La traviata

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Giuseppe Verdi, La traviata

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 9 aprile 2021

(video streaming)

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La solitudine di Violetta

Barbiere, Traviata, Bohème: senza questi titoli ai teatri italiani mancherebbe mezzo cartellone. Dopo il bell’esperimento de Il barbiere di Siviglia in tempo di pandemia, l’Opera di Roma ci riprova con La traviata trasmessa ora in streaming su RAI 3.

È il risultato di cinque giorni di ripresa di un film-opera in presa diretta poi montato in studio. Responsabile della messa in scena, delle riprese e del montaggio è Mario Martone che così dichiara del suo lavoro: «È teatro che si scioglie in cinema, che cambia il suo stato fisico e diventa fluido, penetrando nelle pieghe della partitura, cogliendone ogni elemento drammaturgico. Verdi o Rossini non sono solo grandi compositori, ma anche grandi autori di teatro».

C’è un momento di grandissima emozione nel suo allestimento: nel finale Violetta muore sola, non solo sono scomparsi Alfredo e il padre, Annina e il Dottore, si apre il sipario e Violetta avanza al proscenio, tutto il teatro è vuoto, cade e le braccia inanimate di quella che «ha penato tanto» pendono nella buca che anche l’orchestra ha abbandonato. Durante i titoli di coda il lampadario risale con un sordo ronzio nella sala in cui si sono spente le luci. Con un grande senso del teatro Martone ci lascia quest’ultima immagine impressa nella memoria.

Anche l’inizio era stato visivamente fulminante: nel suo privé (il palco reale…) Violetta accompagna alla porta un vecchio cliente, poi si accascia esausta sul canapé mostrando le gambe con le vivaci calze a righe delle demi-mondaine parigine sotto la biancheria, nel mentre Annina conta le banconote. Non dimentichiamo mai neanche un momento, ci ricorda il regista, che Violetta è una prostituta, d’alto rango sì, ma è comunque sempre una donna che vende il suo corpo. Gesto iconico che rappresenta il disprezzo degli uomini per la donna sono i cappotti gettati sul suo letto, all’inizio dagli invitati alla festa, poi dagli invisibili clienti del passato mentre canta, illudendosi, di essere «Sempre libera». Papà Germont farà lo stesso nel terzo atto, incurante del fatto che sia il letto di una moribonda.

La traviata è stata oggetto di innumerevoli trasposizioni e adattamenti – il fatto che fosse una vicenda contemporanea nel 1853 ebbe un impatto sconvolgente per il pubblico di allora e si deve pensare a qualcosa di altrettanto scandaloso per il pubblico di oggi se si vuole mantenere il significato dell’opera. Martone sceglie di conservare l’ambientazione ottocentesca nei costumi (di Anna Biagiotti) e negli arredi utilizzando il Teatro dell’Opera di Roma come set della rappresentazione. Gli spettatori virtuali sono accolti dal lampadario della sala del Costanzi sceso a pochi metri dal pavimento, incombente con i suoi tremila chili di cristalli di Boemia. Tutta la platea è vuota – le poltrone sfondate verranno finalmente sostituite! – e un grande tavolo centrale ingombro di bottiglie e coppe di champagne serve per la festa chez Valéry. Sarà usato poi nel secondo atto come tavolo da gioco chez Bervoix e per le evoluzioni di zingarelle e toreri. Tutto il teatro diventa spazio scenico: i palchi, le scale, i foyer, i corridoi, tutto è utilizzato, compresi gli angoli nascosti, rifugio per piccoli momenti di piacere come succede in ogni festa un po’ trasgressiva.

Si ritorna sul palcoscenico vero e proprio nel secondo atto: gli alberi della campagna in cui si sono rifugiati i due amanti sono dipinti su tele che scendono dall’alto e provengono ironicamente da precedenti allestimenti. Che il quadro idilliaco sia precario è crudelmente messo in evidenza dal vecchio Germont che letteralmente smonta lo scenario: tira le corde e gli “alberi” si afflosciano a terra tra lo stupore di Annina e Giuseppe, i domestici di Violetta. Un mondo distrutto in un attimo.

Quelle che meno convincono nella lettura di Martone sono le sequenze girate in esterno per il viaggio di Alfredo dal buen retiro campestre a Parigi (ma dai finestrini della carrozza vediamo scorrere rovine romane…) e del duello col barone, nel libretto appena accennato, qui rappresentato (e alle terme di Caracalla…). Inutile anche la ripresa della strada del “coro baccanale” che festeggia il carnevale tra auto in sosta e con gli autobus sullo sfondo.

Daniele Gatti non omette nessuna delle pagine che generalmente vengono tagliate (le due riprese di Violetta: al primo atto «A me fanciulla, un candido» dell’aria «Ah, forse è lui» e al terzo «Le gioie, i dolori tra poco avran fine» dell’«Addio del passato» oltre che ad alcune battute nel duetto con Alfredo. Ma quello che sorprende nella sua concertazione sono i tempi veloci e l’assoluta aderenza alla partitura originale, senza i rallentandi e i crescendi di “tradizione”: la musica qui ha un’ansia che esalta la tragicità di una vita che ha i minuti contati. Senza eccedere nei livelli sonori Gatti lascia ai cantanti spazio per l’espressività. Il tutto riesce anche grazie alla qualità dei tre interpreti principali: il soprano americano Lisette Oropesa, che rivedremo come Violetta all’Arena di Verona quest’estate (se tutto va bene), ha da tempo affiancato ai ruoli più leggeri e belcantistici di Hébé (Les Indes galantes), Gilda (Rigoletto), Susanna (Nozze di Figaro), Konstanze (Die Entführung aus dem Serail) e Leila (Les pêcheurs de perles) parti più drammaticamente esigenti come Lucia o Violetta, appunto. Il timbro è sempre quello cristallino e le agilità non le fanno difetto, così come gli acuti, compresa la puntatura finale (non scritta) di «Sempre libera». Ci sono certamente state ultimamente Violette più strazianti nel terzo atto (una per tutte Ermonela Jaho), ma la commozione non è mancata anche senza effetti espressionistici.

Saimir Pirgu è un cantante sensibile e intelligente che ha saputo adattarsi alla situazione: non dovendo «farsi sentire anche nell’ultima fila» e avendo un microfono a pochi centimetri dall’organo vocale ha potuto instaurare un canto tutto di mezze voci e sfumature. Non ha avuto bisogno di dimostrare che la potenza sonora non gli fa difetto e se è mancata la puntatura alla fine di «volisi | l’offesa a vendicar» (neanche questa prevista dall’autore) è perché in questo contesto non avrebbe avuto senso.

Un Germont padre umanissimo che quasi ha rimorso di ciò che sta per chiedere è quello di Roberto Frontali, colori e fraseggio da manuale, le parole scolpite. Di ottimo livello i comprimari: il barone Douphol di Roberto Accurso, Angela Schisano (Annina), Anastasia Boldyreva (Flora), Rodrigo Ortiz (Gastone), Arturo Espinosa (D’Obigny), Michael Alfonsi (Giuseppe) e Andrii Ganchuk (Dottore).

Ora però basta con le opere in streaming, vogliamo ritornare a teatro – magari con qualche Traviata in meno.

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