piange la perduta Arianna, i due si mettono in cerca di un riparo. Un mostro terribile sorge allora dalle acque e si dirige verso la misera ed incatenata Arianna, l’eco delle cui grida disperate giunge però fino a Giustino, il quale si precipita ad affrontare ed uccidere il mostro. Anastasio e Arianna sono così riuniti e tutti possono riprendere il mare a seguito del calmarsi della tempesta. Quando Vitaliano, pentito, sopraggiunge in cerca di Arianna, trova soltanto il cadavere del mostro e si ripropone quindi di conquistare il cuore della ragazza grazie al suo sincero pentimento. A palazzo Arianna cerca di riprendersi dalle disavventure che le sono capitate, assistita da Leocasta, quando Anastasio, cinto di lauri, annuncia la sua vittoria e la cattura di Vitaliano, e loda pubblicamente il grande valore di Giustino, il quale è stato determinante per la vittoria e che ottiene ora di tornare in campo per finire il lavoro. Le sue fortune destano però l’invidia del generale cortigiano e traditore, Amanzio, il quale decide di usare contro di lui l’arma della calunnia, lasciando intendere ad Anastasio che il giovane abbia delle mire sul trono e sulla stessa Arianna. L’imperatore, inizialmente del tutto incredulo, comincia ad essere roso dal dubbio quando Arianna tesse davanti a lui le lodi sperticate del suo presunto rivale. Intanto Leocasta e Flavia/Andronico decidono di travestirsi da soldati per seguire Giustino al campo, ma durante la strada Flavia si rivela alla principessa e tenta di forzarne i favori. Leocasta viene salvata da Giustino e i due si dichiarano reciproco amore. L’atto si chiude con un’aria di Giustino accompagnata da archi e salterio solista, forse concepita per un virtuoso dello strumento e per un tipo molto particolare di salterio.
Atto terzo. Mentre Vitaliano e i suoi soldati riescono a fuggire dalla prigione, Anastasio viene vinto definitivamente dalla gelosia quando nota Giustino indossare una cintura che lui stesso aveva donato ad Arianna, e che poi la ragazza aveva a sua volta offerto al giovane vittorioso in premio per il suo valore. Giustino viene condannato a morte e Arianna accusata di adulterio; Leocasta, per parte sua, decide di liberare il giovane o di morire con lui. Approfittando della caduta in disgrazia di Giustino, Amanzio decide di tentare la sorte e detronizza Anastasio mettendolo in prigione e prendendo il suo posto sul trono. Leocasta però riesce a far fuggire il suo amato, che, addormentatosi in una zona selvaggia e montagnosa, viene peraltro successivamente sorpreso nel sonno da Vitaliano: questi è sul punto di ucciderlo quando, anche per l’intervento ultraterreno della voce del padre, riconosce in Giustino un fratello perduto rapito nella culla da una tigre. I due si abbracciano e Vitaliano accetta di aiutare Giustino a restituire il trono al deposto Anastasio. Nel palazzo imperiale, Amanzio condanna il suo infelice predecessore e Arianna alle più crudeli torture, quando un suono di trombe e le grida della folla annunciano l’arrivo degli armati di Giustino e Vitaliano. Amanzio è vinto e catturato, Anastasio restituito al trono e all’amore di Arianna, Vitaliano riconosciuto come amico, mentre Giustino ottiene la mano di Leocasta e l’incoronazione a co-imperatore a fianco di Anastasio. Tutti si ritrovano in un gioioso coro finale.

Dal punto di vista della composizione musicale, Vivaldi ricorre largamente alla tecnica dell’autoimprestito, impiegando cioè una notevole quantità di musica preesistente, riadattando quasi metà dei numeri e allestendo così una specie di ‘antologia personale’ a uso del pubblico romano (1). Il compositore utilizza il motivo principale di quello che sarà il primo movimento de La Primavera per l’ingresso in scena della Fortuna che predice a Giustino il futuro glorioso che lo attende. Ma ci sono tanti nuovi bellissimi numeri musicali dalla strumentazione particolarmente variegata: «Bel riposo de’ mortali» di Giustino ad esempio è un’aria pastorale in ritmo di siciliana orchestrata con violini, oboi e flauti all’unisono sopra un bordone di viola, violoncello e basso, mentre l’aria di Giustino «Ho nel petto un cor sì forte» con cui si conclude il secondo atto, è un’aria eroica con salterio solista e archi in pizzicato. Con timpani e trombe è la fanfara che precede l’aria con il coro di Arianna «Viva Augusto, eterno Impero» o quella di Vitaliano «All’armi, o guerrieri», tipica aria eroica con tromba solista. Non mancano nemmeno le arie barocche a imitazione della natura caratteristiche di Vivaldi: l’aria di Vitaliano «Quel torrente che s’innalza», in cui gli archi con le loro figure imitano un impetuoso torrente (aria che, tra l’altro, comparirà anche nel Farnace, trasposta però per la voce di baritono) o «Augelletti garruletti», con l’ottavino che imita il canto degli uccelli, o infine l’aria di Anastasio «Sento in seno ch’in pioggia di lacrime», dove i violini sono ripartiti in una sezione suonata in pizzicato e un’altra con l’archetto, a imitazione del suono della pioggia che cade.

La vicenda politica ricca di amori, guerra, erotismo, violenza, agnizioni, mostri marini, interventi soprannaturali, burrasche di mare e naufragi richiede una partitura ricca di colori esaltati dalla direzione di George Petrou, specialista di questo repertorio, il quale anche senza la sua Armonia Atenea, con l’orchestra del teatro riesce a rendere la grande varietà della musica vivaldiana e la maestria strumentale realizzata dagli ottimi musicisti. Sei dei quasi cinquanta numeri musicali sono omessi, cosa comprensibile per gli autoimprestiti, un po’ meno per quelli che si possono sentire solo qui come «Viva Augusto, eterno impero», il coro con Arianna con cui si apre l’opera, l’aria «Non si vanti un’alma audace» di Anastasio o «Candida fedeltà | che regna» di Amanzio. Ampiamente sforbiciati i dialoghi, scelta del tutto legittima per un pubblico non parlante l’italiano.

Da tempo Petrou si occupa anche della regia, come in questo caso, con eccellenti risultati: sembrerebbe una regia tradizionale, ambientata com’è in epoca settecentesca con i bei costumi e la scenografia di Paris Mexis, ma ha arguti momenti di metateatro, i macchinari sono esibiti con discrezione ma sfruttati con intelligenza, i caratteri sono precisamente connotati e il finale riserva una sorpresa: durante la ciaccona i personaggi si presentano a un ballo in maschera e il sipario scende mentre una pistola viene puntata alla testa di Anastasio che si è trasformato così in Gustavo III, il re svedese assassinato nel 1792! Attenta ed efficace anche  la regia video che sbircia dietro le quinte e inquadra spesso, giustamente, il suonatore di tiorba e chitarra barocca Jonas Nordberg.

La parte del titolo è affidata al controtenore Yuriy Mynenko, che con ironia e sicuri mezzi vocali impersona il modesto pastore che in tarda età diventerà imperatore come Giustino I (dal 518 al 527) d.C. Anastasio (Anastasio I, imperatore dal 491 al 518 d.C.) ha la voce di Raffaele Pe, che sottolinea il carattere svagato e incostante del personaggio che al pari di Otello è vittima della gelosia insinuata da Amanzio, lo Iago della situazione. Col suo timbro chiaro e luminoso, Pe non si preoccupa di dare particolare spessore al carattere ma esalta la cantabilità delle sue otto arie. Il carattere disprezzabile di Amanzio è ben espresso da Federico Fiorio, il terzo controtenore, che nella sua aria finale «Or che cinto ho il crin d’alloro» dà sfogo a impervie agilità. Vitaliano è invece il tenore Juan Sancho che con le sue peculiari caratteristiche vocali esprime i più contrastanti e violenti affetti del personaggio. Una cantante assume il ruolo di un uomo che si traveste da donna, ossia Andronico che si presenta a corte come Flavia: il mezzosoprano Linnea Andreassen rivela temperamento e una grande personalità. Femminili sono i personaggi di Arianna e Leocasta. Il primo fu tenuto a battesimo dal castrato Giacinto Fontana, detto il Farfallino, interprete di tutti i principali ruoli femminili nei drammi romani scritti da Metastasio. Qui la sposa ciecamente innamorata del consorte – ma la regia di Petrou la fa per un momento essere preda del fascino dell’eroe eponimo – si esprime in arie dove domina una fluida cantabilità ben realizzata dal soprano Sofie Asplund. Meno monocorde il personaggio di Leocasta che ha l’ultima parola nell’opera in un’aria irta di agilità e colorature «Dopo un’orrida procella» che sostituisce  «Lo splendor ch’a sperar m’invita», in cui eccelle con sicurezza il soprano Johanna Wallroth. Jihan Shin (Polidarte) e Elin Skorup (Fortuna e Voce di dentro) completano il pregevole cast di una produzione che meriterebbe di essere vista anche in altri teatri al di fuori del gioiello svedese.

(1) Struttura dell’opera con gli autoimprestiti in grassetto e la numerazione dello Strohm (The Operas of Antonio Vivaldi) :
Sinfonia
Atto primo
I.01 Viva Augusto, eterno Impero (Arianna e coro)
I.02 Un vostro sguardo (Anastasio)
I.03 Da’ tuoi begl’occhi impara (Arianna) da Tieteberga
I.04 Bel ristoro de’ mortali (Giustino)
I.05 Della tua sorte (Fortuna)
I.06 Nacque al bosco e nacque al prato (Leocasta)
I.08A Sole degli occhi miei (Arianna) da Ottone in villa
I.08B La gloria del mio sangue (Amanzio) da Teuzzone
I.08C Vedrò con mio diletto (Anastasio)
I.10 Non si vanti un’alma audace (Anastasio)
I.11A Allor ch’io mi vedrò (Giustino) da Tieteberga
I.11B No bel labbro men sdegnoso (Leocasta) da Armida
I.12 E pur dolce ad un’anima amante (Andronico) da Tito Manlio
I.13A All’armi, o guerrieri (Vitaliano) 
I.12B Vanne, sì, superba, va’ (Vitaliano) 
I.14 Mio dolce, amato sposo (Arianna)  
Atto secondo
II.01 Sento in seno, ch’in pioggia di lagrime (Anastasio) da Tieteberga
II.02 Ritrosa bellezza | ben poco s’apprezza (Polidante ) 
II.03A Numi che il ciel reggete (Arianna) anche in Dorilla in Tempe
II.03B Per me dunque il ciel non ha (Arianna)
II.04 Mio bel tesoro, duetto (Arianna, Anastasio)
II.05 Per noi soave e bella (Arianna)
II.06 Qual torrente che s’inalza (Vitaliano) anche in Farnace
II.08 Più bel giorno e più bel fato (Andronico)
II.08B Senti l’aura che leggiera (Leocasta)
II.08C Augelletti garruletti (Arianna) da Armida al campo d’Egitto
II.09A Verdi lauri cingetemi il crine (Anastasio)
II.09B Su l’altar di questo nume (Giustino)
II.10A Candida fedeltà | che regna (Amanzio)
II.10B Taci per poco ancora (Anastasio ) da Tieteberga
II.11 Quando serve alla ragione (Vitaliano) da La verità in cimento
II.12A Se all’amor ch’io porto al trono (Anastasio)
II.12B Dalle gioie del core Amor pendea languido (Arianna)
II.13A Sventurata navicella (Leocasta) da Orlando finto pazzo
II.13B Ho nel petto un cor sì forte (Giustino)
Atto terzo
III.01 Il piacer della vendetta (Vitaliano)
III.02A Zeffiretto che scorrer nel prato (Giustino)
III.02B Quell’amoroso ardor (Arianna) 
III.03 Di rè sdegnato (Anastasio) da Tieteberga
III.04A Il mio cor già più non sa (Giustino)
III.04B Senza l’amato ben (Leocasta)
III.05 Sì, vo a regnar (Amanzio) da Tieteberga
III.07 La cervetta timidetta (Arianna) da Orlando furioso
III.08 Or che cinto ho il crin d’alloro (Amanzio)
III.10 In braccio a te la calma, duetto (Anastasio e Arianna)
III.11 Lo splendor ch’a sperar m’invita (Leocasta) da La verità in cimento
III.12 Dopo i nembi e le procelle, coro, anche in Ipermestra

Giulio Cesare in Egitto

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Roma, Teatro dell’Opera, 13 ottobre 2023

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Giulio Cesare torna a Roma

Anche l’Italia continua a riscoprire i tesori del teatro barocco in musica, che sono al 99% italiani. Grazie al lavoro di specializzazione in questo repertorio di direttori che non sono più soltanto olandesi o tedeschi, e a registi che propongono letture intriganti di quelle vicende spesso più vicine a noi di quanto lo siano quelle di molto teatro dell’Ottocento, i compositori della prima metà del XVIII secolo godono di una nuova popolarità. Primo fra tutti Georg Friedrich Händel, il cui Giulio Cesare in Egitto approda per la quarta volta al Costanzi: nel 1955 c’era Gavazzeni sul podio e un basso (Boris Hristov) nella parte di Cesare; nel 1985 il condottiero romano era un mezzosoprano (Margarita Zimmermann) come nel 1998 (Alice Baker) mentre ora sono ripristinate le voci originali con controtenori nei ruoli dei castrati, qui dove tutto era iniziato con la loro introduzione nell’opera lirica in seguito al divieto alle donne di salire sui palcoscenici dello stato pontificio. 

Nel Giulio Cesare di Händel oltre al protagonista altri tre ruoli furono affidati ai castrati, quello di Tolomeo, Sesto e Nireno; gli altri due maschi, Achilla e Curio sono bassi, Cleopatra è un soprano e Cornelia un mezzosoprano. Non sempre questa distribuzione è rispettata nelle numerose intonazioni della vicenda di Cesare in Egitto: nella prima versione di Antonio Sartorio (1676) Cesare è un soprano, ma Carlo Francesco Pollarolo preferisce la voce più calda del mezzosoprano nella sua opera del 1713 e nel 1728 Luca Antonio Predieri opta per il contralto Paolo Mariani. Dopo il Giulio Cesare in Egitto di Händel (1724, creato per il Senesino) ci saranno ancora quello di Giacomelli (1736, col Carestini) e di Piccinni (1770). Graun nel 1742 aveva intanto presentato il suo Cesare e Cleopatra col castrato Paolo Bedeschi.

I 44 numeri della partitura originale – arie solistiche, ariosi, recitativi accompagnati, duetti, cori, sinfonie, marce – formano una sequenza di pezzi dalla superba scrittura musicale con cui si intrecciano le vicende d’amore tra Cesare e Cleopatra e quelle di vendetta della moglie Cornelia e del figlio Sesto per la morte di Pompeo in uno schema melodrammatico metastasiano di grande forza drammatica ma senza una vera tensione narrativa.

Molte sono le diverse versioni dell’opera di Händel che, secondo le usanze dell’epoca, venivano adattate alle diverse disponibilità del teatro di turno: venivano così cambiate o tagliate arie, eliminati personaggi. Qui a Roma ancora diversa è la versione proposta: i personaggi sono tutti presenti ma molti numeri musicali sono mancanti: vengono infatti tagliati il coro iniziale, due arie di Cesare, ben tre di Cleopatra e due di Achilla, Cornelia e Sesto vengono privati di un’aria ciascuno. In totale ben dieci pezzi, per non parlare dei recitativi decimati. L’esecuzione è suddivisa in due parti invece che nei tre atti previsti e così si toglie risonanza al duetto Cornelia/Sesto «Son nata a lagrimar, | son nato a sospirar» con cui si conclude il primo atto. Anche il finale secondo, pure lui affidato alla voce di Sesto (qui nella variante «L’angue offeso mai non posa») si trova nel mezzo della seconda parte.

La maestosa orchestrazione di Händel è affidata alle esperte mani di Rinaldo Alessandrini, che della partitura restituisce la ricchezza e sontuosità, ma l’orchestra del teatro non si rivela il miglior strumento espressivo in questo repertorio pochissimo frequentato: il suono è preciso, gli attacchi corretti ma non ci sono lo scatto e il colore dell’opera barocca, gli equilibri sonori sono troppo smorzati, le preziosità strumentali non sempre evidenziate. Ottima è invece la concertazione delle voci in scena affidate ai migliori interpreti di questo repertorio e molto belle le variazioni nei da capo, e qui la mano esperta di Alessandrini è evidente. Raffaele Pe è vocalmente autorevole come Cesare e anche se non affronta la spericolata «Qual torrente, che cade dal monte» del terzo atto, dimostra grande facilità nelle agilità richieste dalla parte e una presenza scenica coerente con l’impostazione registica per la quale Cesare è «un uomo goffo, imbranato, che non ne combina una giusta» e s’innamora di una serva che è Cleopatra travestita. Al suo rientro a Roma, di lì a pochi anni Cesare cadrà sotto le pugnalate dei congiurati che qui compaiono dietro un telo traslucido abbigliati in toga come antichi romani.

Ha già interpretato Cesare e lo farà di nuovo tra poco in versione concertistica con Cecilia Bartoli, ma qui Carlo Vistoli veste i panni di Tolomeo, un ruolo ancora più impervio che però il controtenore romagnolo gestisce in maniera impeccabile vocalmente – sin dalla prima aria di furore «L’empio sleale indegno», come nelle seguenti «Sì spietata, il tuo rigore», «Domerò la tua fierezza», le asprezze e i salti di registro delineano con efficacia la crudeltà del personaggio – e scenicamente, con quel parrucchino biondo e i tatuaggi sulla pelle e con Michieletto che sottolinea il rapporto vagamente morboso con la sorella Cleopatra. Il terzo controtenore, ed è la sorpresa della serata, è Aryeh Nussbaum Cohen, un Sesto di grande potenza vocale, espressivo, dal bellissimo timbro e dalla sicura tecnica con cui riesce a dare del figlio di Pompeo un ritratto in evoluzione. Ci sarebbe un quarto controtenore, Nireno, ma qui non ha un’aria per sé e Angelo Giordano deve aspettare un’altra occasione per farsi meglio apprezzare. Tra le varianti inserite in successive versioni Händel aveva scritto per Nireno un seducente numero («Chi perde un momento | d’un dolce contento») che finora, salvo errore, è stato eseguito solo nella produzione di McVicar. Neanche Curio, qui Patrizio La Placa, ha un’aria tutta sua e non molto meglio va per Achilla a cui rimane un solo intervento solistico su tre («Tu sei il cor di questo core») affidato all’ottimo basso Rocco Cavalluzzi.

E infine le interpreti femminili: Mary Ann Bevan, il soprano americano ammirato nel recente Orfeo ed Euridice veneziano, nella parte di Cleopatra qui ha modo di dispiegare le sue doti di sensualità ed agilità vocale in una serie di momenti musicali che vanno dal frivolo «Non disperar, chi sa?» della sua prima aria al tragico «Piangerò la sorte mia» espresso con grande intensità emotiva. La sua è una Cleopatra meno leggera del solito e dal corposo registro medio. Della Cornelia di Sara Mingardo non c’è molto di nuovo da dire: è uno dei suoi ruoli di elezione e quello in cui le sue qualità vocali si sono meglio espresse. Col tempo l’adesione al personaggio ha raggiunto un livello difficilmente superabile.

Guardando sul programma di sala le foto dei vecchi allestimenti del Costanzi si prova un misto di tenerezza e raccapriccio nel vedere le scenografie in cui l’Egitto è stato visto con l’occhio delle varie epoche – e nessuno era il vero Egitto – e si capisce anche come indietro non si possa tornare: da quando nel 1985 Peter Sellars aveva ambientato la vicenda nel moderno Medio Oriente c’era poi stato Sir David McVicar vent’anni dopo a sbarazzarsi della pseudo-archeologia per ambientare la produzione di Glyndebourne nell’India coloniale. All’Egitto era ritornato, ma con il suo spirito dissacrante, Laurent Pelly, che nel 2011 a Parigi aveva allestito la vicenda nei depositi del Museo del Cairo.

Ancora più radicale la lettura di Michieletto che nel 2022 sorprende il pubblico del Théâtre des Champs Elysées con uno spettacolo di rara purezza visuale, in costumi moderni con solo alcuni dettagli egizi. La sua è una lettura rigorosamente drammatica, non prende in considerazione gli elementi di tragico e comico, di alto e basso che si mescolano nell’opera barocca e che McVicar aveva genialmente ricreato nella sua versione stile Bollywood. Qui invece domina il fatum, con le tre Parche che tessono il destino dell’uomo, e la morte: Pompeo, di cui ci è risparmiata la visione splatter della testa mozza (qui c’è solo l’inquietante sottile rivolo di sangue che esce dalla scatola contenente il “regalo” di Tolomeo), è spesso presente in scena come spettro scespiriano che sostiene il figlio a cui presta gli abiti affinché la reincarnazione in lui sia completa. Alla fine, ricoperto di gesso bianco si trasformerà in statua sotto la quale Cesare cadrà pugnalato nelle fatali Idi di marzo. Con Pompeo Michieletto mette in scena il passaggio nell’aldilà secondo la concezione degli egizi, con la “pesatura dell’anima” del Libro dei Morti, mescolata con il mito delle Parche che qui dipanano il filo dalla bocca del defunto. E il rosso dei fili, che limitano la libertà dell’uomo o lo inglobano in una matassa indistricabile, assieme al nero delle ceneri che a un certo punto cadono su Pompeo, sono gli unici colori nel bianco abbagliante della scenografia di Paolo Fantin che costruisce una scatola bianca con un taglio nero orizzontale che collega l’aldilà. Con le luci di Alessandro Carletti e i costumi di Agostino Cavalca lo spettacolo di Michieletto raggiunge una dimensione onirica e fantastica che ricrea in forme moderne il senso del meraviglioso del barocco .

Il pubblico che ha affollato il teatro Costanzi ha risposto con calore alla inedita proposta dell’Opera di Roma applaudendo a lungo e senza eccezioni tutti gli artefici dello spettacolo. Quasi una delusione la mancanza di buu rivolti al regista e alla sua equipe. Che i tempi stiano cambiando anche per l’opera in Italia?

Il prossimo 20 ottobre Pe, Vistoli e Nussbaum Cohen si esibiranno qui in concerto con musiche di Vivaldi, Händel, Vinci, Porpora, Broschi, Gluck e Rossini. Dopo la stagione dei castrati, trecento anni più tardi, a Roma sembra sia arrivata la stagione dei controtenori.

La fida ninfa

photo © Birgit Gufler

Antonio Vivaldi, La fida ninfa

Innsbruck, Haus der Musik, 17 agosto 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La “favola pastorale” del Vivaldi più maturo

Con la prima de La fida ninfa, il 6 gennaio 1732 veniva inaugurato uno dei più costosi edifici teatrali del XVIII secolo, il Teatro Filarmonico di Verona. La commissione dell’opera era andata ad Antonio Vivaldi, ma solo perché Giuseppe Maria Orlandini, che originariamente avrebbe dovuto mettere in musica il libretto, non fu più disponibile quando finalmente venne il momento di produrre l’opera. Scritta probabilmente in meno di due mesi, l’opera andò in scena con grande successo: furono lodate le scenografie del Bibbiena, i balletti di Andrea Catani, il testo di Scipione Maffei (figura di spicco nella cultura italiana del Settecento e finanziatore della costruzione del nuovo teatro), l’orchestra, «che riuniva eccellenti virtuosi provenienti da diverse parti» e, finalmente, anche le musiche «del signor Vivaldi». Meno plausi ebbero i cantanti, nomi insigni (Giovanna Gasperini, Gerolama Madonis, Francesco Venturini, Giuseppe Valentini) ma svantaggiati dalle poche prove. L’opera sarà poi rappresentata nel 1737 per celebrare la nascita della prima figlia dell’imperatrice Maria Teresa al Theater am Kärntnertor di Vienna, la città in cui Vivaldi avrebbe trascorso il suo ultimo anno di vita.

Con il numero di catalogo RV714, La fida ninfa è la 32esima opera vivaldiana secondo Reinhard Strohm, il massimo studioso del teatro musicale del Prete Rosso. Frutto della sua piena maturità, i tre atti presentano una serie di magnifiche arie con cui Vivaldi trasfigura codici e luoghi comuni dell’opera seria di cui il libretto del Maffei è ricco. Il testo mescola ninfe (intese però come giovani donne associate a pastori e contadini) e pirati in un complesso plot dove rapimenti, scambi di identità, agnizioni, intricate relazioni amorose, finte morti, suicidi annunciati, tempeste di mare e interventi divini sono spiegati solo alla fine dell’opera, come in un thriller di Agatha Christie, tanto da far dire a Narete: «Il tutto è chiaro» mentre Morasto conclude con: «O sommi dèi! | per quali occulte vie | conducete i mortali!». Tutto questo è rivestito di suoni di straordinario livello: i venti numeri musicali comprendono una serie di ensemble (un duetto, un trio, un quartetto e alcuni brevi cori) e pagine solistiche da antologia, tra le più impegnative di Vivaldi e in competizione tra loro per il virtuosismo vocale.

Atto I. Oralto, comandante pirata e signore di Nasso, rapisce un pastore, Narete, e le sue due figlie, Licori e Elpina. Licori era sposa di Osmino, che era stato anche lui rapito da soldati traci. Osmino, ora chiamato Morasto, diventa tenente di Oralto, ma nessuno lo riconosce. Il giovane è angosciato quando scopre che altri suoi compatrioti sono stati ridotti in schiavitù. Il fratello di Osmino, Tirsi, vive anch’egli nell’isola. I suoi genitori gli avevano dato poi il nome di Osmino in memoria del fratello creduto morto. Si innamora quindi di Licori. Ma per attirarne l’attenzione e renderla gelosa, seduce sua sorella. Licori piace anche ad Oralto che chiede aiuto a Osmino/Morasto per aiutarlo a ottenere la ragazza. Nel frattempo, il vecchio Narete trova scolpito su un albero i nomi di Osmino e Licori.
Atto II. Licori crede di aver riconosciuto in Osmino la persona a cui era destinata. Narete, tuttavia, tenta di negoziare con Oralto la redenzione di tutta la famiglia con un pagamento enorme al fine di ritornare in patria. Ma Oralto, irritato dal disprezzo di Licori, vuole venderli come schiavi del sultano. Morasto comincia la corte a Licori. Scopre tutta la verità, ma teme di rivelare il segreto. Osmino dichiara apertamente i suoi sentimenti per Licori. Elpina, profondamente ferita, accusa Osmino di abusare della sua fedeltà. Narete, che indovina le intenzioni di Oralto, chiede l’aiuto di Morasto, il quale accetta di aiutarli.
Atto III. Oralto minaccia Licori di vendere il suo schiavo e la sua famiglia se non acconsente a sposarla. Licori pensa al suicidio e fugge. Nella sua corsa, inciampa e cade in un fiume. Narete trova un velo e lo mostra ad Oralto come prova dell’annegamento della figlia. Il tiranno si assenta e dà il comando dell’isola a Morasto. Questo gli permette di rivelare la sua vera identità: è lui il vero Osmino. Licori, non affogata e fedele ai suoi voti, rinnova le sue promesse d’amore al primo fidanzato. Sono quindi volte le vele a Sciro, quando una terribile tempesta li sorprende in mare. Per fortuna. Giunone, piena di compassione per le miserie e l’amore indistruttibile di due giovani provati dalla sorte per lungo tempo, chiede a Eolo, il dio del vento, di calmare le onde.

Per la 47esima edizione del Festival di Musica Antica, l’ultima affidata al direttore artistico Alessandro De Marchi, il compositore delle due opere in programma è dunque Antonio Vivaldi, di cui vengono messe in scena L’Olimpiade e La fida ninfa. Oltre a vari altri suoi pezzi concertistici, è presentato anche l’oratorio Juditha Triumphans. Gli sforzi produttivi hanno privilegiato soprattutto L’Olimpiade piuttosto che La fida ninfa dell’Opera Young: nella prima sono sfilati cantanti di grido e ha avuto un’apprezzata messa in scena, nella seconda si sono esibiti cantanti promettenti ma un po’ acerbi e lo spettacolo è risultato visivamente bruttoccio. Il regista François de Carpentries non ha fatto alcuno sforzo per rendere più attuale la vicenda e si è limitato a una lettura lineare con una scenografia, di Karine van Hercke, autrice anche dei costumi, eccessivamente cheap per un festival prestigioso come questo di Innsbruck: una pecora di resina a sinistra e una bandiera dei pirati a destra definiscono i due mondi, tronchi o sassi disegnati sul cartone e una sedia in stile Luigi XVI sono i soli elementi della scena unica. Altri tronchi bidimensionali, catene o mostri dipinti scendono dall’alto per definire i diversi ambienti previsti: paesaggio boscoso con vista del palazzo di Oralto nel primo atto; porto di mare nel secondo; rifugio fiorito, aspro paesaggio montano con imbocco di grande caverna, palazzo di Eolo nel terzo. L’affannoso andirivieni dei personaggi non rispecchia una convincente idea registica e i fantasiosi costumi ricchi di piume dei pastori appagano coi loro colori la vista ma non aiutano a definire i personaggi, ad eccezione di Oralto, un Jack Sparrow de I pirati dei Caraibi. La “favola pastorale” prende contorni fiabeschi non solo nei costumi ma anche nella presenza di un bianco unicorno alato e nell’altrettanto incomprensibile passaggio di un personaggio femminile in verde che ricompare come Giunone nel finale.

La preziosa partitura trova una realizzazione accurata nella direzione di Chiara Cattani, una bionda “direttora” che non ha parentele politiche o incarichi istituzionali ma sa concertare con sapienza e riesce a tirar fuori il meglio dall’ensemble strumentale Barockorchester:Jung [sic], giovanile anche nel nome. Precisione negli attacchi, tempi e dinamiche corretti, magari senza particolari guizzi, ma ottimo equilibrio con i cantanti e i momenti solistici degli strumentisti.

La sfida maggiore di questa produzione è stata il voler affidare a giovani e volenterosi interpreti, alcuni provenienti dal Concorso Cesti, un lavoro così impegnativo. Licori è, assieme a Morasto, il personaggio con più numeri solistici, due arie consecutive nel primo atto, una nel secondo e una nel terzo, non particolarmente virtuosistiche ma intense: Chelsea Zurflüh, che ha vinto il secondo premio al Concorso Cesti dell’anno scorso, le risolve con giusto stile e sensibilità. La voce è potente anche se con un che di acerbo, ma la personalità è già presente e il temperamento anche. Molto applaudita è stata la sua aria più famosa «Alma oppressa da sorte crudele» in cui Vivaldi tocca insondabili profondità ben espresse dal soprano svizzero. L’altro personaggio con più arie solistiche è Morasto, in realtà Osmino, pastore di Sciro e ora tenente del pirata, cui dà voce il controtenore ceco Vojtěch Pelka dalle precise agilità e dalla giusta presenza scenica. Le sue sono le arie più virtuosistiche. Un altro controtenore dà voce a Osmino, in realtà Tirsi, anche lui pastore a Sciro, personaggio con una sola aria solistica al secondo atto, ma che è presente in due duetti, con Elpina nel primo atto e con Narete nel terzo, e nel quartetto del secondo: Nicolò Balducci, anch elui proveniente dal Concorso Cesti dell’anno scorso, è cantante dal bel timbro, grande musicalità e ottimo fraseggio ed è forse l’interprete più convincente, anche per la chiara articolazione delle parole. Cosa che di certo non è la qualità maggiore del giovane basso ucraino Yevhen Rakhmanin dallo strumento vocale generoso, dai bassi sonori, ma dalla linea musicale un po’ disordinata e dalla dizione totalmente incomprensibile: per capire quello che dice bisogna leggere i sottotitoli in tedesco – unica lingua presente anche nei programmi, tra l’altro. Nella parte di Narete si aspettava la presenza del vincitore del Concorso Cesti del 2022, Laurence Kilsby, che aveva incantato il pubblico e la giuria con la magistrale resa della commovente aria «Deh, ti piega, deh consenti», aria ripetuta alla fine del concerto finale dello scorso anno e che aveva portato il tenore inglese al meritato primo premio. Qui abbiamo un altro tenore britannico, Kieran White: il suo personaggio ha solo due arie solistiche, entrambe al secondo atto, oltre al duetto con Osmino nel terzo. Interprete elegante e sensibile, è stata apprezzata la sua performance nella suddetta aria che qui ha concluso la prima delle due parti in cui è stata suddivisa l’opera, ma si sarebbe gradita una maggior purezza nella linea vocale e suoni più limpidi. Completa il cast vocale il mezzosoprano Eline Welle, voce dal piacevole colore e buona musicalità esibita nelle due arie solistiche e nei due ensemble in cui si esprime il suo personaggio di Elpina, l’altra ninfa di Sciro.

P.S. Mi ha scritto la moglie (o la madre, il cognome è lo stesso) del regista dicendomi che non ho capito le intenzioni del suo (capo)lavoro. Non mi era mai capitato di essere attaccato direttamente dal regista o dai membri della sua famiglia!

Gli uccellatori

photo © Clarissa Lapolla

Florian Leopold Gassmann, Gli uccellatori

Martina Franca, Teatro Verdi, 2 agosto 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Non uno ma tre Papageni (e una quasi Regina della notte)

L’ultimo degli allestimenti in programma al Festival della Valle d’Itria è un titolo settecentesco di Florian Gassmann, compositore austriaco a cavallo di barocco e classicismo, basato sul testo di Li uccellatori di Carlo Goldoni. Messo in scena nel 1759 al Teatro San Moisé di Venezia, la sua partitura manoscritta è stata solo recentemente riscoperta a Vienna dove l’opera era approdata nel 1768. La vicenda si basa sugli intrecci amorosi tra una coppia seria di nobili (il Marchese Riccardo e la Contessa Armelinda) e un gruppo di parti buffe formato da tre cacciatori di uccelli (Cecco, Pierotto e Toniolo) e due servette (Roccolina e Mariannina) in cui il ruspante Cecco è concupito da tutte e tre le femmine.

Allo spuntar dell’aurora gli uccellatori Pierotto, Cecco e Toniolo sono pronti, con quaglie, fringuelli e civette da richiamo, a partire per la caccia, quando vengono raggiunti dalle due servette Mariannina e Roccolina, con le quali si scambiano saluti e sguardi languidi. Entrambe innamorate ma diffidenti l’una dell’altra, le fanciulle preferiscono custodire il proprio segreto d’amore, entrando da subito in competizione. Nel frattempo, la Contessa Armelinda respinge le profferte amorose del Marchese Riccardo: il cuore della donna è infatti piagato da un sentimento inconfessabile, verso qualcuno che non è un suo pari, ma appartiene a una classe inferiore, Cecco. Oggetto del desiderio di ben tre donne, l’uccellatore si troverà, suo malgrado, a dover sventare un attacco omicida nei suoi confronti e a essere testimone di un processo fittizio, in cui giudice e notaio altri non sono che le due servette rivali en travesti. Dopo rinunce e pentimenti, scoppi d’ira e vezzose schermaglie, il lieto fine sancirà, ancora una volta, il ripristino dell’equilibrio sociale ed erotico.

Superato un certo fastidio per l’argomento – la caccia alle povere bestiole e il loro finire in padella – si apprezza l’arguto testo goldoniano in cui cacciatori e cacciati sono gli umani stessi in un gioco di schermaglie amorose interclassiste: la Contessa si dichiara infatuata del popolano Cecco ma non è una novella Lady Chatterly persa per il suo guardacaccia, quanto piuttosto una nobile annoiata che ben presto si rende conto della sconvenienza della sua relazione: «vo facendo il precipizio mio. | Che rossor, che vergogna | amare un uom sì vile» e rientra nei ranghi di una relazione socialmente accettabile accettando la corte del Marchese fino a quel momento bistrattato: «se il Marchese | tornasse a supplicarmi, | forse all’affetto suo potrei piegarmi». Nel finale la morale della storia: «Evviva il dio d’amore | ch’è un bravo uccellatore | e di cuori amanti | sì bella caccia fa».

I personaggi nobili utilizzano un lessico ricercato e cantano in uno stile virtuosistico da opera seria, quelli popolari sono parti buffe che esprimono le pulsioni erotiche con semplice vitalità. Più che il sentimentalismo, la cifra distintiva de Gli uccellatori è l’aspetto ludico e la musica di Gassmann si diverte a richiamare i volatili imitando con oboi e violini i versi della quaglia nell’aria di Pierotto. Ma gli uccelli sono i veri protagonisti fin dalla sinfonia tripartita con le volatine dei flauti nel primo movimento o gli assoli degli oboi che rispondono a quelli dei corni nel terzo. Figurazioni onomatopeiche imitanti cinguettii sono sparse per tutta l’opera e formano una “musica di scena” inserita in un congruo apparato scenico che qui al Teatro Verdi nell’allestimento della regista Jean Renshaw viene realizzato con minimalistica eleganza: i diversi spazi aperti previsti – Piazza con case rustiche e Bosco al primo atto; Giardino e Campagna sparsa di capanne del secondo; il Bosco e Campagna del terzo – sono qui sintetizzati da Christof Cremer, che firma anche i bei costumi, in una scena fissa formata da una tavola inclinata con una botola e pochi altri elementi scenici – due alberelli formano il Bosco, una sedia legata a una scaletta lo scranno del giudice, una panchetta l’unico ambiente chiuso previsto dal libretto etc. La presenza della danzatrice Emanuela Boldetti – Renshaw non si dimentica di essere stata coreografa – richiama con i ventagli le ali dei volatili e con i suoi aggraziati movimenti punteggia i momenti strumentali o si inserisce in modo discreto nell’azione. 

Enrico Pagano a capo dell’Orchestra ICO della Magna Grecia concerta con precisione e gusto una musica che anticipa in alcune pagine quelle che scriverà poi Mozart, soprattutto la prima aria della Contessa che sembra richiamare quella della Donna Anna dongiovannesca. Il giovane direttore romano classe 1995, si è già fatto un nome quale esperto di questo genere e infatti riesce a trascinare la compagine strumentale, per la prima volta impegnata in questo repertorio, in un flusso musicale dove svettano gli interventi strumentali risolti con bello stile. La partitura, come quelle di questo periodo, è scarna di indicazioni e qui è l’inventiva dell’esecutore a rendere vivo quello che in molti casi è appena abbozzato e che poteva variare ad ogni ripresa, un canovaccio da adattare a nuovi teatri, nuovi cantanti, nuove orchestre.

Quasi tutti gli interpreti escono dal progetto dell’Accademia di Belcanto e ben quattro calcano la scena per la prima volta, ma non si nota, vista la sciolta presenza scenica dimostrata dai giovani cantanti. Si diceva che la parte della Contessa anticipa quella della mozartiana Donna Anna, ma qui l’islandese Bryndis Gudjónsdóttir con il suo temperamento e strumento vocale generoso, anche troppo per un teatro minuto come quello di Martina Franca, ricorda quasi più la Regina della Notte quando attacca con vigore l’aria «Palpitare il cor mi sento» che punteggia di vigorosi acuti. Il ruolo del Marchese è irto di agilità che hanno portato in passato ad assegnare la parte a un mezzosoprano o a un controtenore, ma qui il tenore Massimo Frigato riesce a tener testa ai virtuosismi richiesti dalla sua aria di furore «Fremo d’amor, di sdegno». Nel campo dei “comici” qui vincono per qualità le voci maschili su quelle femminili: in Cecco si ammira il bel timbro e la gagliarda presenza del baritono Elia Colombotto; in Pierotto l’entusiasmo e la sicurezza vocale del basso Huigang Liu e in Toniolo l’affermata presenza del tenore Joan Folqué. Vivaci e spigliate sono le servette affidate a Justina Vaitkute (Roccolina) promettente mezzosoprano, e Angelica Disanto, vivace Mariannina.

Un pubblico non numerosissimo ma prodigo d’applausi ha salutato la felice prova dei giovani interpreti e del direttore e la scoperta di questa gemma settecentesca, una delle tante che ancora restano da dissotterrare.

L’incoronazione di Poppea

Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 12 luglio 2023

★★★

(video streaming)

A Barcellona la Poppea schizofrenica di Savall e Bieito

Se il 14 luglio per dirigere la Bohème che inaugurava il Festival Puccini a Torre del Lago Alberto Veronesi si era bendato gli occhi per non vedere una messa in scena che non gradiva, quattro giorni prima a Barcellona al Teatro del Liceu Jordi Savall ha diretto L’incoronazione di Poppea di Monteverdi messa in scena da Calixto Bieito senza alzare gli occhi dalla partitura: neanche lui ha gradito la regia, come aveva confessato in sede di presentazione alla stampa di questa produzione che riunisce due personaggi che, pur accomunati dalla nazionalità, più diversi non potrebbero però essere.

«Con la musica cercherò di compensare l’eccessiva violenza della messa in scena, accentuando con sensibilità e passione tutte le emozioni trasmesse dal libretto», dichiara Savall sul programma di sala, lamentandosi anche del fatto di aver dovuto utilizzare la messa in scena di Zurigo dove L’incoronazione di Poppea aveva debuttato nel 2018 per poi essere cancellata causa pandemia e ripresa nel ’21, «una produzione fatta per un altro cast» (con gli stessi interpreti principali, però) «e con numerosi tagli. Evidentemente non è la versione che avrei voluto fare» confessa candidamente. E quello che è venuto fuori è uno spettacolo un po’ schizofrenico, dove in buca il direttore musicale del teatro legge la partitura con esattezza metronomica, senza colori e senza quell’intensità emotiva che invece si vede in scena.

Prima ancora di essere colpito dalla lettura di Calixto Bieito, lo spettatore entrando in teatro vede una particolare disposizione: i sedici strumentisti de Le Concert des Nations sono infossati in un’ellisse formata da una passerella luminosa che si unisce al palcoscenico occupato da una gradinata su cui prende posto parte del pubblico. Quindici telecamere riprendono in tempo reale gli interpreti e ne rimandano le immagini su uno schermo sul fondo e su tanti altri schermi più piccoli ai lati del proscenio. Ulteriori video di Sarah Derendinger ci mostrano i due amanti fare un bagno nella schiuma, Seneca dissanguato in un’altra vasca da bagno, le violenze sulla povera Drusilla, o semplicemente gli occhi azzurri di David Hansen, l’interprete di Nerone. Nella scenografia di Rebecca Ringst viene esaltato il mondo dell’immagine di oggi, del selfie, dove tutti voglio apparire e raccontarsi sui social. Egoismi, eccessi, voglia di potere, l’opera del 1642 di Monteverdi è di una attualità spiazzante e Bieito non fa altro che evidenziarlo con immagini crude e sessualmente esplicite, ma con una cura maniacale della recitazione e un’esaltazione dei rapporti psicologici tra i personaggi. L’incoronazione di Poppea è tutt’altro che una storia per bambini il libretto trasuda sensualità, passione e violenza, e quasi ogni eccesso può essere ben accetto se ben eseguito, come in questo caso. Con le luci di Franck Evin e i sontuosi abiti di Ingo Krügler la parte visiva dello spettacolo raggiunge la magnificenza.

Julie Fuchs e David Hansen sono gli stessi interpreti di Zurigo. La prima delinea una Poppea sensualissima e quasi ingenua nella sua inesorabile scalata al potere. Lo strumento è sicuro per tutto il registro vocale, lo stile adeguato e la padronanza scenica perfetta. Il secondo affronta una parte di grande difficoltà con una resa vocale di tutto rispetto, a parte certi acuti sforzati e una dizione non sempre esemplare. La innaturalità della voce rende poi ancora più intrigante il depravato personaggio di Nerone. Assieme i due cantanti formano un’intesa di grande impatto. Xavier Sabata è un intenso Ottone, dalla voce di velluto ma dalla efficace presenza scenica. Nahuel di Pierro delinea con nobiltà e un buon registro grave il personaggio di Seneca, mentre Ottavia trova in Magdalena Kožená il giusto temperamento, sia quando impone la morte della rivale, sia quando, ripudiata, dà l’addio a Roma. Marcel Beekman è Nutrice, Mark Milhofer un’applaudita Arnalta. Entrambi non en travesti, l’ambientazione moderna non lo avrebbe consentito. Ottimo il resto del numeroso cast tra cui si può ancora nominare l’Amore, vocalmente esemplare, di Jake Arditti, il Nerone di pochi mesi fa a Versailles.

Nonostante la poca compatibilità tra la parte musicale e quella visiva, è uno spettacolo che merita vedere. La registrazione è disponibile su Arte.

Dido and Æneas



Henry Purcell, Dido and Æneas

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 22 giugno 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Il Purcell danzato non convince

In questa produzione del Liceu lo spettacolo arriva a un’ora e venti minuti perché ai 50 minuti di  Dido and Æneas William Christie ha aggiunto quelli dell’ode Celestial music did the gods inspire (1689) eseguita a mo’ d’introduzione all’opera. Altra particolarità di questa produzione è la messa in scena di Blanca Li, che legge la vicenda di Nahum Tate come un’azione danzata. Questo è il secondo incontro tra il direttore americano e la coreografa spagnola dopo Les Indes galantes di vent’anni fa. Qui però la coreografia è predominante sulla drammaturgia dell’opera, con gli interpreti principali su alti piedistalli in costumi metallici ideati da Evi Keller che disegna anche la scena scura e materica. I ballerini vestono costumi da bagno neri e neri sono anche i costumi degli altri interpreti e del coro. Le luci radenti di Pascal Laajili danno profondità a una scena in cui prendono posto anche i musicisti nel lato sinistro. L’energica coreografia di Blanca Li utilizza movimenti a scatti ripetitivi che non corrispondono alle linee eleganti della musica di Purcell, ma creano una proposta parallela che costringe a scegliere tra ascoltare o guardare. 

Al cembalo e all’organo William Christie dirige la smilza compagine de Les Arts Florissants formata da due violini, viola, violoncello, contrabbasso, flauto, oboe e tiorba, otto musicisti che si perdono nell’immensità del Liceu. Dopo l’ode attacca senza soluzione di continuità l’ouverture in do minore in stile francese con due movimenti in sequenza, lento e rapido: William Christie sceglie la ricerca della semplicità musicale per permettere al dramma di emergere da solo in tutta la sua triste bellezza. Dopo sei decenni di lavoro sulla partitura, oggi la sua interpretazione cristallizza la saggezza e il buon gusto che ha avuto fin dal primo giorno. Veterano dell’interpretazione storicista Christie deve fare però i conti con un ambiente ostile ai musicisti: con l’orchestra da un lato in fondo al palcoscenico il maestro dirige dal clavicembalo senza avere in pratica contatto visivo con nessuno dell’ensemble, e tanto meno con il coro e i cantanti. Il lavoro è stato fatto nelle prove e nell’esecuzione dal vivo ci si affida all’esperienza e all’istinto reciproco. E nonostante ciò, il risultato musicale è eccellente.

Chissà che cosa hanno sentito però delle eleganti linee musicali gli spettatori più distanti. Ovviamente il problema non esiste nella registrazione video trasmessa in streaming, ma le relazioni tra i personaggi principali, completamente immobili e trasformati in statue mosse dai figuranti, rimangono problematiche. Il mezzosoprano Kate Lindsey dona inflessioni appropriate al tormentato personaggio della regina Didone e i pianissimi con cui chiude il lamento finale sono da mozzafiato; il baritono Renato Dolcini è un credibile Enea e una vivida maga, una scelta  non del tutto comprensibile. Il soprano Ana Vieira Leite è una Belinda sobria ed elegante. Ben preparato il coro che si è distinto non solo in Dido and Æneas ma anche e soprattutto nell’ode che Christie ha posto come preludio al dramma.

Carlo il Calvo

photo © Brescia e Amisano

Nicola Porpora, Carlo il Calvo

Milano, Teatro alla Scala, 14 giugno 2023

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

(esecuzione in forma di concerto)

Porpora in concerto alla Scala

Coraggio a metà per il Teatro alla Scala che propone sì un titolo barocco mai frequentato, ma in forma di concerto, per una sola sera e drasticamente accorciato – delle tre ore e quaranta minuti di musica eseguite a Bayreuth tre anni fa, un’ora viene eliminata tagliando cinque delle arie originali, alcune scene e molte battute di recitativo. Bastava anticipare alle 19 l’inizio per poter ascoltare nella sua interezza un’opera di rara esecuzione e grande interesse.

Queste le circostanze in cui nacque il lavoro. Nel 1737, dopo il suo soggiorno londinese, Nicola Porpora aveva ripreso il suo incarico all’Ospedale degli Incurabili veneziano sostituendo Johann Hasse, ma già l’anno successivo ritornava nella sua Napoli. Nel passaggio per Roma veniva scritturato per un’opera su un libretto basato su L’innocenza vendicata di Francesco Silvani, vicenda già messa in musica nel 1699. Ulteriori versioni erano seguite nel tempo e quella che arriva in mano a Porpora ha un testo piuttosto differente – mancano due personaggi comici e ne è aggiunto uno serio, Edvige – ed è di mano anonima. Col titolo Carlo il Calvo debutta nella primavera del 1738 al romano Teatro delle Dame, dove però le “dame” in palcoscenico erano bandite da decreto papale e solo cantori maschi, evirati e non, potevano calcare le scene. Per il personaggio femminile di Gildippe, ad esempio, Porpora aveva scelto il suo allievo Antonio Huber (o Uberti), detto per questo il Porporino. Gli altri due personaggi femminili, Giuditta ed Edvige, furono affidati a Geremia del Sette e Giuseppe Lidotti. Giuseppe Galletti, Lorenzo Ghirardi, giovane e avvenente cantante scoperto da Vivaldi, e Francesco Signorili furono rispettivamente Lottario, Adalgiso e Berardo. Per la parte del subdolo Asprando si ricorse a un debuttante Francesco Boschi.

Molto liberi sono i riferimenti alla storia della vicenda. Figlio di Ludovico II il Pio e di Giulietta dei Guelfi di Baviera, nipote quindi di Carlo Magno, pronipote di Pipino il Breve e trisnipote di Carlo Martello, Carlo il Calvo (823-877) sarà Re dei Franchi, poi Imperatore dei Romani e Re d’Italia, ma nell’opera è ancora un bambino di 9 anni immerso in una spietata disputa famigliare in lotta per il potere. Il personaggio del titolo è dunque muto nell’opera mentre gli altri hanno un numero di arie gerarchicamente consono alla loro importanza: Lottario, pretendente al trono e fratellastro del piccolo Carlo, ne ha cinque; il figlio Adalgiso e l’amata Gildippe oltre a un duetto anche loro avrebbero cinque arie, ma in questa esecuzione sono privati ognuno di una; due delle sue tre arie le mantiene il malevolo e subdolo consigliere Asprando; perdono anche loro un’aria su tre il principe spagnolo Berardo e Giuditta, madre di Carlo e vedova di Ludovico il Pio; conserva le sue due arie la figlia Edvige.

La zoppicante coerenza della vicenda e la repentina conversione di Lottario non sono aiutati dalla mancanza di una messa in scena e l’opera diventa una sequenza di stupende arie connesse da recitativi secchi. I numeri musicali solistici dimostrano la particolarità della scrittura di Porpora che nelle sue opere si rivela esperto compositore ma soprattutto maestro di canto: nella sua eleganza ed efficacia il ruolo dell’orchestra è principalmente quello di accompagnamento della voce dove le arie seguono una rigida struttura: la prima sezione è formata da una breve introduzione orchestrale, segue un primo episodio vocale terminante nella dominante, un breve ritornello orchestrale, un secondo episodio vocale variato e modulante alla tonica, un ritornello finale; la seconda sezione è molto più breve e con un tempo e un carattere diversi mentre nel da capo si riprende la prima parte con lussureggianti variazioni e una cadenza finale. Questa struttura tripartita o meglio pentapartita (A, A’, B, A”, A”’) è esemplata nell’aria che conclude il primo atto con Adalgiso che esprime i suoi timori ricorrendo a una metafora marinara frequentissima nell’opera barocca: «Saggio nocchier che vede […] la speme naufragar», un pezzo che vede brillare l’astro della serata, Franco Fagioli, in una girandola di agilità e virtuosismi vocali: trilli lunghissimi, salti di registro vertiginosi, acuti stratosferici e note cavernose, passaggi in legato e in staccato, un intero campionario di prodezze vocali che il controtenore argentino affronta e risolve con una souplesse disarmante e un gusto dello spettacolo che richiamano le mitiche figure degli evirati cantori settecenteschi di cui Fagioli oggi è l’indiscusso e insuperato rappresentante. Quest’aria richiama alla mente un’altra sua mitica esecuzione, quella di «Vo solcando un mar crudele» (un’altra metafora marinara…) dall’Artaserse di Vinci, opera presentata otto anni prima nello stesso Teatro delle Dame e di cui Porpora cita un passaggio orchestrale. Allo stesso Adalgiso/Fagioli è affidato il compito di terminare anche il secondo atto con l’aria «Spesso di nubi cinto […] s’asconde il sole in mar» conclusa da una cadenza strepitosa. Purtroppo la divisione scelta alla Scala di un solo intervallo in mezzo al secondo atto diminuisce in parte l’effetto che ha sulla scena come finale d’atto. Con «Taci, oh Dio! ch’è da tiranno | il rapir con frode un regno», Fagioli mette in mostra una messa di voce e fiati interminabili sorprendenti. Peccato che ad Adalgiso venga tagliata l’aria del terzo atto «Con placido contento», ma l’espressività di cui il vocalista Fagioli sa fare sfoggio la ritroviamo nel lirico duetto con Gildippe «Dimmi che m’ami, o cara», numero di inusitata bellezza dove le sospirose cadenze vedono in gioco anche  l’altra star della serata, Julija Ležneva.

Il soprano russo ha raggiunto un livello di maturità espressiva sorprendente pur con un mezzo vocale se non esile comunque leggero, anche se dotato di grande proiezione. Fin dalla sua prima aria, «Sento che in sen turbato», ammalia il pubblico con trilli interminabili e un porgere della voce che evita il tono lezioso, anzi aggiunge un tocco di elegante ironia. Anche a lei viene tagliata un’aria, «Se veder potessi il core», ma la Ležneva si rifà nel terzo atto, prima dell’immancabile coro finale, con l’inserimento di «Come nave in mezzo all’onde» dal Siface dello stesso Porpora, un pezzo di acrobazie vocali magnificamente realizzate.

Max Emanuel Cenčić è arrivato a un momento della sua carriera in cui lo strumento vocale ha perso un po’ della abilità acrobatiche iniziali, ma ha acquistato in colore ed espressione. Il suo Lottario non è mero sfoggio virtuosistico, il caldo timbro da contralto ora è al meglio e il controtenore croato lo dimostra nelle sue cinque arie che comprendono anche un numero dall’Ezio, sempre di Porpora, «Se tu la reggia al volo», le cui fluide agilità vengono dipanate con suprema eleganza. In tutti i suoi interventi i da capo sono cesellati con variazioni e cadenze di grande raffinatezza.

Il tenore tedesco Stefan Sbonnik è un Asprando non eccessivamente caricato: se non si ascoltassero le sue parole non si direbbe che si tratta di un personaggio spregevole. La sua linea di canto è mantenuta sempre su un tono di grande eleganza e dopo un inizio un po’ incerto il cantante acquista in presenza vocale con agilità ben sostenute. Presente anche a Bayreuth, Suzanne Jérosme presta la sua bella voce sopranile per delineare un’intensa Giuditta e conferma qui il temperamento, già là ammirato, nelle sue due arie che le sono rimaste, in cui si scaglia contro il marito che intende «svenare il caro figlio». 

Edvige è un personaggio, come s’è detto, inserito per equilibrare la parte femminile e fornire anche una seconda coppia amorosa – la donna ama riamata Berardo – a quella di Adalgiso e Gildippe. Ambroisine Bré, mezzosoprano apprezzato anche al di fuori del repertorio barocco (è stata Mallika nella recente Lakmé dell’Opéra-Comique di Parigi), ha solo due arie: una nel primo atto in cui dichiara che «fedele ognor sarò», una nel secondo atto in cui il testo si affida qui a una metafora agricola dove «Il provido cultore […] mira del suo sudore | la speme biondeggiar» ma teme che «la procella e il vento | del suo sudor la speme | gli possa dissipar». È infatti in questa alternanza di speranza e disperazione che vive il personaggio. 

Che nel teatro musicale settecentesco le metafore verbali e le parole diventino un astratto gioco di immagini atte a stupire con la voce è dimostrato anche dall’ultimo personaggio, Berardo, interpretato dal sopranista Dennis Orellana, cantante già di solida tecnica vocale impiegata nelle fioriture delle sue due arie (quella del primo atto è tagliata) entrambe fieramente guerresche, «Per voi sul campo armato | sfidar l’avverso fato» e «Su la fatal arena | dal brando mio trafitto», risolte con giovanile baldanza e perfetto controllo del prodigioso mezzo vocale.

Il tutto è concertato con sapienza e gusto da George Petrou a capo dell’Armonia Atenea, orchestra la cui la bellezza del suono non è forse la qualità migliore, soprattutto per i fiati, ma si sa che gli strumenti originali sono di difficile intonazione. La compagine – formata da due oboi, un fagotto, due corni, due trombe e percussioni, oltre agli archi e al clavicembalo – si è comunque dimostrata un elemento molto duttile e attento alle indicazioni del suo direttore a cui ha risposto con precisione di attacchi e uno slancio ritmico trascinante. I contrasti sonori e i colori sono ricchi, ma mai esasperati, e curatissima è la realizzazione dei recitativi, di cui due accompagnati nei momenti più salienti della storia: il finale del primo atto dominato dalla figura di Adalgiso e la scena del terzo atto del monologo di Asprando, quando l’anima nera della vicenda combatte contro le visioni infernali che intende sfidare.

Un teatro gremito, a parte qualche sparuta defezione durante l’intervallo, ed entusiasta ha decretato un successo memorabile all’esecuzione con lunghi convinti applausi e autentiche ovazioni per Fagioli e Ležneva.