Mese: aprile 2022

Griselda

La locandina dello spettacolo

Antonio Vivaldi, Griselda

Venezia, Teatro Malibran, 29 aprile 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Griselda, una favola crudele

Grazie al Teatro la Fenice, Antonio Vivaldi è autore di frequente presenza nei programmi teatrali della sua città: Bajazet (2007), Juditha triumphans (2015), Orlando Furioso (2018), Dorilla in Tempe (2019), Ottone in villa (2020) e Farnace (2021) sono solo alcuni dei recenti allestimenti del teatro veneziano, per lo più presentati nella maggiormente idonea sede del Malibran. Come questa Griselda, «Drama per musica da rappresentarsi nel teatro Grimani di S. Samuel nella Fiera dell’Ascenssione [sic] l’Anno 1735», ossia il 18 maggio. Il libretto del 1701 di Apostolo Zeno, tratto dall’ultima novella (X, 10) del Decameron di Boccaccio, era stato intonato quello stesso anno da Antonio Pollarolo. Poi fu la volta, tra i tanti, di Tomaso Albinoni (1703), Luca Antonio Predieri (1711), Giuseppe Maria Orlandini (1717, con il titolo La virtù in cimento), Antonio Bononcini (1718) e Alessandro Scarlatti (1721).

Opera della maturità stilistica di Vivaldi, la Griselda è l’unica presenza del compositore veneziano al Teatro di San Samuele dopo i 25 anni di impegno col Teatro Sant’Angelo, ed è anche il primo incontro di Vivaldi con un giovane Carlo Goldoni a cui l’impresario Michele Grimani aveva affidato il compito di aggiornare il vecchio libretto di Zeno. Come è narrato con grande vivacità nel capitolo 36° dei suoi Mémoires, il drammaturgo si era presentato al Prete Rosso – «eccellente suonatore di violino e compositore assai mediocre» nella sua maliziosa definizione a posteriori – e l’aveva stupito con la rapidità con cui aveva riscritto, sotto le indicazioni di Vivaldi stesso, un’intera aria in soli quindici minuti. «Premeva estremamente al Vivaldi un poeta per accomodare e impasticciare il dramma a suo gusto, per mettervi bene o male le arie che aveva altre volte cantate la sua scolara [Anna Girò]», scrive Goldoni, per assecondare la personalità della sua protetta, la Girò non amava infatti esprimersi con la vocalità larga e patetica richiesta dal libretto di Zeno. Per l’interpretazione musicale del personaggio di Griselda, possibile allegoria del paziente Giobbe biblico che avrebbe avuto come consono modello quello dell’oratorio, erano state necessarie le numerose sostituzioni operate dall’abile drammaturgo al testo originale e la riduzione del libretto da 34 arie e cinque duetti a diciannove arie e un trio.

Il marchese di Saluzzo della novella boccaccesca, qui diventa il re Gualtiero di Tessaglia – la stessa regione in cui è ambientata l’Alceste, un altro esempio di fedeltà coniugale –  costretto dalla volontà del popolo a ripudiare la moglie Griselda a causa delle sue umili origini. Gualtiero decide quindi di dimostrare il valore di Griselda ai suoi ingrati sudditi attraverso una serie di prove crudeli, cominciando con il bandirla dal palazzo e preparandosi a mettere un’altra regina al suo posto, che si rivelerà la figlia creduta morta. Nel lieto fine Griselda riprende il suo ruolo e anche la seconda coppia di amanti può coronare felicemente il proprio sogno d’amore.

Atto I. Anni prima dell’inizio dell’azione, Gualtiero, re di Tessaglia, aveva sposato una povera pastorella, Griselda. Il matrimonio era profondamente impopolare con i sudditi del re e quando nacque una figlia, Costanza, il re dovette fingere di farla uccidere mentre segretamente la mandava ad essere allevata dal principe Corrado di Atene. Ora, dopo che la recente nascita di un figlio ha portato a un’altra ribellione dei Tessali contro Griselda come regina, Gualtiero è costretto a ripudiarla e promette di prendere una nuova moglie. La sposa proposta è infatti Costanza, ignara della sua vera parentela e sconosciuta a Griselda. Lei è innamorata del fratello minore di Corrado, Roberto, e il pensiero di essere costretta a sposare Gualtiero la porta alla disperazione.Mentre Griselda si congeda da suo figlio, il vendicativo Ottone rapisce il bambino e fugge dal palazzo. Corrado cerca di rassicurare Griselda e promette che salverà Everardo con ogni mezzo necessario.
Atto II. Negli appartamenti reali, Corrado incoraggia Costanza a ricordare la sua fedeltà al suo primo amore, Roberto. Lei capisce il suo dovere verso il re, tuttavia, e così quando Roberto appare adotta un atteggiamento regale e lo invita ad andarsene. Presso una capanna in campagna, Griselda viene di nuovo avvicinata da Ottone, che le dice che ucciderà suo figlio se non cede alle sue avances. Una guardia porta debitamente Everardo davanti a Griselda. Corrado, che è nascosto, assiste a tutto questo, e quando Griselda rifiuta ancora di cedere, si fa riconoscere. Ingannando Ottone e facendogli credere di appoggiare la sua causa, Corrado riceve il ragazzo, con il quale ritorna al sicuro nel palazzo. Costanza e Roberto camminano nelle vicinanze, la prima supplica il suo amante di lasciarla in pace pur ammettendo che lo adora ancora. Trovano Griselda addormentata nella sua capanna. Costanza sente un legame inspiegabile con lei, e al suo risveglio anche Griselda sembra riconoscere la figlia perduta da tempo, ma non dice nulla di tutto ciò. Gualtiero appare improvvisamente. Costanza chiede che Griselda sia la sua serva. Gualtiero, però, ancora sprezzante di Griselda, dice a Costanza che questa non è altro che l’ex regina. Corrado arriva con i soldati per avvertire il re dei piani di Ottone, ma Gualtiero decide, tra l’incredulità di tutti, di lasciare la sua ex regina al suo destino. Ottone arriva presto con i suoi uomini per portare via Griselda, ma Gualtiero torna con Costanza e fa arrestare Ottone.
Atto III. Griselda è tornata a palazzo come ancella di Costanza, ma sente la sua nuova amante e Roberto giurarsi amore eterno e si muove per dirlo al re. Gualtiero appare con Corrado, che ha sentito anche lui gli amanti e lo dice lui stesso al re. Sorprendentemente, Gualtiero dice a Griselda che non spetta a lei mettere in discussione le azioni della sua amante, e poi ordina ai due di essere fedeli l’uno all’altro. La prova finale del nobile cuore di Griselda ha luogo in una magnifica sala di ricevimento nel palazzo. Davanti ai suoi sudditi Gualtiero tenta di costringere Griselda a sposare Ottone, altrimenti la farà giustiziare. Ancora una volta Griselda rifiuta, per la gioia del re, che allora rivela il suo vero intento. Anche Ottone viene graziato e Costanza può sposare Roberto. Il popolo è ora convinto che Griselda sia degna di essere la sua regina e alla donna vengono restituiti la figlia, il figlio, il marito e il trono.

Dell’opera è conservato il manoscritto MS Foà 36, apparentemente autografo, nella Biblioteca Nazionale di Torino, la biblioteca che possiede copie uniche di quasi tutte le opere superstiti del compositore. Su questo prezioso documento si basano l’edizione critica e la lettura di Diego Fasolis che fin dalle prime note dell’Allegro della sinfonia impone un energico passo ritmico a una partitura che ha momenti di grande drammaticità accanto alle preziosità strumentali ai quali ci ha abituato il compositore. L’orchestra del Teatro la Fenice, arricchita di strumenti storicamente informati quali l’arciliuto, la chitarra barocca e il fagotto barocco, si dimostra duttile strumento sia nella realizzazione del basso nei recitativi, quasi  integralmente proposti, sia nei preziosi momenti delle 19 arie ripartite fra i sei personaggi, anche queste eseguite nella loro totalità.

Un cast di specialisti in questo genere è quello sul palcoscenico del Malibran, e come spesso succede, le interpreti femminili sono di livello superiore a quelli maschili, con l’eccezione del controtenore Kangmin Justin Kim che ha riscosso un notevole successo personale. Nella figura della infelice protagonista Ann Hallenberg offre la sua grande personalità in pagine di intensa drammaticità come la sua seconda aria «Ho il core già lacero» con cui si conclude l’atto primo o il breve ma toccante recitativo accompagnato della scena nona del secondo atto, una scena di sonno in cui avviene il commovente incontro tra madre e figlia, che fino a quel momento non si sono mai conosciute. Nelle sue quattro arie a disposizione il mezzosoprano svedese costruisce con grande sensibilità il personaggio vittima di tante prove crudeli, ma che rimane sempre fedele al consorte, espresso con grande nobiltà di accenti. Molto più virtuosistica è la parte di Costanza, qui affidata alle sicure doti interpretative di Michela Antenucci. In tre arie, una per atto, il soprano molisano riesce a dare spessore a un personaggio drammaturgicamente meno definito ma che riscatta pienamente nella bellissima «Ombre vane», resa con perfezione stilistica e commovente partecipazione. Ma è in «Agitata tra due venti», una delle arie più iconiche del Prete Rosso, che la Antenucci esprime la sua sua grande tecnica ed agilità in un numero che, inserito finalmente nell’opera completa, se perde un po’ del suo carattere virtuosistico esaltato tante volte nelle esecuzioni da concerto, qui acquista uno spessore drammatico quasi non previsto. Vero è che da un momento all’altro ci si aspetta che da dietro le quinte salti fuori Kangmin Justin Kim, qui Ottone, per riprendersi quello che anni fa, quando ancora era studente, lo aveva catapultato alla notorietà planetaria garantita da youtube, ossia la sua esilarante versione come Kimchilia, irriverente ma sentito omaggio alla diva Cecilia Bartoli da parte del giovane controtenore coreano-americano. Kim qui si riprende presto la scena con la sua pirotecnica versione di «Dopo un’orrida tempesta», eseguita senza risparmio di agilità e colorature in perfetto equilibrio tra scena e orchestra. Il primo e unico momento in cui ritroviamo il vero teatro vivaldiano con la voce che nelle variazioni delle riprese riprende gli strumenti ad arco in un gioco sbalorditivo di imitazioni.

Motore dell’azione è il re Gualtiero, che in tre arie ci deve convincere della sua scelta crudele. Il tenore spagnolo Jorge Navarro Colorado è uno specialista di questo repertorio e sfoggia uno stile impeccabile, ma il timbro un po’ sfibrato e una voce non sempre ben proiettata non rendono memorabile la sua performance. Lo stesso si può dire per il Roberto di Antonio Giovannini, controtenore dalla presenza un po’ ingessata e dal timbro luminoso ma poco espressivo. Sua è una delle arie più belle dell’opera, «Dal tribunal d’amore», che verrà infatti ripresa nel Farnace. Così come avverrà per «Alle minacce di fiera belva!», in cui il mezzosoprano Rosa Bove en travesti (Corrado), rivela alcuni problemi di intonazione assieme agli ottoni in quest’aria del primo atto.

Autore della messa in scena è Gianluca Falaschi che con il disegno luci di Alessandro Carletti e Fabio Barettin e la drammaturgia di Mattia Palma firma un allestimento in cui la vicenda, ambientata in epoca moderna, vuole essere occasione per l’ennesima denuncia della sottomissione femminile al potere maschile. Vediamo infatti ad apertura di sipario una fila di macchine da cucire (strumento primario del regista/costumista!) su cui lavorano chine Griselda e altre ragazze vittime poi delle gratuite violenze dei cortigiani di Gualtiero. La mascolinità tossica e l’accettazione dei soprusi presenti nella novella trecentesca, ripresa da un librettista di inizio Settecento, rielaborata da un drammaturgo “protofemminista” come Goldoni e riletta dalla nostra sensibilità, formano l’elemento di  base della lettura del regista. Totalmente condivisibile nell’idea, è la sua realizzazione che non convince pienamente. D’accordo che la foresta, elemento archetipico delle favole, «rappresenta lo spazio del pensiero di Griselda, dei suoi ricordi, lo spazio più profondo», ma qui vi si svolgerà un party e gli alberi traballeranno sotto i saltelli degli invitati ebbri, rivelando la loro provvisorietà e artificialità. La scelta registica poi è poco convincente nei confronti di alcuni personaggi, soprattutto quello di Roberto, e il pubblico infatti dimostra qualche dissenso nei confronti degli autori dell’allestimento. Applausi pienamente convinti invece per Hallenberg, Antenucci, Kim e Fasolis.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo non perfetto, ma la rara riproposta di un titolo desueto ma imprescindibile come questo di Vivaldi compensa largamente gli eventuali difetti della produzione.

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Stagione Sinfonica RAI

Gioachino Rossini, Stabat Mater

Michele Spotti direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 15 aprile 2022

«Rossini! Divino Maestro!» (1)

Unica manifestazione musicale legata al periodo pasquale – mentre non c’è chiesa in Germania che non organizzi una Passione di Bach… – è questo concerto fuori abbonamento della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI: nel giorno del Venerdì Santo viene eseguito uno dei pochi lavori che il pesarese non abbia dedicato al teatro, essendo la produzione operistica la più invasiva del suo repertorio creativo, seppure circoscritta a soli diciannove anni di attività.

Rossini iniziò la sua formazione musicale proprio nelle chiese come cantante ed ebbe come insegnanti dei religiosi. Nel 1808 a sedici anni partecipa alla Messa di Bologna, un lavoro collettivo di allievi del liceo, alla quale seguono subito dopo la Messa di Ravenna e la Messa di Rimini, questa di attribuzione dubbia. La Messa di Gloria di Napoli del 1820 precede di tre anni la Semiramide mentre nel 1841 arriva lo Stabat Mater. Rossini aveva abbandonato il mondo teatrale da dodici anni.

Per quest’ultima composizione ci si può domandare quello che si era chiesto il suo stesso autore per la Petite messe solennelle: si tratta di “une musique sacrée” o di “une sacrée musique”? (2) «J’étais né pour l’opera buffa» scriveva Rossini nel 1864. Che cosa troviamo dunque di religioso nell’intonazione del testo di Jacopone da Todi da parte del più grande compositore di opere buffe? La brillante futilità del bel canto per la scena oppure l’espressione di una fede sincera?

Si tratta di una domanda oziosa, come chiedersi se sono maggiormente espressione di fede le severe linee della cattedrale di Reims oppure i riccioli e gli stucchi rococò della chiesa di Rottenbuch: ogni tempo e ogni luogo ha avuto il suo stile espressivo e nel XIII secolo, con Luigi IX il Pio, la religiosità si esprimeva in modo diverso di quanto si farà nell’elettorato di Baviera nel XVIII secolo.

In pieno Romanticismo, il compositore affermava la sua estetica ancora legata al bello ideale e a una concezione neoclassica che ritroviamo chiaramente in questo Stabat Mater che gli era stato commissionato in Spagna nel 1831, due anni dopo il Guillaume Tell. Nel 1833 ne aveva presentata una versione incompleta, i numeri 1 e 5-9, a Madrid il Sabato Santo. I pezzi mancanti della sequenza erano stati musicati da Giovanni Tadolini. Questa partitura fu pubblicata e venduta nonostante le proteste di Rossini e il compositore si affrettò a completare lo Stabat Mater che venne presentato a Parigi il 7 gennaio 1842 con un cast stellare che comprendeva la Grisi e il Tamburini. Donizetti diresse la prima italiana a Bologna il 18 marzo, la prima di numerose repliche coronate da grande successo e qualche distinguo da parte della critica, soprattutto dei paesi del nord Europa. Eppure la compostezza che adotta Rossini, anche nei momenti più drammatici, non avrebbe dovuto dispiacere a un severo luterano. Quello che infastidiva erano gli abbellimenti alla linea vocale, gli stucchi rococo…

Il ventottenne e talentuoso Michele Spotti alla guida dell’Orchestra RAI non punta a una lettura edonistica della partitura, ma neppure ne mortifica la brillantezza: con tempi mai estremi e una cura delle preziosità orchestrali presente in gran copia in questa pagina, incanta il pubblico che si dimostra prodigo di applausi sia per la sua direzione sia per il quartetto vocale sul palco dell’Auditorium Arturo Toscanini. Il soprano Anastasia Bartoli esibisce uno strumento vocale di grande proiezione, una voce d’acciaio che esalta l’aria Inflammatus et accensus di riflessi altamente drammatici. Nell’equilibrio fonico si sarebbe preferito comunque un volume meno eccessivo. Già ascoltato altre volte in questa pagina, il mezzosoprano Marianna Pizzolato conferma la sensibilità con cui rende la cavatina Fac ut portem Christi mortem. La parte del tenore in Cuius animam gementem è quella più virtuosistica, quella che ha fatto storcere il naso a qualche critico, ma che non si tratti solo di una superficiale pàtina di brillantezza lo dimostra un Dmitrij Korčak in stato si grazia che dà significato alle parole delle tre terzine e particolare smalto alla cadenza virtuosistica. Il basso Mirco Palazzi, dal bellissimo timbro e dalla nobile linea di canto, fa di Pro peccatis suae gentis, uno dei numeri composti nel 1841, un pezzo di maestosa bellezza. Nel secondo quartetto ai solisti si unisce il coro, qui quello del Teatro Regio di Torino, perfettamente a suo agio in questo repertorio. Nel finale fugato lo stesso coro tocca i vertici della perfezione per concludere degnamente un lavoro che ad ogni ascolto si scopre sempre più affascinante.

(1) Heinrich Heine, presente la sera del 7 gennaio 1842 nella Sala Ventadour parigina

(2) In francese l’espressione con l’aggettivo che precede il sostantivo si tradurrebbe “un diavolo di musica”.

La bohème

Giacomo Puccini, La bohème

★★★★☆

Roma, 8 aprile 2022

(trasmissione televisiva)

Una Bohème in stile nouvelle vague conclude la trilogia televisiva di Martone

Per la terza opera del suo progetto teatrale/cinematografico Mario Martone, dopo Il barbiere di Siviglia e La traviata, affronta l’opera di Puccini. Ci sono state sì innumerevoli trasposizioni/versioni cinematografiche de La bohème, ma questa produzione è qualcosa di nuovo col suo inedito mix di teatro e cinema finora raramente tentato.

Sull’opera leggiamo che cosa ha scritto Dino Villatico: «[come] nel Falstaff […] l’opera non si spezza in singoli momenti formali, ma si presenta come una successione ininterrotta di conversazione tra i personaggi. Puccini coglie la novità e il compimento di una tradizione alla quale nemmeno lui voleva rinunciare. Nasce così La bohème, un’opera di perfetta conversazione ininterrotta tra i personaggi, con i suoi momenti lirici che però non spezzano la continuità. Sarebbe infatti sbagliato considerarli, come spesso si fa, arie o romanze: sono il momento lirico del dialogo, la sviluppo musicale necessario di ciò che precede e la premessa ugualmente necessaria di ciò che segue. Il dialogo – e non duetto! – tra Rodolfo e Mimì che chiude il primo atto ne è un esempio mirabile. La situazione – i due restano al buio, cercano la chiave, si parlano – non conosce un solo attimo di sosta, e ciò che sembra un arrestarsi dell’azione – non cercano più la chiave – è solo uno svilupparsi del sentimento dei due che si scoprono alla fine innamorati, l’azione dunque si trasferisce dai gesti esterni all’interiorità dei personaggi. Quella sorta di concertato finale che chiude il dialogo, con le voci degli amici fuori scena, è un riportare l’azione interiore al movimento indispensabile dei due innamorati che escono per raggiungere gli amici. La continuità drammaturgica è raggiunta, ma senza soffocare lo slancio lirico dei sentimenti nei momenti in cui il sentimento deve effondersi. Tutto ciò, questa continuità musicale dell’azione, è manna per un regista. Tanto più per un regista che voglia trarne un film».

Ed è quello che fa Mario Martone abbandonando il teatro Costanzi e portando, il dramma di Mimì all’interno dei laboratori e raccolta scene, attrezzi e costumi del Teatro dell’Opera di Roma, tra officine di scenografia e pittura, depositi di costumi, attrezzeria scenica e falegnameria. Martone non mette solo in scena un dramma musicale, fa qualcosa di assai più complesso: «mette in scena un dramma musicale, fa teatro e facendo teatro fa un film, un film che è la rappresentazione di come si mette in scena un dramma musicale senza fare vero e proprio teatro, ma in realtà poi costruendo un’azione teatrale al quadrato, che è anche un film che mostra come si fa un film che non è cinema, ma è teatro che si fa cinema… Il film, così, appare come una riflessione su come si fa o si può fare oggi un film d’opera», ancora nelle parole di Villatico. Ed proprio il soggetto de La bohème, un gruppo di giovani che credono di poter cambiare il mondo, a prestarsi a una nostalgica rievocazione della nouvelle vague cinematografica. Gli esterni, che mescolano vedute di Roma e di Parigi, rimandano infatti a quella stagione rivista con nostalgia e tristezza. Che è il senso profondo del lavoro di Puccini.

Nei grandi spazi vuoti c’è posto anche per l’orchestra, che s’inserisce più volte nella rappresentazione. Michele Mariotti, che aveva destato meraviglia nella bellissima produzione bolognese con Graham Vick del 2018, qui ripete il miracolo a capo dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma con la sua lettura sensibilissima, fresca e pulita. Le dinamiche sono precise e gli scoppi orchestrali mai debordanti, sempre calibrati e le finezze orchestrali della partitura magnificamente rispettate e rese grazie a un’orchestra che ha raggiunto un eccellente livello.

Il neo direttore musicale dell’ente lirico romano è più volte inquadrato in primi piani che mettono in evidenza la realtà di un’esecuzione musicale e non di una finzione realistica che racconti una vicenda: «niente è realistico, gli ambienti non sono quelli del libretto, ma è il laboratorio, i vari spazi del laboratorio, le sue terrazze. E tuttavia, il realismo cacciato via dalla porta, rientra dalla finestra dei primi pieni dei volti dei personaggi o meglio degli interpreti». Il tenore Jonathan Tetelman è un Rodolfo giovane e bello, ma dall’aria giustamente introversa. Utilizza con disinvoltura i cospicui mezzi vocali, talora forse troppo generosamente, con acuti solidi e luminosi, ma sa piegare la voce in un fraseggio ricco di colori e intenzioni. Non sempre ineccepibile è la dizione, con qualche doppia persa per strada. Federica Lombardi è una Mimì convincente per presenza vocale e attoriale anche se talora il soprano drammatico ha la meglio sul soprano lirico, dando però così maggior profondità al personaggio, che da timida e «gaia fioraia» diventa una vera giovane di oggi. Marcello trova in Davide Luciano un interprete di grande espressività mentre due poderose voci di basso sono quelle di Roberto Lorenzi (Schaunard) e Giorgi Manoshvili (Colline). Linea vocale non molto pulita quella di Valentina Naforniţă (Musetta), dove affiorano spesso suoni di gola e aspri. Senza fastidiose forzature comiche sia il Benoît di Armando Ariostini, sia l’Alcindoro di Bruno Lazzaretti.

Tutto sommato questo terzo pannello del trittico martoniano per la televisione convince meno degli altri due: l’idea è intrigante e ben realizzata, ma il continuo passaggio tra la “realtà” e la “finzione” talora sconcerta, come sconcertavano Truffaut, Resnais o Godard. Ma qui l’operazione è ancora più arrischiata, perché l’ambientazione non è quella contemporanea, come era quella dei registi della nouvelle vague francese, ma quella ai loro tempi, ossia gli anni ’60, come suggeriscono i costumi di Anna Biagiotti, il tipo di recitazione e la fotografia. E molto alla Truffaut è la scena della “Barrière d’Enfer” con la troupe cinematografica ripresa da lontano con le macchine della neve artificiale, che fa venire alla mente il suo film La nuit américaine (Effetto notte, 1973).

Come sempre il sonoro della ripresa televisiva non è dei migliori e appiattisce timbri e dinamiche dell’orchestra. La trasmissione è stata presentata da Corrado Augias che ha esordito dicendo che «nel romanzo originale di Murger siamo alla fine dell’Ottocento». Peccato che la vicenda sia ambientata negli anni ’40 e che il re – «Luigi Filippo! | m’inchino al mio re!» – sia morto nel 1850…

Farnace

Foto © Cravedi

Antonio Vivaldi, Farnace

Piacenza, Teatro Municipale, 10 aprile 2022

★★★☆☆

Farnace a Piacenza: un coitus interruptus vivaldiano

Tra le 45 opere di Antonio Vivaldi comprese nel Ryom Verzeichnis, catalogate tra i numeri RV 710 (Ercole sul Termodonte) e RV 712 (La fede tradita e vendicata, opera andata perduta) vi sono le ben sette versioni del Farnace, di cui solo due non sono andate perdute: tra queste quella di Ferrara (RV 711G) del 1738 custodita alla Biblioteca Nazionale di Torino. Si tratta dunque del travagliato processo di perfezionismo di una delle ultime opere a noi pervenute del musicista veneziano, che morirà infatti a Vienna nel 1741.

Quando Vivaldi concluse il Farnace nel 1727 era un compositore all’apice della sua notorietà, il che non impedì però che undici anni dopo gli fosse impedito dal Cardinale Tommaso Ruffo di recarsi a Ferrara per la ripresa dell’opera, adducendo motivi di morale per la condotta considerata un po’ troppo spregiudicata, anche per quei tempi, di un religioso che non celebrava la messa, bazzicava i teatri e aveva una relazione forse non platonica con una sua pupilla, «la sig. Anna Girò», la sua prima Tamiri. Non potendo essere presente alla rappresentazione, Vivaldi riempì la partitura di minuziose annotazioni, cosa piuttosto rara in quell’epoca in cui erano gli autori stessi a dirigere la loro musica, e i due atti che ci sono rimasti rappresentano quindi un prezioso documento della sua prassi esecutiva. Il fatto poi che la rappresentazione alla fine non avvenisse fa del Farnace del 1738 il suo testamento artistico – il Feraspe che seguì è andato perso – ma anche l’inizio del declino del compositore, oberato dai debiti contratti per la definitiva cancellazione dell’opera, dagli insuccessi seguenti e dalla salute malferma.

283 anni dopo Ferrara cerca di rimediare mettendolo in scena ed è questa produzione che viene ora presentata al Municipale di Piacenza con lo stesso cast e lo stesso direttore, Federico Maria Sardelli, tra i maggiori studiosi italiani del compositore veneziano. Come aveva fatto a Firenze nel 2013, sceglie dunque la versione del 1738 mancante del terzo atto, ma mentre là aveva concluso lo spettacolo con la meravigliosa aria «Gelido in ogni vena» della versione del 1727, qui manda a casa gli spettatori dopo il duetto «Io sento nel petto» di Aquilio e Selinda alla fine del secondo atto. Alla direzione dell’Orchestra Accademica dello Spirito Santo, Sardelli ha una direzione asciutta e tesa fin dalla sinfonia, con ritmi sostenuti e colori netti, quasi aspri. Non ci sono molte sfumature nelle sue scelte, anche a causa di una compagine orchestrale corretta ma non eccelsa. L’agogica non tocca mai gli estremi e il volume sonoro rimane sempre su un mezzo forte che non esalta la drammaticità di quanto vediamo rappresentato in scena.

Nella parte del titolo c’è Raffaele Pe, un controtenore, una scelta in controtendenza rispetto a quanto ha dimostrato di preferire Sardelli nel passato – a Firenze era toccato al mezzosoprano Mary-Ellen Nesy – ossia una voce femminile, così come fu nell’edizione originale del 1727 con «la sig. Maria Maddalena Pieri, virtuosa del Seren. Duca di Modena», mezzosoprano en travesti. Interprete sensibile, Raffaele Pe dà il meglio nella seconda delle sue sole tre arie, «Perdona o figlio amato», l’unico momento in cui il personaggio dimostra un po’ di sentimento dopo la tante sparate sull’onore e la fierezza e in cui Pe è meno convincente. Se mezze voci, legati, variazioni sono eseguiti in stile ineccepibile, il timbro e la dizione non sono tra le sue cose migliori. Tamiri è Chiara Brunello, contralto di buona tecnica che nelle sue tre arie riesce a delineare con efficacia il personaggio che deve combattere con una madre crudele («Non mi sei figlia») e con un marito spietato («Non mi sei moglie») nonostante qualche problema di emissione e di agilità. Lo stesso si può dire per Francesca Lombardi Mazzulli (Gilade), che nel famoso pezzo dell’usignolo dà una versione un po’ meccanica del cinguettio dell’uccello. Non memorabile è la Selinda di Silvia Alice Gianolla in affanno anche lei nelle agilità, mentre Elena Biscuola (Berenice) ha fatto annunciare di non sentirsi in forma. Note più positive sono nel reparto maschile, dominato dalla bella presenza vocale di Mauro Borgioni (Aquilio) e dallo spavaldo Pompeo di Leonardo Cortellazzi. La performance del coro impegnato nei due interventi del primo atto si è rivelata ai minimi sindacali.

La regia di Marco Bellussi ha un che di rinunciatario: gran roteare di mantelli, falcate nervose, movimenti circolari, ma poca attenzione attoriale. Lineare e fedele manca però di tensione drammaturgica. La scenografia di Matteo Paoletti Franzato è minimalista e si affida quasi totalmente alle luci di Marco Cazzola. Sontuosi ma non sempre congrui i costumi di Carlos Tieppo che non fanno differenza tra romani invasori e indigeni. Un po’ ripetivo l’espediente di far scendere un sipario nero ad ogni ripresa per “cambiare” la scena dietro il cantante.

Quello a cui abbiamo assistito è un frammento che forse farà sì apprezzare maggiormente quello che è rimasto, ma che di certo non sarebbe piaciuto all’autore. Meglio avere l’opera completa, cosa possibile utilizzando le versioni a noi pervenute, un’operazione che sarebbe stata perfettamente in linea con l’opera barocca che ha sempre vissuto di continue revisioni, adattamenti, imprestiti e autoimprestiti. Quello di Sardelli è un eccesso di rigore poco convincente. Farnace non è Turandot.

(1) Nella lettura di Sardelli la sequenza di arie è la seguente (da confrontare con quella della versione del 1727):
Atto I
Ricordati che sei (Farnace)
Combattono quest’alma (Tamiri)
Dell’Eusino (Coro)
Su campioni, su guerrieri (Coro)
Nell’intimo del petto (Gilade)
Penso che quei begl’occhi (Aquilio)
Da quel ferro, ch’ha svenato (Berenice)
Or di Roma forti eroi (Tamiri), dalla Dorilla in Tempe
Non trema senza stella (Pompeo)
Atto II
Lascia di sospirar (Selinda)
Alle minacce di fiera belva (Aquilio), dalla Griselda
Al tribunal d’amore (Berenice), dalla Atenaide
Quell’usignolo che innamorato (Gilade), dall’Oracolo in Messenia
Perdona, o figlio amato (Farnace)
Dividete, o giusti dèi (Tamiri)
Quel tuo ciglio languidetto (Gilade)
Gemo in un punto e fremo (Farnace), dall’Olimpiade
Roma invitta ma clemente (Pompeo)
Io sento nel petto (Aquilio e Selinda)

Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

★★★★☆

Bruxelles, Théâtre Royal de La Monnaie, 26 marzo 2022

(diretta streaming)

Tripla riuscita per il Trittico di Bruxelles

Beati i teatri che si possono concedere il lusso di rappresentare il Trittico nella sua completezza, così come voleva il suo autore. Spesso da noi si arriva a un solo titolo, se va bene abbinato all’atto unico di un altro compositore.

È inutile qui ribadire l’importanza di tenere unite le tre opere così differenti tra di loro, ma così mutualmente necessarie, tre visioni della vita e della morte interconnesse da sottili legami. Uno di questi è la morte del bambino di Giorgetta e Michele («l’anno scorso là in quel nero guscio | eravamo pur tre… c’era il lettuccio | del nostro bambino») che si lega a quella del bambino di Suor Angelica. E questo particolare è messo in evidenza dal regista Tobias Kratzer nella produzione de La Monnaie quando alcune suore del monastero sfogliano con avidità le pagine di un giornaletto con la storia illustrata del Tabarro e sono le immagini della maternità a destare la nostalgia delle recluse.

Diversamente da Michieletto ad esempio, che aveva unificato a modo suo l’ambientazione dei tre pezzi, Kratzer fornisce di ognuno dei tre atti un’immagine visiva e una lettura del tutto differente l’uno dall’altro: la scenografia di Rainer Sellmaier ricrea tre mondi completamente diversi per colore, taglio visivo, stile. Per Il tabarro sceglie di dividere la scena in quattro sezioni, come aveva fatto Philipp Stölzl a Salisburgo per Cav & Pag. Il ponte della chiatta, la misera stanza con le pareti di lamiera, la stiva, la riva con il lampione e le prostitute sono le quattro sezioni di una pagina a fumetti dai colori intensi, rossi e neri, alla Sin City di Frank Miller, come evidenzia il lettering del titolo che campeggia in alto a sinistra. Tutt’altra atmosfera per Suor Angelica: un palcoscenico pressoché vuoto accoglie l’andirivieni delle monache e lo sfondo è un enorme schermo su cui si proiettano le immagini in bianco e nero del monastero, delle celle, dei corridoi, del parlatorio, che prolungano la scena dove i personaggi talora continuano in video quello che è iniziato dal vivo, o viceversa. Come in uno zapping televisivo ci troviamo infine per Gianni Schicchi in un’ambientazione contemporanea: Buoso Donati si versa un bicchiere di vino e firma il testamento che nasconde nella busta del disco di Suor Angelica che sta ascoltando prima di essere colpito da un attacco di cuore e rimanerci secco. Invece del letto qui c’è la lounge chair di Charles Eames ad accogliere prima il cadavere di Buoso, poi il corpaccione di Gianni Schicchi per la burla che lo condanna all’inferno dantesco. Con un telecomando trovato per caso, dal pavimento esce una vasca idromassaggio piena di schiuma in cui si infilano i personaggi. Il crescendo comico è così esaltato a dovere dopo i drammi dei primi due titoli. Il pubblico fa parte dell’azione occupando la gradinata dello sfondo ed è invitato a interagire con «Oh!» di meraviglia e applausi da un assistente di scena dello studio televisivo in cui si immagina di girare la vicenda. Anche i testimoni del notaio Ser Amantio sono presi dal “pubblico”. Ed è questo lo spettacolo comico che Michele guardava sullo schermo della sua televisione nel Tabarro. Il cerchio così si chiude. Tobias Kratzer riesce a creare una messa in scena contemporanea mantenendo perfettamente leggibile la narrazione di ogni vicenda, cosa non sempre scontata nelle regie contemporanee, e di questo si deve dare merito al teatro di Bruxelles.

Note positive anche sul piano musicale. Nella serata andata in streaming alla conduzione dell’orchestra del teatro c’era Ouri Bronchti, che si è alternato nelle altre recite con Alain Altinoglu, ed è quindi non facile distinguere i meriti dell’uno o dell’altro, ma quale che sia stata l’impostazione orchestrale, il risultato è magnifico: la partitura di Puccini è esaltata nella sua modernità – mai si erano sentiti così distintamente i miagolii del soriano della Frugola, le sirene della polizia, i claxon, lo sciabordio mortifero delle acque della Senna… – nel primo pannello, i toni drammatici e patetici del secondo, la precisione del gioco comico del terzo.

Cast molto equilibrato, dove la maggior parte degli interpreti è presente in due dei tre titoli ed è debuttante nelle parti, come Lianna Haroutounian (Giorgetta e Suor Angelica): nella prima il soprano armeno spiega una voce dai toni sensuali e pieni di nostalgia per la sua Belleville, nella seconda i toni lirici e tragici si mescolano per delineare la donna che non riesce a dimenticare di essere stata madre. Ben più diverse le parti di Michele e Gianni Schicchi in cui il basso-baritono ungherese Péter Kálmán si trasforma da rozzo marito geloso, con toni veristi e una voce potente, nella maschera del truffatore che non rinuncia a mezzi espressivi quali il falsetto o la voce nasale per raggiungere lo scopo di divertire. Il tenore inglese Adam Smith come Luigi va un po’ per conto suo nel duetto del Tabarro, meglio come Rinuccio col pandoro in mano e l’acuto ben piazzato in Gianni Schicchi. Tinca e Talpa (Il tabarro) di lusso sono quelli di Roberto Covatta e Giovanni Furlanetto: il primo offre il suo bel timbro chiaro anche come Gherardo e il secondo diventa lo stralunato Simone, «Podestà a Fucecchio», anche lui tentato dalla Jacuzzi in Gianni Schicchi. Di certo non una debuttante nelle rispettive parti Elena Zilio, perfetta Badessa, come Zita affianca alla sicurezza vocale una carica comica insospettata. Tra i molti italiani del cast si fanno notare il mezzosoprano Annunziata Vestri (La Frugola e la suora Zelatrice) e il soprano Benedetta Torre, nei tre ruoli di Amante, Suor Genovieffa e soprattutto Lauretta. Di eccellente livello tutti gli altri numerosi interpreti. Una sorpresa il mezzosoprano americano Raehann Bryce-Davis che delinea una zia Principessa (Suor Angelica) tutt’altro che decrepita, dalla voce possente e dalla presenza fortemente ostentata: occhiali da sole, borsetta di coccodrillo, scarpe con tacchi a spillo e outfit di Cavalli sbattuto in faccia alle religiose nelle loro misere tonache. Un tocco di intelligente cattiveria da parte del regista.

 

Der Vampyr

Heinrich Marschner, Der Vampyr

★★★☆☆

Hannover, Staatsoper, 25 marzo 2022

(live streaming)

The Rocky Vampire Show

Per molto tempo si è creduto che il racconto The Vampyre (1819) fosse di Lord Byron. La falsa attribuzione si deve al suo vero autore, John William Polidori, il medico di Byron che, con lo scopo di attirare l’attenzione dei lettori, sfruttò la fama del poeta. Il tutto nacque quando Byron, Polidori, Percy Bysshe Shelley, Mary Shelley e Claire Clairmont, in vacanza a Villa Diodati sul lago di Ginevra durante le lunghe giornate di pioggia del giugno 1816, si sfidarono a chi scrivesse il miglior racconto dell’orrore. Da quella sfida nacque anche Frankenstein or The Modern Prometheus della Shelley. Polidori era stato ispirato dalla poesia di Byron The Giaour, a Fragment of a Turkish Tale, pubblicata nel 1813, e per il personaggio di Lord Ruthven si era ispirato all’eroe byroniano in versione malvagia. A questo aveva aggiunto le superstizioni balcaniche e greche sui vampiri, creature maledette che bevono il sangue dei loro cari e sono immortali.

Nel testo approntato per Marschner dal cognato Wilhelm August Wohlbrück – approdato dopo vari passaggi linguistici e teatrali quali la pièce Der Vampir oder die Totenbraut (1821) di Heinrich Ludwig Ritter – si trova un nobile scozzese, Lord Ruthven, costretto, per la maledizione di cui è vittima, a succhiare il sangue di tre giovani vergini prima dell’alba. L’impresa non era riuscita neppure al seduttore per eccellenza, Don Giovanni, i cui motivi si intrecciano curiosamente a quelli più genuinamente fantastici di questa storia romantica.

Atto primo. Scena 1. Dopo mezzanotte. Durante un sabba di streghe, il Maestro Vampiro dice a Lord Ruthven che se non riesce a sacrificare tre spose vergini entro le prossime 24 ore, morirà. Se ci riesce, gli sarà concesso un altro anno di vita. L’orologio batte l’una e la prima vittima di Ruthven, Janthe, arriva per un incontro clandestino, anche se il giorno seguente deve sposare un altro. Berkley, avendo scoperto che è scomparsa, la cerca con i suoi uomini, e Ruthven si nasconde con lei in una grotta. Le sue urla allertano il gruppo di ricerca e il corpo e il vampiro vengono scoperti. Berkley pugnala Ruthven e lo lascia morire, ma viene scoperto da Aubry, la cui vita era stata salvata da Ruthven in passato. Ruthven supplica Aubry di trascinarlo al chiaro di luna in modo che possa rivivere, e Aubry, mentre lo fa, si rende conto che Ruthven è un vampiro. Deve giurare di non rivelare questo segreto per ventiquattro ore, o diventerà un vampiro anche lui. Scena 2. La mattina dopo. Gli innamorati Malwina e Aubry vengono informati da Davenaut che Malwina deve sposare il conte di Marsden. Aubry riconosce il conte come Lord Ruthven, ma gli viene detto che è il fratello di Ruthven, che è stato all’estero per qualche tempo. Aubry, tuttavia, riconosce una ferita che prova che il conte è davvero Ruthven e sta per denunciarlo quando Ruthven gli ricorda il suo giuramento e le conseguenze che seguiranno se lo rompe. Iniziano i preparativi per il matrimonio di Malwina con Marsden.
Atto secondo. Scena 1. Vicino al castello di Marsden. Emmy attende il suo futuro marito, George. Arriva la notizia della macabra morte di Janthe ed Emmy racconta la leggenda del Vampiro. Ruthven appare e impressiona gli abitanti del villaggio con la sua generosità. Flirta con Emmy finché, interrotto da George, se ne va, anche se a quel punto ha ottenuto da Emmy la promessa di ballare con lui più tardi. Scena 2. Aubry cerca di convincere Ruthven a rinunciare alla sua pretesa su Malwina, ma gli viene di nuovo ricordato il destino che lo attende se rompe il suo giuramento. Ruthven, in un soliloquio, inveisce contro i tormenti che un vampiro deve affrontare. Scena 3. Aubry è combattuto dalla scelta tra rompere il suo giuramento e salvare Malwina, o tacere e perderla in favore del Vampiro. George chiede a Aubry di usare la sua influenza per impedire a Marsden di sedurre Emmy. Aubry avverte George che deve tenere d’occhio Emmy, ma lei è già stata condotta nella foresta da Ruthven. Scena 4. Fuori dalla locanda. Blunt, Gadshill, Scrop e Green cantano i piaceri del bere. La moglie di Blunt, Suse, rimprovera gli uomini, per la gioia degli astanti, ma arriva uno scapigliato George, che racconta di aver seguito Emmy e Marsden, solo per trovarlo in piedi sul suo corpo morto. Aveva sparato immediatamente al conte, lasciandolo al chiaro di luna. Gli abitanti del villaggio esprimono la loro simpatia e il loro dolore. Scena 5: Nel castello di Davenaut. Malwina deve sposarsi con Marsden prima di mezzanotte. Aubry la avverte che è in pericolo e lei si affida a Dio. Gli invitati al matrimonio arrivano, seguiti da Ruthven, che si scusa per il suo ritardo. Malwina e Aubry fanno un ultimo appello a Davenaut, che butta fuori Aubry e ordina che il matrimonio proceda. Si avvicina un temporale e Aubry ritorna, avendo deciso di rivelare il segreto di Ruthven a qualunque costo. Improvvisamente, l’orologio batte l’una e Aubry, libero dal suo giuramento, rivela che Marsden è Lord Ruthven, il Vampiro. Ruthven, avendo fallito il suo compito, viene colpito da un fulmine e scende all’inferno. Ora Davenaut chiede a Malwina di perdonarlo e acconsente al suo matrimonio con Aubry, nel tripudio generale.

Der Vampyr fu presentato con successo il 29 marzo 1828 a Lipsia dove Marschner sarà poi Kapellmeister dal 1831 al 1859 e dove presenterà l’opera comica Der Bäbu (1838) e l’ultima sua opera Austin (1852). Der Vampyr fu il primo consistente successo nella laboriosa e sfortunata carriera teatrale del compositore tedesco considerato l’anello di congiunzione tra Carl Maria von Weber e Richard Wagner, tra Biedermeyer e romanticismo. «La sua importanza nella storia dell’opera romantica tedesca sta nell’aver trattato i personaggi con maggior profondità di quanto il genere non consentisse, con un linguaggio teatrale che unisce il sicuro talento a una ricerca di forme meno convenzionali. Nei momenti in cui riesce a oltrepassare i limiti dell’opera basata sui numeri chiusi, Marschner crea ampie scene di grande tensione drammaturgica, in cui si articolano, mantenendo salda l’unità del tutto, momenti ariosi e recitativi, arie solistiche e parti corali». (Oreste Bossini)

In questa produzione di Hannover viene utilizzata l’edizione critica di Egon Voss, che ha ricostruito la versione originale sulla base delle fonti esistenti, essendo il manoscritto perduto. Alla testa della Niedersächsisches Staatsorchester Hannover, Stefan Zilias dà una lettura vigorosa che evidenzia gli effetti drammatici di una partitura che guarda più a Beethoven che a Wagner, fin dall’aria di sortita di Lord Ruthven «Ach welche Lust!», che non può non far venire in mente quella analoga di Don Pizzarro nel Fidelio. Anche il taglio da Singspiel non fa confermare questa impressione. D’altro canto Richard Wagner, che aveva conosciuto l’opera di Marschner nel 1833 come studente, sembra essersi ricordato della romanza di Emmy per la ballata di Senta nel Fliegende Holländer.

Gli impegnativi ruoli vocali trovano interpreti non del tutto convicenti. Michael Kupfer-Radecky delinea un Lord Ruthven piuttosto freddo, senza le componenti seduttive necessarie. Mercedes Arcuri preferisce l’agile coloratura ai toni drammatici del personaggio di Malwina. Norman Reinhardt è un po’ pallido come Edgar Aubry e il bel timbro non compensa la fatica di certi acuti. Più o meno efficaci i numerosi altri interpreti.

Ersan Mondtag, personaggio di spicco del teatro tedesco, qui nelle vesti di regista e scenografo dimostra ben presto di non credere né nel libretto di Wohlbrück né nella musica di Marschner. Del primo sostituisce i dialoghi con altri testi e inserisce tre personaggi estranei – Lord Byron, in completo rosa, parrucca arancione e occhiali alla Elton John; Astarte, la dea fenicia; Ahasver, l’ebreo errante – che commentano molto liberamente tra un numero e l’altro. Soprattutto il primo dilaga con i suoi monologhi camp e a un certo punto intona anche la canzone di Jan Verstraeten Vampire in my bed, una trovata divertente se c’entrasse in qualche modo con l’opera di Marschner. Eppure l’idea iniziale poteva essere interessante: nel 1938 ad Hannover viene distrutta la sinagoga degli ebrei, «quelli che bevono il sangue dei bambini» secondo l’archetipo antisemita, e in scena vediamo appunto le rovine dell’edificio con il grande rosone della stella a sei punte a pezzi. La targa della strada (Bergstraße) sul lampione dietro la panchina, conferma l’informazione. Quando la piattaforma ruota di 180° ci troviamo davanti alla villa di Daveanaut, uno sceicco del petrolio a metà tra Lord Vader e Sadam Hussein. Nei costumi di Josa Marx si nota il logo della Shell mentre i tessuti lucidi e neri sembrano inzuppati nell’oro nero. Le innumerevoli associazioni e trovate rendono lo spettacolo una specie di Rocky Horror Show, ma la musica di Marschner non è quella di O’Brien.

 

Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Davide Livermore, Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Genova, Teatro Gustavo Modena, 3 aprile 2022

Con Adelaide Ristori Livermore celebra il teatro stesso

Ma quando un attore/attrice muore, che cosa ne rimane? Liberamente tratto da Macbetto di Giulio Carcano, con la drammaturgia di Andrea Porcheddu in collaborazione con Sara Urban, il nuovo spettacolo di Davide Livermore Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori cerca di rispondere alla angosciosa domanda. Per un attore/attrice del nostro tempo rimangono le testimonianze audio e video, ma per un attore dell’Ottocento, a parte qualche ritratto, se va bene fotografico, che cosa resta della sua arte se non le parole di chi ha assistito a un suo spettacolo?

Adelaide Ristori è stata una delle maggiori artiste di teatro della sua epoca. Nata  nel 1822 a Cividale del Friuli, figlia d’arte ha respirato l’aria del teatro fin dalla nascita. Divenuta la più celebre attrice italiana, fu anche promotrice degli ideali patriottici risorgimentali vedendo i suoi spettacoli spesso interrotti dalla polizia. Molto nota anche all’estero, dove recitava correntemente in francese, spagnolo e inglese, il suo matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo destò molto scandalo in una società che considerava le attrici al limite della morale. Prima nella storia, la Ristori si occupò personalmente dei costumi e della regia dei suoi spettacoli. Visse gli ultimi anni nel palazzo Capranica a Roma dove morì nel 1906.

Alla figura di questa artista è dedicato lo spettacolo che celebra il bicentenario della sua nascita nella città che ne accoglie il lascito nel Civico Museo Biblioteca dell’Attore e che ha fornito la preziosa documentazione. In scena la grande Elisabetta Pozzi rivive la parte di Lady dal Macbetto del Carcano grazie alla realtà aumentata ideata da Davide Livermore e realizzata dalla D-Wok, con la partecipazione in video di Alberto Mattioli e i trucchi ed effetti speciali di Edoardo Pecar. Livermore ha immaginato uno studio televisivo in cui inserire l’intervento dell’attrice. «Un contenitore, un caleidoscopio, un accumulatore di immagini e di esperienze visive. Un meccanismo scenico che ci offre il pretesto per un gioco ironico e auto-ironico». Si passa quindi dall’investigazione storica alla performance ardimentosa affidata a una delle più grandi attrici del nostro teatro. «È come fare una seduta spiritica collettiva per godere ancora della luce di Adelaide e celebrare il teatro tutto» dice il regista.

Sleepless

foto © Magali Dougados – Grand Théâtre de Genève

Peter Eötvös, Sleepless

★★★☆☆

Genève, Grand Théâtre, 29 mars 2022

 Qui la versione italiana

Bonnie & Clyde dans les fjords

Une rencontre entre un écrivain norvégien et un compositeur hongrois : c’est Sleepless de Peter Eötvös. Coproduit par le Grand Théâtre de Genève et la Staatsoper Unter den Linden de Berlin, où il a été présenté en novembre dernier, cet opéra-ballade sur un livret écrit par son épouse Mari Mezei est basé sur Trilogie, recueil de nouvelles de Jon Fosse paru en 2014 : “Insomnie”, “Les rêves d’Olav”, “A la tombée de la nuit”.

Entre ballade – une histoire intemporelle racontée par un narrateur – et cinéma, l’œuvre d’Eötvös est divisée en deux actes composés de 12 scènes et d’un épilogue dans lesquels il raconte l’histoire d’un jeune couple d’adolescents, Alida et Asle, qui s’enfuient de chez eux parce que la jeune fille  attend un enfant mais qu’ils n’ont pas l’âge de se marier…

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