Andrea Maffei

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 7 décembre 2021

 Qui la versione italiana

(retransmission en direct à la télévision)

Un Macbeth cinématographique ouvre la nouvelle saison de la Scala

Pour une fois, l’Italie prend le contre-pied positif de la tendance générale : alors qu’à l’étranger, notamment en Allemagne et en Autriche, les théâtres ferment en raison de la quatrième vague de la pandémie de Covid, nous avons ici une frénésie d’activités qui a conduit à des programmations simultanées de spectacles, et notamment de premières. La date incontournable du calendrier des opéras italiens c’est bien sûr le 7 décembre, avec l’ouverture rituelle et très attendue de la nouvelle saison de La Scala. Les images désespérantes de la Wiener Staatsoper vide pour Don Giovanni le lundi 6 décembre sont heureusement contrebalancées par celles de la Sala del Piermarini pleine à craquer et somptueusement décorée de roses et d’orchidées…

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Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

(diretta televisiva)

La Scala punta sul sicuro per inaugurare la stagione

Per una volta l’Italia è in controtendenza positiva: mentre all’estero, soprattutto in Germania e Austria, i teatri chiudono per la quarta ondata della pandemia da Covid, qui c’è quasi una frenetica attività che ha portato a ingorghi di rappresentazioni con prime concomitanti. E ora si celebra il culmine dei cartelloni lirici italiani con l’inaugurazione rituale e attesissima della nuova stagione del Teatro alla Scala. Alle sconfortanti immagini della Wiener Staatsoper vuota per il Don Giovanni di lunedì 6 dicembre, fanno da felice contrasto quelle della sala del Piemarini stracolma di pubblico e sontuosamente addobbata con le rose e le orchidee di Armani Fiori.

È la quinta volta che il Macbeth inaugura la stagione del teatro milanese: avvenne infatti nel 1938 (diretto da Gino Marinuzzi con la regia di Oskar Walleck), nel 1952 (De Sabata/Ebert, quello con la Callas), nel 1975 (Abbado/Strehler) e nel 1997 (Muti/Vick). Ed è il maestro Riccardo Chailly a officiare ora l’evento, la sua ottava prima scaligera. Il direttore milanese sceglie la versione parigina del 1865, quella più frequentemente eseguita. Dopo la prima del 1847 a Firenze, infatti, per il Théâtre Lyrique Verdi aveva approntato una versione completa di balletto, ineludibile nella capitale francese, con una diversa intonazione del coro «Patria oppressa» e dopo aver eliminato la morte in scena di Macbeth dopo la sua aria «Mal per me che m’affidai», che qui invece viene recuperata, nonostante le critiche di Massimo Mila che non ammetteva  questa versione ibrida, oltre ad altre varianti. A Parigi il lavoro fu rappresentato in francese: Verdi aveva fatto la sua revisione su un testo italiano che fu tradotto solo dopo, non scrisse direttamente in francese come farà col Don Carlos, ed ecco perché non si sente la necessità di un Macbeth in francese, come avviene invece con l’opera tratta da Schiller.

La lettura di Chailly è di grande teatralità, dai tempi dilatati e solenni, la narrazione è però sempre tesa, con alcune pagine, come quelle che precedono gli interventi della Lady o le apparizioni dei futuri sovrani, da vero thriller moderno. La sua orchestra rende i colori cupi e lividi della partitura, così come i momenti di festosità, sempre un po’ inquietante però, della vicenda. Il direttore milanese riesce così a evidenziare i caratteri particolari che fanno di questo uno dei maggiori capolavori del nostro maggiore compositore.

Le voci in scena sono degli habitué della prima, tutti al quarto o quinto Sant’Ambrogio, e tra le migliori disponibili. Anna Netrebko ritorna nella parte della Lady affrontata altre volte. Lo smalto è leggermente appannato, la cavatina d’entrata non è delle sue più riuscite, ma poi migliora sempre più fino a una scena della pazzia da brivido – e non solo perché è imbragata lassù a sei metri di altezza – anche se l’ultima nota è presa maluccio. Attrice di temperamento, fa del suo personaggio una figura temibile che solo la follia può placare: la seconda ripresa del brindisi, dopo lo smarrimento del consorte alla vista del fantasma di Banco, fa realmente paura per la violenza minacciosa che esprime. Gianluca Falaschi la veste sublimemente come la moglie di un oligarca miliardario russo con rasi impreziositi da fenici ricamate. Nella festa la Lady, ora Regina, sfoggia un’impensabile acconciatura alla Tordella (quella di Bibì e Bibò) che la rende grottescamente orripilante.

Un ritorno nella parte di Macbeth è anche quello di Luca Salsi. Il baritono di Parma risolve vocalmente  il personaggio con grande autorevolezza, con un canto tutto sulla parola, colori scuri e toni soffocati. Che poi la sua figura rimandi a un bonaccione padano piuttosto che a un perfido sovrano scozzese, probabilmente sono solo io a notarlo.

Invece, la presenza scenica e vocale di Il’dar Abdrazakov (Banco) giganteggia in tutti i sensi, anche nella gigantografia del volto che rovina la festa al suo assassino. Francesco Meli compita come sempre molto bene l’aria di Macduff e stavolta riesce anche a muoversi nel duello finale con Macbeth che, dopo averlo trafitto, spinge dentro l’ascensore (sì, c’è un ascensore…) giù nell’inferno. Di lusso anche i comprimari: Iván Ayón Rivas è un luminoso Malcom, Chiara Isotton (Dama della Lady) nel concertato del finale primo lancia un do che oscura la diva, mentre Andrea Pellegrini è un impeccabile medico; ottimi anche gli altri. Il coro in Macbeth ha il suo momento di gloria con quel «Patria oppressa» che contende al «Va’ pensiero» il posto d’onore nella classifica dell’emozione: un ottimo avvio per il nuovo direttore del coro Alberto Malazzi. Daniel Ezralow si occupa dei ballabili con grande efficacia: i bellissimi numeri musicali di Verdi sono incentrati sui tre personaggi principali e quando viene il momento della Lady scopriamo le insospettate doti tersicoree dell’Annuska che si muove abilmente nei passi della modern dance coreografati dal fondatore del MOMIX e della ISO Dance.

La parte visiva è affidata per la quarta volta di seguito a Davide Livermore, che monta uno spettacolo grandioso e tecnologico con i soliti rimandi cinematografici. Bellissima la prima scena con l’automobile ferma in una landa brumosa dove si consuma l’ultimo atto di una guerra fra bande e dove avviene la prima apparizione delle streghe, qui normalissime donne a cui è demandato esprimere il vaticinio fatale: nella lettura di Livermore manca totalmente l’elemento sovrannaturale, cosa che capita sempre più sovente nelle messe in scene contemporanee di quest’opera. C’è poco da fare, il soprannaturale non è di oggi. La corsa dell’auto di Macbeth e Banco continua fino alla periferia desolata della città e poi ai grattacieli della downtown. Il led wall con i video della D-Wok fa la magia di farci passare con fluidità da un mondo all’altro, dalla “realtà” alla distopia. Da qui inizia l’ascesa al potere di Macbeth che dagli ultimi piani della sua Scottish Court Tower, raggiunti ovviamente in ascensore, trama l’uccisione del re Duncan per usurparne il posto. Dalle vetrate della lussuosa penthouse lo sguardo spazia sulla metropoli, come la Coruscant di Star Wars, ma qui la prospettiva è deformata: i grattacieli crescono in orizzontale, obliqui o dall’alto verso il basso, come nel film Inception di Chistopher Nolan. Il mondo capovolto riflette quello sconvolto della coppia diabolica nella sua corsa al potere.

L’ipertecnologico spettacolo di Livermore ha una doppia fruizione: a teatro e sul piccolo schermo. Sono quasi due spettacoli diversi quelli che vedono gli spettatori della Scala e quelli della diretta televisiva: non si tratta solo di primi piani o taglio delle inquadrature, ci sono momenti che solo sullo schermo televisivo possono essere ammirati, quali le riprese dentro l’automobile o quelle nell’ascensore – in cui i due coniugi hanno un furioso amplesso. O la visione dall’alto della Lady sul cornicione del grattacielo con la vista del traffico stradale cinquanta piani più in basso, un’inquadratura che abbiamo visto innumerevoli volte al cinema, ma che qui desta meraviglia. O ancora, le immagini della festa che i telespettatori vedono svolgersi agli ultimi piani della Scottish Court Tower inquadrata a distanza, e qui il richiamo è a Blade Runner.

Livermore gestisce genialmente i diversi mezzi, ma l’accuratissima e spettacolare confezione dello spettacolo sembra nascondere la mancanza di un’idea forte e originale – il Macbeth di Michieletto che aveva aperto la stagione della Fenice nel 2018 l’aveva, fin troppo… Non so se i soliti dissensi alla fine dello spettacolo si riferissero a questo o alla delusione di non aver visto in scena kilt e manieri in rovina nella brughiera scozzese.

La presentazione televisiva è stata funestata dalla presenza delle solite incartapecorite facce che sono riuscite a inciampare anche sulla semplice trama. In tutta la serata non c’è stato nessuno che abbia pronunciato con l’accento giusto il nome: Macbèth (come Macdùff), non Màcbeth – che infatti il librettista Piave chiama regolarmente Macbetto (e Macduffo). La trasmissione televisiva è stata vista da 2 milioni di persone, mille volte quelle presenti in sala.

Macbeth

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Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★★

Parigi, Opéra Bastille, 8 aprile 2009

(registrazione video)

Macbetto, borghese piccolo piccolo

Lo spettacolo è nato all’Opera di Novosibirsk nel 2008 e l’audace coproduzione è stata fortemente voluta da Gerard Mortier, direttore allora dell’Opéra National di Parigi. E si capisce il perché: questa è una delle migliori messe in scena di Dmitrij Černjakov, che si conferma come tra i più stimolanti registi di oggi. Per di più c’è a disposizione quell’altro astro (allora) in ascesa di Teodor Currentzis. Bel colpo quindi e fortunatamente registrato e commercializzato in un DVD BelAir.

In questo Macbeth di Dmitrij Černjakov non vediamo castelli medievali immersi nelle brume delle brughiere scozzesi: proiettata sul velatino una mappa satellitare di Google Earth ci fa scendere su una cittadina qualunque di oggi. Il puntatore si ferma e l’immagine zuma su una piccola piazza che potrebbe essere stata disegnata da De Chirico (casettine geometriche come le cabine dei suoi Bagnanti) o da Magritte (ombre e cieli solcati da nuvole che cambiano a seconda dello stato d’animo): una piazzetta di metafisico nitore illuminata da un unico lampione ad arco. Qui troviamo una folla anonima che dà voce ai “vaticinii”, è la gente a decidere del destino di Macbeth, siamo noi, l’opinione pubblica. Non c’è il soprannaturale nella lettura del regista russo (il fantasma di Banco e le apparizioni dell’atto terzo sono solo nella mente sconvolta dell’uomo), né particolare sete di sangue nei due coniugi: è una semplice irreversibile scalata sociale, costi quel che costi. Macbeth è un piccolo borghese con smanie di arrivismo e ha una moglie che ne è talmente innamorata da fare qualunque cosa per agevolargli la “carriera”, anche spingerlo al delitto, senza prenderne in considerazione le conseguenze. Ma ciò non diminuisce affatto il senso della tragedia, anzi lo rafforza, come fa notare Elvio Giudici: «All’interno di una qualunque banale coppia borghese sprovvista della minima grandezza – né in positivo né in negativo – la molla d’una follia distruttiva è tanto imprevedibile quanto facile a scattare: capace di trasformare in mostri dei vicini di casa che abbiamo salutato per anni […] non metafisiche incarnazioni del Male, bensì mostri quotidiani dietro l’angolo, in ciabatte e vestaglia: molto, moltissimo più terrorizzanti di grandi figure storiche sospinte da un indefinibile mondo soprannaturale nelle remote brume di un paese lontano in un’epoca lontanissima».

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Durante la lettura della lettera fatta da una voce maschile fuori scena, Google Earth ci porta nella villa dei coniugi: scendiamo dall’alto, la costruzione assume tridimensionalità, ruota su sé stessa ed entriamo dalla finestra. Qui la camera, spoglia ma col camino acceso, ha una spessa cornice ed è come sospesa nell’immenso palcoscenico dell’Opéra Bastille. Tutta la vicenda si alternerà tra questa stanza e la piazza.

La folla, minacciosa nel suo anonimato e nella sua indifferenza – c’è chi mastica chewing gum, chi mangia un panino, chi fuma – si beffa dell’uomo, si sentono spesso delle risate. Poi tutti rientrano nelle loro casette e li vedremo poi alle finestre al primo piano osservare impassibili lo scontro tra Macbeth e la moglie. Tra quella stessa folla avviene l’omicidio di Banco: appena riesce a far fuggire il figlio, viene inglobato nel passaggio degli estranei e quando questi lasciano la piazza, per terra rimane il cadavere dell’uomo, solo. La folla è però anche quella delle vittime della guerra (la città vista dall’alto mostra i segni dei bombardamenti), ognuno con un oggetto salvato da casa e il «Patria oppressa», qui un momento più sconvolgente che mai, porta a una scena ancora più toccante, con Macduff che canta «Ah, la paterna mano» dal lettino del figlio.

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La maggior parte del coro è fuori scena e noi vediamo degli attori in azione. Anche alcuni uomini muovono la bocca sulle parole cantate dalle donne e c’è un piccato recensore francese che si è scandalizzato di questo particolare: gli si può rispondere che non è certo intenzione del regista fare del realismo, ma di sottolineare la “stranità” della situazione – oltre che forse ammiccare ironicamente all’ambiguità voluta dal libretto: «Dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba».

La cura attoriale di Černjakov è a dir poco stupefacente. Bisogna vedere il rapporto fra i due coniugi, i mille particolari rivelatori della loro sofferta intesa prima del fatto e della complicità dopo. La Lady rimane sempre quella che era: una donna che accoglie il Re, una specie di Berlusconi, in uno sformato maglione, gli occhiali cerchiati di nero e i capelli spettinati e che per la festa che segue l’incoronazione mette su un vestitino sberluccicoso di pizzo nero e si esibisce in infantili giochi di prestigio con un logoro cappello a cilindro. Il neo-re in quell’occasione ha un frac un po’ fuori misura che veste male e con il papillon di traverso. Da antologia le espressioni degli invitati, come da antologia sono quelle individuali della folla della piazza.

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Nella scena del sonnambulismo la Lady ripete i gesti che aveva fatto col marito la notte del regicidio, entra ed esce dalla stanza, cincischia col cappello a cilindro, mette e toglie la tovaglia sul tavolo su cui nell’ultima scena Macbeth solo e in mutande si rannicchia in posizione fetale. Non c’è grandezza né reale né malvagia nel personaggio, solo una nuda dolente umanità. Qui viene inserito nella versione 1865 il finale 1847, con Macbeth che intona «Mal per me che m’affidai» al cui termine attacca la giubilante marcia dei vincitori, qui con un colore sinistro mentre i muri della stanza vengono demoliti a picconate dall’esterno.

La lettura di Černjakov trova un’opportuna sponda in orchestra: Teodor Currentzis esalta i momenti drammatici di questo giovane capolavoro verdiano senza mai strafare e con un’attenzione spasmodica al colore strumentale. Ogni particolare orchestrale vive con la narrazione e la esalta. Una prova magistrale per il giovane direttore greco con formazione russa.

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Vocalmente non superlativo, ma efficacissimo il Macbeth di Dimitris Tiliakos, la sua è un performance del tutto funzionale alla lettura del regista, come rileva ancora il Giudici: «Un Macbeth la cui pericolosità è diretta e proporzionale conseguenza del suo essere un omarino piccino, insicuro, ma che cionondimeno – trovandosi nel posto giusto al momento giusto – la folla può scambiare per uomo della provvidenza al punto da credersi tale lui stesso, salvo andare a pezzi con altrettanta facilità nell’una come nell’altra direzione sprovvisto della minima di grandezza, Ma non per questo meno patetico, forse addirittura commovente. È un Macbeth di oggi, quando non pare esserci più posto per il carisma del grande uomo di stato, sia esso politico o militare: Černjakov ne fa l’emblema della nuova Russia, che sfortunatamente pare però estendibile su scala planetaria, e comunque è senz’altro persona ben più comune e periodicamente risorgente».

Non nuova al personaggio della Lady, Violeta Urmana conferma le sue capacità vocali qui giudiziosamente calibrate – non fa infatti la puntatura al re♭– ma si dimostra attrice perfetta e infonde nel fraseggio e nei colori della sua parte il coinvolgimento col personaggio come l’ha voluto Černjakov. Come Macduff Stefano Secco brilla nella sua unica bellissima aria espressa con grande sensibilità mentre Ferruccio Furlanetto (Banco) supplisce con l’accento a una linea vocale non più molto fresca. Ottimi i comprimari e strabiliante il coro rimpolpato con attori. La magia delle luci è affidata al solito Gleb Filshtinsky mentre l’impeccabile video grafica è di Leonid Zalessky della Ninja Films. Andy Sommer si occupa della splendida regia video.

Dopo questo sarà difficile inventarsi un Macbeth altrettanto vero e sconvolgente. Ci proverà, a modo suo, solo Michieletto.

I masnadieri

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Giuseppe Verdi, I masnadieri (Die Räuber)

★★★☆☆

Milan, Teatro alla Scala, 18 June 2019

   Qui la versione italiana

“Verdi’s ugliest opera” returns to La Scala with mixed results

Although the translation of Schiller’s original text attenuated its “criminal gloomy mood”, the critics of the time called I masnadieri (Die Räuber) “an abhorrent and disgusting monstrosity”, accusing it of immorality and incitement to commit crime!

Three men are driven by violent sentiments. Massimiliano (Count Moor) has banished his son, Carlo, who consequently establishes himself at the head of a gang of bandits with the aim of making a massacre of the “cursed clay”, the depraved humanity, while his brother, Francesco, plans to hasten his father’s death to take possession of the estate. In contrast to this world of male brutality stands the pure soul of Amalia, an orphan in love with Carlo…

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I masnadieri

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Giuseppe Verdi, I masnadieri

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 18 giugno 2019

  Click here for the English version

“L’opera più brutta” di Verdi torna alla Scala con esiti contrastati

Nonostante la traduzione dell’originale di Schiller ne avesse attenuato “la tetra criminalità”, la critica del tempo definì I masnadieri “un’aborrente e schifosa mostruosità”, tacciandola di immoralità e incitamento a delinquere! Tre uomini sono spinti da violenti sentimenti: Massimiliano ha bandito il figlio Carlo che quindi si pone a capo di una banda di masnadieri con lo scopo di fare strage dell’“argilla maledetta”, la perversa umanità, mentre l’altro figlio Francesco fa seppellire vivo il padre per prenderne i possedimenti. In contrasto con questo mondo di maschia brutalità è l’anima pura di Amalia, orfana innamorata di Carlo.

I masnadieri furono la prima commissione di Verdi per un teatro straniero, lo Her Majesty’s di Londra, e l’unica la cui prima sia avvenuta in Inghilterra. Il Maestro la diresse personalmente il 22 luglio 1847 alla presenza della regina Vittoria e del Principe Alberto tra il pubblico. Questo è un titolo non tra i più frequentati di Verdi e non sempre giudicato positivamente: la lentezza, la mancanza di intenzione drammatica nella trama e i personaggi chiusi in sé stessi sono i suoi punti deboli. Massimo Mila è arrivato a definirla “la più brutta opera di Verdi”, ma ultimamente il lavoro gode di una certa popolarità, suggellata da questa nuova produzione del Teatro alla Scala.

Affermatosi con regie genialmente dirompenti quali l’indimenticabile Giulio Cesare di Glyndebourne o la scioccante Salome di Londra, Sir David McVicar ha poi preso la strada di messe in scene meno sconvolgenti e con un grande rispetto per l’ambientazione e i costumi dell’epoca. La cura scenica lo ha reso uno dei registi più rinomati e richiesti. È stato paragonato per l’eleganza delle sue messe in scena all’appena scomparso Franco Zeffirelli, che il sovrintendente del teatro Alexander Pereira ha ricordato con commozione prima dello spettacolo.

Qui alla Scala McVicar aveva presentato con enorme successo Les Troyens, ma ora con questo Verdi tocca la suscettibilità di chi si crede depositario della vera tradizione verdiana. I risultati sono stati piuttosto contrastati, con sonori dissensi da una parte del pubblico nei confronti del regista e altrettanti applausi. Ma McVicar non è stato il solo a subire la severità di alcuni spettatori: anche il direttore e uno degli interpreti hanno ricevuto sonori buu misti ai battimani. Ma andiamo con ordine.

La serata era iniziata in maniera soddisfacente, anche se aveva lasciato un po’ perplessi la scelta del regista di ambientare la vicenda all’interno del castello dei Moor. La scenografia disegnata da Carlo Edwards ricorda i severi ambienti del collegio Solitude in cui studiò Schiller. Ci sono particolari curiosi, come le docce sullo sfondo che fanno riferimento all’accampamento dei masnadieri, mentre sulla destra, su un alto piedistallo, la statua del conte cela il sepolcro in cui verrà rinchiuso. Nella parte terza, l’ambiente porta i segni del decadimento e la statua è ora quella del nuovo signore che si dà alle orge e alle violenze.

Dei militari assistono alla punizione di uno di loro, che si capirà in seguito essere l’alter-ego di Carlo: sempre presente in scena, è la parte buona del personaggio, che si ciba di Plutarco e porge ad Amalia la spada per difendersi dal perfido Francesco. Viene il sospetto che l’invenzione registica di questo personaggio muto compensi la mancanza di presenza scenica di Fabio Sartori, che interpreta Carlo, e che in qualche modo completi la personalità di questo personaggio già poco convincente nel libretto, e qui in scena ancora meno. Di Sartori si apprezza comunque la nobile linea del canto, il bel fraseggio, lo squillo negli acuti e il timbro gradevole, anche se la sua dizione è un po’ impastata.

Nella parte che fu creata per Jenny Lind, Lisette Oropesa, al suo debutto alla Scala, ha sfoggiato l’argento della sua voce, il bel vibrato, l’intensità del registro acuto, le impeccabili colorature. La sua performance ha riscosso il plauso del pubblico, ma il successo pieno e incontrastato va a Michele Pertusi, che riprende la parte che fu del Lablache, Massimiliano. Anche se il personaggio non ha pagine musicalmente memorabili, Pertusi è riuscito a lasciare un’impronta indelebile del suo personaggio con la nobile presenza vocale e l’intensità espressa nel duetto, questo sì memorabile, col figlio nella quarta parte.

Il personaggio più complesso e a suo modo interessante è quello di Francesco, il figlio che trasforma in odio sovrumano il rancore di essere secondogenito. «La colpa della natura che minor mi fece, castigai nel fratello; ora nel padre punir la debbo…» sono le parole che spiegano l’astio insensato che muove le azioni dell’uomo. Qui ci vuole un interprete che renda plausibile il personaggio nella sua grandezza malvagia, ma Massimo Cavalletti, pur vocalmente corretto, non riesce a convincere e il pubblico è impietoso nei suoi confronti, questa volta quasi all’unanimità

Lo stesso pubblico è diviso invece nei confronti del direttore, e non è chiaro perché. Michele Mariotti è specialista affermato di questo repertorio, e fin dall’ouverture, segnata dal bellissimo assolo del violoncello, le tinte fosche della partitura sono rese con maestria, le strette delle cabalette trascinanti e i momenti lirici ben espressi. Anche il valzerino che accompagna il coro dei masnadieri nella terza parte ha la beffarda intenzione voluta dal compositore. Assieme all’eccellente orchestra, il coro, sotto la direzione di Bruno Casoni ha raggiunto livelli stupefacenti.



Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Venezia, Teatro La Fenice, 23 novembre 2018

Papà Macbeth e l’elaborazione del lutto

I due più interessanti registi italiani aprono con Giuseppe Verdi le stagioni liriche dei due più importanti teatri italiani: il 7 dicembre sarà Davide Livermore a inaugurare la stagione della Scala con Attila, oggi è la volta di Damiano Michieletto con Macbeth al Teatro La Fenice.

Il regista gioca in casa a Venezia, ma ciò non gli ha evitato una breve ma rumorosa contestazione alla fine della serata, prima che gli applausi coprissero i bu. Alle vestali della tradizione (?) non sono piaciute la lettura di Michieletto e la scena astratta del sempre originale Paolo Fantin, anche se tutti i particolari della vicenda sono stati rispettati e messi in scena con grande fedeltà.

L’idea di fondo che spiega la psicologia di Macbeth, secondo il regista, è la mancata elaborazione del lutto della figlia morta, caduta in un pozzo per recuperare la palla, come vedremo nella scena quinta del quarto atto. Nonostante sia Shakespeare sia il librettista Piave siano piuttosto ambigui e vaghi sulla paternità di Macbeth e della Lady, Michieletto ha ben chiara la sua idea. D’altronde la vicenda è piena di bambini e Michieletto non fa che sottolinearne la presenza: i bambini che accolgono allegri il vecchio e bonario Duncano, il figlio di Banco che sfugge ai sicari del padre, i figli di Macduff trucidati assieme alla madre e i bambini delle apparizioni divinatorie, che qui hanno le fattezze di bambine come quella di Macbeth, mentre ancora il figlio di Banco perseguita sul suo triciclo innocente l’usurpatore sanguinario. Michieletto sa che per Verdi i rapporto famigliari più problematici, e quindi preferiti, sono quelli padre-figlia e non fa che prenderne atto.

Estranea a tutto ciò è la Lady, fredda manipolatrice che dissuade il marito dal suo paterno delirio e lo spinge a concentrarsi sulla scalata al potere. Molto di quello che è raccontato avviene nella mente di Macbeth e non è rappresentato in scena, come la sfilata dei re futuri, mentre le streghe hanno una loro presenza come mediatrici della morte e sono invocate da Macbeth soprattutto per riconnettersi alla figlia persa.

Oltre ai neon che illuminano impietosamente la scena, c’è un materiale dominante nella scenografia di Paolo Fantin: il nylon dei velari e dei sacchi in cui vengono avviluppati i cadaveri. Immagini suggestive caratterizzano lo spettacolo fin dall’inizio: le streghe appaiono come uscenti dalle nebbie dietro il velario traslucido che poi strappano anticipando l’intenzione di Macbeth («il velame del futuro alle streghe squarcerò»). Altri velari di nylon imporranno la loro lattiginosa presenza accentuando i colori dominanti della scarna scenografia e dei moderni costumi di Carla Teti declinati nei bianchi e nei neri. Anche il sangue è un liquido bianco che rende i personaggi spettrali e i soli punti di colore sono il rosso dei vestitini delle bambine e le altalene che calano dall’alto durante il delirio della Lady per poi diventare la foresta di Birnam.

Efficace è la scena dell’agguato a Banco e al figlio, con i sicari che si liberano dei guanti neri utilizzati per l’assassinio e diventano seduta stante i mondani invitati della festa. Meno riuscita, o meglio neppure affrontata, la parata accompagnata dalla banda dell’entrata di Duncano – finora l’unica che sia riuscita a rendere significativo il momento è stata Emma Dante con la sua dinoccolata processione di pupi siciliani. Abbastanza espliciti sono i rimandi cinematografici presenti nell’allestimento: il rosso nel monocromo bianco e nero della scena di Schindler List, l’ingresso del patriarca/Duncano di Festa di famiglia, ma soprattutto dei film horror Shining (il triciclo e le gemelline) e The Ring (le bambine con la faccia coperta dai capelli).

La regia di Michieletto è come sempre coinvolgente, forse qui più cerebrale del solito, ma non inficia il godimento della musica qui portata al massimo splendore dalla bacchetta di Myung-Whun Chung, uno dei tre coreani di questa produzione. La magnifica acustica del teatro veneziano esalta i colori della sua lettura: senza eccedere nei tempi, Chung mette in evidenza i caratteri di questo giovane ma già maturo Verdi con suoni pieni e talora drammaticamente fragorosi.  Chung ha scelto l’edizione del 1865 omettendone i ballabili ma recuperando dalla versione del 1847 l’aria finale di Macbeth «Mal per me che m’affidai». È la prima volta  che affronta la partitura, ma già dimostra di averne compreso pienamente il significato ed è a lui che sono andati gli applausi più calorosi del pubblico.

Luca Salsi ritorna al ruolo di Macbeth. Approfondisce ancora di più la conoscenza del personaggio nella via interpretativa da lui scelta con una voce che si piega alle minime inflessioni e scolpisce le parole con pienezza, tuttavia gli manca sempre una certa componente di eleganza e nobiltà di accento che si vorrebbe trovare anche in questo eroe efferato. Vittoria Yeo è stata allieva di Rajna Kabaivanska, e si sente. Sono note le parole di Verdi a proposito della vocalità della sua Lady: «Io vorrei una voce aspra, scura, soffocata […] la voce della Lady dovrebbe aver del diabolico» e il soprano coreano riflette in parte queste esigenze: ha la presenza scenica e il temperamento richiesto dalla parte, ma rifugge dal belcanto per approdare a esiti quasi veristi con acuti spinti, un registro aspro, un timbro tagliente e quasi nulle agilità – infatti omette la ripresa della cabaletta.

Modesti gli altri interpreti. Stefano Secco è efficace nella sua unica aria ma tutt’altro che memorabile, un po’ grezzo il Banco di Simon Lim (il terzo coreano) e vocalmente ancora peggio Marcello Nardis, aitante Malcom. Buona invece la resa del coro e degli strumentisti dell’orchestra che hanno dato ottima prova nei molti passaggi quasi solistici inclusi nella gloriosa partitura.

 

 

 

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 27 settembre 2018

(diretta televisiva)

Singin’ in the rain

Molto più raramente rappresentata, l’edizione fiorentina del 1847 del Macbeth inaugura il Festival Verdi di Parma, festival doverosamente impegnato a presentare in edizioni non scontate le opere del Maestro a beneficio di una maggiore conoscenza dell’autore che si vuole festeggiare.

Prima incursione del compositore nell’universo scespiriano e ancora senza la mediazione di Boito – lo scapigliato milanese aveva allora cinque anni… – il Macbeth rappresentò un punto d’arrivo nella sua carriera artistica, anche se al Teatro della Pergola quel 14 marzo non fu un successo travolgente, tanto da spingere il compositore a scriverne una nuova versione nel 1865 per Parigi.

Se la versione francese è più centrata sul personaggio della Lady, quella del 1847 dà maggior peso al marito di cui fa avvenire in scena la morte nel finale e a cui affida un ultimo recitativo («Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!») che precede il coro finale («Or Malcolmo è nostro re!»). Prima, alla fine del terzo atto, Macbeth aveva cantato «Vada in fiamme e in polve cada», una cabaletta che lascerà posto al duetto dei coniugi nella versione per la «grande boutique». Le altre modifiche riguardano l’aria della Lady nel secondo atto («Trionfal securi alfine») che sarà sostituita da «La luce langue»; l’introduzione dei ballabili nel terzo atto, richiesto dalle consuetudini parigine; un diverso coro al quarto atto sulle parole «Patria oppressa».

Direzione incolore e spenta quella di Philippe Auguin con tempi propizi ai cantanti ma non alla tensione drammatica della vicenda. Quello che ne esce fuori è un Verdi annacquato e senza slanci che non trova mai un momento per commuovere o trascinare. L’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini rafforzata da quella Giovanile della Via Emilia ha dato buona prova, ma in continuazione veniva in mente che cosa avrebbe fatto un Michele Mariotti al posto del direttore francese. Buono il coro del Teatro Regio sotto la direzione di Martino Faggiani.

Molto padano e poco scozzese il Macbeth di Luca Salsi, vocalmente generoso, dal fraseggio scultoreo ma con alcuni eccessi di temperamento che sfociano quasi nel parlato. Qui più che altrove il suo personaggio risulta quasi un tontolone nella mani della moglie, senza avere la grandezza del male che ha in Shakespeare. Temperamento più cinicamente costruito quello della Lady di Anna Pirozzi, voce d’acciaio, acuti sicuri, agilità precise nella sua difficile cabaletta. Anche se rinuncia alla lettura della lettera, uno scoglio su cui spesso si infrangono le velleità attoriali del soprano di turno, dimostra una buona presenza scenica, anche se non sufficientemente messa in evidenza dalla latitante regia. Terzo personaggio della vicenda è Banco, qui un autorevole, nobile, ma vegliardo Michele Pertusi. Antonio Poli esibisce il bel timbro e l’eleganza che gli vengono riconosciute, ma il suo Macduff manca di drammaticità. Limitata la parte di Malcom per poter riconoscere gli eventuali meriti di Matteo Mezzaro.

Regolarmente buato l’allestimento di Daniele Abbado, ma non si capisce se il loggione non abbia gradito la mancanza di regia dimostrata nel novanta per cento della performance – con cantanti lasciati allo sbaraglio in un palcoscenico desolatamente vuoto – o gli eccessi dell’unico momento teatrale della serata, quello del secondo intervento delle streghe nell’atto terzo, realizzato come una grottesca sfilata di mascheroni non dissimile da quanto già visto nell’allestimento zurighese di David Pountney del 2001.

È chiara l’intenzione del regista di lasciare vuota la scena per concentrare l’azione sui singoli personaggi, ma la mancanza di attenzione attoriale sugli interpreti li porta a un gestire convenzionale che non ne evidenza la teatralità. E finisce che le figure si perdono davanti a uno sfondo traslucido su cui vengono proiettate le belle luci di Angelo Linzalata, unico elemento di una scena del tutto vuota sferzata da una pioggia incessante e in cui non esistono interni ed esterni – anche la Lady “rimugina” la lettera del marito all’inclemenza del tempo. Per quanto riguardano poi i movimenti coreografici di Simona Bucci rimane il dubbio se siano ironici.

Dal punto di vista visivo lo spettacolo lascia con ancora maggiore curiosità per quello che farà Michieletto all’apertura della stagione veneziana, con l’opera nella versione più conosciuta.

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 3 aprile 2018

(diretta video)

Al Covent Garden una produzione che ha quasi ventun anni

Macbeth è opera notturna. Il termine notte è citato numerose volte nel libretto del Piave («orrrenda notte! notte desiata, notte scellerata, insanguinata…»). Il primo incontro con le streghe avviene la sera dopo una giornata di battaglie, è notte quando il re Duncano giunge nel castello di Macbeth per essere ammazzato durante il sonno, è ovviamente sera per il convito con l’apparizione del fantasma di Banco, così sarà per il secondo incontro con le streghe e la scena del sonnambulismo.

Ed è notte perenne nella produzione ROH di Phyllida Lloyd, regista cinematografica (Mammia Mia!, 2008; The Iron Lady, 2011). L’allestimento di questo Macbeth fu concepito nel 1997, ma ebbe il debutto al Covent Garden solo nel 2002. Ora viene ripreso con la coppia Anna Netrebko e Željko Lučić, già presenti nello spettacolo del Met diretto da Fabio Luisi.

Lettura tradizionalmente descrittiva quella della Lloyd, ma con momenti discutibili: l’uccisione dei figli di Macduff che giocano nel salotto dei Macbeth, una scena di sonnambulismo deludente e un «Patria oppressa» cantato nella camera da letto dei coniugi assassini. Altri sono più convincenti e realizzati con efficacia grazie alle luci di Paule Constable, ma le scenografie di Anthony Ward, se rendono bene l’atmosfera claustrofobica della vicenda, diventano un limite per le scene di massa su un palcoscenico che già non è dei più grandi. I costumi dello stesso Ward inviluppano in oro scintillante i due protagonisti e la gabbia in cui si muovono. La costante presenza delle streghe che controllano gli umani e interferiscono nelle loro azioni rende metafisico quello che sarebbe meglio interpretare come psicologico: l’azione dei coniugi diventa non un prodotto delle loro anime nere, ma una mera interferenza del destino e ciò toglie grandezza ai due personaggi.

Željko Lučić non ha la complessità drammatica del Simon Keenlyside debuttante nella parte tre anni fa in questa stessa produzione: nella performance del baritono serbo affiora sempre una certa rozzezza, anche se è evidente lo studio su chiaroscuri ed espressività fatto assieme al maestro Pappano. Sontuosa come ci si poteva aspettare la Lady di Anna Netrebko, a suo agio nelle agilità come nei passaggi drammatici, ma un maggior controllo del temperamento avrebbe giovato alla definizione del personaggio che a tratti ricorda visivamente la regina Grimilde della Biancaneve disneyana. Ildebrando d’Arcangelo è Banco, scialbo spettro in questa regia, che ha poco da cantare ma quel poco lo fa bene, che sia il duetto della scena terza o l’aria verso la fine del primo atto o l’addio al figlio nel secondo, dove le parole «Come dal ciel precipita | l’ombra più sempre oscura» sono scolpite in modo impareggiabile. Come Macduff ritroviamo il signor Netrebko, Yusif Eyvazov, al cui timbro di voce ci stiamo abituando: nella sua generosità vocale e imponente presenza il signore di Fife più che sulla riva di un loch scozzese sembra però pronto per una spedizione sul Mar Caspio contro turcomanni e usbechi.

La splendida musica di questo Verdi già maturo trova nelle mani di Antonio Pappano la giusta realizzazione: di certo fanno la loro parte gli altoparlanti avvolgenti della sala cinematografica, ma raramente era suonata così precisa e convincente l’orchestra della Royal Opera House, con quelle frasi chiaramente definite e dal peso drammatico sempre appropriato.

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Macbeth

Henry Fuseli, The Three Witches Appearing to Macbeth and Banquo, 1794

Giuseppe Verdi, Macbeth

Torino, Teatro Regio, 27 giugno 2017

(secondo cast)

Con il cast alternativo di questa produzione diventa ancora più forte la lettura femminista della regista Emma Dante: con Oksana Dyka si afferma infatti ancora di più il protagonismo della Lady, che qui ha una presenza scenica ancora maggiore. Sul piano vocale il timbro metallico e a volte perforante del soprano ucraino sarebbe in teoria adatto al ruolo, ma un eccesso di temperamento rende la sua performance insopportabilmente sopra le righe trasformando il bel canto di questo giovane Verdi in una lettura quasi verista. Il ruolo della Lady è già tutto nella musica del Macbeth, non occorre caricarlo con effetti talora sguaiati.

Contagiato dalla moglie, anche il Macbeth di Gabriele Viviani tende a strafare, con risultati che magari esaltano il pubblico della pomeridiana ma non esaltano la linea del canto. E magari sarebbe bene attenersi alle indicazioni della partitura: il finale della sua ultima aria,   «Pietà, rispetto, amore» passa da pp a p, non da f a ff!

Esemplare, come ci si poteva aspettare, il Banco di Marko Mimica, uno dei migliori bass-bariton del momento, in cui potenza, bellezza di timbro ed eleganza di emissione si alleano felicemente. Non delude nel suo unico toccante intervento il Macduff di Giuseppe Gipali.

Un’improvvisa indisposizione di Gianandrea Noseda, che ha dovuto cancellare tutti i suoi futuri impegni in questo allestimento, ha portato sul podio Giulio Laguzzi. Il maestro lo ha degnamente sostituito senza mutare l’impostazione complessiva data dal titolare.

Macbeth

Henry Fuseli, The Three Witches Appearing to Macbeth and Banquo, 1794

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

648126338.png Qui la versione in italiano

Turin, Teatro Regio, 21 June 2017

Macbeth in the deep south in Emma Dante’s staging

Macbeth is Giuseppe Verdi’s tenth work and his first staging of a Shakespeare’s play. It is also his first true masterpiece where the musical colour is innovative and becomes drama itself. The opera was not appreciated by the Florentine audience in 1847. It was only a tepid success, and in 1865 the author revised his creature for Paris…

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