William Shakespeare

Amleto

© Ennevi Foto

Franco Faccio, Amleto

Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

«Essere o non essere! codesta la tesi ell’è»

Tra un mese il Mefistofele di Arrigo Boito aprirà la stagione lirica romana, ma intanto al Filarmonico di Verona è possibile scoprire un altro lavoro di quegli anni, ispirato questa volta non a Goethe ma a Shakespeare, «la grande attualità del melodramma» come scrive Boito nel 1865 pensando al Macbeth di Verdi andato in scena a Parigi ad aprile e al suo libretto dell’Amleto con musica di Franco Faccio presentato a Genova il 30 maggio. Boito ha 23 anni, Faccio 25, entrambi sono veneti e appartengono al movimento della Scapigliatura, sono giovani, irruenti e si arruoleranno entrambi nel corpo dei volontari di Garibaldi in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza. Il frutto del loro lavoro non ha però il successo sperato e sei anni dopo viene presentato in una versione piuttosto rimaneggiata alla Scala di Milano il 9 febbraio 1871. Ma è un fiasco ancora maggiore e l’indisposizione dell’interprete titolare, il tenore Mario Tiberini, è la scusa per ritirare il lavoro, che non verrà mai più rappresentato. Per Faccio è anche la decisione di abbandonare per sempre la composizione e dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. 

L’Amleto è stato ripreso ad Albuquerque nel 2014 nell’edizione critica di Anthony Barrese e poi a Bregenz nel 2016 in una produzione disponibile in video. Ora ritorna nella città natale del compositore come prima esecuzione italiana in tempi moderni preceduta da un’interessante tavola rotonda ospitata a Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe, dove esperti hanno discusso delle peculiarità di un lavoro che rappresenta un unicum nella storia dell’opera italiana nella sua traduzione della drammaturgia scespiriana e nella restituzione teatrale delle teorie della Scapigliatura. Non ultima è la sua difficoltà di esecuzione legata alla parte vocale estremamente impegnativa del personaggio principale per di più quasi sempre presente in scena. 

L’Amleto è opera ambiziosa, velleitaria ma piena di un’energia giovanile che cerca ispirazioni ad ampio raggio – Verdi, Wagner, la grandiloquenza del grand-opéra, ma anche il lirismo di Gounod – con risultati inediti e a loro modo personali. Chi ha voluto l’opera ha dovuto affrontare un primo problema: della versione scaligera si è perso il quarto atto, manca dagli archivi Ricordi. Quella qui proposta è una versione spuria: i primi tre atti sono del 1871 e il quarto del 1865. Il secondo problema era quella del reperimento dell’interprete titolare, ma la scelta del tenore Angelo Villari per la prima e per l’ultima recita (si alterna con Samuele Simoncini nelle altre due recite) ha giustificato questa attesa ripresa grazie alle qualità vocali dell’interprete. Il suo ruolo anticipa quelli della Giovane Scuola (soprattutto Giordano) e il cantante, che ha in repertorio Ponchielli, Mascagni, Cilea, Respighi, affronta con agio una tessitura che si può definire sadicamente impervia. Villari esibisce una voce sonora, un timbro squillante e di grande proiezione, uno scavo della parola e un fraseggio efficace, ma diversamente dall’Amleto introverso e straniato di Pavel Černoch dell’edizione di Bregenz, il suo è virile e deciso, anche troppo, la figura quasi mussoliniana e il turbamento del personaggio di Shakespeare, la sua cinica ironia qui sono assenti. Per contrasto, ancora più intensa, trepidante ed emozionante è l’Ofelia di Gilda Fiume che domina perfettamente la lunga scena della pazzia. Anche lei si alterna nelle recite con un altro soprano, Eleonora Bellocci. 

La regina Geltrude nel libretto di Faccio ha un momento di pentimento assente in Shakespeare, «Ah! Che dissi? Io rea, che il padre | spensi al figlio e tolsi il trono, | non son madre, ah non son madre!…», che Marta Torbidoni intona con grande intensità e voce ricca di risonanze gravi. Dei molti altri interpreti alcuni sono più convincenti di altri, ma tutti dipanano con efficacia teatrale la lingua artificiosissima di Boito, qui più scapigliato che nelle successive opere di Verdi. Nel suo Amleto tocca le vette dello sperimentazione e della ricercatezza linguistica: «Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!». Fortunatamente il cast è interamente italiano è una sbirciata al vocabolario risolve il problema di comprensione.

L’orchestra della Fondazione Arena di Verona dà ottima prova sotto la guida di Giuseppe Grazioli che ha sostituito il previsto Alessandro Bonato. Senza nulla togliere dell’esuberanza a tratti ingenua della partitura, ne fornisce una lettura antiretorica che ha i momenti migliori nelle pagine puramente strumentali dei preludi e della marcia funebre di Ofelia, un lungo solenne brano che ha preso la strada dei concerti sinfonici ed è la pagina più conosciuta dell’opera. Anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, si è dimostrato all’altezza della prova.

Alla sua prima regia lirica Paolo Valerio non delude ma neanche esalta: il suo è un impianto minimalistico che fonde elementi tradizionali, quinte, tende, frange, con le proiezioni di Ezio Antonelli in modo sobrio. Se i movimenti del coro sono impacciati, meglio vanno i personaggi principali e gli attori della pantomima trasformati in marionette. Efficaci le luci di Claudio Schmidt mentre poco caratterizzati si rivelano i costumi di Silvia Bonetti, che rimandano agli anni tra le due guerre in cui il regista sembra voler ambientare la storia. Ma lo spettro del padre di Amleto si presenta in un’incongrua armatura!

Un pubblico molto partecipe e generoso di applausi a scena aperta ha decretato col suo entusiasmo che l’Amleto di Faccio può entrare nel repertorio. E si sa, il pubblico ha quasi sempre ragione…

   

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 20 agosto 2023

★★☆☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Falstaff a Salisburgo: tutti gabbati, soprattutto il pubblico

Sono due i titoli verdiani in programmazione al Festival di Salisburgo quest’anno ed entrambi tratti da Shakespeare: del Macbeth si è scritto, il Falstaff è affidato a una coppia di collaudata scuola tedesca: Ingo Metzmacher e Christoph Marthaler. Il primo non è propriamente un direttore verdiano, il secondo un regista apprezzato in passato in alcune produzioni. Ma non in questa.

Nei recenti allestimenti dell’ultimo ineffabile capolavoro di Verdi, le letture hanno oscillato tra la comicità e la malinconia. Un esempio della prima è stata la produzione di Barrie Kosky con la sua irresistibile comicità teatrale, della seconda la messa in scena di Damiano Michieletto ambientata nella casa di riposo per artisti di Milano. Marthaler sceglie una strada diversa, quella della decostruzione cara al Regietheater con una drammaturgia del tutto aliena all’opera e criptiche citazioni, qui cinematografiche, che solo le note di regia possono rivelare. Il programma di sala dunque come libretto d’istruzioni per decrittare una regia? Grazie, no.

Dopo che il sipario si è aperto – e impiega quasi mezzo minuto sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus – si vedono i tre distinti ambienti della scenografa Anna Viebrock che ha disegnato anche i costumi. A sinistra le poltrone di una sala di proiezione, al centro uno stanzone/set cinematografico con pareti mobili, a destra un esterno di motel con sedie a sdraio e una piscina, senz’acqua ma con prevedibili materassi sul fondo per attutire le continue e ripetute cadute di personaggi. Nella piscina/Tamigi non cadrà però Falstaff, bensì il regista del film, un tipo che la pancia ce l’ha – il vero Falstaff invece si rifiuta di portare l’orrenda protesi – e che ha le sembianze di Orson Welles. Infatti di questo si tratta: il regista americano nel 1965 gira il suo Falstaff e lo interpreta rivestito di un’armatura con cui appare alla fine dell’opera. Un esercizio intellettualistico che non porta però da nessuna parte. Che cosa c’entra con Verdi e la sua musica? Per di più la realizzazione è tutt’altro che ben fatta, con i personaggi che si muovono a caso – quando si muovono e non stanno impalati con le mani in tasca. In modo alieno all’umorismo della vicenda si accumulano gag inutili e distraenti: oltre a quelle delle cadute, davvero troppe, ci sono quelle delle ceste; quella della acrobata che si avviluppa nel cavo elettrico; della coppia Cajus e Bardolfo i quali dopo il matrimonio che li ha uniti non la smettono di abbracciarsi e sbaciucchiarsi felici. Se non è umorismo di bassa lega questo…

Dopo un prologo muto, vediamo i personaggi leggere le loro battute ai leggii ma una telecamera li riprende (?) senza costumi (?) in un ambiente anonimo mentre il regista dalla sua sedia dà ordini. Presto però le macchine da presa spariscono ma gli interpreti agiscono come se stessero continuando a provare, anche se con sempre minor convinzione. Se all’inizio l’idea poteva avere uno spunto di qualche interesse, poi però il giochino si sfalda, diventa noioso e il finale, inconcludente, totalmente privo di magia fiabesca e ironia, è tra le cose peggiori.

Non tanto meglio va la parte musicale, con un direttore corretto ma lontano dallo spirito del lavoro, i concertati non hanno rilievo, i passaggi polifonici sono torbidi, le voci sono spesso coperte: Falstaff nel primo atto quasi non si sente travolto dal volume orchestrale. Dov’è la leggerezza della partitura? Persa è la trasparenza del gioco strumentale che accompagna gli arguti dialoghi di Boito. Qui è tutto greve, piatto, senza ironia. Regista e direttore riescono a distruggere l’impalcatura con cui si regge la mirabile costruzione dell’ultima opera di Verdi.

Sulla carta c’era un cast di prim’ordine, con due tra i più intelligenti interpreti di oggi: Gerald Finley, nella parte eponima, e Simon Keenlyside, due artisti di area anglosassone a loro agio nel teatro di Shakespeare. Il primo però sembra spaesato in tutto questo bailamme e per di più ha accusato dei problemi alla gola che non sembrano del tutto risolti, e infatti la voce sparisce dietro il muro di suono innalzatogli contro dall’orchestra. Il secondo è più a suo agio e riesce a dominare meglio la scena, ma non è un Ford memorabile, manca il gusto della parola tagliente nel monologo «È sogno o realtà?». Meglio le donne che a un certo punto cercano di prendere in mano la situazione con Alice (una bravissima Elena Stikhina) che si installa sulla sedia del regista. Assieme a Tanja Ariane Baumgartner (Quickly) e Cecilia Molinari (Meg) si forma un terzetto ben affiatato vocalmente. I due giovani, Nannetta e Fenton, trovano nella fresca voce di Giulia Semenzato e Bogdan Volkov due interpreti efficaci. Così come lo sono il Bardolfo di Michael Colvin e il Pistola di Jens Larsen. 

Nota finale: la political correctness è arrivata, inesorabilmente anche qui: le parole del libretto «Affiderei | la mia birra a un tedesco, | tutto il mio desco | a un olandese lurco, | la mia bottiglia d’acquavite a un turco» nelle traduzioni tedesca e inglese dei sopratitoli sono totalmente ignorate per non urtare le rispettive  sensibilità nazionali!

Delle reazioni finali del pubblico allo spettacolo non so dire: mi sono alzato e me ne sono andato appena è stato possibile. Uscendo ho sentito applausi frammisti ad alcuni buu.

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 19 agosto 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La scossa del Macbeth di Warlikowski al Festival di Salisburgo

Mentre qui in Italia ci trastulliamo in provinciali polemiche su regie “tradizionali” e regie “moderne”, il più blasonato festival del mondo impiega solo i più “discussi” registi di oggi: Martin Kušej (Le nozze di Figaro), Christof Loy (Orfeo ed Euridice), Christof Marthaler (Falstaff), Simon Stone (The Greek Passion), Krzysztof Warlikowski (Macbeth). Certo non sono tutti spettacoli memorabili, anzi qualcuno è proprio brutto (due su cinque…), ma c’è comunque chi paga 465 € per una poltrona in platea e le sale sono sempre piene – e parliamo di oltre 5200 posti ogni sera nei tre teatri principali. Alla faccia della crisi dell’opera! 

Molta era l’attesa per la nuova produzione del “polacco terribile” dell’opera di Verdi: quelle di Warlikowski sono come un ottovolante: una corsa mozzafiato tra alti e bassi da cui non si esce indenni, come in questo Macbeth, che a momenti di grande teatro fa seguire altri meno convincenti, ma nel complesso è un’esperienza che lascia il segno. Che è quello che dovrebbe sempre fare il teatro.

Lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus sembra ancora più esteso orizzontalmente nell’impianto scenografico di Małgorzata Szczęśniak, con una lunghissima panca di legno, come nella vecchia sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Un video mostra in bianco e nero una madre che allatta un bambino. Una donna, la Lady, siede sulla panchina a destra, un uomo, Macbeth, all’altra estremità. Poi da sinistra entra una stanza dove donne bendate formulano oracoli, mentre da destra entra la cabina di un medico e una videocamera accompagna la donna nella cabina su una sedia ginecologica. La visita sembra stabilire la sua impossibilità di avere figli. 

La mancanza di figli – e quindi di una discendenza – è il tema centrale nella drammaturgia di Christian Longchamp, ancor più della brama di potere: se non hai qualcuno di tuo a cui lasciarlo, a che cosa serve? E sono molti i bambini che affollano la scena: quelli delle profezie, certo, ma anche i figli di Macduff, vittime di una strage degli innocenti allorché la madre decide di avvelenarli tutti, compresa sé stessa, per non consegnarli «fra gli artigli di quel tigre».

Anche Michieletto aveva puntato sulla mancata maternità della Lady, ma qui di diverso c’è la forte relazione di coppia dei due coniugi che mai si spezza. Neanche alla fine, quando vengono legati assieme, ormai dementi e fisicamente sfatti, prima di essere linciati dal popolo: lei era stata salvata dal suicidio e ha vissuto gli ultimi istanti assieme all’amato marito, amato forse anche più del potere. Molti sono i momenti nello stile di Warlikowski, ad esempio quello del banchetto, dove la Lady canta il suo brindisi al microfono, mentre Macbeth è ossessionato dalla visione di Banco che egli stesso ha disegnato su un palloncino. O quando viene servito il piatto finale e sotto la cupola c’è un bambolotto guarnito con broccoli. Appena incoronati dopo l’assassinio di Duncano, in piena regalia, una volta che la musica si ferma e la folla si disperde i due scoppiano a ridere per la facilità con cui l’hanno fatta franca, poi però subito dopo si rendono conto di non poter desiderare altro e da quel momento inizia il loro dramma e conseguente decadimento: lei inizia a bere, a delirare per inesistenti macchie di sangue; lui soffre del complesso di castrazione da parte della moglie/madre o delle streghe – sullo schermo della televisione erano intanto apparse le immagini dell’Edipo Re di Pasolini – e da quel momento vive su una carrozzina a rotelle, aiutato/dileggiato dai servitori.

Questa azzardata drammaturgia non sarebbe convincente senza la presenza di due interpreti che facciano propria la particolare visione del regista e Asmik Grigorian e Vladislav Sulimskij lo fanno. Lei lituana, lui bielorusso, si impadroniscono entrambi della parola verdiana, oltre che della psicologia dei personaggi, creando una coppia magnetica teatralmente e vocalmente notevole. È proprio qui da Salisburgo che la Grigorian ha iniziato la sua straordinaria carriera rivelandosi come Salome nella produzione di Castellucci. Le doti sceniche dell’artista sono eccelse, quelle vocali quasi altrettanto, e anche qui in questo temibile ruolo non delude le aspettative creando un personaggio umano e tragico allo stesso tempo, senza l’eccesso di malvagità che di solito viene attribuito al personaggio. Non perché la Lady non sia malvagia, ma perché qui prevale la sua nuda umanità. Il canto è espressivo, ma non espressionista e le note sempre perfettamente intonate. Non so se sarebbe piaciuta a Verdi che voleva dei suoni «aspri, soffocati, cupi», ma al pubblico è piaciuta senza riserve. Vladislav Sulimskij è un Macbeth tormentato che presto perde l’aggancio con la realtà e piomba negli abissi della quasi demenza. La voce è molto elastica ed espressiva e il suo «Pietà, rispetto, amore» è del tutto convincente, così come il conclusivo momento «Mal per me che m’affidai», l’aria recuperata dalla versione del 1847.

Macbeth è un lavoro dove predominano le due voci principali, ma anche Malcom e Macduff hanno a disposizione momenti importanti. Il primo con «Ah, la paterna mano» dove Jonathan Tetelmann ha riscosso un grande successo di pubblico con la sua voce dal bel timbro e dalla enorme proiezione, forse anche troppa: “less is more” vale anche per il fascinoso tenore cileno-americano. Il secondo sparisce presto dalla scena, ma ha modo di farci apprezzare Tareq Nazmi nella sua drammatica aria «Come dal ciel precipita» eseguita con le generose risorse vocali e interpretative del basso tedesco. Caterina Piva (la Dama della Lady), Evan LeRoy Johnson (Malcom), Aleksei Kulagin (il Dottore), Grisha Martirosyan (Domestico di Macbeth) e Hovhannes Karapetyan (Assassino e Araldo) hanno completato in bellezza l’eccellente distribuzione. Il coro poteva fare meglio, mentre meglio non potevano fare i Wiener Philharmoniker sotto la guida di Philippe Jordan che ha sostituito il previsto Franz-Welser Möst, che si è dovuto sottoporre a un urgente intervento ortopedico. Non sono il primo a dire che nella sostituzione tutti ci abbiamo guadagnato: la concertazione di Jordan è risultata trascinante pur nel rispetto delle voci in scena, con dinamiche spedite ma non affrettate, una grande forza teatrale con colori e luci (e ombre) mirabilmente realizzati dagli straordinari strumentisti.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo di grande impatto salutato dalle ovazioni del pubblico. Fino al 27 ottobre la registrazione video è disponibile su arte.tv.

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

Parigi, Opéra Bastille, 14 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Amleto al manicomio? Non una novità

Tre anni dopo la prima parigina del Macbeth di Verdi, un altro compositore ottocentesco si misurava con un’opera del Bardo, conosciuto allora soprattutto attraverso adattamenti: quello di Hamlet, il lavoro di Thomas del 1868, era infatti di Alexandre Dumas padre che aveva eliminato alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, aveva aggiunto una scena d’amore tra Amleto e Ofelia, e aveva fatto riapparire nel finale il fantasma del re assassinato per fargli dire: «Vis pour ton peuple, Hamlet! C’est Dieu qui te fait Roi!».

I librettisti Barbier e Carré, dal canto loro, avevano ridotto i personaggi e incentrato l’attenzione sui quattro principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra i primi due. Concepito inizialmente in quattro atti, su richiesta dell’Opéra di Parigi Hamlet fu diluito in cinque, con l’aggiunta del ballo inserito prima della scena della follia di Ophélie. Nella versione per Londra del 1969 un nuovo finale prevedeva la morte del protagonista, ma non fu sufficiente a mitigare le critiche degli inglesi, come quella su The Pall Mall Gazette del 1890: «No one but a barbarian or a Frenchman would have dared to make such a lamentable burlesque of so tragic a theme as Hamlet» (Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare di un tema così tragico come quello dell’Amleto una così deplorevole parodia».

Il lavoro di Thomas conobbe grande successo fino agli anni ’30 del secolo scorso, per poi scomparire dalle scene. Un frequente ritorno del titolo è invece avvenuto dagli anni ’80 con pregevoli recenti produzioni al Grand Théâtre di Ginevra nel 2003 con Simon Keenlyside e Nathalie Dessay; al Met (2010), ancora Keenlyside e Marlis Petersen e una grande Jennifer Larmore; An der Wien e poi La Monnaie (2013) con Stéphane Degout e la intrigante messa in scena di Olivier Py e l’Opéra Comique (2108), ancora con Degout e Sabine Devieilhe. Ora alla Bastille il titolo viene riproposto in una ricca produzione che vede sul podio Pierre Dumoussaud, un cast importante e una discussa regia.

Con Hamlet di Thomas, Krzysztof Warlikowski firma uno dei suoi più complessi e ambiziosi allestimenti, 22 anni dopo la sua lettura del dramma di Shakespeare al festival di Avignon del 2001 – ma lo spettacolo era stato creato a Varsavia nel 1999. Inizialmente la sua messa in scena può risultare fastidiosamente spiazzante, addirittura indisponente, poi però il suo indubbio istinto prevale in scene di grande teatralità. L’abbondanza di allusioni sia teatrali che cinematografiche e la loro realizzazione un po’ confusa possono disturbare la leggibilità dello spettacolo, però restituiscono l’essenza di un rapporto con la realtà e la memoria disturbato da allucinazioni e sensi di colpa che inducono a un’azione impotente, com’è quello del principe danese.

L’ambientazione costruita dalla scenografa Małgorzata Szczęśniak è quella di una casa di riposo o centro psichiatrico – non un’idea originale ma plausibile dato il numero di disturbati mentali in scena. All’alzarsi del sipario vediamo un Hamlet signore di mezza età e Gertrude una vecchia sulla sedia a rotelle mentre alla televisione trasmettono Les Dames du Bois de Boulogne, il film di Robert Bresson del 1945. Due i livelli temporali: il primo e l’ultimo atto si svolgono nel presente della vicenda, gli altri tre atti formano un unico lungo flashback che ci mostra i traumi del protagonista vent’anni prima, ed ecco infatti i costumi virare verso gli anni ’20. Hamlet qui è un adulto mal cresciuto che gioca con una macchinina radiocomandata e sembra piuttosto disturbato, fuma in continuazione e ha vari tic. È evidente che non ha superato la morte del padre e meno ancora il secondo matrimonio della madre, verso la quale dimostra un forte complesso edipico. Nel primo atto il Re, Laërte e Ophélie (o il suo fantasma?) sono dei visitatori. Quando compare lo spettro del padre è vestito come un clown bianco, chiaramente un frutto della realtà distorta di Hamlet, così come lo sarà il ballo del quarto atto, assieme alla morte di Ophélie, due dei momenti migliori dello spettacolo. Nel quinto atto Hamlet ha acquisito lo status di fantasma del padre, lo stesso costume da clown, ma nero. E si capisce finalmente perché la folla era in lutto nel primo atto: era per il funerale di Ophélie!

Per un beffardo caso di contrappasso, un cantante che un anno fa aveva stigmatizzato le regie “moderne”, si trova ora a lavorare con uno dei registi più iconoclasti del nostro tempo! È il caso infatti di Ludovic Tézier che in un’intervista aveva detto di preferire le regie “tradizionali”, ma non sembra abbia avuto difficoltà a lavorare con Krzysztof Warlikowski: dal punto di vista attoriale la sua è un’interpretazione pienamente convinta della lettura non proprio ortodossa del regista polacco con cui recupera l’aspetto psicologicamente complesso di una figura semplificata dai librettisti. I colori e le intenzioni espressive sotto tutti presenti in una vocalità in stato di grazia che ha scatenato le ovazioni del pubblico parigino. Ovazioni che sono state estese anche alla Ophélie di Lisette Oropesa, di cui sono state ammirate sia la purezza d’emissione sia le precise agilità nella scena della pazzia. Grande performance anche quelle di Eve-Maud Hubeaux, una Gertrude torturata, John Teitgen (Claudius) e Julien Behr (Laërte). Clive Bayley, l’espressionista Fantasma del Re, e Frédéric Caton (Horatio) sono tra gli altri efficaci interpreti. Lodevole sopra ogni misura il coro, istruito da Alessandro di Stefano, a cui è chiesto di travestirsi, ballare, muoversi e recitare – cosa impensabile da pretendere dai cori nostrani. A capo dell’orchestra del teatro, il giovane Pierre Dumoussaud, che ha sostituito il previsto Thomas Hengelbrock, ha rivelato mature doti mettendo in luce le qualità di questa partitura che a distanza di tempo conquista sempre più il favore dei pubblici.

 

Falstaff

foto © Michele Monasta

Giuseppe Verdi, Falstaff

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 23 giugno 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Falstaff a Firenze, uno spettacolo d’emergenza

A Firenze, non previsto inizialmente, va in scena Falstaff di Verdi. Le recenti vicissitudini del Maggio Fiorentino – dimissioni del sovrintendente Alexander Pereira e commissariamento a causa dei debiti accumulati dal teatro – non hanno potuto non avere una conseguenza sulla programmazione e il titolo previsto a chiusura della stagione, il wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg,  è stato cancellato per i costi della produzione ed è stato ripescato un allestimento della passata stagione mettendo insieme in tutta fretta un cast dignitoso ma non memorabile, sostenuto per fortuna dalla concertazione sopraffina del direttore musicale del Maggio, Daniele Gatti.

Ecco quindi che Michael Volle lascia i previsti e consueti abiti di Hans Sachs e Markus Werba quelli di Beckmesser per indossare quelli di Falstaff e Ford rispettivamente nella ripresa dell’allestimento di Sven-Eric Bechtolf visto qui a Firenze  nell’autunno 2021. Un allestimento che era stato giudicato “inoffensivo” in cui la regia non propone nulla di nuovo se non le solite vecchie gag, realizzate comunque con ritmo appropriato nella ripresa di Stefania Grazioli. Piacevole l’impianto scenico di Julian Crouch, un’ambientazione tutta in legno che vuole riprendere il teatro elisabettiano, con quinte scorrevoli, silhouette di alberi di legno che scendono dall’alto, onde del Tamigi mosse a mano “come una volta”, piccoli vascelli illuminati in balia dei flutti (del fiume?). E un panorama realizzato in video da Josh Higgason che segue il trascorrere del tempo: dai camini fumanti, al trascolorare del cielo al tramonto, allo sfavillio delle stelle notturne. Mooolto carino. 

Ineccepibili i costumi d’epoca di Kevin Pollard, compreso quello giustamente flamboyant di Falstaff che si prepara all’incontro galante con Alice, e quelli deliziosamente fantasiosi del finale nella foresta. Giustamente appropriato il gioco luci di Alex Brok ripreso da Valerio Tiberi.

Il cantante tedesco Michael Volle dopo tanti drammi straussiani e wagneriani sembra per una volta divertirsi in un personaggio comico, ma al suo Falstaff manca quel pizzico di malinconia che rende il personaggio così grande. Verdi scrive che «si potrebbe cantare tutta a mezza voce» a proposito della parte di Jago,  ma si potrebbe riferire anche a Falstaff, ruolo che scrisse per Victor Maurel – lo stesso interprete dell’anima nera dell’Otello –, un baritono francese che detestava «fare la voce grossa». Da lui, come dagli altri cantanti delle sua ultima opera, Verdi richiedeva «elasticità di voce, sillabazione chiara e facile, accento e fiato». Volle è interprete indiscutibilmente autorevole ma quando si tratta di usare appunto la mezza voce, il timbro si sbianca, ricade nel falsetto, il legato diventa parlato. Meglio il Ford di Markus Werba, vocalmente a suo agio, anche se non del tutto sottilmente caratterizzato. Meno bene invece la parte femminile con l’Alice corretta ma niente più di Irina Lungu e la Mrs Page di Claudia Huckle e la Mrs Quickly di Adriana di Paola, entrambe abbastanza anonime. I servi di Falstaff, Bardolfo e Pistola, trovano in Oronzo d’Urso e Tigran Martirossian interpreti adeguati. La sorpresa è però quella di Rosalia Cid, giovane soprano spagnolo che ha debuttato quattro anni fa qui a Firenze come Lauretta nel Gianni Schicchi e nel suo percorso all’Accademia del Maggio si è poi fatta notare come Gilda (Rigoletto) e Liù (Turandot) e ora come Nannetta incanta il pubblico con il suo timbro delizioso e la grande sensibilità espresse nelle struggenti pagine scritte per il suo personaggio dal vecchio compositore. La affianca il Fenton di Matthew Swensen (l’unico presente della passata produzione), tenore di non grande proiezione ma di bello ed elegante stile. Un’accoppiata perfetta questa dei due giovani innamorati.

Ma, come si diceva, il bonus della serata è dato dalla direzione di Daniele Gatti. Falstaff è opera complessa e leggibile da multi punti diversi: chi la considera l’ultima della grande tradizione comica italiana, chi il punto di partenza della musica italiana del secolo nuovo che sarebbe iniziato sette anni dopo, un lavoro quindi oltre la tradizione del melodramma. Verdi sembra infatti divertirsi qui a parodiare o citare quella gloriosa tradizione, autocitandosi magari nel «Povera donna!» de La traviata o nell’«Immenso Falstaff!» che fa il verso all’«Immenso Fthà!» dell’Aida. L’unico momento in cui si percepisce la presenza di un vero e proprio “numero chiuso” è il monologo di Ford, che qui è la parodia dell’aria del baritono geloso, topos ineludibile dell’opera buffa italiana. Diverso è poi il rapporto tra canto e orchestra: il primo non è più predominante, la seconda raggiunge complessità sinfoniche. Daniele Gatti sembra propendere per la modernità profetica della partitura: gli interventi ironici degli strumenti che commentano le comiche vicissitudini del panzone sembrano preludere agli sberleffi musicali del Petruška stravinskiano e certe trasparenti e impalpabili atmosfere addirittura Debussy. Nessun’altra opera, comunque, sarà se non simile nemmeno riferibile all’ultimo capolavoro di Verdi, che rimane un unicum insuperabile. 

Il pubblico ha tributato le sue maggiori ovazioni proprio al Maestro Gatti, forse anche per confortarlo dell’incerto futuro che attende il massimo ente lirico della Toscana di cui è il Direttore Principale. 

Béatrice et Bénédict

foto @Marcello Orselli

Hector Berlioz, Béatrice et Bénédict

★★★★☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 30 ottobre 2022

L’Italia scopre per la prima volta l’ultima opera di Berlioz

Béatrice et Bénédict, opéra-comique en deux actes imité de Shakespeare è il titolo completo della terza e ultima opera lirica di Hector Berlioz, un lavoro che aveva visto il concepimento nel 1833, era stato accantonato e poi ripreso nel 1852, accantonato ancora una volta e finalmente completato nel 1862 per inaugurare l’allora nuovo teatro di Baden-Baden. Inizialmente pensato in un atto e solo più tardi, con l’aggiunta dei numeri 11 e 12, in due atti, questo «caprice écrit sur la pointe d’une épingle», secondo la definizione dell’autore, è una comédie lyrique, un breve scherzo leggero con tenere fantasticherie notturne, languide elegie e momenti di schietta allegria.

Musicalmente Berlioz in questo lavoro mette in atto una sorta di «poetica del ripensamento», come la definisce Laura Cosso nel bel saggio sul programma di sala. Il compositore assimila nella nuova partitura caratteri e stili sperimentati nel passato ma proiettati in una scrittura volta al futuro. È il caso ad esempio del duetto notturno di Ursule e Hero alla fine del primo atto, «Nuit paisible et sereine», che riprende l’atmosfera del duetto «Nuit d’ivresse et d’extase infinie» tra Didon ed Énée di Les Troyens. Invece col personaggio di Somarone, che riprende alla lontana il Balthasar scespiriano, Berlioz sembra burlarsi ancora una volta degli accademici della musica utilizzando un dotto contrappunto nell’“épithalame grotesque” indirizzato ai novelli sposi su un testo cinicamente sardonico: «Mourez, tendres époux | que le bonheur enivre! | Mourez, pourquoi survivre | à des instant si doux?» (Morite, teneri sposi che la felicità inebria. Morite, perché sopravvivere a momenti così dolci?). L’alternanza di toni lirici e comici è il carattere specifico di Béatrice et Bénédict la cui storia è liberamente tratta da Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla), ma talmente liberamente che si stenta a riconoscere nel libretto, di Berlioz stesso, il complesso intreccio di storie della commedia di Shakespeare. Qui la vicenda è lineare, semplificata, ridotta alla trama secondaria della commedia originale, i personaggi “cattivi” del tutto eliminati, quelli “drammatici”, Hero e Claudio, ridimensionati al ruolo di comprimari. La drammaturgia è così tenue che è sempre stato un problema per i registi mettere in scena l’ultima opera del sulfureo e visionario autore della Symphonie fantastique, del Benvenuto Cellini o de La damnation de Faust.

Richard Brunel a Bruxelles e Laurent Pelly a Glyndebourne sono stati tra quelli che recentemente (entrambi nel 2016) hanno presentato una loro lettura di Béatrice et Bénédict che ora qui a Genova per l’inaugurazione della nuova stagione dell’Opera Carlo Felice viene fatta conoscere per la prima volta al pubblico italiano nella produzione che Damiano Michieletto aveva creato a Lione nel dicembre 2020. Allora, in piena pandemia, lo spettacolo fu rappresentato una volta sola, senza pubblico e a favore delle telecamere di Antenne 3, l’emittente televisiva francese che ne mise poi a disposizione la registrazione sul suo sito. Attualmente si può vedere su youtube.

Non ha aiutato molto la fortuna di questo lavoro, soprattutto all’estero, il fatto di essere nella forma di opéra-comique, ossia con i dialoghi recitati. Tant’è che spesso questi stessi dialoghi sono accorciati o modificati, e non solo nei paesi non francofoni. Michieletto sceglie di concentrare la sua lettura sul contrasto tra le due coppie di amanti: quella più convenzionale di Hero e Claudio, e quella più istintiva di Béatrice e Bénédict, questi ultimi riflessi nella presenza di un Adamo ed Eva nudi e liberi nel giardino dell’Eden costretti poi a vestirsi e a finire in una teca di cristallo come le farfalle che erano state catturate all’inizio.

Visivamente il contrasto è realizzato efficacemente dalla scenografia di Paolo Fantin che al lussureggiante Eden, ahimè molto precario, alterna una scatola bianca che riflette la luce abbagliante della Sicilia in cui è raccontata la vicenda, un ambiente asettico e sollevato rispetto al proscenio, uno studio di registrazione ingombro di microfoni: le parole rubate, invece che su carta, sono incise su nastro magnetico che l’intrigante Somarone ha captato con il suo registratore. Quello di Béatrice e Bénédict è un esperimento sull’amore e dopo l’iniziale contrarietà al matrimonio, in seguito al viaggio in cui scoprono i loro sentimenti, alla fine si piegano alle convenzioni sociali pur con i possibili distinguo dettati dai loro accesi caratteri. Precedentemente anche il giardino dell’Eden è stato distrutto: la griglia su cui erano posate le piante in vaso si è sollevata ed è diventata una gabbia per lo scimpanzé, il lato istintivo e animale della specie umana libera dalle convenzioni.

L’abilità di orchestratore di Berlioz – meglio sarebbe definirlo creatore di prospettive orchestrali in cui la distribuzione degli strumenti è sempre inventiva e avveniristica – è evidente fin dalla briosa ouverture in cui si intrecciano molti spunti melodici dell’opera. A capo dell’orchestra del teatro il direttore italiano Donato Renzetti dipana con mano sicura la musica di tale «opéra italien fort gai» concertando abilmente un cast di buon livello. Julien Behr, assieme a Ève-Maud Hubeaux (Ursule) già presente nella produzione originale di Lione, è un Bénédict di non enorme volume sonoro ma bel timbro ed elegante fraseggio. Assieme a Cecilia Molinari, una Béatrice convincente anche nella dizione francese, i due cantanti formano una coppia di grande padronanza sia vocale che scenica. Affronta con qualche titubanza ma risolve poi in modo soddisfacente le agilità della sua grande aria Benedetta Torre (Héro), ma è nel momento lirico del duetto notturno con la sua dama di compagnia che fa apprezzare maggiormente le sue qualità liriche. Nicola Ulivieri veste con autorevolezza ed eleganza il ruolo di Don Pedro, mentre Yoann Dubruque esibisce la sua aitante presenza come Claudio. I baritoni francesi Gérald Robert-Tissot e Ivan Thirion, rispettivamente Léonato e Somarone, completano una distribuzione che assieme al coro e al direttore ha ricevuto i calorosi applausi del pubblico genovese che ha scoperto un titolo nuovo. In sala non si è sentito nessun mugugno per la mancata ennesima Traviata o Bohème.

Béatrice et Bénédict

  

Hector Berlioz, Béatrice et Bénédict

★★★★☆

Lyon, Opéra Nouvel, 15 dicembre 2020

(registrazione video)

La lettura concettuale di Michieletto compensa l’assenza di drammaturgia dell’ultima opera di Berlioz

Nel 1600 dagli editori Andrew Wise e William Aspley viene stampato l‘in quarto di Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla) di William Shakespeare, una tragicommedia in cinque atti in cui si tessono inganni attorno a due coppie amorose (Hero e Claudio, Beatrice e Benedick) e una folla di altri personaggi.

Berlioz nel 1862 rappresenta su libretto proprio la sua versione depurata di molti personaggi, Béatrice et Bénédict, un’opéra-comique in due atti. Del testo scespiriano mantiene solo la vicenda amorosa tra i personaggi del titolo e inventa tutto il resto, eliminando l’elemento drammatico del personaggio di Don Juan, il fratello di Don Pedro, che come Jago in Otello, trama contro una coppia, qui quella di Claudio e Hero. La composizione della musica era avvenuta dopo Les Troyens, in un periodo difficile per Berlioz, periodo che sarebbe culminato con la morte della seconda moglie Marie.

All’Opéra di Lione nel 2020 viene avviata la quarta produzione scenica di Béatrice et Bénédict in questo teatro, affidata ora a Daniele Rustioni per la direzione musicale e per la messa in scena a Damiano Michieletto. Previsto nel cartellone per il mese di dicembre, lo spettacolo fu cancellato a causa della recrudescenza dei contagi da Covid-19, ma una registrazione video è stata realizzata da Antenne 3 ed è disponibile su operaonvideo.com.

Due storie, due modi di vivere l’amore. Uno (quello di Hero e Claudio), più defilato, segue le convenzioni sociali; l’altro (Béatrice e Bénédict) è la forza dell’istinto. Berlioz «più che sulla narrazione si concentra sul lato sentimentale. Io ho approfondito il parallelo tra la coppia che rappresenta l’amore più domestico, le nozze come nido, e quello istintivo tra Béatrice et Bénédict, che in un giardino-foresta senza giudizi né peccato si ritrovano con Adamo ed Eva, i loro alter ego che entrano nudi. E lottano contro la società che vorrebbe soffocarli e ingabbiarli», dice il regista che realizza visivamente la sua idea «con una scatola bianca che si riempie di segni: farfalle meccaniche, col loro senso di libertà, che però vengono catturate e messe in una teca; uno scimpanzé, che ha dentro un mimo, costruito con calco realistico, a simboleggiare il lato primordiale di Bénédict» e, appunto, un Adamo ed Eva nudi che sono costretti a vestirsi e anche loro finiranno in due teche di cristallo.

Somarone, il personaggio inventato di sana pianta da Berlioz, è un cinico che distrugge l’Eden e gira con un registratore per captare i discorsi dei personaggi, che recitano i loro dialoghi parlati al proscenio davanti a dei microfoni, uno spazio nero che contrasta col bianco abbagliante della scatola che si apre dietro e su cui viene effettuato un esperimento sull’amore che ruota attorno alla coppia Béatrice e Bénédict. Nonostante la loro posizione contraria al matrimonio, alla fine si impegneranno l’uno con l’altra dopo un viaggio in cui scoprono i loro veri sentimenti. Nella quasi totale mancanza di drammaturgia del lavoro, Michieletto e il suo team creano una lettura concettuale e visionaria realizzando uno spettacolo che ha il ritmo della musica di Berlioz e incanta visivamente lo spettatore. Come sempre geniale la scenografia ideata da Paolo Fantin in cui il cubo bianco si divide a metà per mostrare un paradiso terrestre montato su una rete che alzandosi lo distruggerà e lo trasformerà in una gabbia.

Molto precisi i movimenti degli attori-cantanti e curata la recitazione in cui vengono impegnati interpreti di eccellenza sia attoriale che vocale: Julien Behr è un Bénédict di bellissimo timbro ed elegante fraseggio; Michèle Losier come Béatrice dimostra ancora una volta la sua statura di interprete autorevole ed espressiva; Hélène Guilmette è una Héro sensibile e bella; Thomas Dolié un efficace Claudio. Eve-Maud Hubeaux (Ursule) e Frédéric Caton (Don Pedro) completano la distribuzione vocale. Daniele Rustioni coglie le qualità di quest’ultima partitura in cui Berlioz riesce sempre a sorprendere per l’originalità delle melodie e del trattamento strumentale.

Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Davide Livermore, Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Genova, Teatro Gustavo Modena, 3 aprile 2022

Con Adelaide Ristori Livermore celebra il teatro stesso

Ma quando un attore/attrice muore, che cosa ne rimane? Liberamente tratto da Macbetto di Giulio Carcano, con la drammaturgia di Andrea Porcheddu in collaborazione con Sara Urban, il nuovo spettacolo di Davide Livermore Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori cerca di rispondere alla angosciosa domanda. Per un attore/attrice del nostro tempo rimangono le testimonianze audio e video, ma per un attore dell’Ottocento, a parte qualche ritratto, se va bene fotografico, che cosa resta della sua arte se non le parole di chi ha assistito a un suo spettacolo?

Adelaide Ristori è stata una delle maggiori artiste di teatro della sua epoca. Nata  nel 1822 a Cividale del Friuli, figlia d’arte ha respirato l’aria del teatro fin dalla nascita. Divenuta la più celebre attrice italiana, fu anche promotrice degli ideali patriottici risorgimentali vedendo i suoi spettacoli spesso interrotti dalla polizia. Molto nota anche all’estero, dove recitava correntemente in francese, spagnolo e inglese, il suo matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo destò molto scandalo in una società che considerava le attrici al limite della morale. Prima nella storia, la Ristori si occupò personalmente dei costumi e della regia dei suoi spettacoli. Visse gli ultimi anni nel palazzo Capranica a Roma dove morì nel 1906.

Alla figura di questa artista è dedicato lo spettacolo che celebra il bicentenario della sua nascita nella città che ne accoglie il lascito nel Civico Museo Biblioteca dell’Attore e che ha fornito la preziosa documentazione. In scena la grande Elisabetta Pozzi rivive la parte di Lady dal Macbetto del Carcano grazie alla realtà aumentata ideata da Davide Livermore e realizzata dalla D-Wok, con la partecipazione in video di Alberto Mattioli e i trucchi ed effetti speciali di Edoardo Pecar. Livermore ha immaginato uno studio televisivo in cui inserire l’intervento dell’attrice. «Un contenitore, un caleidoscopio, un accumulatore di immagini e di esperienze visive. Un meccanismo scenico che ci offre il pretesto per un gioco ironico e auto-ironico». Si passa quindi dall’investigazione storica alla performance ardimentosa affidata a una delle più grandi attrici del nostro teatro. «È come fare una seduta spiritica collettiva per godere ancora della luce di Adelaide e celebrare il teatro tutto» dice il regista.

I Capuleti e i Montecchi

photo © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Vincenzo Bellini, I Capuleti e i Montecchi

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 18 janvier 2022

 Qui la versione italiana

Triomphe féminin pour la nouvelle production de Les Capulets et les Montaigus à la Scala

Soixante ans après la première version, Steven Spielberg refait West Side Story : l’histoire de Roméo et Juliette, dont la comédie musicale de Leonard Bernstein est la version moderne, continue de nous émouvoir comme elle le faisait il y a plus de quatre siècles, à l’époque de Shakespeare, ou en 1830, lorsque Vincenzo Bellini présentait I Capuleti e i Montecchi à La Fenice de Venise, une réadaptation (avec un nouveau titre) du livret de Felice Romani que Nicola Vaccaj avait déjà mis en musique cinq ans plus tôt. En 1796, il y avait déjà eu un Giulietta e Romeo mis en musique par Nicola Antonio Zingarelli sur un livret de Giuseppe Maria Foppa, basé sur une nouvelle du XVIe siècle de Luigi da Porto (Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti), celle-là même qui inspirera la tragédie de Shakespeare…

la suite sur premiereloge-opera.com

I Capuleti e i Montecchi

photo © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Vincenzo Bellini, I Capuleti e i Montecchi

Milano, Teatro alla Scala, 18 gennaio 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Trionfo al femminile per Bellini alla Scala

Sessant’anni dopo, Steven Spielberg rifà West Side Story: la vicenda di Giulietta e Romeo, di cui il musical di Leonard Bernstein è la versione moderna, continua a farci emozionare oggi come oltre quattro secoli fa, ai tempi di Shakespeare, o nel 1830, quando Vincenzo Bellini presentava alla Fenice di Venezia I Capuleti e i Montecchi, riadattamento con nuovo titolo del libretto di Felice Romani che era stato messo in musica da Nicola Vaccaj cinque anni prima. Nel 1796 c’era già stato in verità un Giulietta e Romeo intonato da Nicola Antonio Zingarelli su libretto di Giuseppe Maria Foppa, anche quello tratto dalla novella cinquecentesca di Luigi da Porto (Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti), la stessa che avrebbe ispirato a Shakespeare la tragedia rispetto alla quale «never was a story of more woe».

Dei venti e più personaggi della Most excellent and lamentable tragedy of Romeo and Juliet qui ne rimangono solo cinque e la vicenda è concentrata in sei scene suddivise equamente in due atti. Come nell’originale di Shakespeare, anche l’opera di Bellini inizia con un coro, ma là è un prologo che spiega la «ancient grudge» (vecchia ruggine) che oppone i due casati veronesi e preannuncia il «death-marked love» dei giovani amanti, qui invece sono i partigiani di Capellio (Guelfi) chiamati a raccolta contro la fazione avversa di «quei Ghibellin feroci» (i Montecchi) guidati da un intrepido Romeo. Da questo momento in poi la storia si alternerà tra la vicenda pubblica degli scontri e quella privata dei due giovani che hanno preso vita «dai fatali lombi di questi due nemici». Il libretto diverge in molti punti dalla tragedia, primo fra tutti l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo, che scatena la furia delle fazioni ma anche i dubbi di Giulietta, la quale pensa in continuazione alla fuga con Romeo ma ne è trattenuta dal dovere filiale e dal dolore per la perdita del fratello.

Nella produzione operistica di Bellini I Capuleti e i Montecchi rappresentano un caso particolare: il compositore si trova a scrivere un lavoro in tutta fretta per sopperire a una produzione che era venuta a mancare improvvisamente alla Fenice, il teatro dove stava presentando Il pirata. Egli non usa solo un libretto già pronto – e già messo in musica da un altro compositore, ma questa era una pratica comune al tempo – ma riutilizza anche musica già scritta, ossia qualche spunto melodico della sua Zaira e di Adelson e Salvini, la sua prima opera. Un’altra singolarità è l’aver affidato a una voce femminile il ruolo maschile di Romeo, pratica che di lì a poco sarebbe stata abbandonata nell’opera e ripresa solo molto più tardi quando il compositore vorrà sottolineare il carattere efebico di un personaggio, come farà Verdi col paggio Oscar in Un ballo in maschera, o connotare una particolare atmosfera d’altri tempi, come Massenet per Cendrillon o Strauss per Rosenkavalier.

A Milano I Capuleti e i Montecchi sono stati rappresentati abbastanza frequentemente: dalla prima del 26 dicembre 1830, con il Romeo en travesti della Grisi creatrice della parte a Venezia, all’ottobre 1989 (ripresa della produzione di Pier Luigi Pizzi), ben tredici stagioni hanno visto questo titolo in cartellone.

Speranza Scappucci sostituisce all’ultimo momento il previsto Evelino Pidò. Attiva soprattutto all’estero e per la prima volta alla Scala, la Scappucci dimostra di aver compreso la particolarità del lavoro belliniano, che vive di una drammaturgia tutta sua, completamente diversa da quelli di Verdi. Qui il susseguirsi delle scene è occasione per espansioni melodiche sostenute da un sobrio strumentale e la Scappucci ha a disposizione un’ampia gamma agogica che utilizza con sapienza, pur privilegiando i momenti lirici resi incantati dai tempi rilassati. Dopo la brillante sinfonia, in cui si ascoltano per la prima volta i tre squilli di tromba che scandiranno poi le scene d’azione, la sua concertazione ci immerge in un’atmosfera crepuscolare che ha il vertice nel penultimo quadro dell’opera, quel «luogo remoto» dove si incontrano Romeo e Tebaldo, lo sposo scelto dal padre per Giulietta, prima di essere interrotti dal funerale della giovane. L’ultima scena, che aveva deluso i contemporanei di Bellini e infatti fino a non molto tempo fa si era preferito utilizzare il finale del Giulietta e Romeo del Vaccaj, qui è perfettamente convincente col suo stile patetico e struggente, magistralmente espresso dall’orchestra del teatro sotto la sapiente bacchetta della direttrice romana, che entusiasma il pubblico quasi più degli interpreti vocali.

Che sono comunque Lisette Oropesa e Marianne Crebassa, due tra le più acclamate cantanti della scena internazionale. La prima debutta in un ruolo belliniano che è comunque nel solco delle scelte belcantistiche del soprano americano, il quale sfoggia una linea di canto purissima, timbro incantevole, mezze voci e legati perfetti e un’emissione omogenea nel passaggio nei vari registri, con acuti affrontati con agio e gravi sonori. Il personaggio viene così magnificamente caratterizzato nella sua dimensione tragica di contrasto tra l’amore/dovere verso il padre e quello romantico/sensuale per il giovane della casata nemica. Gloriosamente delineato è anche il Romeo della Crebassa, che impegna la sua apprezzata vocalità per esprimere un ruolo che Bellini ha considerato il più impegnativo dell’opera, affidandolo appunto alla diva indiscussa dell’epoca, Giuditta Grisi. Dalla marziale cabaletta del primo atto, all’addio finale è tutto un gioco di slanci ed esitazioni reso con grande sensibilità dal mezzosoprano francese. Autorevole come sempre e perfettamente immerso nella parte è Michele Pertusi, il confidente di Giulietta. La recitazione è un tutt’uno con l’espressione musicale e ci si rammarica che Bellini gli abbia concesso una parte così vocalmente ridotta. Ottima prova la fornisce Jinxu Xiahou (Tebaldo) sia per quanto riguarda la vocalità vera e propria sia per la dizione, che è talvolta un problema per i cantanti cinesi. Timbro e fraseggio sono del tutto convincenti, fiati e acuti perfettamente realizzati e il personaggio intrinsecamente antipatico del duplice avversario – in politica e in amore – risulta invece piacevolmente efficace. Cavernosa e anche povera di armonici, la voce di Jongmin Park non riscatta la parte del cattivo, Capellio, il responsabile insensibile di tanto dolore.

Una tortura per i coristi, le mascherine non hanno permesso di apprezzare appieno la prova del coro istruito da Alberto Malazzi: le voci escono soffocate, le parole poco distinte, i colori smorzati. Diamo loro il credito che meritano e aspettiamo che presto possano esprimersi senza la museruola – rossa per i Montecchi, nera per i Capuleti, come ha voluto il regista Adrian Noble.

«Parlare del conflitto tra Guelfi e Ghibellini potrebbe non significare granché per il pubblico di oggi» afferma il regista: ma i conflitti sono sempre di attualità nel mondo, anche oggi. Noble è stato un affermato regista di prosa: memorabili sono stati suoi spettacoli per la Royal Shakespeare Company. Meno numerosi i suoi allestimenti di opere liriche, ma molto apprezzate le regie televisive di registrazioni di spettacoli dal vivo. Qui egli sceglie di ambientare la vicenda negli anni ’30, un’epoca di società chiuse in cui nascono conflitti che sfoceranno nelle dittature che conosciamo. Nella sua messa in scena non c’è alcun richiamo al Fascismo, ma le cupe scenografie disegnate da Tobias Hoheisel si rifanno alla severa linearità di certe architetture piacentiniane qui riproposte in una loro incombente claustrofobicità. Efficaci sono anche i costumi di Petra Reinhardt.

La storia si dipana con chiarezza: a metà della sinfonia vediamo la scena in cui viene accidentalmente ucciso il fratello di Giulietta, il cui “fantasma” ritornerà più volte a calcare la scena – una trovata questa del tutto inutile nell’economia della rappresentazione. Le scene d’azione sono abilmente realizzate grazie anche alla presenza di un maestro d’armi, Mauro Plebani. La scenografa Joanne Pearce cura i movimenti di “danza” dei camerieri con le loro torreggianti torte nuziali, una scena ironica che introduce un cambio di registro inaspettato dopo la violenza a cui abbiamo assistito, compreso il lancio di una bomba molotov alla fine del primo atto. Forte è anche il contrasto tra la scena dei poveri che cercano un po’ di calore sotto la neve cacciati dai Capuleti, che nel frattempo rapiscono Lorenzo, e il funerale di Giulietta, che sembra uscito da un quadro preraffaellita.

Il grigiore delle mura e dei torrioni si apre talora ad ambienti più intimi e colorati, ma non meno claustrofobici, come la camera di Giulietta che avanza dal fondo con le sue finestre sul verde e la curiosa chaise longue zoomorfa. La stessa fungerà da catafalco per il suo “cadavere”. Contrariamente a ogni logica il registra sceglie di ambientare l’ultima scena en plein air: invece del soffocante ambiente delle tombe degli avi – e del recentemente morto fratello – che Giulietta paventa, qui siamo sotto le fronde di alberi fioriti. Una scelta che ha concluso una lettura registica sostanzialmente anonima ma che per una volta ha messo d’accordo gli spettatori della platea con quelli del loggione e non ci sono state contestazioni rivolte al metteur en scéne, che ha invece condiviso gli applausi del pubblico. Applausi che sono diventati ovazioni fragorose per le donne dello spettacolo: Lisette Oropesa, Marianne Crebassa e Speranza Scappucci. Un vero trionfo al femminile.