Omero

Il ritorno d’Ulisse in patria

foto © Magali Dougados

Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria

Ginevra, Grand Théâtre, 27 febbraio 2023

★★★☆☆

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Penelope al terminal Arrivi

Nel 1637 apre il primo teatro pubblico al mondo: è il San Cassiano di Venezia dove chiunque, pagando un biglietto, può assistere a quegli spettacoli che solo fino a poco tempo prima erano appannaggio delle corti principesche. Nella stagione di Carnevale del 1639-40, sempre a Venezia al teatro dei santi Giovanni e Paolo, assieme alla ripresa della sua Arianna viene rappresentato Il ritorno d’Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. Sono passati trentadue anni dalla “favola in musica” de L’Orfeo e questo nuovo “dramma in musica” è tutta un’altra cosa: là c’era un lavoro ancora immerso nella tradizione di corte, qui abbiamo il culmine dell’evoluzione del “recitar cantando” con cui Monteverdi dà vita ai personaggi dei libri XIII-XXIV del secondo poema omerico. Bastano i momenti dell’incontro di Ulisse con Telemaco prima e con Penelope poi a far capire il grande cambiamento che è avvenuto sulla scena del teatro in musica. Con L’incoronazione di Poppea, la terza e ultima sua opera a noi giunta, sarà completata la genesi del melodramma, con il passaggio dalla musica rinascimentale a quella barocca, e si saranno toccati i vertici di questo nuovo genere..

Al Grand Théâtre di Ginevra il compositore cremonese è stato presente nelle ultime stagioni con L’Orfeo nel 2019-20 e con L’incoronazione di Poppea nel 2021-22, entrambe concertate da Iván Fischer, ma ora per concludere la trilogia monteverdiana è stato chiamato uno dei massimi esperti della musica barocca, Fabio Biondi, qui alla guida della sua Europa Galante. Biondi dichiara la sua particolare predilezione per Il ritorno d’Ulisse in patria: dissipato ogni possibile dubbio sulla autenticità della partitura e sulla qualità letteraria del libretto, l’efficacia e densità espressiva della musica qui sono ancora maggiori che nella Poppea, dice il Maestro che lavora su un’edizione fedele all’originale che però lascia ancora molto lavoro da fare all’esecutore. Dopo le prime versioni orchestrate in maniera opulenta, da opera del Settecento, con i nuovi interpreti – Curtis, Alessandrini, Dantone… – c’è più attenzione a preservare lo stile originale delle opere di Monteverdi: quando non c’è una precisa indicazione degli strumenti, come è il caso delle sue partiture, che riportano solo la riga del canto e quella del basso continuo o poco più, si può tendere ad arricchire la strumentazione in preda all’horror vacui e tradire così le intenzioni dell’autore e la prassi esecutiva dell’epoca.

La concertazione/ricostruzione di Fabio Biondi è caratterizzata da una «sobrietà dai mille colori», come Christopher Park intitola la sua intervista al Maestro riportata sul programma di sala. In tal modo viene preservato il declamato degli attori-cantanti, ossia la purezza e il senso del testo, essendo l’edonismo vocale e il fanatismo per i cantori ancora di là da venire. Questo però non vuol dire che non si riesca a far venire fuori i tesori nascosti nella partitura, come avviene qui con i perfetti equilibri sonori, i raffinati impasti strumentali, i colori suggeriti dagli strumenti antichi, i brillanti interventi solistici del Maestro al violino. L’attento tappeto sonoro del continuo è affidato ad arpa, clavicembalo, tiorba, viola da gamba, liuto e organo da camera, mentre gli altri archi, i legni e gli ottoni intervengono nei momenti drammatici, come nella estesa scena della carneficina dei Proci. Ma sovente è il silenzio a sottolineare i punti di tensione nella vicenda, come la sofferta agnizione di Ulisse da parte della «Troppo incredula! Ostinata troppo!» Penelope. Le sonorità scelte da Biondi tengono conto del teatro in cui l’opera è rappresentata: con i suoi 1500 posti e la sua architettura il Grand Théâtre non è una sala veneziana del Seicento con i suoi cinque o sei strumentisti! Ai ritornelli sono pertanto aggiunti i flauti a becco, gli dèi e i personaggi allegorici sono accompagnati da quattro tromboni barocchi, gli archi sono raddoppiati.

Nei tre livelli di canto richiesti dall’opera – il lirico, il recitativo, il declamato – è impegnato un cast di specialisti di qualità differenti. Nel ruolo del titolo il tenore inglese Mark Padmore sembra quello più in difficoltà: ferme restando le qualità interpretative di un cantante apprezzato soprattutto nel repertorio liederistico, la voce denuncia segni di stanchezza, le note non sono ferme, la linea di canto è  irregolare, frammentata, la dizione ai limiti dell’accettabile e la presenza scenica risente dell’età. Tutto questo è messo ancora più in evidenza da un trio di interpreti femminili di età diverse ma accomunate dall’eccellenza. Penelope trova nel contralto Sara Mingardo la dimensione perfetta, il timbro e il colore scuro della voce delineano in tutte le sue sfaccettature la dolente nobiltà del personaggio, la parola trova la sua massima realizzazione, come nel grande monologo del primo atto. Il mezzosoprano Giuseppina Bridelli rende con voce di grande proiezione, precise e sicure agilità e solenne presenza scenica il triplice ruolo di Fortuna, Giunone e Minerva. Nel breve ma intenso intervento di Euriclea, qui ancora più ridotto mancando quello del primo atto, Elena Zilio mette in luce la qualità di questa cantante che non intende invecchiare e che ogni volta fornisce una lezione di interpretazione. Il suo è un cammeo che illumina la scena per l’intensità espressiva e la solidità del mezzo vocale. Un momento difficile da dimenticare. Julieth Lozano, soprano, non vanta una grande proiezione vocale, tanto che anche la smilza compagine strumentale riesce a coprirne la voce a tratti, ma ha la sensualità giusta per impersonare Amore nel Prologo e poi Melanto, la ragazza che vive con grande intensità il suo turbamento amoroso per Eurimaco. Gloriosamente eroico è il Telemaco del tenore Jorge Navarro Colorado, timbro luminoso e sicurezza vocale esposte nei due monologhi del secondo e quarto atto. Nelle altri parti danno un valido contributo i tenori Mark Milhofer (gustoso Eumeo) e Omar Mancini (sensibile Eurimaco), il basso Jérome Varnier (Nettuno) e il tenore Danzil Delaere (Giove). I tre pretendenti hanno trovato nel basso William Meinert (Autorevole Antinoo e Tempo nel Prologo), nel tenore Sahy Ratia (Anfinomo) e nel controtenore Vince Yi (Pisandro) interpreti pienamente efficaci.

Un altro gruppo belga, dopo i Peeping Tom con la loro particolare versione della  Dido and Æneas di Purcell qui a Ginevra due anni fa, affronta una regia lirica: nel 2018 avevano messo in scena Les pêcheurs de perles all’Opera Vlaanderen, ora danno la loro lettura del lavoro di Monteverdi gli FC Bergman, conosciuti per il loro teatro anarchico e visionario.

Il collettivo di Anversa ha lasciato il teatro classico, impegnato sul testo, per passare al teatro visuale ed espressivo, un mondo di immagini più che di vera e propria drammaturgia. Ispirato dal senso di unità di una squadra di calcio (le iniziali FC stanno per Football Club) associato all’omaggio di un grande cineasta (Ingmar Bergman) morto il giorno stesso in cui cercavano un nome per il loro gruppo, Stef Arts, Marie Vinck, Thomas Verstraeten e Joé Agemans hanno all’inizio portato i loro spettacoli in spazi non consueti. Ora nel teatro ginevrino celebrano a loro modo la mitologia in cui è inserita la vicenda de Il ritorno d’Ulisse in patria, una mitologia che però si è allontanata dagli uomini. Infatti nello spettacolo gli dèi all’inizio non appaiono di persona, ma come elementi che reagiscono all’ambiente: Nettuno è un distributore d’acqua che parla a spruzzi, Giove una scatola di derivazione elettrica che emette fumo e scintille. Solo alla fine si presenteranno nei fantasiosi costumi di Mariel Manuel, ma sarà un po’ deludente. Siamo infatti nel terminal Arrivi di un moderno aeroporto, con il grande cartellone dei voli – qui bloccato sui nomi di Amore, Fato, Tempo – una veduta della spiaggia di Itaca, una scala mobile che conduce al piano superiore e file di sedili su cui sono accasciate tre donne in nero: Penelope, Euriclea e Melanto, quest’ultima però in un seducente négligé di seta per connotare immediatamente la sensualità della fanciulla. Sul nastro trasportatore delle valigie entra in scena Ulisse assieme al bagaglio dei suoi ricordi di viaggio – l’occhio di Polifemo, il pomo d’oro di Paride, la testa del cavallo di Troia… Vicino alla scala mobile vediamo una balla di fieno e una capra che scopriremo essere la fedele compagna di Eumeo – una pecora era stata la protagonista dello spettacolo dei FC Bergman ad Avignon due anni fa, The Sheep Song. Un altro animale in scena è il cavallo che riporta a Itaca Telemaco su un carro coloratissimo. Troppe bestie.

L’ambiente asettico dell’aeroporto si riempie così di elementi mitologici, di ricordi. Numerose sono le gag che i registi disseminano nella loro lettura, ma anche gli errori di drammaturgia, come lasciare i cadaveri dei Proci in bella vista per tutto il quinto atto dopo una scena in puro stile splatter con fiotti di sangue che hanno molto divertito parte del pubblico. La lettura di FC Bergman ha comunque una sua logica quando evidenzia il diverso rapporto tra le due coppie Melanto/Eurimaco e Penelope/Ulisse: la prima spinta dalle pulsioni erotiche della gioventù, la seconda tristemente invecchiata. Dopo vent’anni di assenza Penelope ed Ulisse hanno difficoltà a riprendere la loro intimità e lo happy ending finale intonato dalla musica e dalle voci qui è invece un triste epilogo in cui Penelope, che ha conosciuto la tentazione dei pretendenti, giovani, aitanti, che si presentano anche nudi per vincere la ritrosia della regina e dove la prova dell’arco è stata carica di tensione erotica, alla fine è quasi delusa del ritorno di uno sposo crudelmente invecchiato. Nel complesso però l’invenzione del collettivo belga manca di coerenza e accumula con anarchico disordine effetti che spesso contrastano fortemente con la musica. Un altro elemento a loro sfavore è il fatto che sia stata una loro richiesta quella di eliminare il personaggio di Iro e di tagliare alcune scene.

La ritrosia della capra a presentarsi nei saluti finali e un sipario che non si decideva a scendere hanno probabilmente allungato la durata degli applausi oltre le intenzioni del pubblico, che ha festeggiato comunque con molto calore gli interpreti vocali, soprattutto quelli femminili.

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Polifemo

 

Nicola Porpora, Polifemo

Bayreuth, Markgräfliche Opernhaus, 9 settembre 2021

(video streaming della versione per concerto)

Il rivale londinese di Händel e il suo Polifemo

Ultima delle cinque opere composte a Londra da Nicola Porpora, Polifemo andò in scena al King’s Theatre il 1° febbraio 1735 con un cast stellare: il Farinelli (Aci), il Senesino (Ulisse), la Cuzzoni (Galatea) e nel ruolo del titolo il basso veneziano Antonio Montagnana, già Polifemo nell’Acis and Galatea di Händel. I cantanti avevano lasciato la “seconda” Royal Academy of Music, fondata dal sassone dopo che la prima era fallita nonostante il supporto finanziario del re Giorgio I. I costi esorbitanti dei cantanti e il cambiamento dei gusti del pubblico erano alla base di queste trasformazioni. Una compagnia rivale raccolse tutti i cantanti transfughi e Porpora fu invitato a scrivere per questa nuova Opera of the Nobility con sede il teatro di Lincoln’s Inn Fields, e il suo primo lavoro fu Arianna in Naxo. Il Polifemo ebbe undici repliche nella versione originale e tre nella nuova versione che inaugurò la stagione d’autunno. La seconda versione si caratterizza soprattutto dal taglio dei numeri di Nerea e per molti cambiamenti alla parte di Aci.

Il libretto di Paolo Rolli mescola le vicende mitologiche dell’uccisione di Aci, che viene così trasformato in fonte (Le metamorfosi, libro XIII) con quelle omeriche di Ulisse che acceca il ciclope (Odissea, libro IX).

Atto primo. Scena 1: Un mare calmo sulla costa siciliana, in vista dell’Etna. Il coro canta di due dee. Galatea e Calipso si lamentano di essersi innamorate dei mortali. Mentre il coro loda l’amore, Calipso se ne va. Scena 2: Il tentativo di uscita di Galatea è interrotto da Polifemo. Egli desidera Galatea e si chiede perché lei non sia impressionata dal suo pedigree (è il figlio di Nettuno) o dalla sua forza sovrumana. Galatea afferma che non può amarlo. Polifemo risponde che le fiamme nel suo cuore sono più grandi di quelle dell’Etna. Conoscendo la sua tendenza all’ira e al furore, Galatea vorrebbe che lui capisse che lei si è innamorata del mortale Aci. Scena 3: Si vedono in lontananza le navi di Ulisse; Ulisse sbarca con il suo seguito da una delle navi e viene accolto da Aci. Dopo un lungo e faticoso viaggio, Ulisse è felice di essere approdato e vede una grotta che gli servirà da alloggio adeguato. Aci mette in guardia Ulisse da Polifemo. il ciclope gigante che terrorizza le persone, uccidendole e divorandole. Aci spiega che conosce la routine del gigante e che è riuscito ad evitarlo. Esorta Ulisse ad andarsene. Ma Ulisse vuole vedere prima il gigante; spiega la sua mancanza di paura. Aci pensa che il coraggio di Ulisse è quello che può sconfiggere Polifemo. Poi vede Galatea, il suo amore, avvicinarsi su una nave. Scena 4. Un’altra parte del litorale con casette di pescatori. Calipso, travestita da pescatrice, incontra Ulisse. Egli è preso dalla sua bellezza, mentre lei gli assicura la sicurezza. Scena 5. Entra Polifemo e si diverte a trovare Ulisse pronto alla battaglia. Riconoscendo il suo eroismo, Polifemo si impegna a proteggere Ulisse e i suoi uomini, cosa che Ulisse accetta con diffidenza ma rimane in guardia. Scena 6. In un boschetto, Galatea è felice di essere con Aci ma si meraviglia della mancanza di preoccupazione di Aci per Polifemo. Aci risponde che non ha paura del gigante. Galatea promette di visitare di nuovo il boschetto ma deve andarsene a causa dell’avvicinarsi di Polifemo. Aci risponde che la sua presenza gli dà gioia. Lui se ne va e Galatea si chiede cosa penseranno le altre ninfe del mare della sua relazione con un mortale, sebbene lei lo ami.
Atto secondo. Scena 1. Calipso riflette sulle implicazioni del suo amore con un mortale. (Nella prima versione Nerea incoraggia Calipso a usare il suo fascino nel placare Polifemo per liberare Ulisse dalla grotta dove lui e i suoi uomini nno trovato rifugio. Scena 2. Ulisse si avvicina con un gregge e dice a Calipso che Polifemo gli ha dato dei compiti da pastore e che i suoi uomini sono tenuti prigionieri in una grotta. Spiega che sono prigionieri fino al ritorno degli schiavi di Polifemo con dei regali. Se gli schiavi non hanno portato regali a Polifemo, allora lui li divorerà. Calipso gli dice di non preoccuparsi perché gli dei sono dalla sua parte. Ulisse osserva la sua gentilezza. Scena 3. Aci si crogiola nella sua infatuazione per Galatea. Scena 4. Una vista sul mare. Preparandosi ad incontrare Polifemo, Galatea naviga nella sua conchiglia, incoraggiando le brezze a portarla da Ulisse. Polifemo la intercetta e le chiede perché preferisca un ragazzo ai suoi attributi. Lei lo rifiuta e Polifemo giura vendetta su Aci. Galatea continua a supplicare le brezze di portarla da Aci. Scena 5. Aci e Galatea. Aci incoraggia gli amorini a portare Galatea al sicuro a riva. Aci e Galatea hanno uno scambio concitato in cui rivelano il loro amore reciproco. Galatea dice ad Aci di incontrarla più tardi in una grotta e Aci promette di farlo, la sua passione per Galatea vince le sue paure. Galatea è colpita da Aci e desidera che tutte le sue speranze siano vere. Scena 6. Ulisse si sveglia e trova Calipso che gli spiega chi è lei. Lei gli promette sicurezza se lui le darà il suo cuore e lo avverte che gli schiavi stanno portando regali a Polifemo. Ulisse, felicissimo, canta dell’immortale bellezza. Scena 7. Un boschetto. Aci e Galatea esprimono il loro amore nonostante i sentimenti di paura.
Atto terzo. Scena 1. Una roccia vicino all’Etna, ai cui piedi, in un ombroso pergolato, si trovano Aci e Galatea. Polifemo ammonisce Galatea. Sarebbe stato volentieri una ninfa delle acque per stare con lei. Ma è più potente di Giove e si vendicherà per il suo rifiuto. Getta un sasso e uccide Aci. Scena 2. Galatea piange Aci. Scena 3. Grotta di Polifemo. Ulisse e Calipso si preparano a incontrare Polifemo. Ulisse si chiede perché lei lo aiuta. Calipso spiega che le sue precedenti azioni eroiche l’hanno spinta ad aiutarlo. Lei diventa invisibile mentre Polifemo entra, esultante per aver ottenuto la vendetta. Ulisse gli offre del vino dell’Etna. Polifemo beve e si addormenta. Ulisse prende un tronco ardente e lo conficca nell’occhio di Polifemo ed esulta per averlo vinto. Calipso si rallegra nel vedere Ulisse battere Polifemo. Scena 4. Il sasso caduto su Aci. Galatea è felice che Polifemo sia stato sconfitto, ma implora Giove di restituire Aci alla vita. Scena 5. La roccia si apre e sgorga un ruscello. Aci, ora dio del ruscello, regge un’urna. Sia Aci che Galatea ringraziano Giove per avergli ridato la vita. Scena 6. Ormai cieco, Polifemo vaga per l’isola senza meta. Aci dice a Polifemo che Giove si è vendicato per averlo ucciso. Polifemo riconosce di essere consumato dalla rabbia. Scena 7. Ulisse elogia le ninfe e tutto ciò che lo circonda. Tutti cantano un coro all’amore.

I 29 numeri che compongono l’opera dimostrano la grande libertà del compositore nell’affrontare e scomporre le forme tradizionali facendo ad esempio diventare l’aria con da capo una struttura drammaturgica complessa: alla cavatina di Galatea «Placidetti zeffiretti» (n° 15, scena 4 dell’atto secondo) dopo il recitativo con Polifemo Aci risponde con «Amoretti vezzosetti» (n° 15bis) sulla stessa musica, come se fosse la ripresa dell’aria precedente. L’opera è poi piena di recitativi accompagnati, quasi degli ariosi.

L’aria «Alto Giove», inserita nel film Farinelli (1994), ha rinnovato l’interesse per il Polifemo di Porpora che è stato messo in scena nel 2013 dalla Parnassus Arts al Theater an der Wien mentre una rappresentazione semi-scenica si è avuta al festival di Salisburgo nel 2019. Ora Max-Emanuel Čencić, autore di molte riproposte dei lavori di Porpora, produce questa versione per il Bayreuth Baroque Opera Festival di cui è direttore. Alla direzione dell’ensemble Armonia Atenea il suo direttore artistico George Petrou che esalta i colori e le bellezze strumentali della partitura ma procede a tagli non molto giustificati da un’esecuzione in forma di concerto. Decimati i recitativi, sono eliminate anche alcune riprese dei cori e intere arie, come quella di Calipso e di Aci nel primo atto, ancora di Calipso nel secondo e di Nerea nel terzo. Particolarmente brutto il taglio del recitativo di Polifemo all’inizio del terzo atto quando scaglia il masso sulla coppia di amanti uccidendo Aci: in quei versi il librettista si premura di quasi citare quelli delle Metamorfosi di Ovidio come a ribadirne la nobile parentela.

Un cast di specialisti è quello che vediamo calcare il palcoscenico del meraviglioso Margräflisches Opernhaus. Nonostante il titolo è Galatea il personaggio che ha più numeri solistici per sé: ben sette, contro i sei di Aci e i cinque di Ulisse. Il soprano Julija Ležneva affronta con agio la parte e al termine delle sezioni delle sue arie si sfoga con lunghe e complesse cadenze perfettamente eseguite anche se forse con qualche libertà stilistica. L’innamorato pastore Aci trova nel controtenore Yuriy Mynenko una voce di grande bellezza e purezza di emissione, meno eroica di quello che ci si potrebbe aspettare, soprattutto nell’aria «Nell’attendere il mio bene», con un marziale accompagnamento di trombe e corni, che Cecilia Bartoli in concerto rende in maniera più “virile”…

Max-Emanuel Čencić riserva per sé la parte un po’ meno virtuosistica di Ulisse che risolve al solito con grande classe. Le due ninfe Calipso e Nerea hanno nel mezzosoprano Sonja Runje e nel soprano Rinnat Moriah appropriate interpreti. E infine Polifemo, che ha soltanto due arie solistiche, ma che è il personaggio più complesso e meglio costruito da librettista e compositore, e qui il baritono Pavel Kudinov si cala con autorevolezza nei panni dell’arrogante ciclope crudelmente punito. Gli altri personaggi sono impegnati anche in pezzi di insieme come il duetto «Vo presagendo» di Calipso e Galatea nel primo atto, il duetto Aci/Galatea con cui si conclude gloriosamente l’atto secondo e il terzetto finale dell’opera con Galatea, Aci e Ulisse inneggianti all’amore: «Ah senz’amor | mai, non v’ha | un bel contento».

Idomeneo

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★☆☆☆

Monaco, Prinzregententheater, 24 luglio 2021

(video streaming)

Migliorare Mozart?

240 anni dopo Idomeneo ritorna nel teatro in cui era nato nel gennaio 1781, ma quello che conclude il Festival dell’Opera di Monaco è una versione diversa dal solito: è infatti presunzione del direttore Constantinos Carydis e del regista Antú Romero Nunes che la drammaturgia di Mozart abbia bisogno di un aggiornamento, ecco dunque i recitativi decimati e nuove musiche introdotte.

I recitativi tagliati rendono talora incomprensibile la vicenda: ad esempio il primo coro dei prigionieri ai quali Idamante fa levare le catene, senza il recitativo che lo precede sembra il festante giubilo di sfaccendati con le mani in tasca tra i quali piroettano due ballerine. Ma c’è da dire che in mancanza di una vera regia tutti gli interventi del coro sono ugualmente statici e intercambiabili. Tagliati sono anche gli interventi solistici che li punteggiano. Per contro, come se la drammaturgia dell’Idomeneo ne avesse bisogno, vengono aggiunti pezzi estranei alla partitura: l’aria da concerto Ch’io mi scordi di te. Non temer, amato bene (scena con rondò) e la Fantasia in re per pianoforte.

L’elemento visivo della produzione si affida all’artista Phyllida Barlow, che per la prima volta porta in scena le sue sculture: strutture ferrose, formazioni rocciose, corrosi frutti della combinazione tra la tecnologia umana e la forza della natura – pezzi di una piattaforma petrolifera abbandonata, un molo arrugginito, resti di imbarcazioni spiaggiate nel letto dell’ex lago Aral, uno dei maggiori disastri ecologici degli anni decenni. Un ambiente post-catastrofe e un mare orribilmente inquinato è quanto ci suggerisce l’artista inglese con le sue enormi e pesanti strutture che una folla di figuranti sposta in continuazione.

Alla guida della Bayerische Staatsorchester la direzione di Constantinos Carydis risulta molto discontinua: a pagine che sarebbe eufemistico definire “trattenute” e a tempi “moderati” si alternano lancinanti scoppi sonori, nei timpani e negli ottoni soprattutto. Strumenti quali lo Hammerklavier, la chitarra barocca, l’organo positivo danno il colore o accompagnano i recitativi rimasti.

Matthew Polenzani, indimenticabile Don Ottavio, affronta la parte di Idomeneo, che non è proprio la stessa cosa. La voce è chiarissima ed esile fin quasi all’inconsistenza e anche le agilità di «Fuor del mare» non hanno la sicurezza necessaria. Come per tutti gli altri, la mancanza di chiare indicazioni sceniche rende il personaggio scialbo. Olga Kulchynska è una sensibile Ilia non sempre a suo agio nella tessitura. L’Idamante di Emily D’Angelo ha bella presenza ma la voce manca di colore. Hanna-Elisabeth Müller sarebbe una giusta Elettra se il timbro fosse un po’ meno metallico e l’espressione più controllata. Meglio l’Arbace di Martin Mitterrutzner, qui gratificato di tutte e due le arie, mentre Callum Thorpe presta la voce all’Oracolo e Caspar Singh si cala nolente nei panni del Gran sacerdote di Nettuno. Per tutti c’è il problema di una dizione non chiara che quasi non fa capire le parole: l’assenza di un interprete italiano si fa sentire molto.

La totale mancanza di una regia dei personaggi, che non fanno altro che passeggiare in lungo e in largo sul palcoscenico, viene “compensata” con gli interventi coreografici non memorabile di Dustin Klein dai movimenti che seguono fedelmente i suoni ma non aggiungono nulla alla drammaturgia.

L’ultima aria di Idomeneo è interrotta dopo i primi due versi «Torna la pace al core | torna lo spento ardore»: gli archi che inizialmente lo accompagnavano abbandonano la scena, lo lasciano solo e attacca subito il coro festoso e il balletto (qui coloratissimo) del finale: Polenzani seduto su una cassa con una lattina di birra in mano e sgranocchiando un panino li osserva perplesso – proprio come noi spettatori.

Il ritorno d’Ulisse in patria

crédit photos © Michele Monasta – Teatro del Maggio

Claudio Monteverdi, Le retour d’Ulysse dans sa patrie

★★★★★

Florence, Teatro della Pergola, 30 juin 2021

 Qui la versione italiana

Ottavio Dantone et Robert Carsen présentent le premier «opéra moderne»

Trente-trois ans s’étaient écoulés depuis que Claudio Monteverdi avait scellé la naissance du « théâtre dramatique chanté », que les académiciens florentins considéraient comme l’équivalent du théâtre grec antique : chant, déclamation, moments parlés et dansés. Le texte constituait le premier plan et un continuoinstrumental, ou basse « chiffrée », c’est-à-dire écrite, servait d’accompagnement. Les accords et les détails de l’instrumentation étaient laissés à la créativité des musiciens : seuls les « symphonies », les interludes et la musique des danses étaient écrits. C’était par example le cas pour L’Orfeo de 1607, créé à la cour des Gonzague à Mantoue…

la suite sur premiereloge-opera.com

Il ritorno d’Ulisse in patria

fotografie © Michele Monasta – Teatro del Maggio

Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria

★★★★★

Firenze, Teatro della Pergola, 30 giugno 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Dantone e Carsen portano a Firenze la prima “opera moderna”

Erano passati 33 anni da quando Claudio Monteverdi aveva posto il suo sigillo sulla nascita del teatro drammatico cantato, quello che gli accademici fiorentini pensavano fosse la realtà del teatro greco antico: canto, declamazione intonata, momenti parlati e ballati. Il testo era in primo piano e un “continuo” strumentale, o basso “figurato” ossia scritto, faceva da accompagnamento. Gli accordi e i dettagli della strumentazione erano lasciati alla creatività dei virtuosi: solo le “sinfonie”, gli interludi e le musiche per i balli venivano messi nero su bianco. Così era stato per L’Orfeo del 1607, creato e allestito per una corte, quella mantovana dei Gonzaga

Ma ora Monteverdi era a Venezia: tre anni prima era stato aperto il primo teatro pubblico, il San Cassiano, e altri erano seguiti alimentando la richiesta di drammi nuovi. Il ritorno d’Ulisse in patria nasceva quindi per un pubblico vero, quello del Teatro dei SS. Giovanni e Paolo, e quella recita del carnevale 1640-41 fu la prima di una serie di repliche riproposte eccezionalmente anche l’anno seguente a dimostrazione del favore indiscusso di cui godeva Monteverdi, non più solo venerato maestro di cappella a San Marco e autore di madrigali, ma anche rinomato compositore d’opere.

Nel Ritorno d’Ulisse in patria il compositore sperimentava un nuovo stile in cui  ancora non si configurano recitativo e aria – saranno la base dell’opera barocca italiana – e l’espressione è il risultato di un continuum declamatatorio con personaggi caratterizzati da uno stile vocale personale e incisivo. Dopo la pastorale de L’Orfeo – e in mancanza delle opere seguenti andate perdute o rimaste in frammenti: l’Arianna, l’Andromeda, la Proserpina rapita, Le nozze d’Enea con Lavinia ecc. – questa può essere considerata la prima vera opera moderna, in quanto «incarna perfettamente il passaggio verso una nuova concezione del teatro: l’equilibrio tra recitar cantando e ariosi, tra forme chiuse e parti strumentali è mirabile e l’espressione degli affetti è pensata per coinvolgere un pubblico ampio» afferma Ottavio Dantone intervistato da Mattia L. Palma su Cultweek.

Nel libretto di Iacopo Badoer (o Badoaro), a cui sembra abbia messo mano anche il compositore, il genere umano è un fragile trastullo nelle mani degli dèi: «Credere a ciechi e zoppi è cosa vana» si lamenta nel prologo l’Humana fragilità riferendosi a Fortuna, Amore e Tempo. Ma la perseveranza e la forza dell’amore sulle avversità alla fine saranno premiate e il lungo errare di Ulisse, vittima dell’ira di Nettuno, avrà termine: grazie all’aiuto di Minerva e all’intercessione di Giove l’eroe, ritornato finalmente in patria, riconquista il trono e la fedele consorte.

La realizzazione musicale di un’opera come questa è impresa non da poco. Ottavio Dantone non dirige soltanto, ricrea i suoni che erano nella mente di Monteverdi: «nonostante dia pochissime indicazioni di organico, di strumentazione e di dinamica, che in pratica sono assenti, come i numeri per l’armonizzazione del basso, basta studiare con attenzione il modo in cui Monteverdi accosta le parole e la musica» continua Dantone, che considera Il ritorno d’Ulisse in patria la sua opera più bella, perché è l’unica completamente di sua mano, piena di figurazioni raffinate, madrigalismi per imitare la realtà ed efficaci contrasti vocali per differenziare i tanti personaggi.

Il difficile equilibrio tra quanto è solo scritto e quanto deve essere liberamente “improvvisato” è realizzato con sapienza e gusto da Dantone, che inserisce momenti musicali mancanti come quello dell’ingresso del pastore Eumete, musica ispirata a una pastorale secentesca, o la grandiosa sinfonia che nello spettacolo accompagna il solenne ingresso degli dèi in sala. L’alternarsi di momenti lirici e drammatici porta a una varietà di suoni e colori che gli strumentisti dell’Accademia Bizantina dipanano con consapevolezza ed eleganza, arrivando a effetti di sorprendente modernità come quelli di suspense della prova dell’arco.

Nella realizzazione del recitar cantando viene impiegato un cast di specialisti di altissimo livello. Charles Workman è un Ulisse che si trasforma, fedele alla sua fama, da vecchio ad aitante eroe e qui sfoggia la sua innata eleganza, un’ottima dizione e una sorprendente proiezione della voce, esaltata dalla magnifica acustica dello storico teatro fiorentino. Commovente è il suo duetto con Telemaco, qui Anicio Zorzi Giustiniani dal bel timbro chiaro e dalla sicura vocalità. Delphine Galou è una Penelope tratteggiata con misurata sobrietà, forse troppa, in cui mancano di evidenza la regalità del personaggio e il tormento della sposa in attesa. Ineccepibili comunque sono come sempre fraseggio e recitazione. La presenza scenica di certo non manca all’Iro di John Daszak e al Giove di Gianluca Margheri. Affascinante e vocalmente preziosa la Minerva di Arianna Venditelli e autorevole la Giunone di Marina de Liso. Guido Loconsolo presta il suo bel registro profondo al risentito Nettuno. Il controtenore Konstantin Derri è Amore mentre Francesco Milanese ed Eleonora Bellocci, rispettivamente il Tempo e la Fortuna, completano il trio degli dèi motori della vicenda. Vivaci e di concreta presenza vocale i Proci: il basso Andrea Patucelli (Antinoo), il tenore Pierre-Antoine Chaumien (Anfinomo) e il controtenore James Hall (Pisandro). Nella coppia Melanto-Eurimaco, gli amanti appassionati che si contrappongono alla compostezza dei coniugi Penelope-Ulisse, si distinguono Miriam Albano e Hugo Hymas. Mark Milhofer dà corposa evidenza al carattere del pastore Eumete, mentre Natascha Petrinsky è la trepida nutrice Ericlea.

L’aspetto visivo dello spettacolo è affidato a uno dei maggiori metteurs en scène contemporanei, Robert Carsen, che con le scene di Radu Boruzescu, le luci di Peter van Praet e i costumi di Luis Carvalho allestisce uno spettacolo all’altezza di quello a cui ci ha da sempre abituato il regista canadese. Nella sua lettura l’elemento principale è il conflitto tra dèi e umani, a cominciare dagli abiti: i primi vestono costumi d’epoca sontuosissimi che sembrano realizzati col velluto rosso e l’oro del sipario del teatro, i secondi invece abiti contemporanei – uniforme militare per Ulisse, outfit sobri e scuri per Penelope, completi cafonal per i Proci e Iro. Nel prologo l’Humana fragilità è ripartita su tre cantanti che si affacciano dai palchi (sì, siamo noi), sbeffeggati dai tre dèi davanti al sipario: «Il Tempo ch’affretta, Fortuna ch’alletta, Amor che saetta, pietate non ha. Fragile, misero, torbido, quest’huom sarà». Gli altri dèi olimpici entreranno poi dal fondo della platea e passando tra le poltrone distanziate saliranno sui palchi realizzati nel fondo della scena che ricrea fedelmente a specchio la sala del teatro. Brindando e intrattenendosi amabilmente assisteranno alle vicende umane, su cui interferiranno pesantemente, per poi lasciare i palchi dopo la strage dei Proci. Ora il loro intervento non è più necessario: per l’umanissimo e toccante incontro di Ulisse con la sua sposa basta il pubblico vero, noi. Commossi e plaudenti.

Idomeneo

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★★★★

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2005

(registrazione video)

Tempesta di mare alla prima della Scala

«Perplessità sulla regia», «Dissensi sull’allestimento», riportano i cronisti. E grazie, inaugurare la stagione del “Tempio della Lirica” con Mozart e con un allestimento problematicamente moderno! La prima Prima di Stéphane Lissner alla Scala non lascia gli animi indifferenti.

Nella regia di Luc Bondy ce n’è da far imbestialire i melomani che al minimo avviso di abiti contemporanei gridano alla blasfemia. Che poi la sua lettura non dia atto a particolari scandali poco importa, il pubblico ha elogiato con unanimità la parte musicale e si è diviso su quella visiva.

«L’Idomeneo è, a tutti gli effetti, per l’epoca in cui fu composto, un ponte sull’immediato futuro del teatro d’opera, ricco di sperimentale e naturale immediatezza. A questa concezione sembra credere il debuttante direttore inglese Daniel Harding che apre con successo la stagione scaligera con una idea chiara, senza tentennamenti, relativa all’umanità dei personaggi. Spariscono l’enfasi, l’eroismo ridondante, la maestosità di cartapesta per far posto alla dolcezza di due innamorati, Ilia e Idamante, a un padre che ha fatto il suo tempo, punito per non aver avuto il coraggio di sacrificare il figlio e a una donna appassionata, figlia di re e divorata da una drammatica gelosia. Una tensione espressiva, una inquietudine onnipresente, i tempi prevalentemente rapidi a scapito di un eccessivo spazio dedicato al lirismo, una impressionante varietà di colori orchestrali hanno imbevuto tutta questa meticolosa interpretazione, che tra l’altro si è avvalsa appropriatamente di un organico orchestrale ridotto […] con una ricerca timbrica, un po’ “secca”, che si traduceva in una esemplare trasparenza degli archi, lancinanti nei disegni discendenti» scrive Ugo Malasoma sulla direzione di Harding.

 

A proposito del cast ecco cosa scrive invece Stefano Jacini: «La migliore è sembrata Camilla Tilling (Ilia), per voce e presenza scenica, impeccabile nelle tre arie, specie “Zeffiretti lusinghieri”, identificati con bella invenzione registica coi biglietti amorosi trasportati dal vento che scrive a Idamante. Quest’ultimo (l’ottima Monica Bacelli, l’unica non esordiente alla Scala) è vestito da yacht-man con tanto di sacco da velista sulle spalle quando sta per partire con Elettra. Nei panni di costei è l’autorevole Emma Bell che, pur talvolta con dizione imprecisa, dà il meglio nel recitativo “Oh smania! Oh furie” e nella successiva aria, la più applaudita, dove trasforma il gorgheggio in un agghiacciante grido di follia. Steve Davislim è un Idomeneo prestante, sempre controllatissimo (ha dalla sua un timbro leggermente scuro, adatto alla parte), e supera con disinvoltura la grande prova di “Fuor del mar”. Efficace Francesco Meli come Arbace, con zucchetto turco e occhialini, pur privato dell’aria nel secondo atto si rifà ampiamente nel terzo».

La scenografia di Erich Wonder prevede un fondale dipinto che scorre con continuità per mostrare minacciosi paesaggi marini mentre i costumi di Rudy Sabounghi e la regia attoriale di Luc Bondy danno il tocco di modernità alla vicenda: «Come avveniva nel Settecento, l’epoca nostra può dunque tornare al mito antico nell’identico tentativo di lumeggiare fondamenti etici e civili utili a un confuso presente. E con ciò, senza forzatura alcuna ma anzi con la sublime semplicità delle cose ovvie, arriviamo direttamente al cuore della drammaturgia dell’opera. L’intero spettacolo, Bondy lo scandisce con un’asciuttezza sorprendente entro la quale i piccoli, continui gesti richiesti alla recitazione possiedono la portentosa verità della poesia: che in quanto tale aderisce come un guanto alla musica» è l’autorevole giudizio di Elvio Giudici.

 

King Priam

★★★☆☆

«Che il destino ci conceda di non deviare mai il nostro orecchio interno dalle labbra della nostra anima» (1)

Assieme a Benjamin Britten, Michael Kemp Tippett, nato nel 1905 a Londra e ivi morto nel 1998, è stato considerato a suo tempo uno dei più eminenti compositori inglesi del ventesimo secolo.

Iniziata l’attività compositiva relativamente tardi, i suoi primi lavori avevano un carattere lirico che col tempo, influenzato dal jazz, cambiò provocando qualche riserva nella critica che con lui non è mai stata molto benevola. Non del tutto assente dal giudizio il fatto che si fosse iscritto al partito comunista negli anni ’30, che fosse omosessuale e pacifista. Il centenario della sua nascita non è stato quasi ricordato nel suo paese natale e la sua musica è sempre meno eseguita.

King Priam è la sua seconda opera. Su libretto proprio, è stata eseguita la prima volta il 29 maggio 1962 nella Cattedrale di Coventry ricostruita dopo i furiosi bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Nella stessa cattedrale il giorno seguente Benjamin Britten eseguì il suo War Requiem. Il 5 giugno King Priam veniva presentato al Covent Garden.

Influenzato dal teatro epico di Brecht, l’opera si sviluppa come una sequenza di scene collegate da interludi in cui il coro e personaggi secondari commentano l’azione e narrano fatti esterni. Il compositore sceglie un materiale mitologico famigliare al pubblico, l’Iliade di Omero, concentrando l’azione sul personaggio del re Priamo, combattuto fra il senso di responsabilità verso il suo popolo, incarnato dal figlio Ettore, e l’amore per il figlio Paride che segue il proprio impulso passionale. «Allo stesso modo, si ripartiscono scelte e destini anche i tre personaggi femminili: la madre Ecuba e la moglie di Ettore Andromaca da una parte, e la figlia di Zeus, Elena, dall’altra. La divisione nella famiglia reale troiana è inevitabile: all’inizio del secondo atto Ettore e Paride litigano aspramente, e simmetricamente all’inizio del terzo Andromaca e Ecuba sfogano la propria inquietudine contro Elena che, in uno dei rari momenti in cui si esprime, rivendica la sua natura divina. Strumento del compimento del fato diviene il campione del campo greco, Achille, che, uccidendo Ettore per vendicare l’amico Patroclo, innesca il meccanismo ineluttabile della tragica vicenda. I due nemici, Priamo e Achille, si incontrano per lo scambio dei corpi nella scena più umanamente toccante dell’opera». (Oreste Bossini)

Atto I. L’opera inizia subito dopo la nascita di Paride, quando un vecchio profetizza che il bambino crescerà per causare la morte di suo padre. La regina Ecuba dichiara senza esitazione che suo figlio deve essere ucciso. Priamo esita, ma riflette: «Cosa significa una vita quando la scelta coinvolge un’intera città?» e dà il bambino a una Giovane guardia per essere abbandonato su una montagna. Lasciati soli, il Vecchio, la Giovane guardia e la Nutrice discutono della scelta di Priamo. Questi tre personaggi torneranno in tutta l’opera per commentare l’azione dalle loro diverse prospettive. Percependo i veri sentimenti di Priamo, il Giovane non uccide il bambino, ma lo dà ai pastori per farlo crescere come loro. Anni dopo, Priamo sta cacciando sulla montagna con il figlio maggiore, Ettore. Ettore tenta di sottomettere un toro selvaggio, ma uno strano bambino balza sulla schiena e si allontana. Il bambino ritorna, chiede di unirsi a Hector tra gli eroi di Troia e dice che si chiama Paride. Priamo è pieno di gioia per aver esaudito il suo desiderio segreto, e dà il benvenuto a Paride a Troia come suo principe, qualunque ne siano le conseguenze. La Nutrice, il Vecchio e il Giovane interpretano questa decisone come un nefasto presagio, ma vengono interrotti dagli invitati alla festa di matrimonio di Ettore e Andromaca. Gli ospiti spettegolano sul fatto che Ettore e Paride non siano mai diventati amici e che Paride abbia lasciato Troia per la corte di Menelao a Sparta. A Sparta, Paride ed Elena sono diventati amanti. Paride si chiede se c’è qualche possibilità di scelta nella vita, poiché si sente attratto verso Helen da una forza maggiore di sé stesso. «O Gods, why give us bodies with such power of love if love’s a crime? Is there a choice at all? … Is there a choice at all?» (2). Come per rispondere alla sua domanda, appare il dio Hermes e lo fa scegliere tra tre dee: Atena, Era e Afrodite, i cui ruoli sono cantati da Ecuba, Andromaca ed Elena. Atena/Hecuba gli offre la gloria in guerra, Hera/Andromaca offre la pace domestica, ma Afrodite/Elena dice semplicemente il suo nome e risponde con il suo, la sua scelta fatta inconsciamente. Le altre due dee lo maledicono, predicendo il destino che porterà a Troia.
Atto II. Troia è sotto assedio. In città, Ettore accusa Paride di vigliaccheria per essere scappato da Menelao in battaglia. Rimproverati da Priamo, i fratelli tornano insieme alla lotta. Il Vecchio, spaventato per Troia, chiama Hermes e chiede di far vedere Achille, eroe dei Greci. Achille si è ritirato dalla battaglia e la scena nella sua tenda è pacifica, mentre canta al suo amico Patroclo una canzone lirica della loro casa accompagnata da chitarra solista. Ma Patroclo si vergogna che Achille non combatterà e chiede di poter entrare in battaglia indossando l’armatura di Achille, in modo che i Greci possano sperare alla vista del loro più grande guerriero. Achille è d’accordo e offre una libagione agli dei per la sicurezza di Patroclo. Guardando invisibilmente sotto la protezione di Hermes, il Vecchio implora il dio di avvertire Priam del pericolo, ma a Troia Paride sta già annunciando al re che Ettore ha ucciso Patroclo in un singolo combattimento. Padre e figli cantano un trio di ringraziamenti per la vittoria, ma sono interrotti dal suono agghiacciante del grido di guerra di Achille, ripreso ed echeggiato dall’esercito greco. Il più grande guerriero della Grecia è tornato sul campo come una belva furiosa.
Atto III. Andromaca aspetta suo marito nella camera da letto. Ricorda con terrore il giorno in cui Achille ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. La regina Ecuba entra e le dice di salvare Ettore andando alle mura di Troia e chiamarlo fuori dalla battaglia. Andromache rifiuta, chiedendo perché Priamo non metta fine alla guerra restituendo Elena sottratta a suo marito. Ecuba si fa beffe del fatto che nessuna guerra è stata combattuta per una donna: Elena può essere il pretesto, ma la grande città di Troia è il vero premio del greco. Elena stessa ora entra e Andromaca si sfoga con una raffica di insulti. Elena risponde con un’aria virtuosa sostenendo che la passione erotica è maggiore della morale o della politica, che il suo amore «tocca il Cielo, perché si estende all’inferno». Non trovando conforto nella sorellanza, le tre donne fanno preghiere separate, ognuna per la dea che ha rappresentato nel primo atto. Elena ed Ecuba vanno e una schiava entra per chiedere se deve accendere il fuoco per il bagno serale di Ettore. Negando la sua istintiva conoscenza della sua morte, Andromaca risponde «Sì … sì», ma la schiava fa eco beffardamente «No … no», poiché i domestici sono i primi a sentire tutte le cattive notizie. Andromaca si dispera e la schiava è affiancata da un coro di schiavi che commentano cinicamente: «Potremmo anche raccontare la storia, la storia patetica dei nostri padroni, vista dal corridoio». Paride porta a Re Priamo la notizia della morte di Ettore. Priamo maledice suo figlio sopravvissuto, desiderandolo anche lui morto, e Paride se ne va, giurando di non tornare fino a quando non avrà ucciso Achille per vendetta. Da solo, Priamo lamenta che il Vecchio anni fa parlasse solo della propria morte, non di quella di Ettore. Il Vecchio, il Giovane e la Nutrice appaiono e interrogano il re: «Un figlio che vive per la morte dell’altro, è questa la legge della vita che preferisci?» Priamo tenta debolmente di rispondere «Sì … sì», ma un coro invisibile risponde «No … no»: la risposta del suo cuore. Hermes guida Priamo alla tenda di Achille. Priamo bacia le mani di Achille, «le mani di colui che ha ucciso mio figlio» e chiede di ricevere il corpo di Ettore per la sepoltura. Achille è d’accordo, e i due immaginano le loro stesse morti: Achille ucciso da Paride, e Priamo da Neottolemo, il figlio di Achille. Troia è in rovina. Priamo si rifiuta di lasciare la sua città, e uno alla volta la sua famiglia lo lascia. Il suo ultimo addio è con Elena, a cui parla dolcemente. C’è un momento di quiete prima che il figlio di Achille sembri scoccare il colpo mortale e Hermes, il dramma finito, parte per l’Olimpo.

Una fanfara guerresca con coro vocalizzante introduce la prima scena con brusca immediatezza. L’orchestra propone idee musicali che si scontrano: non ci sono temi melodici che si sviluppano, ma gesti forti che si sovrappongono. Del tutto differente dalla sua prima opera The Midsummer Marriage, di grande ricchezza armonica e melodica, qui il linguaggio è atonale e brusco, le armonie scarnificate, i colori strumentali netti – gli strumenti sono spesso usati da soli, soprattutto il pianoforte e la chitarra – e il canto è declamato, poco più che un parlato intonato con rari tocchi di lirismo e qualche ancora più raro vocalizzo.

Questa del 1985 è una produzione televisiva firmata da Nicholas Hytner con la direzione musicale di Roger Norrington alla guida della Kent Opera Chorus and Orchestra. Registrata in studio è ambientata in una casa mezza diroccata per la reggia di  Menelao e in un tripudio di teli bianchi per la tenda di Achille. Pulita e lineare la regia di Hytner ed efficaci gli interpreti, non molto conosciuti. Ricordiamo almeno quello del protagonista eponimo, il baritono neozelandese Rodney Macann.

(1) Epigrafe sulla partitura dell’opera scelta dall’autore. Parole che concludono un saggio del 1912 di Kandinsky sui dipinti di Arnold Schönberg.

2) O dèi, perché darci corpi con un tale potere d’amore se l’amore è un crimine? C’è una scelta? … C’è una scelta?

Idomeneo

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★★☆☆

Salisburgo, Felsenreitschule, 27 luglio 2019

(video streaming)

L’Idomeneo di Sellars e l’attualità del mito

La città è minacciata dalle acque: l’ira di Nettuno o il global warming? Idomeneo si gioca il futuro sacrificando il figlio come facciamo noi oggi con il nostro pianeta. Ecco il konzept suggerito da Peter Sellars per la sua messa in scena della prima opera seria con cui Mozart conquistava il pubblico della corte bavarese al Teatro Cuvilliés di Monaco nel gennaio 1781.

Questo Idomeneo è frutto della sua seconda collaborazione con Teodor Currentzis dopo La clemenza di Tito del 2017, l’ultima opera seria del salisburghese. Quella era centrata sui temi del terrorismo e delle migrazioni, questa su quello ecologico, non una gran novità di questi tempi e nel caso dell’Idomeneo ci aveva già pensato Michieletto nel 2013.

Sia il regista che il direttore esprimono un approccio molto disinvolto, soprattutto il secondo si prende molte libertà, come è il suo solito. Currentzis effettua un drastico taglio dei recitativi realizzando un continuum musicale in cui si perde l’equilibrio tra arie e “pause” recitate su cui si basa l’opera seria settecentesca di cui l’Idomeneo è la sintesi e l’ultimo vero prodotto. Ma non è l’unica libertà: riprese e cadenze molto libere, interludi al pianoforte, lunghe pause di silenzio. Se Arbace è privato di entrambe delle sue due arie, musiche estranee all’opera vengono invece introdotte: il terzo atto inizia con un numero del Thamos, re d’Egitto K345 dove la voce del Gran Sacerdote, qui quella di Nettuno, ammonisce i mortali: «Figli della polvere, tremate e rabbrividite | prima di insorgere contro gli dei! | Il fulmine vendicatore li protegge | contro il vano affronto dell’empio!» con il coro, schierato in platea. Inaspettato ma comunque congruo con la drammaturgia in quel momento. Un’altra novità è la scena con rondò della versione del 1786, «Non temer, amato bene», per Idamante prima del suo sacrificio. Per Elettra invece c’è l’intromissione dell’aria da concerto con pianoforte «Ch’io mi scordi di te» inserita al terzo atto. Nella drammaturgia di Antonio Cuenca Ruis manca anche la scena del sacrifico così che si passa subito all’intervento della voce di Nettuno e allo scioglimento del voto. Musiche strumentali prendono poi il posto del consueto finale formato dall’aria di Idomeneo «Torna la pace al core» e dal coro «Scenda Amor, scenda Imeneo». Di quel che rimane delle musiche originali si ammira comunque la capacità del direttore di gettare nuova luce su una musica che si pensava di conoscere bene: la trasparenza orchestrale, la dolcezza degli andanti, la frenesia dei momenti drammatici, la terribilità del coro «Oh voto tremendo». Validi strumenti sotto la sua bacchetta sono la Freiburger Barockorchester e il coro MusicÆterna di Perm su cui ha fatto un apprezzabile lavoro il direttore Vitaly Polonsky.

Nella regia di Sellars i personaggi sono quasi sempre presenti in scena, così che alcuni numeri musicali cambiano di significato perdendo il loro effetto, come nel caso della seconda aria di Elettra con Idamante lì accanto a lei, così che lo struggente canto solitario della donna diventa un’aria di seduzione per trattenere l’amato. E Idamante diventa banalmente l’eterno indeciso tra le due donne. Il regista manca alcuni momenti come quello della tempesta, che qui ha poco di terribile o la confessione di Idomeneo davanti al popolo, cadaveri ai suoi piedi vittime del mostro marino.

Nel suo sempre elegante e suggestivo apparato scenografico George Tsypin non utilizza il caratteristico fondale di pietra della Felsenreitschule: tutto si svolge sul palcoscenico, dove tubi trasparenti e luminosi spariscono nel pavimento, come le colonne del tempio di Nettuno. Forme traslucide ingombrano la scena, oggetti spiaggiati che poi vengono minacciosamente sospesi.

Al coro e agli interpreti è affidata un’ampia gesticolazione mentre i momenti coreografici sono condensati nei pochi minuti del finale con una specie di pantomina di Lemi Ponifasio affidata ai due danzatori Brittne Mahealani Fuimaono e Arikitau Tentau, quest’ultimo proveniente dalle isole del Pacifico che per prime spariranno sotto l’acqua a causa dell’innalzamento del livello degli oceani. Come succede talora nel teatro di regia l’idea prevale sulle necessità drammaturgiche e qui non si sentiva la mancanza di questa aggiunta, per di più su musiche estranee all’opera. Bruttocci sono i costumi di Robby Duiveman in cui le divise militari, mimetica azzurro mare per i greci e color terra per i cretesi, in realtà sembrano dei pigiami.

Russell Thomas è un nobile e autorevole Idomeneo, di bel timbro ma le agilità non sono la sua cosa migliore. Paula Murrihy è Idamante en travesti, vocalmente corretta ma il personaggio è piuttosto latitante. Sorpresa della serata è la Ilia di Ying Fang, voce di bellissimo colore, intensa espressività e buona dizione dell’italiano, cosa rara in un cantante orientale. Il soprano cinese incanta nel suo «Zeffiretti lusinghieri» intonato sul tempo espanso scelto da Currentzis e poi ancora nel duetto seguente, reso dal regista con grande sensibilità. Nicole Chevalier è un’Elettra di temperamento ma un po’ sopra le righe, secondo le richieste registiche, anche se non lesina legati e mezze voci in «Soavi zeffiri soli spirate» su un accompagnamento delicatissimo dell’orchestra e del coro e prima ancora in «Idolo mio, se ritroso». Grande successo di pubblico ha la sua aria da concerto. Efficace il resto degli interpreti.

Nella ripresa televisiva, lo stesso Sellars insiste con primissimi piani che cambiano totalmente la percezione dello spettacolo visto dal vivo. Un altro elemento che rende questo Idomeneo molto diverso, cosa non del tutto positiva.

 

 

Il ritorno d’Ulisse in patria

Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria

★★★☆☆

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 9 marzo 2017

(video streaming)

L’Ulisse pop di Mariame Clément

A teatro l’attualizzazione di un’ambientazione non è un’invenzione dei giorni nostri, specialmente nel teatro di prosa. In una delle sue preziose lezioni su Shakespeare, Giuseppe Tomasi di Lampedusa racconta di un Amleto visto a Londra in cui lo spettro del re portava una maschera a gas appesa al collo, la coppia reale veniva avvelenata con dei cocktail, il re Laerte era in pigiama e Amleto compariva una volta in frac, un’altra in mimetica e un’altra ancora in tenuta sportiva. Era il 1931.

Chissà quando se ne faranno una ragione i pubblici dei teatri lirici, per lo meno di quelli nostrani. All’estero la cosa non fa quasi più effetto, come in questo Il ritorno d’Ulisse in patria del nostro Monteverdi sulle tavole del Théâtre des Champs Élysées parigino in una messa in scena pop in cui a un certo punto compaiono due sportelli bancomat, un distributore di Coca-Cola e un gigantesco Mac Burger.

La compagnia di canto è di tutto rispetto, ma tra gli interpreti non ce n’è neanche uno di lingua italiana. E non è una questione di sciovinismo o gretto nazionalismo, ma con il recitar cantando monteverdiano la perfetta articolazione delle parole italiane, con il loro peso esatto tra vocali e consonanti, è imprescindibile e qui non sempre è realizzata con cantanti provenienti da tutto il mondo, ma al di là delle Alpi. Però è colpa nostra se l’opera barocca italiana viene allestita soprattutto al di fuori del nostro paese e con interpreti non italiani.

In un ambiente borghese immerso in una luce da quadro fiammingo e in cui la nutrice Ericlea ha la cuffietta e l’orecchino di perle del dipinto di Vermeer, Penelope contempla sconsolata il posto vuoto nel letto da cui manca da tanto tempo il suo Ulisse, con sensibilità tutta femminile – alla regia c’è Mariame Clément, le scenografie e i costumi sono di Julia Hansen, a capo della sua orchestra, Le concert d’Astrée, c’è Emmanuelle Haïm.

La scena fissa consente diverse ambientazioni con lo scorrere delle pareti e le proiezioni sul fondo. Gli dèi dell’Olimpo sono avventori di un pub e passano il tempo a bere birra e giocare a freccette – e quando una di queste cade sulla Terra viene intesa come presagio divino dagli ingenui umani. I Proci sono in smoking, Iro è un turista sovrappeso che si rimpinza di junk food, Telemaco un ragazzotto in jeans. Anche se non tutto è sempre divertente o di buon gusto, questo approccio disinvolto rende lo spettacolo non paludato e più godibile.

L’Ulisse di Christie ad Aix-en-Provence, Krešimir Špicer, cede il ruolo titolare al divo Rolando Villazón e ora il tenore croato è un Eumeto di gran lusso e di sopraffina sensibilità. L’approccio guascone del tenore messicano sbocca invece in una performance spesso sopra le righe, con frasi sguaiate e suoni non sempre intonati. Il contrasto con la misurata Penelope di Magdalena Kožená è quasi sconcertante: tanto il mezzosoprano lavora di finezza e sobrietà di accenti, quanto Villazón spinge il pedale dell’eccessivo e del forte.

Più aderenti allo stile risultano gli altri interpreti, a partire dal terzetto di pretendenti  formato dal controtenore Maarten Engeltjes, il tenore Lothar Odinius e il basso Callum Thorpe. Ben caratterizzato è l’Iro di Jörg Schneider ed eccellenti per presenza scenica e vocale sono la Minerva di Anne-Catherine Gillet e la Giunone di Katherine Watson. La coppia di amanti Melanto ed Eurimaco hanno in Isabelle Druet ed Emiliano Gonzalez-Toro due interpreti molto efficaci. Meno convincente il Telemaco di Mathias Vidal.

La direzione di Emmanuelle Haïm è relativamente asciutta, ma sempre ben risolta per stile, tempi, volumi sonori e colori.

Al termine gli applausi più convinti del pubblico vanno a Špicer. Ulisse ha avuto la sua vendetta.

Idomeneo

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Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★★★☆

Valencia, Palau de les Arts Reina Sofía, 1 maggio 2016

2016: Idomeneo nello spazio

Quando Mozart era ancora a Salisburgo gli era arrivata la commissione per un’opera seria su soggetto mitologico per il Carnevale del 1781 dall’Elettore di Baviera Karl Theodor. Sei anni prima era già stata rappresentata con successo alla sua Corte La finta giardiniera. Il 5 novembre 1780 il musicista è dunque a Monaco per completare, a contatto dei cantanti e dell’orchestra, la sua dodicesima opera, che porterà il numero di catalogo K366. Un’opera completamente diversa dalle precedenti e dalla gestazione complessa e sofferta.

A fine novembre muore l’imperatrice Maria Teresa. Il fatto però non ha fortunatamente conseguenze e le prove procedono normalmente. Non mancano le solite difficoltà con i cantanti, i tiranni illustri e capricciosi dell’opera settecentesca, ma dopo numerosi rinvii l’opera va finalmente in scena al Cuvilliés, la sala teatrale del Residenz, il 29 gennaio 1781. Arrivati da Salisburgo ci sono anche Leopold e Nannerl, accampati in casa del figlio «come zingari e soldati». Le tre recite hanno successo soprattutto per l’aspetto scenografico dello spettacolo, come riporta una critica del tempo che neanche menziona il nome del compositore: «L’autore, il compositore e il traduttore sono tutti originari di Salisburgo; le scenografie, tra cui la mirabile vista del porto o il tempio di Nettuno, sono il capolavoro del rinomato scenografo di corte Lorenzo Quaglio e furono grandemente ammirate da tutti».

I cantanti sono le sorelle Wendling, ottime voci, affidabili e care amiche di Mozart fin dai tempi di Mannheim (Dorothea è Ilia ed Elisabeth Elettra); Idomeneo è Anton Raaf (ultrasessantenne divo in declino); il castrato Vincenzo dal Prato Idamante; Domenico de Panzacchi Arbace; Giovanni Valesi il Gran Sacerdote. Sulla scelta degli interpreti le lettere di Mozart al padre testimoniano il travaglio del compositore, soprattutto per quanto riguarda la scelta del castrato: il Manzuoli era brillante ma testardo, il Rauzzini immaturo e imprevedibile, il Tenducci aveva una bella voce adatta alla parte ma era un noto libertino, il Marchesi era un cantante buono, ma era appena stato avvelenato da un rivale geloso! Il dal Prato non era tenuto in grande considerazione dal compositore ed è questo uno dei motivi per cui a Vienna nel palazzo del principe Auersperg nel 1786 il ruolo di Idamante da castrato diviene tenore, vi furono alcune modifiche e si perse il balletto finale in quanto l’esecuzione fu in forma di concerto.

Presentato a Torino sei anni fa, l’Idomeneo di Davide Livermore è ora in scena a Valencia, nel teatro di cui è sovrintendente e direttore artistico, il Palau de les Arts “Reina Sofía”, in un allestimento del tutto nuovo. Nel frattempo il mondo è cambiato e la sua regia non può fare a meno di prenderne in carico l’attualità: quante imbarcazioni nel nostro Mediterraneo sono ora prede dell’ira di Nettuno in mare e di approdi ostili in terra!

Nella lettura di Livermore l’opera di Mozart diventa un canto alla tolleranza contro la violenza e l’ingiustizia. Idomeneo è di ritorno da un viaggio spaziale e non pochi sono i rimandi al film del 1968 di Stanley Kubrick 2001: A Space Odissey: il finale dello spettacolo ne è una citazione quasi testuale. Videografica e specchi sono utilizzati in modo molto pertinente così come passerelle calate dall’altro che rimandano ai viaggi per mare, ma anche nello spazio. Se nell’allestimento torinese ci trovavamo in fondo al mare, qui l’elemento liquido lo troviamo in scena: tutti sguazzano nell’acqua di questa spiaggia da The Day After di approdi sofferti e impossibili partenze. E il balletto finale, durante il quale Idomeno agonizza accasciato su una poltrona, è tutto un gioco di spruzzi sollevati dai danzatori.

La lettura di Livermore affronta diversi temi: non solo il rapporto tra padre e figlio, tra il potere dei vincitori e il dramma dei vinti, ma soprattutto il viaggio dell’uomo alla ricerca di sé stesso. A un certo punto dello spettacolo uno specchio scende dall’alto e riflessi ci saranno non solo Idomeneo e Ilia, con il loro taciuto rapporto (1), ma anche l’orchestra con il maestro concertatore e noi del pubblico che saliremo così virtualmente sulla scena. Il viaggio a ritroso nel tempo – e l’immagine di un feto, esattamente come in Kubrick, ce lo conferma – è anche un viaggio verso la “divinità”, che ha le fattezze di un padre un po’ mostruoso, tra le cui braccia lasciarsi morire.

La scenografia, di Livermore stesso, la regia luci di Antonio Castro e la videografica della collaudata D-WOK creano uno spettacolo visualmente pregnante appena inficiato dai costumi anni ’70 abbastanza incongrui di Mariana Fracasso.

Con un cembalo per i ripieni e un fortepiano e violoncello per i bellissimi recitativi, l’ottima orchestra valenziana è diretta da uno specialista della musica del Settecento, Fabio Biondi, che qui dà una lettura vigorosa e giustamente drammatica della partitura in consonanza con la visione del regista.

Quasi con la stessa età dell’originale Raaf della prima, Gregory Kunde è un Idomeneo di dolente umanità la cui vocalità continua a stupire per freschezza, agilità ed eleganza del fraseggio. Qui gli anni più che pesare danno ancor più intensità al personaggio. Tra gli altri interpreti note positive si hanno in quelli giovani, tutti ex-allievi del Centro di Perfezionamento Plácido Domingo, la scuola che condivide gli straordinari spazi dell’edificio di Calatrava. Tra questi la brasiliana Lina Mendes, un’Ilia sensibile e con una bella linea di canto. Invece l’Idamante della Bacelli (mezzosoprano en travesti che ha sostituito l’originariamente prevista Varduhi Abrahamyan) si è rivelato vocalmente aspro o alternativamente afono e con inopportuni interventi parlati mentre l’Elettra della Romeu, di casa qui a Valencia, si è rivelata un po’ troppo sopra le righe tanto che non è sembrato necessario moltiplicare la sua enfatica presenza con controfigure.

La complessità della proposta scenica e musicale ha convinto pienamente il pubblico che ha accolto alla fine con calorosi applausi tutti gli interpreti.

(1) Nel libretto il Varesco sorvola prudentemente sulla pericolosa passione di Idomeneo per Ilia, preda di guerra.

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