Francesco Maria Piave

I due Foscari

foto © Andrea Crovera

Giuseppe Verdi, I due Foscari

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

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Com’è triste Venezia…

Opera venezianissima: siamo nel XV secolo e i Foscari del titolo sono il Doge Francesco e il figlio Jacopo, vittime del rancore tra famiglie nemiche e della brama di vendetta di Jacopo Loredano, membro del temibile Consiglio dei Dieci. Jacopo Foscari, ingiustamente accusato per un delitto che non ha commesso, ritorna illegalmente dall’esilio a cui era stato condannato sperando nella clemenza del Consiglio e nell’intercessione del padre Doge, ma Francesco, pur combattuto, è rispettoso della legge e il figlio è nuovamente condannato all’esilio morendo di crepacuore sulla nave che lo deve portare a Creta. Ma l’accanimento contro i Foscari non ha fine: Francesco viene costretto a dimettersi e la notizia che una confessione ha scagionato il figlio, ahimè troppo tardi, e il rintocco delle campane che festeggiano il nuovo Doge Malipiero, sono fatali per il vecchio che muore anche lui «d’angoscia». Un soggetto perfetto per La Fenice, «pieno di passione e musicabilissimo», come scrive Verdi, ma il teatro rifiuta ritenendo inopportuno riportare a galla l’antico rancore tra famiglie ancora attive allora in città e il compositore si rivolge altrove: I due Foscari vedrà la luce a Roma, al Teatro Argentina il 3 novembre 1844.

Francesco Foscari è il primo di una serie di vecchi oppressi dal potere – verranno poi Simon Boccanegra, Don Carlo, a suo modo anche Macbeth – e l’opera è un punto di svolta della drammaturgia verdiana: I due Foscari è il primo lavoro nel quale «vicende politiche siano in sostanza il motore stesso dell’azione», come scrive Massimo Mila, anche se Verdi qui sembra volersi staccare dal genere di Nabucco e Lombardi, opere prevalentemente di grandi quadri e vicende collettive, per rivolgersi invece a un dramma imperniato su personaggi-individui e azioni private travolte dalla politica. Per la prima volta qui si incarnano «la ragion di stato, le contraddizioni del potere, la solitudine che da esso deriva, la scissione tra persona privata e personaggio pubblico», come ricorda giustamente il Maestro Stefano Rolli nell’intervista inserita nel programma di sala.

La musica dei Foscari è scura al pari della tragedia di Lord Byron, The Two Foscari: An Historical Tragedy da cui è tratto il libretto di Francesco Maria Piave, lo stesso librettista del precedente Ernani. Nel 1821 a Ravenna Byron aveva scritto anche Marino Faliero, Doge of Venice, anch’essa ambientata nella città lagunare che il poeta conosceva bene per averci vissuto molti anni. I cinque atti della tragedia di Byron non sembrano offrire una particolare drammaturgia essendo l’azione statica, congelata nel lamento di tre personaggi – è presente con i suoi figli anche Lucrezia, la moglie di Jacopo – ma fin dalle prime note dell’ouverture Verdi riesce a definire con efficacia teatrale la plumbea atmosfera che dominerà nel dramma, con gli strumenti spesso nel registro grave e un uso dei timpani prima sommesso poi quasi ossessivo. L’atto secondo inizia con la tetraggine del carcere, in cui langue Jacopo, dipinta da un duo viola-violoncello di grande cupezza. Neanche la musica con cui si apre il terzo atto, il coro e barcarola del popolo e delle maschere «che si incontrano, riconoscono, passeggiano. Tutto è gioia» come dicono le didascalie del libretto, nella sua brevità riesce a cancellare la cupezza dell’atmosfera che volge presto in tragedia con la morte dei due personaggi eponimi. Ma a rendere teatrale e «musicabilissimo» I due Foscari sono le arie e il guizzo delle cabalette, cosa che ha ben compreso Sebastiano Rolli, specialista del repertorio verdiano, che a capo dell’orchestra del teatro dà una lettura trascinante della partitura realizzando alla perfezione questo primo Verdi degli “anni di galera”, un compositore costretto a un lavoro forsennato e massacrante sotto i condizionamenti dell’ambiente teatrale. Bilanciando il suono orchestrale Rolli riesce ad accompagnare le voci nello slancio delle cabalette e nei concitati ensemble dei finali infuocati con tempi esatti e colori ora sommessi ora sfavillanti. Una prova magnifica di senso del teatro.

Nel cast vocale svetta la maiuscola performance di Luca Salsi, un Francesco Foscari delineato a tutto tondo con grande proiezione vocale, ricchezza di sfumature e intenzioni, una scavo sulla parola senza pari. Due sono i momenti solistici più grandiosi di questo personaggio magnificamente tratteggiato da Verdi: nel primo atto «Eccomi solo alfine… […] O vecchio cor, che batti | come a’ prim’anni in seno» quando esprime il tormento della sua impotenza di fronte alla legge; nel terzo atto l’amaro sfogo di «Questa dunque è l’iniqua mercede, | che serbaste al canuto guerriero?» rivolto al Consiglio dei Dieci che gli impone la rinunzia. In entrambi il baritono parmense sa trarre accenti da brivido che lo mettono alla pari con i più celebrati interpreti del passato. Nei panni di Jacopo Foscari Francesco Meli non parte benissimo: le note tenute sono eccessivamente vibrate, gli acuti sforzati, ma poi nel corso della serata l’esecuzione migliora e il tenore genovese riesce a fornire una solida e convincente performance. La parte di Lucrezia Contarini è tra le più impervie tra quelle delle opere di questo periodo, al pari di Abigaille, ma Anastasia Bartoli la affronta con grande sicurezza con quella voce imperiosa come una lama d’acciaio che nel tempo si spera diventi però meno tagliente. Difficile non rendere odiosa la parte di Jacopo Loredano, ma Riccardo Fassi non eccede in truculenza, anzi ne dà una lettura sobria e pure elegante. Qui ci vorrebbe l’aiuto di un regista per definire il personaggio, ma la regia è totalmente latitante. L’ultima volta che I due Foscari è stato dato a Venezia fu nel 1977 con la regia di Sylvano Bussotti: tanto valeva riprendere quella produzione vista a Torino qualche anno dopo e che mi ricordo fosse a suo modo efficace. Grischa Asagaroff si limita a far entrare e uscire i personaggi e il coro senza un vero senso drammaturgico e gli interpreti affidano alle loro capacità attoriali la teatralità dei loro gesti, per lo più convenzionali. Non va meglio per la scenografia di Luigi Perego che ricrea una Venezia falsa e bruttoccia, con le nuvolette e il mare dipinti sulle quinte e con al centro un parallelepipedo, ispirato alla tomba dei Foscari nella chiesa dei Frari, fatto ruotare da quattro figuri in mantelli neri lucidi per creare i vari ambienti. Lo stesso Perego disegna i costumi tutti uguali con con un guizzo di surreale follia al terzo atto, quello delle maschere, quando tutti si presentano con un copricapo a forma di ferro delle gondole… Neanche alle Folies Bergères o a Las Vegas hanno mai osato tanto kitsch! Ah, anche qui c’era un balletto. Da dimenticare.

Deluso dalla Venezia dipinta, il pubblico si è infiammato però per la parte musicale con calorosi applausi agli interpreti vocali e al direttore. Uno spettacolo da ascoltare senza guardare.

 

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 19 agosto 2023

★★★★☆

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La scossa del Macbeth di Warlikowski al Festival di Salisburgo

Mentre qui in Italia ci trastulliamo in provinciali polemiche su regie “tradizionali” e regie “moderne”, il più blasonato festival del mondo impiega solo i più “discussi” registi di oggi: Martin Kušej (Le nozze di Figaro), Christof Loy (Orfeo ed Euridice), Christof Marthaler (Falstaff), Simon Stone (The Greek Passion), Krzysztof Warlikowski (Macbeth). Certo non sono tutti spettacoli memorabili, anzi qualcuno è proprio brutto (due su cinque…), ma c’è comunque chi paga 465 € per una poltrona in platea e le sale sono sempre piene – e parliamo di oltre 5200 posti ogni sera nei tre teatri principali. Alla faccia della crisi dell’opera! 

Molta era l’attesa per la nuova produzione del “polacco terribile” dell’opera di Verdi: quelle di Warlikowski sono come un ottovolante: una corsa mozzafiato tra alti e bassi da cui non si esce indenni, come in questo Macbeth, che a momenti di grande teatro fa seguire altri meno convincenti, ma nel complesso è un’esperienza che lascia il segno. Che è quello che dovrebbe sempre fare il teatro.

Lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus sembra ancora più esteso orizzontalmente nell’impianto scenografico di Małgorzata Szczęśniak, con una lunghissima panca di legno, come nella vecchia sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Un video mostra in bianco e nero una madre che allatta un bambino. Una donna, la Lady, siede sulla panchina a destra, un uomo, Macbeth, all’altra estremità. Poi da sinistra entra una stanza dove donne bendate formulano oracoli, mentre da destra entra la cabina di un medico e una videocamera accompagna la donna nella cabina su una sedia ginecologica. La visita sembra stabilire la sua impossibilità di avere figli. 

La mancanza di figli – e quindi di una discendenza – è il tema centrale nella drammaturgia di Christian Longchamp, ancor più della brama di potere: se non hai qualcuno di tuo a cui lasciarlo, a che cosa serve? E sono molti i bambini che affollano la scena: quelli delle profezie, certo, ma anche i figli di Macduff, vittime di una strage degli innocenti allorché la madre decide di avvelenarli tutti, compresa sé stessa, per non consegnarli «fra gli artigli di quel tigre».

Anche Michieletto aveva puntato sulla mancata maternità della Lady, ma qui di diverso c’è la forte relazione di coppia dei due coniugi che mai si spezza. Neanche alla fine, quando vengono legati assieme, ormai dementi e fisicamente sfatti, prima di essere linciati dal popolo: lei era stata salvata dal suicidio e ha vissuto gli ultimi istanti assieme all’amato marito, amato forse anche più del potere. Molti sono i momenti nello stile di Warlikowski, ad esempio quello del banchetto, dove la Lady canta il suo brindisi al microfono, mentre Macbeth è ossessionato dalla visione di Banco che egli stesso ha disegnato su un palloncino. O quando viene servito il piatto finale e sotto la cupola c’è un bambolotto guarnito con broccoli. Appena incoronati dopo l’assassinio di Duncano, in piena regalia, una volta che la musica si ferma e la folla si disperde i due scoppiano a ridere per la facilità con cui l’hanno fatta franca, poi però subito dopo si rendono conto di non poter desiderare altro e da quel momento inizia il loro dramma e conseguente decadimento: lei inizia a bere, a delirare per inesistenti macchie di sangue; lui soffre del complesso di castrazione da parte della moglie/madre o delle streghe – sullo schermo della televisione erano intanto apparse le immagini dell’Edipo Re di Pasolini – e da quel momento vive su una carrozzina a rotelle, aiutato/dileggiato dai servitori.

Questa azzardata drammaturgia non sarebbe convincente senza la presenza di due interpreti che facciano propria la particolare visione del regista e Asmik Grigorian e Vladislav Sulimskij lo fanno. Lei lituana, lui bielorusso, si impadroniscono entrambi della parola verdiana, oltre che della psicologia dei personaggi, creando una coppia magnetica teatralmente e vocalmente notevole. È proprio qui da Salisburgo che la Grigorian ha iniziato la sua straordinaria carriera rivelandosi come Salome nella produzione di Castellucci. Le doti sceniche dell’artista sono eccelse, quelle vocali quasi altrettanto, e anche qui in questo temibile ruolo non delude le aspettative creando un personaggio umano e tragico allo stesso tempo, senza l’eccesso di malvagità che di solito viene attribuito al personaggio. Non perché la Lady non sia malvagia, ma perché qui prevale la sua nuda umanità. Il canto è espressivo, ma non espressionista e le note sempre perfettamente intonate. Non so se sarebbe piaciuta a Verdi che voleva dei suoni «aspri, soffocati, cupi», ma al pubblico è piaciuta senza riserve. Vladislav Sulimskij è un Macbeth tormentato che presto perde l’aggancio con la realtà e piomba negli abissi della quasi demenza. La voce è molto elastica ed espressiva e il suo «Pietà, rispetto, amore» è del tutto convincente, così come il conclusivo momento «Mal per me che m’affidai», l’aria recuperata dalla versione del 1847.

Macbeth è un lavoro dove predominano le due voci principali, ma anche Malcom e Macduff hanno a disposizione momenti importanti. Il primo con «Ah, la paterna mano» dove Jonathan Tetelmann ha riscosso un grande successo di pubblico con la sua voce dal bel timbro e dalla enorme proiezione, forse anche troppa: “less is more” vale anche per il fascinoso tenore cileno-americano. Il secondo sparisce presto dalla scena, ma ha modo di farci apprezzare Tareq Nazmi nella sua drammatica aria «Come dal ciel precipita» eseguita con le generose risorse vocali e interpretative del basso tedesco. Caterina Piva (la Dama della Lady), Evan LeRoy Johnson (Malcom), Aleksei Kulagin (il Dottore), Grisha Martirosyan (Domestico di Macbeth) e Hovhannes Karapetyan (Assassino e Araldo) hanno completato in bellezza l’eccellente distribuzione. Il coro poteva fare meglio, mentre meglio non potevano fare i Wiener Philharmoniker sotto la guida di Philippe Jordan che ha sostituito il previsto Franz-Welser Möst, che si è dovuto sottoporre a un urgente intervento ortopedico. Non sono il primo a dire che nella sostituzione tutti ci abbiamo guadagnato: la concertazione di Jordan è risultata trascinante pur nel rispetto delle voci in scena, con dinamiche spedite ma non affrettate, una grande forza teatrale con colori e luci (e ombre) mirabilmente realizzati dagli straordinari strumentisti.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo di grande impatto salutato dalle ovazioni del pubblico. Fino al 27 ottobre la registrazione video è disponibile su arte.tv.

La traviata

  

Giuseppe Verdi, La traviata

Parigi, Opéra Garnier, 28 settembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

A Parigi una Traviata 2.0

Assieme a Stiffelio, La traviata è l’unica altra opera in cui Verdi mette in scena la sua contemporaneità. Per questo entrambi i lavori ebbero grandi problemi con la censura: la società borghese del tempo non amava vedersi raffigurata nei suoi vizi e nelle sue ipocrisie, preferiva rispecchiarsi in vicende storiche del passato sublimate dal tempo e dalla distanza. Il romanzo di Dumas, La Dame aux camélias, era stato pubblicato da neanche cinque anni e l’adattamento teatrale era uscito  un anno prima: per ricreare l’impatto che quel lavoro aveva avuto sui contemporanei di Verdi, ora a distanza di 170 anni i registi rendono attuale l’ambientazione per il pubblico di oggi e sempre meno infatti si vedono Violette in crinoline ottocentesche o in stile Belle Époque, meno che mai in costumi settecenteschi, come aveva dovuto fare Verdi per aggirare la censura in alcune città degli stati che formavano l’Italia di allora.

Ecco quindi che al Palais Garnier Simon Stone adatta la vicenda ai nostri tempi: Violetta è una star dei social con milioni di follower; ha una sua linea di cosmetici; come VIP salta le file per entrare nei locali alla moda ma proprio per la vita troppo indipendente della donna il principe saudita che doveva sposare la sorella di Alfredo «si ricusa al vincolo» – e questo è l’elemento meno convincente della drammaturgia, mentre passa invece il fatto che non sia la tisi a minare la salute della giovane bensì una recidiva tumorale. Tutto questo lo veniamo a sapere fin dal preludio dai messaggi che scorrono sugli schermi a led che tappezzano le facce di un parallelepipedo rotante che si mostra cavo per il locale trendy, per la Place des Pyramides o per la stanza dell’ospedale oncologico in cui viene ricoverata Violetta. Le scene sono firmate da Bob Cousins e l’interessante gioco luci si deve a James Farncombe. Questa dicotomia tra realtà virtuale e reale è l’elemento più intrigante della messa in scena di Stone, che poi indugia in «scene che potrebbero urtare la sensibilità dei più giovani o dei non informati», come si legge su un avviso dell’Opéra National che mette in guardia il pubblico dalle esplicite immagini al neon che decorano la festa da Flora, praticamente un’orgia in costume, e dei goliardici costumi dei partecipanti, ideati da Alice Babidge, con falli di gomma ben in mostra ma nei posti sbagliati.

Per sottolineare il cambiamento d’atmosfera tra l’ambiente urbano e quello rurale del secondo atto, nella produzione di Černjakov alla Scala Alfredo affettava le zucchine, qui invece spinge una carriola piena digrappoli d’uva che poi pigia coi piedi per il vino fatto in casa, mentre per il latte c’è una placida vacca che Violetta sta mungendo – ma che diventerà un trattore nelle riprese dello spettacolo a Monaco di Baviera – e c’è pure una piccola chiesetta per ricordare alla giovane che «dal ciel non furono tai nodi benedetti». Angosciante il terzo atto nel reparto trasfusioni di un ospedale, dove ogni paziente è accompagnato da qualcuno, Violetta invece è sola, si stacca la flebo e delirando rivive il passato: la fila per entrare nel locale trendy, il retro della discoteca con i bidoni di immondizia, la piazza con la statua dorata, le immagini sul cellulare del felice passato. Poi la vediamo coricata nel lettino di ospedale in uno spazio vuoto e abbagliante di bianco, ma non muore nel lettino: si avvia verso un’apertura e sparisce nella nebbiolina. Un finale poco convincente.

Quella che invece risulta del tutto convincente è la direzione di Michele Mariotti, dai lividi accordi del preludio del primo atto a quello straziante del terzo, dagli angosciosi colpi dei timpani di «Amami Alfredo» alle ruvide e desolate strappate degli archi di «Addio del passato». Mariotti presta grande attenzione alle voci e al loro equilibrio sonoro con la fossa orchestrale. Riapre poi i tagli di tradizione così che la sua Traviata risulta integrale salvo alcuni da capo nelle cabalette dei due uomini.

Trionfo personale per la Violetta di Pretty Yende che esordisce nella parte, a suo agio nelle agilità e nei virtuosismi del primo atto come nella tragica intensità del terzo quando è finalmente e totalmente nella pelle della protagonista, mentre fino a quel momento c’era una certa freddezza. Non sembra scoccare invece la stintilla tra i due protagonisti, più convincenti da soli che in duo. Benjamin Bernheim ha voce ampia e ben sfumata, la recitazione non è un gran che ma così delinea un Alfredo un po’ impacciato e superficiale, come in realtà è il personaggio. Jean‑François Lapointe è un Germont padre non particolarmente convincente ma gioca in casa e il pubblico è in delirio per lui. Julien Dran (Gaston) e Thomas Dear (Dottor Grenvil) sono quelli che si fanno più notare nella folta schiera di comprimari. Preciso e scenicamente sciolto il coro del teatro diretto da José Luis Basso.

 

Simon Boccanegra


Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 14 ottobre 2022

(live streaming)

L’ur-Boccanegra e i suoi difetti a Parma

È dovere dei festival fare conoscere le versioni alternative dei capolavori dei compositori che intendono celebrare e bene ha fatto dunque il Festival Verdi, finalmente in versione completa dopo la sospensione del 2020 e la forma ridotta del 2021, a presentare la versione originale del 1857 del Simon Boccanegra, quella che a Venezia aveva replicato il fiasco de La traviata di quattro anni prima. Un’edizione che per la prima volta integra documenti autografi ritrovati nella villa di Sant’Agata del Maestro in una nuova produzione assegnata alla regista Valentina Carrasco, debuttante a Parma.

 

Le principali differenze di questo ur-Boccanegra, oltre alla miriade di piccoli aggiustamenti sia al testo che alla musica approntati da Verdi e Boito per l’edizione del 1881, stanno nella presenza di un breve preludio costruito su temi che verranno esposti nel corso dell’opera, una virtuosistica cabaletta a conclusione dell’aria di sortita di Maria/Amelia e una scena di festa alla fine del primo atto che nella seconda versione verrà sostituita dalla ben più incisiva scena del Gran Consiglio. Manca quindi il monologo di Paolo «Me stesso ho maledetto» e il personaggio non ha il peso che avrà nella futura versione. Simone Boccanegra qui non è ancora quella grande opera dove la riflessione politica e il disinganno del potere coinvolgono anche gli affetti privati come sarà con Boito, in questa versione abbiamo una storia privata immersa in uno scontro politico.

Nella lettura della Carrasco è la lotta di classe la protagonista: la plebe è sostituita dagli operai, lavoratori dal coltello facile, i patrizi dai capitalisti. La ferocia del potere è rappresentata dalle carcasse di bue appesi in un macello, la congiura una resa di conti tra mafiosi. La registra illustra in maniera molto realistica l’espressione “carne da macello” e la violenza espressa nel libretto – sangue, pugnale, morte sono i termini più frequenti – e ambiente la vicenda nella Genova degli anni ’60, come si evince dai costumi di Mauro Tinti, dai video in bianco e nero e dalle scene di Martina Segna. Questo realismo si trasforma però in un quadro simbolico di riappacificazione nel finale quando Genova diventa inopinatamente un campo di grano e i camalli del porto candidi pastori da presepe con scialletto di pelle di agnello. Il corrusco Quarto stato di Pellizza da Volpedo si trasforma così in un romantico quadro di mietitori dove viene portato in scena anche un agnellino vivo e il sole al tramonto è reso con sei riflettori puntati sul pubblico, ma tutto questo ottimismo non sembra confermato dalla musica, pessimistica quanto mai. Che poi le carcasse da macello avrebbero urtato la sensibilità di molti spettatori era prevedibile ed è avvenuto, ma non è questo il punto. La regista dimostra di possedere molte idee, anche troppe, ma spesso sono espresse in maniera pesante e poco coerente e la recitazione non rende più plausibili i personaggi. Qui la morte di Simone è tra le più imbarazzanti viste finora e  la fanciullaggine di Amelia eccessiva.

 

Senza riserve è invece la realizzazione musicale affidata alla conduzione esperta di Riccardo Frizza che rende il meglio di questa partitura ancora un po’ grezza, ma che lascia intravedere i tesori futuri. I tempi scelti sono convincenti, il colore scuro e gli sprazzi di luce sono ben resi, giusto è l’equilibrio tra orchestra e cantanti, precisi gli interventi del coro, qui impegnato anche in passi coreografici e movimenti complessi, peraltro ben controllati dalla Carrasco.

Nobile e introverso è il Simone di Vladimir Stoyanov: più che la fierezza dell’ex corsaro qui predomina l’amore per la figlia ritrovata negli affetti privati e la delusione in quelli pubblici. Nel finale condividerà il pianto con l’altro padre, Fiesco, un autorevole Riccardo Zanellato. David Cecconi, privato della sua pagina più importante, non riesce a dare tridimensionalità al suo Paolo Albiani mentre la coppia dei giovani può contare sul sicuro mestiere di Piero Pretti, un Gabriele Adorno se non attorialmente, vocalmente convincente, e una freschissima Roberta Mantegna che affronta senza esitazione e con ottimi risultati la cabaletta «Il palpito deh frena» quando Amelia è in attesa dell’arrivo del suo amato.

Il video streaming dello spettacolo è disponibile sul portale operastreaming.com, il palcoscenico virtuale dell’Emilia-Romagna.

Ernani

 

Giuseppe Verdi, Ernani

★★★

Roma, 3 giugno 2022

(video streaming)

L’Ernani riproposto a Roma denuncia ben più degli anni che ha

È una capsula del tempo questa produzione di Hugo de Ana dell’Ernani che aveva inaugurato la stagione lirica romana nel 2013: regia, scene e costumi sembrano risalire non a nove anni fa, ma a un passato assai più remoto. Le incombenti scenografie – un richiamo alla facciata del palazzo di Carlo V a Granada col suo forte bugnato e le colonne – invece che tridimensionali potrebbero essere dipinte e non cambierebbe molto dell’efficacia drammatica, mentre così costringono a una scena unica. I pesanti arredi e i sontuosi costumi d’epoca connotano i personaggi ma sembrano inutilmente ingombranti e costosi: i bordi di pelliccia, i broccati e i ricami dell’ultima/o corista vanno del tutto persi nella affollata visione d’insieme. Le interazioni fra i personaggi sono prevedibili con il tenore che si piazza a gambe larghe al proscenio e il soprano che risponde alla descrizione di una cantante d’epoca con le forme abbondantemente generose e che solo un’altrettanto abbondante dose di suspension of disbelief può far passare per «aragonese vergine» giovinetta di cui tutti cadono innamorati cotti.

Vero è che la drammaturgia dell’Ernani di Francesco Maria Piave poco si presta a una lettura teatralmente contemporanea della vicenda, ma c’è un momento quasi da pochade in questo lavoro che un regista un po’ più disinibito avrebbe potuto sfruttare in modo intrigante: una donna è concupita da due diversi pretendenti e viene scoperta nel mezzo della notte e nelle stanze più intime del suo castello dal terzo pretendente, quello che conta di sposarla il giorno dopo. Il tenore (amato dalla donna), il baritono (qui addirittura il monarca) e il basso (il terzo e vecchio intruso) si affrontano e quest’ultimo crede di risolvere con le armi la questione prima di scoprire di avere di fronte a sé il proprio re. Poi la faccenda si sviluppa tra perdoni che hanno secondi fini, finte rese, scoppi d’ira e gelosie presto sedati, repentini cambiamenti di alleanze, patti sciagurati e congiure. Eppure Ernani aveva rappresentato un lavoro sperimentale per il Verdi 32enne qui alla sua quinta opera, presentata alla Fenice dopo le quattro alla Scala. Il compositore sembra voler superare il sistema della forma a numeri chiusi per dar vita a un teatro vivo e romanticizzato. Ecco allora la scoperta del ruolo archetipo del baritono o l’utilizzo dei terzetti per le strette in cui concentrare la tensione drammatica dopo lo slancio lirico degli incisi melodici.

Nove anni fa alla guida dell’orchestra del teatro c’era Riccardo Muti, ora è la volta di Marco Armiliato che dà buona prova realizzando una lettura quasi completa della partitura – manca la cabaletta della cavatina di Silva «Infin che un brando vindice» che Verdi non aveva potuto utilizzare a Venezia per la modestia del “basso comprimario” a disposizione – e con le riprese delle arie, che però talora mettono in difficoltà il tenore. I momenti migliori sono nelle impennate dinamiche degli ensemble finali e nel sostegno delle voci, anche se alcune, tenore e basso, risultano spesso sopraffatte dall’orchestra.

L’unico a ritornare nei panni titolari dopo il 2013 è Francesco Meli di cui si ammirano il colore e le intenzioni interpretative, anche se ora la voce manca a tratti di fermezza e gli acuti risultano sforzati. Per di più il suo è il personaggio a cui la regia ha reso il peggior servizio, sempre con la mano sulla spada anche nelle dichiarazioni d’amore. Non gioca poi a suo favore il confronto con il volume vocale dei colleghi Angela Meade (Elvira) e Ludovic Tézier (Carlo). Il soprano americano non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le insidie vocali del ruolo anche se dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio né una recitazione particolarmente coinvolgenti: resta il mirabile controllo della sua enorme voce, ma manca l’emozione. Tézier è invece il miglior Carlo disponibile, con un mezzo vocale altrettanto potente e controllato, ma con in più uno scavo sul personaggio che lo porta a ricevere il più caloroso applauso a scena aperta dopo il suo meraviglioso «O de’ verd’anni miei». Evgenij Stavinskij è un Don Ruy Gomez de Silva di non enorme voce ma elegante, autorevole ed espressivo. Bene i comprimari, usciti dalla Fabbrica-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: la Giovanna di Marianna Mappa, lo Jago di Alessandro Della Morte e il valido Rodrigo Ortiz, Don Riccardo.

Statico e impacciato scenicamente, non si può dire che compattezza e precisione siano le maggiori qualità vocali del coro dell’Opera di Roma istruito da Roberto Gabbiani, come si è sentito nell’iconico «Si ridesti il leon di Castiglia» reso con una certa fiacchezza. Definiti giustamente “movimenti mimici” gli strani gesti dei ballerini di Michele Cosentino.

  

Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 20 giugno 2022

(video streaming)

Rigoletto è scandalosamente politico anche oggi

«Non toccatemi Verdi». Questo sembra essere il mantra del melomane che frequenta i teatri italiani. Ignaro di tutto quello che avviene al di fuori dei patri confini, se nel Rigoletto  non c’è la gobba, manca il Mincio e i costumi non sono quelli cinquecenteschi del dramma di Victor Hugo da cui deriva il libretto, allora si tratta di vera e propria lesa maestà nei confronti del compositore. Che poi questa lettura non avvenga per mano di un tedesco della Regietheater ma di uno dei più apprezzati registi italiani non conta: le contestazioni rivolte ai realizzatori della produzione alla fine della rappresentazione lo stanno a dimostrare – anche se come al solito questo succede solo alla prima e nelle repliche i bu spariscono.

Eppure Rigoletto è una delle opere più sconvolgenti di Verdi, quella per cui più ha dovuto combattere con la censura, un’opera che allora doveva essere un pugno nello stomaco per gli spettatori. Come dovebbe essere anche oggi. Il punto di partenza della lettura di Martone è la disparità sociale, del rapporto tra il potere e i deboli, reso molto chiaramente molto chiaramente dalla scenografia di Margherita Palli: da una parte il lusso, la droga, il sesso a pagamento nel loft del ricco; dall’altra il degrado dei tuguri dei miseri. Una semplice rotazione della grande scenografia ci porta in un mondo o nell’altro, due mondi che sono contigui: una porticina permette di passare dal loft ai sotterranei, così che Rigoletto possa fornire di cocaina le feste del padrone o che questi possa trastullarsi con la sorella di Sparafucile. E prima i suoi compagni di baldoriaavevano varcato la stessa porta per rapire Gilda. Dal primo piano ricco vengono gettati nei bassifondi i “rifiuti umani” quando non servono più, come le prostitute che dopo il lavoro sono ricacciate fra quelle luride mura e quando la porta rimane aperta permette di avere uno sguardo dal basso di quell’ambiente con i sofà bianchi e gli oggetti di design. Tutto quel bianco alla fine però si macchierà di sangue: con un finale a sorpresa, e non del tutto convincente in verità, gli emarginati si vendicano e uccidono il Duca e i suoi compagni come nel film Parasite di Bong Joon Ho. Una lotta di classe dal finale cruento e di gusto pulp che ha scatenato le rumorose contestazioni di parte degli spettatori.

Era ovvio che uno spettacolo come questo dividesse il pubblico, ma dalla critica sono pervenute quasi unanime lodi, con Angelo Foletto affermare che il Rigoletto di Martone non piace ai “prepotenti”: «succede che le prime della Scala siano ostaggio di pochi appassionati, si fa per dire, che con la prepotenza di scomposti ‘bu’ e ‘vergogna’, addirittura a sipario ancora aperto, decidono cosa l’autore avrebbe disapprovato condizionando il giudizio complessivo sullo spettacolo». Eppure era già nelle intenzioni di Verdi fare un’opera di denuncia sociale e Martone la rende soltanto più cruda e disturbante, più contemporanea – in una città le cui acque reflue sono piene di cocaina consumata non solo nei fine settimana ma tutti i giorni… Che poi questa lettura non sia neanche così originale a partire dal Rigoletto della Mafia di Little Italy di Jonathan Miller (ed era il 1982!) non è ovviamente alla portata del melomane medio (cit.). Lo spettacolo molto “teatrale” di Martone si distingue per la ricchezza di particolari che gettano luce su una drammaturgia di grande impatto e soprattutto per la intensa recitazione degli interpreti, prima fra tutti l’incantevole Gilda di Nadine Sierra nella sua tragica parabola da ragazza giovanilmente innamorata a donna che sceglie la morte essendo la sua prevedibile esistenza ancora peggiore. La tecnica sicura le permette di affrontare le agilità di «Caro nome» con facilità ed espressività, mentre la felice presenza scenica è ancora più convincente qui che non nella precedente vecchia produzione scaligera.

Arriva in scena e la voce riempie il teatro: Amartuvshin Enkhbat ritorna in una parte felicemente frequentata molte volte. Senza i cachinni di tradizione, la sua performance vocale ha una pulizia e un’autorevolezza che hanno pochi uguali, timbro pastoso e sonoro, proiezione mirabile e dizione scolpita sono le qualità della suainterpretazione. Migliorata è anche la resa attoriale e se non nella espressione del volto – ma questo è colpa delle regie televisive e dei loro spietati primi piani che ci hanno male abituati – il cantante riesce a dare una decisa caratterizzazione del personaggio anche senza la gobba, con un’andatura caracollante e nervosa che rispecchia la sua disturbata psicologia. Efficace il Duca di Piero Pretti, che tenta di dare spessore al personaggio senza esagerare nella spavalderia. Cupo più del solito il Monterone homeless di Fabrizio Beggi, meno cupo del solito invece lo Sparafucile di Gianluca Buratto. Marina Viotti è una convincente Maddalena.

Incomprensibilmente contestata anche la direzione di Michele Gamba che invece ha dato una lettura innovativa della partitura eliminando puntature di tradizione – ma il la bemolle alla fine di «Vendetta» è stato concesso – e scegliendo tempi adeguati. Si sa, la tradizione e Verdi non si toccano.

 

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 7 décembre 2021

 Qui la versione italiana

(retransmission en direct à la télévision)

Un Macbeth cinématographique ouvre la nouvelle saison de la Scala

Pour une fois, l’Italie prend le contre-pied positif de la tendance générale : alors qu’à l’étranger, notamment en Allemagne et en Autriche, les théâtres ferment en raison de la quatrième vague de la pandémie de Covid, nous avons ici une frénésie d’activités qui a conduit à des programmations simultanées de spectacles, et notamment de premières. La date incontournable du calendrier des opéras italiens c’est bien sûr le 7 décembre, avec l’ouverture rituelle et très attendue de la nouvelle saison de La Scala. Les images désespérantes de la Wiener Staatsoper vide pour Don Giovanni le lundi 6 décembre sont heureusement contrebalancées par celles de la Sala del Piermarini pleine à craquer et somptueusement décorée de roses et d’orchidées…

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Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

(diretta televisiva)

La Scala punta sul sicuro per inaugurare la stagione

Per una volta l’Italia è in controtendenza positiva: mentre all’estero, soprattutto in Germania e Austria, i teatri chiudono per la quarta ondata della pandemia da Covid, qui c’è quasi una frenetica attività che ha portato a ingorghi di rappresentazioni con prime concomitanti. E ora si celebra il culmine dei cartelloni lirici italiani con l’inaugurazione rituale e attesissima della nuova stagione del Teatro alla Scala. Alle sconfortanti immagini della Wiener Staatsoper vuota per il Don Giovanni di lunedì 6 dicembre, fanno da felice contrasto quelle della sala del Piemarini stracolma di pubblico e sontuosamente addobbata con le rose e le orchidee di Armani Fiori.

È la quinta volta che il Macbeth inaugura la stagione del teatro milanese: avvenne infatti nel 1938 (diretto da Gino Marinuzzi con la regia di Oskar Walleck), nel 1952 (De Sabata/Ebert, quello con la Callas), nel 1975 (Abbado/Strehler) e nel 1997 (Muti/Vick). Ed è il maestro Riccardo Chailly a officiare ora l’evento, la sua ottava prima scaligera. Il direttore milanese sceglie la versione parigina del 1865, quella più frequentemente eseguita. Dopo la prima del 1847 a Firenze, infatti, per il Théâtre Lyrique Verdi aveva approntato una versione completa di balletto, ineludibile nella capitale francese, con una diversa intonazione del coro «Patria oppressa» e dopo aver eliminato la morte in scena di Macbeth dopo la sua aria «Mal per me che m’affidai», che qui invece viene recuperata, nonostante le critiche di Massimo Mila che non ammetteva  questa versione ibrida, oltre ad altre varianti. A Parigi il lavoro fu rappresentato in francese: Verdi aveva fatto la sua revisione su un testo italiano che fu tradotto solo dopo, non scrisse direttamente in francese come farà col Don Carlos, ed ecco perché non si sente la necessità di un Macbeth in francese, come avviene invece con l’opera tratta da Schiller.

La lettura di Chailly è di grande teatralità, dai tempi dilatati e solenni, la narrazione è però sempre tesa, con alcune pagine, come quelle che precedono gli interventi della Lady o le apparizioni dei futuri sovrani, da vero thriller moderno. La sua orchestra rende i colori cupi e lividi della partitura, così come i momenti di festosità, sempre un po’ inquietante però, della vicenda. Il direttore milanese riesce così a evidenziare i caratteri particolari che fanno di questo uno dei maggiori capolavori del nostro maggiore compositore.

Le voci in scena sono degli habitué della prima, tutti al quarto o quinto Sant’Ambrogio, e tra le migliori disponibili. Anna Netrebko ritorna nella parte della Lady affrontata altre volte. Lo smalto è leggermente appannato, la cavatina d’entrata non è delle sue più riuscite, ma poi migliora sempre più fino a una scena della pazzia da brivido – e non solo perché è imbragata lassù a sei metri di altezza – anche se l’ultima nota è presa maluccio. Attrice di temperamento, fa del suo personaggio una figura temibile che solo la follia può placare: la seconda ripresa del brindisi, dopo lo smarrimento del consorte alla vista del fantasma di Banco, fa realmente paura per la violenza minacciosa che esprime. Gianluca Falaschi la veste sublimemente come la moglie di un oligarca miliardario russo con rasi impreziositi da fenici ricamate. Nella festa la Lady, ora Regina, sfoggia un’impensabile acconciatura alla Tordella (quella di Bibì e Bibò) che la rende grottescamente orripilante.

Un ritorno nella parte di Macbeth è anche quello di Luca Salsi. Il baritono di Parma risolve vocalmente  il personaggio con grande autorevolezza, con un canto tutto sulla parola, colori scuri e toni soffocati. Che poi la sua figura rimandi a un bonaccione padano piuttosto che a un perfido sovrano scozzese, probabilmente sono solo io a notarlo.

Invece, la presenza scenica e vocale di Il’dar Abdrazakov (Banco) giganteggia in tutti i sensi, anche nella gigantografia del volto che rovina la festa al suo assassino. Francesco Meli compita come sempre molto bene l’aria di Macduff e stavolta riesce anche a muoversi nel duello finale con Macbeth che, dopo averlo trafitto, spinge dentro l’ascensore (sì, c’è un ascensore…) giù nell’inferno. Di lusso anche i comprimari: Iván Ayón Rivas è un luminoso Malcom, Chiara Isotton (Dama della Lady) nel concertato del finale primo lancia un do che oscura la diva, mentre Andrea Pellegrini è un impeccabile medico; ottimi anche gli altri. Il coro in Macbeth ha il suo momento di gloria con quel «Patria oppressa» che contende al «Va’ pensiero» il posto d’onore nella classifica dell’emozione: un ottimo avvio per il nuovo direttore del coro Alberto Malazzi. Daniel Ezralow si occupa dei ballabili con grande efficacia: i bellissimi numeri musicali di Verdi sono incentrati sui tre personaggi principali e quando viene il momento della Lady scopriamo le insospettate doti tersicoree dell’Annuska che si muove abilmente nei passi della modern dance coreografati dal fondatore del MOMIX e della ISO Dance.

La parte visiva è affidata per la quarta volta di seguito a Davide Livermore, che monta uno spettacolo grandioso e tecnologico con i soliti rimandi cinematografici. Bellissima la prima scena con l’automobile ferma in una landa brumosa dove si consuma l’ultimo atto di una guerra fra bande e dove avviene la prima apparizione delle streghe, qui normalissime donne a cui è demandato esprimere il vaticinio fatale: nella lettura di Livermore manca totalmente l’elemento sovrannaturale, cosa che capita sempre più sovente nelle messe in scene contemporanee di quest’opera. C’è poco da fare, il soprannaturale non è di oggi. La corsa dell’auto di Macbeth e Banco continua fino alla periferia desolata della città e poi ai grattacieli della downtown. Il led wall con i video della D-Wok fa la magia di farci passare con fluidità da un mondo all’altro, dalla “realtà” alla distopia. Da qui inizia l’ascesa al potere di Macbeth che dagli ultimi piani della sua Scottish Court Tower, raggiunti ovviamente in ascensore, trama l’uccisione del re Duncan per usurparne il posto. Dalle vetrate della lussuosa penthouse lo sguardo spazia sulla metropoli, come la Coruscant di Star Wars, ma qui la prospettiva è deformata: i grattacieli crescono in orizzontale, obliqui o dall’alto verso il basso, come nel film Inception di Chistopher Nolan. Il mondo capovolto riflette quello sconvolto della coppia diabolica nella sua corsa al potere.

L’ipertecnologico spettacolo di Livermore ha una doppia fruizione: a teatro e sul piccolo schermo. Sono quasi due spettacoli diversi quelli che vedono gli spettatori della Scala e quelli della diretta televisiva: non si tratta solo di primi piani o taglio delle inquadrature, ci sono momenti che solo sullo schermo televisivo possono essere ammirati, quali le riprese dentro l’automobile o quelle nell’ascensore – in cui i due coniugi hanno un furioso amplesso. O la visione dall’alto della Lady sul cornicione del grattacielo con la vista del traffico stradale cinquanta piani più in basso, un’inquadratura che abbiamo visto innumerevoli volte al cinema, ma che qui desta meraviglia. O ancora, le immagini della festa che i telespettatori vedono svolgersi agli ultimi piani della Scottish Court Tower inquadrata a distanza, e qui il richiamo è a Blade Runner.

Livermore gestisce genialmente i diversi mezzi, ma l’accuratissima e spettacolare confezione dello spettacolo sembra nascondere la mancanza di un’idea forte e originale – il Macbeth di Michieletto che aveva aperto la stagione della Fenice nel 2018 l’aveva, fin troppo… Non so se i soliti dissensi alla fine dello spettacolo si riferissero a questo o alla delusione di non aver visto in scena kilt e manieri in rovina nella brughiera scozzese.

La presentazione televisiva è stata funestata dalla presenza delle solite incartapecorite facce che sono riuscite a inciampare anche sulla semplice trama. In tutta la serata non c’è stato nessuno che abbia pronunciato con l’accento giusto il nome: Macbèth (come Macdùff), non Màcbeth – che infatti il librettista Piave chiama regolarmente Macbetto (e Macduffo). La trasmissione televisiva è stata vista da 2 milioni di persone, mille volte quelle presenti in sala.

Rigoletto

 

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★★

Venise, Teatro La Fenice, 8 octobre 2021

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Un Rigoletto mémorable sur la scène de La Fenice

L’an dernier, avec un Rigoletto monté en pleine pandémie, Damiano Michieletto s’est essayé à de nouvelles voies, en sollicitant conjointement différents langages dans les espaces ouverts et gigantesques du Circus Maximus de Rome : c’était une interprétation cinématographique et réaliste de l’œuvre, avec des voitures, des caravanes et des manèges de fête foraine sur scène. Cette production a donné lieu à un enregistrement qui est présenté ces jours-ci au Festival du film de Rome.

Sa production précédente de Rigoletto (celle d’Amsterdam en 2017) revient aujourd’hui dans les espaces plus habituels du théâtre vénitien. Malgré quelques menus changements – le protagoniste ne subit pas d’électrochocs, on ne lui met pas de camisole de force – l’approche reste non conventionnelle. « Qu’arrive-t-il à Rigoletto après la découverte du meurtre de sa fille ? », s’est demandé le metteur en scène…

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Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★★

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2021

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Un memorabile Rigoletto quello in scena alla Fenice

L’anno scorso con il suo Rigoletto in piena pandemia Damiano Michieleto tentava nuove strade, una contaminazione fra differenti linguaggi negli spazi aperti ed enormi del romano Circo Massimo. Una lettura cinematografica e realistica, con automobili, roulottes e giostre di luna park in scena. La registrazione di quello spettacolo è diventata un film che viene presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma.

Ora la sua precedente produzione di Rigoletto, quella di Amsterdam del 2017, ritorna negli spazi più consueti del teatro veneziano. Pur con qualche variante – non c’è elettroshock per il protagonista, né camicia di forza – l’approccio non è comunque consueto. Che cosa succede a Rigoletto dopo la scoperta dell’assassinio della figlia, si è chiesto il regista. Ecco, il pover’uomo impazzisce per il rimorso di averne provocato involontariamente la morte: il piano ordito per eliminare il duca gli si ritorce contro e l’uomo uccide l’unica cosa preziosa che possiede nella vita, lui che non ha «patria, parenti, amici», come sintetizza efficacemente il libretto di Francesco Maria Piave. Il fatto di essere stato la causa della sua morte lo porta alla follia. È la sua maledizione, parola chiave che doveva essere anche il titolo originale del lavoro. Rigoletto è dunque internato in una struttura manicomiale e rivive tutta la vicenda, una tragedia che ha la forma di un sogno angoscioso nella sua mente malata. Ecco quindi che la «musica interna da lontano» (1) ci arriva smussata come se fosse nella sua testa, mentre la «folla di Cavalieri e Dame» porta la stessa maschera del duca – l’unica, vera ossessione di Rigoletto: «giovin, giocondo, sì possente, bello», mentre lui è «vil, scellerato, difforme…».

Non è la prima volta che Michieletto assume il tema della follia a base della sua lettura. Era già avvenuto con il Sigismondo al ROF del 2010, ma qui la figura di Rigoletto richiama in più quella del Lear scespiriano: un padre che impazzisce per aver avuto un distorto senso di amore per la figlia che alla fine si ritrova cadavere nel pieno di una tempesta. Là Cordelia, qui Gilda.

Nella scenografia di Paolo Fantin il claustrofobico interno è piastrellato come era la cucina di Don Giovanni di uno dei suoi primi spettacoli, quel curioso Il dissoluto punito di Ramón Carnicer i Batlle presentato a La Coruña nel 2006. Ma qui nelle alte pareti bianche si aprono dei varchi da cui entrano i personaggi del suo incubo. A sinistra una grande porta, sempre chiusa, a destra una grande finestra con inferriata. Come per un crudele contrappasso la sua cella è una replica gigante della camera della figlia bambina, che il padre ha protetto dal mondo tenendola chiusa a chiave, praticamente prigioniera.

Con questo spettacolo Michieletto non solo elabora con efficacia la sua personale visione di questo capolavoro, ma ne restituisce la originale forza drammatica. Il pugno nello stomaco che dovevano aver provato gli spettatori nel 1851 lo riproviamo noi oggi dopo aver visto decine di Rigoletti, è come se lo scoprissimo per la prima volta. L’effetto è sconvolgente, quasi non siamo più abituati nel teatro d’opera a vivere emozioni così forti. Lo spettacolo di Michieletto ci sbatte in faccia verità sgradevoli: Rigoletto non è il povero vecchio, ma un uomo moralmente tutt’altro che irreprensibile, che usa i soldi presi dalla tasca del cappotto del duca per pagarsi un sicario. E Gilda non è l’ingenua fanciulla incosciente che cade nella trappola involontariamente tesa. Lei getta via i peluches che le regala il padre e nei suoi disegni infantili la figura della madre è rabbiosamente cancellata con la matita nera – chissà quale dramma nascosto cela quel gesto. Rigoletto non si rivolge a Gilda, bensì a una bambina con una maschera, preferisce una bambola inerte alla ragazza che vuole crescere, diventare donna e vivere la propria vita. E che rischia il tutto per tutto per tagliare l’opprimente legame col padre. In un sogno vediamo infatti la bambina uscire dalla finestra, ora senza sbarre, e correre fuori, libera e felice. Nello stesso momento la parola maledizione rimbomba per l’ultima volta e nella mente di Rigoletto un corto circuito di angosciose emozioni lo condanna per sempre alla follia. Nel finale lo ritroviamo ripiegato nella stessa posizione fetale con cui era apparso all’apertura del sipario.

Nella drammaturgia di Michieletto ogni dettaglio è significativo: il medico che cura Rigoletto diventa subito dopo un trucido Sparafucile, Giovanna è una rigida infermiera. Tutti i personaggi sono vestiti di bianco eccetto la figlia, che porta un vestitino a fiori, strapazzato e strumento lascivo nelle mani dei cortigiani nell’atto secondo. Rivelatore è il fatto che Monterone qui sia un alter-ego di Rigoletto, ne assuma le fattezze – porta la gobba, è claudicante. Sono entrambi padri sventurati accomunati dal fatto di avere una figlia disonorata dal duca e non è senza significato il fatto che Verdi li faccia cantare nello stesso registro vocale.

Che la musica di Rigoletto sia sconvolgente ce lo dimostra con grande chiarezza Daniele Callegari che dell’opera offre una versione senza arbitrii di tradizione, acuti non scritti, corone e tagli. I colori sono pieni di chiaroscuri, la tensione drammatica non ha un momento di stanchezza e si arriva al finale col cuore che batte forte. Luca Salsi supera la prova con bravura sbalorditiva: sempre in scena, la sua presenza fisica e vocale non ha mai un cedimento. La linea scelta dal baritono parmense si muove tra pianissimi – «ah no, è follia» finalmente senza puntatura! –, mezzevoci e linee vocali ampie, robuste, sempre con grande sensibilità e chiarezza di accento. Solo al momento dell’invettiva contro i cortigiani – «quanno ce vò, ce vò»  – tutto solo in scena e con sullo sfondo i colorati disegni infantili della figlia che vengono cancellati dal nero,  si lascia andare a uno sfogo di violenza e verità tali da scatenare l’unico lunghissimo applauso a scena aperta della serata da parte di un pubblico altrimenti soggiogato dalla tensione implacabile della direzione musicale.

Di Iván Ayón Rivas non ho sempre apprezzato lo slancio vocale spesso poco controllato, ma qui con la sua spavalderia riesce a delineare un duca memorabile, la voce è ferma, il timbro luminoso e la proiezione eccezionale, esaltata dalla acustica della sala veneziana. Ottima è la prova fornita da Claudia Pavone (Gilda), donna emancipata piuttosto che fanciulla ingenua e bamboleggiante. Mattia Denti (Sparafucile) e Valeria Girardello (Maddalena) se non vocalmente si fanno notare per la presenza scenica. Efficaci risultano gli altri interpreti, soprattutto il Monterone di Gianfranco Montresor.

Esito felicissimo della serata con applausi copiosi per gli interpeti e vere e proprie ovazioni per Salsi. Un Rigoletto quasi riscoperto di nuovo.

(1) Espressione presente nella prima didascalia per designare la festosa musica suonata da una banda fuori scena.